Sezione Prima

LA TRASFORMAZIONE DEL PLUSVALORE IN PROFITTO E DEL SAGGIO DI PLUSVALORE IN SAGGIO DI PROFITTO

 

Capitolo I
PREZZO DI COSTO E PROFITTO

Il valore di ogni merce M capitalisticamente prodotta si rappresenta nella formula: M = c + v + p. Se da questo valore del prodotto si sottrae il plusvalore p, resta un semplice equivalente, ossia un valore merce che reintegra il valore capitale c + v speso negli elementi di produzione...

[La] parte di valore della merce, che equivale al prezzo dei mezzi di produzione consumati più quello della forza lavoro impiegata, non reintegra se non ciò che al capitalista stesso costa la merce; quindi costituisce per lui il prezzo di costo della merce.

Se indichiamo con k il prezzo di costo, la formula M = c + v + p si converte nella formula M = k + p, ossia valore della merce = prezzo di costo + plusvalore.

[La] riunione, sotto la categoria del prezzo di costo, delle diverse parti di valore della merce che si limitano a reintegrare il valore capitale speso nella sua produzione, esprime il carattere specifico della produzione capitalistica. Il costo capitalistico della merce si misura sulla spesa in capitale, il costo effettivo della merce sulla spesa in lavoro. Il prezzo di costo capitalistico della merce è perciò quantitativamente diverso dal suo valore, o dal suo effettivo prezzo di costo: è più piccolo del valore della merce, poiché, M essendo = k + p, k è = M — p...

Grazie al carattere utile del lavoro speso durante le [...] giornate lavorative [...], il valore dei mezzi di produzione consumati [...] viene trasmesso dai mezzi di produzione al prodotto. Perciò questo valore originario riappare come elemento del valore prodotto, ma non si genera nel processo di produzione di quella merce. Esiste come elemento del valore della merce solo perché esisteva prima come elemento del capitale anticipato. Dunque, il capitale costante speso viene reintegrato dalla parte di valore della merce che esso stesso vi apporta. Questo elemento del prezzo di costo ha quindi un duplice significato: da una parte entra nel prezzo di costo della merce in quanto elemento del valore di quest'ultima che reintegra il capitale sborsato; dall'altra costituisce solo un elemento del valore della merce, perché è il valore del capitale sborsato, ovvero perché i mezzi di produzione costano così e così.

Tutto l'opposto accade per l'altro elemento del prezzo di costo. Le [...] giornate di lavoro spese nella produzione di merce creano un nuovo valore. [...] Una parte di questo nuovo valore reintegra soltanto il capitale variabile anticipato [...], ovvero il prezzo della forza lavoro impiegata. Ma questo valore capitale anticipato non entra in alcun modo nella formazione del nuovo valore. Nell'anticipo di capitale la forza lavoro conta come valore, ma nel processo di produzione funziona come creatrice di valore. Al posto del valore della forza lavoro che figura entro l'anticipo di capitale, subentra nel capitale produttivo realmente funzionante la stessa forza lavoro viva, creatrice di valore...

Le due parti del prezzo di costo [...] hanno in comune soltanto questo: entrambe sono parti del valore della merce che reintegrano il capitale anticipato...

[...] Il plusvalore è [...] in primo luogo un'eccedenza del valore della merce sul suo prezzo di costo. Ma poiché il prezzo di costo è eguale al valore del capitale anticipato nei cui elementi materiali viene pure costantemente riconvertito, questa eccedenza di valore è un incremento di valore del capitale che è stato speso nella produzione della merce e che ritorna dalla circolazione di questa...

Il plusvalore costituisce [...] un incremento non solo sulla parte del capitale anticipato che entra nel processo di valorizzazione, ma anche su quella che non vi entra; dunque, un incremento di valore non solo sul capitale speso, che viene reintegrato dal prezzo di costo della merce, ma sul capitale impiegato in generale nella produzione...

Ora al capitalista è chiaro che questo incremento di valore nasce dai processi produttivi intrapresi con il capitale, dunque dal capitale stesso, perché esiste dopo il processo di produzione mentre non esisteva prima. Per quanto anzitutto riguarda il capitale speso nella produzione, il plusvalore sembra scaturire in pari grado dai diversi elementi di valore dei quali è composto, e che consistono in mezzi di produzione e in lavoro. Infatti, questi elementi entrano in egual maniera nella formazione del prezzo di costo: aggiungono tutti allo stesso modo i loro valori, esistenti come anticipi di capitale, al valore del prodotto, e non si distinguono come grandezze di valore costanti e variabili....

Il plusvalore scaturisce [...] tanto dalla parte del capitale anticipato che entra nel prezzo di costo della merce, quanto da quella che non vi entra; insomma, sia dagli elementi fissi del capitale impiegato che da quelli circolanti. Il capitale totale — sia i mezzi di lavoro, sia le materie di produzione e il lavoro — serve materialmente a generare il prodotto. Entra materialmente nel vero e proprio processo di lavoro, anche se soltanto una delle sue parti entra nel processo di valorizzazione. Forse è appunto questo il motivo per cui contribuisce solo parzialmente alla formazione del prezzo di costo, ma totalmente a quella del plusvalore. Comunque sia, resta il dato di fatto che il plusvalore sgorga simultaneamente da tutte le parti del capitale investito. Si può anche abbreviare di molto la deduzione, dicendo con Malthus, tanto crudamente quanto semplicemente :

«Il capitalista, in genere, si aspetta un eguale profitto da tutte le parti del capitale ch'egli anticipa» . (Malthus, Principles of Pol. Econ., 2a ed., Londra, 1836, p. 268.)

In tale veste di rampollo immaginario del capitale totale anticipato, il plusvalore assume la forma trasmutata del profitto. Una somma di valore è quindi capitale perché spesa per generare un profitto [...], ovvero il profitto salta fuori perché una somma di valore viene impiegata come capitale. Indicando il profitto con π, la formula M = c + v + p = k + p si converte nella formula M = k + π, ovvero valore della merce = prezzo di costo più profitto.

Il profitto che qui abbiamo dapprima di fronte a noi, è dunque la stessa cosa del plusvalore, solo in una forma mistificata, nascente tuttavia di necessità dal modo di produzione capitalistico. Dato che nell'apparente formazione del prezzo di costo non si può riconoscere alcuna differenza fra capitale costante e capitale variabile, l'origine del mutamento di valore che si verifica durante il processo di produzione dev'essere spostata dalla parte variabile del capitale al capitale totale. Poiché ad un polo il prezzo della forza lavoro appare nella forma trasmutata del compenso del lavoro, o salario, al polo opposto il plusvalore appare nella forma trasmutata del profitto...

[Il] capitalista è incline a considerare il prezzo di costo come il vero valore intrinseco della merce, perché è il prezzo necessario al puro e semplice mantenimento del suo capitale. Ma vi si aggiunge il fatto che il prezzo di costo della merce è il prezzo di acquisto che lo stesso capitalista ha pagato per la sua produzione, dunque il prezzo di acquisto determinato dal suo processo di produzione. Perciò al capitalista l'eccedenza di valore, o plusvalore, realizzata con la vendita della merce appare come eccedenza del suo prezzo di vendita sul suo valore, anziché come eccedenza del suo valore sul suo prezzo di costo, per cui il plusvalore annidato nella merce non si realizza mediante la vendita di questa, ma scaturisce dalla vendita stessa...

Capitolo II

IL SAGGIO DI PROFITTO

La formula generale del capitale è D-M-D'; si getta nella circolazione una somma di valore, per ritirarne una maggiore. Il processo che genera questa maggiore somma di valore è la produzione capitalistica; il processo che la realizza, è la circolazione del capitale. Il capitalista non produce la merce per se stessa, per il suo valore d'uso o per il proprio consumo personale. Il prodotto del quale in realtà si tratta non è per lui il prodotto tangibile, ma l'eccedenza di valore del prodotto sul valore del capitale in esso consumato. Il capitalista anticipa il capitale totale senza riguardo alla diversa funzione svolta dai suoi elementi costitutivi nella produzione del plusvalore. Anticipa egualmente tutti questi elementi non solo per riprodurre il capitale anticipato, ma per produrre un'eccedenza di valore sullo stesso. Può trasformare in maggior valore il valore del capitale variabile anticipato solo scambiandolo contro lavoro vivo, sfruttando lavoro vivo. Ma può sfruttare questo lavoro solo anticipando nello stesso tempo le condizioni della sua realizzazione — mezzo di lavoro e oggetto di lavoro, macchine e materie prime —, cioè convertendo nella forma di condizioni della produzione una somma di valore da lui posseduta:; così come, in generale, egli è capitalista e può intraprendere il processo di sfruttamento del lavoro solo perché sta di fronte come proprietario delle condizioni di lavoro all'operaio come mero possessore della forza lavoro...

Benché solo la parte variabile del capitale crei plusvalore, essa lo crea a condizione che vengano anticipate anche le altre parti, le condizioni di produzione del lavoro. Poiché il capitalista può sfruttare il lavoro solo anticipando il capitale costante, poiché può valorizzare il capitale costante solo anticipando il capitale variabile, nella sua rappresentazione tutte queste cose si confondono, tanto più in quanto il grado effettivo del suo guadagno è determinato dal rapporto non fra quest'ultimo e il capitale variabile, ma fra esso e il capitale totale; non dal saggio di plusvalore, ma dal saggio di profitto...

Il valore contenuto nella merce è eguale al tempo di lavoro che costa la sua produzione, e la somma di questo lavoro consiste di lavoro retribuito e non retribuito. Per il capitalista, invece, i costi della merce si compongono solo della parte del lavoro in essa oggettivato che egli ha pagato. Al capitalista il pluslavoro contenuto nella merce non costa nulla, sebbene costi all'operaio quanto il lavoro retribuito, e sebbene, esattamente come quello, crei valore ed entri nella merce come elemento creatore di valore. Il profitto del capitalista deriva dal fatto di aver da vendere qualcosa che non ha pagato. Il plusvalore, rispettivamente profitto, consiste appunto nell'eccedenza del valore della merce sul suo prezzo di costo, cioè nell'eccedenza della somma totale di lavoro contenuta nella merce sulla somma di lavoro pagato in essa contenuta. Il plusvalore, qualunque origine abbia, è dunque un'eccedenza sul capitale totale anticipato. Questa eccedenza sta quindi con il capitale totale in un rapporto che si esprime nella frazione p/C, dove C designa il capitale totale. Otteniamo così il saggio di profitto p/C = p/c + v, a differenza del saggio di plusvalore.

Il saggio di plusvalore misurato sul capitale variabile si chiama saggio di plusvalore; il saggio di plusvalore misurato sul capitale totale si chiama saggio di profitto. Sono due diverse misure della stessa grandezza, che, a causa della diversità dei criteri adottati, esprimono nello stesso tempo condizioni o rapporti diversi della medesima grandezza.

È dalla metamorfosi del saggio di plusvalore in saggio di profitto che si deve dedurre la metamorfosi del plusvalore in profitto, non viceversa. E in realtà il saggio di profitto è ciò da cui storicamente si parte. Plusvalore e saggio di plusvalore sono, relativamente, l'invisibile e l'essenziale da analizzare, mentre sono il saggio di profitto e quindi la forma del plusvalore come profitto quelli che si presentano alla superficie dei fenomeni.

Per quanto riguarda il capitalista singolo, è chiaro che l'unica cosa che lo interessa è il rapporto fra il plusvalore, o l'eccedenza di valore alla quale vende la sua merce, e il capitale totale anticipato per la produzione della merce stessa; il rapporto determinato di questa eccedenza, e il suo nesso interno, con gli elementi particolari del capitale, invece, non solo non lo interessano, ma è suo interesse nascondere dietro un velo sia quel determinato rapporto, sia questo nesso interno.

Benché nasca nel processo di produzione immediato, l'eccedenza del valore della merce sul suo prezzo di costo viene realizzata solo nel processo di circolazione, ed è tanto più facile che essa sembri scaturire dal processo di circolazione, in quanto nella realtà, all'interno della concorrenza, sul mercato reale, dipende dai rapporti di mercato che questa eccedenza venga o no realizzata, e in quale misura...

Nel processo di circolazione entra in azione, accanto al tempo di lavoro, il tempo di circolazione, che limita con ciò la massa del plusvalore realizzabile in un dato spazio di tempo... I due processi, il processo di produzione immediato e il processo di circolazione, confluiscono e si intrecciano falsando così di continuo i loro caratteristici segni distintivi....

Tempo di circolazione e tempo di lavoro si incrociano nel loro corso, e così sembrano determinare tutti e due, uniformemente, il plusvalore; la forma originaria in cui capitale e lavoro salariato si contrappongono è mascherata dall'interferire in essa di rapporti che in apparenza non ne dipendono; il plusvalore stesso appare non come prodotto dell'appropriazione di tempo di lavoro, ma come eccedenza del prezzo di vendita delle merci sul loro prezzo di costo, per cui è facile che quest'ultimo si rappresenti come il loro vero valore (valeur intrinsèque) e il profitto appaia come eccedenza del prezzo di vendita delle merci sul loro valore immanente...

Sotto la rubrica dei costi, in cui rientrano sia il salario, sia il prezzo delle materie prime, l'usura delle macchine, etc., l'estorsione di lavoro non retribuito non appare che come risparmio nel pagamento di uno degli articoli che compongono i costi, come minor pagamento per una determinata quantità di lavoro; esattamente come si risparmia se si pagano meno care le materie prime o se si riduce l'usura del macchinario. Così l'estorsione di pluslavoro perde il suo carattere specifico; il suo specifico rapporto con il plusvalore si oscura; e ciò viene di molto favorito e facilitato, come si è potuto vedere nel Libro I, sezione VI dalla rappresentazione del valore della forza lavoro nella forma del compenso del lavoro, o salario.

Poiché tutte le parti del capitale appaiono allo stesso modo come fonti del valore eccedente (profitto), il rapporto capitalistico ne risulta mistificato...

Il modo in cui, passando attraverso il saggio di profitto, il plusvalore viene convertito nella forma del profitto, non è tuttavia che l'ulteriore sviluppo di quell'inversione di soggetto ed oggetto, che ha luogo già durante il processo di produzione. Già qui abbiamo visto l'insieme delle forze produttive soggettive del lavoro rappresentarsi come forze produttive del capitaleI. Da un lato il valore, il lavoro passato che domina il lavoro vivo, si personifica nel capitalista; dall'altro, inversamente, l'operaio appare come pura e semplice forza lavoro oggettivata, come merce. Da questo rapporto capovolto scaturisce necessariamente, già nel semplice rapporto di produzione, la corrispondente opinione capovolta, una coscienza trasposta che celebra ulteriori sviluppi per effetto delle metamorfosi e modificazioni del vero e proprio processo di circolazione...

Se è noto il saggio del plusvalore e ne è data la grandezza, il saggio di profitto non esprime se non ciò che è in realtà: un'altra misura del plusvalore, la sua misura rispetto al valore del capitale totale anziché al valore della parte di capitale da cui direttamente scaturisce in seguito a scambio con lavoro. Nella realtà, tuttavia (cioè nel mondo fenomenico), la cosa sta alla rovescia. Il plusvalore è dato, ma dato come eccedenza del prezzo di vendita della merce sul suo prezzo di costo, mentre resta un mistero da dove questa eccedenza tragga origine, dallo sfruttamento del lavoro nel processo di produzione, dal raggiro dei compratori nel processo di circolazione, o da tutti e due. È dato, inoltre, il rapporto di questa eccedenza al valore del capitale totale, ovvero il saggio di profitto. Il calcolo di questa eccedenza del prezzo di vendita sul prezzo di costo rispetto al valore del capitale anticipato è assai naturale ed importante, perché con ciò si trova in effetti il numero indice a cui si è valorizzato il capitale totale, ovvero il suo grado di valorizzazione. Se si parte dal saggio di profitto, non v'è quindi modo di stabilire nessun specifico rapporto fra l'eccedenza e la parte di capitale spesa in salario...

[...] Sebbene il saggio di profitto sia numericamente diverso dal saggio di plusvalore, mentre plusvalore e profitto sono in realtà la stessa cosa e anche numericamente si equivalgono, il profitto è una forma trasmutata del plusvalore, una forma in cui la sua origine e il segreto della sua esistenza sono nascosti e obliterati. In effetti, il profitto è la forma fenomenica del plusvalore, ed è con l'analisi che il secondo si deve enucleare dal primo. Nel plusvalore è messo a nudo il rapporto fra capitale e lavoro; nel rapporto fra capitale e profitto, cioè fra il capitale e il plusvalore così come appare, da un lato, quale eccedenza realizzata nel processo di circolazione sul prezzo di costo della merce e, dall'altro, quale eccedenza più esattamente determinata dal suo rapporto al capitale totale, il capitale figura come rapporto con se stesso un rapporto in cui esso si distingue come somma di valore originaria da un nuovo valore generato da sé medesimo. Ciò di cui si ha coscienza è che esso genera questo nuovo valore durante il suo movimento attraverso i due processi, di produzione e di circolazione. Ma il modo in cui ciò avviene è ora mistificato e sembra trarre origine da qualità nascoste ad esso inerenti.

Capitolo III

RAPPORTO FRA SAGGIO DI PROFITTO E SAGGIO DI PLUSVALORE

Nella misura in cui il profitto è posto quantitativamente eguale al plusvalore, la sua grandezza, e la grandezza del saggio di profitto, è determinata dai rapporti fra grandezze numeriche semplici, date o determinabili in ogni caso singolo. A tutta prima, perciò, l'analisi si muove su un piano puramente matematico.

Manteniamo i simboli usati nel primo e nel secondo Libro. Il capitale totale C si suddivide in capitale costante c e capitale variabile v, e produce un plusvalore p. Chiamiamo saggio di plusvalore e indichiamo con p', il rapporto di questo plusvalore al capitale variabile anticipato, dunque p/v. Quindi p/v è = p' e, di conseguenza, p = p'v. Se, invece che al capitale variabile, questo plusvalore è riferito al capitale totale, esso si chiama profitto (π [pi greco]), e il rapporto del plusvalore p al capitale totale C, dunque p/C, si chiama saggio di profitto π'. Abbiamo perciò:

π' = p/C = p/c + v

Se a p sostituiamo il valore p'v trovato più sopra, avremo:

π' = p' v/C = p' v/c + v

eguaglianza che si può anche esprimere nella proporzione: π' : p' = v : C, cioè il saggio di profitto sta al saggio di plusvalore come il capitale variabile sta al capitale totale.

Da questa proporzione segue che il saggio di profitto π' è sempre minore del saggio di plusvalore p', perché v, il capitale variabile, è sempre minore di C, della somma di v + c, di capitale variabile e capitale costante...

Tanto un prolungamento della giornata lavorativa (o, allo stesso modo, un aumento della intensità del lavoro), quanto una riduzione del salario, elevano la massa e quindi il saggio del plusvalore, mentre a parità di condizioni un aumento di salario comprimerebbe il saggio di plusvalore. Se perciò v cresce in seguito ad aumento di salario, esso non esprime una quantità aumentata di lavoro, ma solo una quantità di lavoro pagata più cara; p' e n' non salgono, ma scendono.

Già qui appare chiaro che variazioni nella giornata lavorativa, nella intensità del lavoro e nel salario sono impossibili senza contemporanea variazione in v e p e nel loro rapporto, quindi anche in π', cioè nel rapporto di p a c + v, il capitale totale; altrettanto chiaro è che, allo stesso modo, variazioni nel rapporto di p a v implicano una variazione in almeno una delle tre citate condizioni del lavoro.

Appunto in ciò si mostra il particolare rapporto organico del capitale variabile al movimento del capitale totale e della sua valorizzazione, come pure la sua differenza dal capitale costante. Il capitale costante, nella misura in cui si considera la formazione di valore, è solo importante a causa del valore che possiede... La quantità delle materie reali rappresentata dal suo valore è del tutto indifferente per la formazione di valore e per il saggio di profitto, che varia in senso inverso a questo valore, qualunque rapporto abbia l'aumento o la diminuzione del valore del capitale costante con la massa dei valori d'uso materiali ch'esso rappresenta.

Non così per il capitale variabile. Quel che conta prima di tutto non è il valore ch'esso ha, il lavoro in esso oggettivato, ma questo valore in quanto mero indice del lavoro totale ch'esso mette in moto e che non vi si esprime: il lavoro totale la cui differenza dal lavoro espresso in esso capitale variabile e quindi pagato, ovvero la cui parte creatrice di plusvalore, è appunto tanto maggiore, quanto minore è il lavoro in essa contenuto...

Non appena dunque la grandezza di valore del capitale variabile cessa di essere indice della massa di lavoro che ha posto in moto, ed è la misura di questo stesso indice a cambiare, il saggio di plusvalore varia con essa in senso opposto ed in rapporto inverso...

Ora passiamo ad applicare ai diversi casi possibili la suddetta equazione del saggio di profitto π' = p' v/C. Faremo cambiare ai singoli fattori di p' v/C, uno dopo l'altro, il loro valore, e stabiliremo l'influsso di queste variazioni sul saggio di profitto...

Scinderemo dunque il prodotto p' v/C nei suoi due fattori p' e v/C; prima considereremo p' come costante e studieremo l'influenza delle possibili variazioni di v/C ; poi supporremo costante la frazione v/C e faremo compiere a p' tutte le variazioni possibili; infine, supporremo variabili tutti i fattori, e così esauriremo la totalità dei casi da cui si possono dedurre delle leggi sul saggio di profitto...

[Segue una lunga e puntigliosa analisi matematica dell'applicazione all'equazione del saggio di profitto π' = p' v/C dei diversi casi legati alla variazione dei vari fattori che la costituiscono.

Riporto solo le conclusioni.]

Il saggio di profitto è [...] determinato da due fattori principali: il saggio di plusvalore e la composizione di valore del capitale. L'azione di questi due fattori si può riassumere brevemente come segue (e qui possiamo esprimere in percento la composizione del capitale, essendo indifferente da quale delle due parti di capitale si origini la variazione):

I saggi di profitto di due capitali, o di un solo e medesimo capitale in due diverse condizioni successive, sono eguali :

1) In caso di eguale composizione percentuale dei capitali e di eguale saggio di plusvalore;

2) In caso di diseguale composizione percentuale e diseguale saggio di plusvalore, se sono eguali i prodotti dei saggi di plusvalore per le parti percentuali variabili del capitale (i p' e i v); cioè le masse di plusvalore (p = p'v) calcolate in percento del capitale totale: in altri termini, se tutt'e due le volte i fattori p' e v stanno in rapporto inverso l'uno all'altro.

Sono diseguali:

1) In caso di eguale composizione percentuale, se sono diseguali i saggi di plusvalore; dove i saggi di profitto stanno fra loro come i saggi di plusvalore;

2) In caso di eguale saggio di plusvalore e diseguale composizione percentuale; dove essi stanno fra loro come le parti variabili del capitale;

3) In caso di diseguale saggio di plusvalore e diseguale composizione percentuale; dove essi stanno fra loro come i prodotti p' v, cioè come le masse di plusvalore calcolate in percento del capitale totale.

 

Capitolo IV

INFLUENZA DELLA ROTAZIONE SUL SAGGIO DI PROFITTO

[L'influenza della rotazione sulla produzione del plusvalore, dunque anche del profitto, è stata esaminata nel Libro II. Essa si può riassumere brevemente in questi termini: poiché, per effetto dell'intervallo di tempo richiesto dalla rotazione, non tutto il capitale può essere impiegato contemporaneamente nella produzione, una sua parte rimane costantemente in riposo, sotto forma sia di capitale denaro, di scorte di materie prime, di capitale merce pronto ma non ancora venduto, sia di titoli di credito non ancora esigibili; il capitale operante nella produzione attiva, dunque nella creazione e appropriazione di plusvalore, viene costantemente ridotto di questa parte, e il plusvalore creato e appropriato viene costantemente, nella stessa proporzione, rimpicciolito. Quanto più breve è il tempo di rotazione, tanto minore è questa parte inoperosa del capitale, a paragone dell'insieme; tanto maggiore è quindi, eguali restando le altre circostanze, il plusvalore appropriato.

Nel Libro II si è già esposto nei particolari come la riduzione del tempo di rotazione, o di uno dei suoi due periodi, il tempo di produzione e il tempo di circolazione, accresca la massa del plusvalore prodotto. Ma poiché il saggio di profitto non fa che esprimere il rapporto fra la massa di plusvalore prodotta e il capitale totale impegnato nella sua produzione, è evidente che ognuna di tali riduzioni accrescerà il saggio di profitto..

Il mezzo principale per abbreviare il tempo di produzione è l'aumento della produttività del lavoro, quello che solitamente si chiama il progresso dell'industria. Se così non si provoca nello stesso tempo, grazie ad impianto di macchinario costoso, etc., un incremento notevole della spesa complessiva in capitale, quindi una riduzione del saggio di profitto da calcolarsi sul capitale totale, il saggio di profitto deve salire...

Il mezzo principale per abbreviare il tempo di circolazione è costituito dal perfezionamento delle comunicazioni. E, in questo campo, l'ultimo cinquantennio ha portato una rivoluzione paragonabile soltanto alla rivoluzione industriale della seconda metà del secolo scorso... Il tempo di rotazione dell'intero commercio mondiale si è ridotto [ in misura estremamente rilevante], e la capacità di azione del capitale che vi partecipa è aumentata di oltre il doppio o il triplo. Che ciò non abbia mancato di influire sul saggio di profitto, è facile capire.

[Mettendo a confronto due capitali nei quali] oltre al saggio di plusvalore e alla giornata lavorativa, sia [...] eguale la composizione percentuale del capitale... risulta [che] i saggi di profitto stanno fra loro in ragione inversa dei rispettivi tempi di rotazione...

L'influenza diretta del tempo di rotazione abbreviato sulla produzione di plusvalore, quindi anche di profitto, consiste nella maggiore efficacia così derivante nella parte variabile del capitale...

La massa di plusvalore appropriata nel corso dell'anno è [...] eguale alla massa del plusvalore appropriato in un periodo di rotazione del capitale variabile moltiplicata per il numero di tali rotazioni nell'anno. Se chiamiamo P il plusvalore o il profìtto annualmente appropriato, p il plusvalore appropriato in un periodo di rotazione, n il numero delle rotazioni annue del capitale variabile, allora P = p n e il saggio annuo di plusvalore P' = p' n...

Affinché la formula del saggio annuo di profitto sia perfettamente esatta, dobbiamo sostituire al saggio semplice del plusvalore il saggio annuo del plusvalore, dunque a p' sostituire P' o p' n. In altri termini, dobbiamo moltiplicare p', il saggio di plusvalore — o, che è lo stesso, la parte variabile di capitale v contenuta in C — per n, il numero delle rotazioni di questo capitale variabile nel corso dell'anno, e così otterremo: π' = p' n v/C, che è la formula per il calcolo del saggio annuo di profitto.

Ma quanto sia grande il capitale variabile in un'impresa, nella stragrande maggioranza dei casi lo stesso capitalista non lo sa. Abbiamo visto nel capitolo VIII del Libro II e vedremo ancora, che l'unica differenza, all'interno del suo capitale, che si imponga come essenziale al capitalista è la differenza fra capitale fisso e capitale circolante. Dalla cassa contenente la parte del capitale circolante che si trova in forma denaro nelle sue mani, ove non sia depositata in banca, egli trae il denaro per il salario, dalla medesima cassa trae il denaro per le materie prime ed ausiliarie, e li accredita entrambi in un solo e medesimo conto-cassa. E se anche tenesse un conto speciale per i salari pagati, alla fine dell'anno questo mostrerebbe bensì la somma versata allo scopo, dunque v n, ma non lo stesso capitale variabile v. Per stabilire quest'ultimo, egli dovrebbe eseguire un calcolo tutto suo particolare...

Poiché soltanto a pochi capitalisti passa per la mente di compiere calcoli del genere sulla propria azienda, la statistica tace quasi assolutamente sul rapporto fra la parte costante e la parte variabile del capitale sociale totale.

Capitolo V

ECONOMIE NELL'IMPIEGO DEL CAPITALE COSTANTE
I. In generale

Supponendo che il capitale variabile resti immutato e quindi si impieghi lo stesso numero di operai a salario nominalmente costante — dove è indifferente che il tempo extra sia o no retribuito —, l'aumento del plusvalore assoluto, ovvero il prolungamento del pluslavoro e perciò della giornata lavorativa, abbassa il valore del capitale costante relativamente al capitale totale e al capitale variabile, e così eleva il saggio di profitto... La necessità sempre crescente, nel moderno sistema di industria, di aumentare il capitale fisso, è stata perciò, per i capitalisti assetati di profitti, un pungolo essenziale al prolungamento della giornata di lavoro. («Poiché in ogni fabbrica è investito in edifici e macchine un ammontare molto elevato di capitale fisso, l'utile sarà tanto maggiore, quanto maggiore sarà il numero di ore durante le quali si possono tenere in azione queste macchine» (Rep. of Insp. of Fact., October 31, 1858, p. 8).)

La situazione non è più la stessa a giornata lavorativa costante. In questo caso, o si deve aumentare il numero degli operai e con esso, in una certa proporzione, la massa del capitale fisso, fabbricati, macchine, etc., per sfruttare una maggiore quantità di lavoro (giacché qui si prescinde sia da detrazioni dal salario, sia da compressioni dello stesso sotto il livello normale), oppure, ove occorra elevare l'intensità del lavoro, rispettivamente la forza produttiva del lavoro, e in genere si debba produrre una massa maggiore di plusvalore relativo, nei rami di industria che impiegano materia prima cresce anzitutto il volume della parte circolante del capitale costante, in quanto nel lasso di tempo dato vi si lavora una maggior quantità di materia prima, etc., e in secondo luogo cresce il macchinario azionato dallo stesso numero di operai, quindi anche questa parte del capitale costante. All'aumento del plusvalore si accompagna quindi un aumento del capitale costante, allo sfruttamento crescente del lavoro un rincaro delle condizioni di produzione mediante le quali si sfrutta il lavoro; cioè, una maggiore spesa di capitale. Così il saggio di profitto scende da un lato mentre dall'altro sale...

Lo spazio di tempo durante il quale si riproduce il valore delle macchine e di altri elementi del capitale fisso è determinato, in pratica, non dal tempo della loro pura e semplice durata, ma dalla lunghezza complessiva del processo di lavoro durante il quale essi operano e vengono consumati...

Se il plusvalore è dato, il saggio di profitto può essere elevato solo riducendo il valore del capitale costante necessario per la produzione della merce. Nella misura in cui il capitale costante entra nella produzione della merce, quel che importa non è il suo valore di scambio, ma soltanto il suo valore d'uso...

Tutto ciò che riduce l'usura del macchinario e in generale del capitale fisso per un periodo di produzione dato, non solo rende meno costosa la singola merce, perché ogni singola merce riproduce nel suo prezzo l'aliquota di usura che su di essa ricade, ma diminuisce per questo periodo la spesa aliquota di capitale. I lavori di riparazione e simili, nella misura in cui si rendono necessari, vengono computati fra i costi originari della macchina: la loro riduzione in seguito alla maggior durevolezza di quest'ultima comprime pro tanto il suo prezzo.

Per ogni economia di questo tipo vale in gran parte il criterio che essa è possibile solo per l'operaio combinato, ed è spesso realizzabile soltanto nel caso di lavori su scala ancora più vasta; dunque, esige una combinazione ancora più grande di operai direttamente nel processo produttivo.

D'altra parte, lo sviluppo della forza produttiva del lavoro in un ramo di produzione, per es. nella produzione di ferro, carbone, macchine, nell'edilizia etc., sviluppo che può a sua volta in parte collegarsi a progressi nel campo della produzione intellettuale, in particolare delle scienze della natura e della loro applicazione, appare qui come presupposto della diminuzione del valore, quindi del costo, dei mezzi di produzione in altri rami d'industria, per es. nell'industria tessile e nell'agricoltura. La cosa è di per sé evidente, poiché la merce che esce come prodotto da un ramo d'industria rientra come mezzo di produzione negli altri. Il suo prezzo più o meno modico dipende dalla produttività del lavoro nel ramo di produzione dal quale esce come prodotto, ed è al contempo condizione non solo del ribasso delle merci nella cui produzione essa entra come mezzo di produzione, ma della diminuzione di valore del capitale costante di cui diviene un elemento; quindi, del rialzo del saggio di profitto.

Ciò che caratterizza questo genere di risparmio del capitale costante, derivante dai continui progressi dell'industria, è che l'aumento del saggio di profitto in un ramo d'industria è qui dovuto allo sviluppo della produttività del lavoro in un altro...

Da qualunque parte la si consideri, l'economia nell'impiego del capitale costante è in parte il risultato esclusivo del fatto che i mezzi di produzione operano e vengono usati come mezzi di produzione collettivi dell'operaio combinato, cosicché essa stessa appare come un prodotto del carattere sociale del lavoro immediatamente produttivo; ed è in parte il risultato dello sviluppo della produttività del lavoro nelle sfere che forniscono al capitale i mezzi di produzione, cosicché, se si considera il lavoro totale a paragone del capitale totale e non semplicemente gli operai impiegati dal capitalista X a paragone di questo stesso capitalista, tale economia si presenta a sua volta come prodotto dello sviluppo della produttività del lavoro sociale, e la differenza si riduce al fatto che il capitalista X trae vantaggio dalla produttività del lavoro non soltanto nella propria officina, ma nelle officine altrui.

Ciò nondimeno, al capitalista l'economia del capitale costante appare come una condizione del tutto estranea all'operaio, che non lo riguarda affatto e con cui l'operaio non ha nulla a che vedere, mentre gli rimane sempre ben chiaro che l'operaio ha pur qualcosa a che vedere con il fatto che, per lo stesso denaro, egli compri molto o poco lavoro (poiché così appare nella sua coscienza la transazione fra capitalista ed operaio). In grado ancor più elevato che per le altre forze insite nel lavoro, l'economia nell'impiego dei mezzi di produzione — questo metodo per ottenere un certo risultato col minimo di spesa — appare come forza inerente al capitale e come metodo proprio e caratteristico del modo di produzione capitalistico.

Questo modo di vedere è tanto meno sorprendente, in quanto gli corrisponde l'apparenza dei fatti e in quanto il rapporto di capitale vela il nesso interno delle cose nella completa indifferenza, esteriorità ed estraneità rispetto alle condizioni di realizzazione del lavoro, in cui getta l'operaio.

Primo : I mezzi di produzione che compongono il capitale costante rappresentano soltanto il denaro del capitalista (come il corpo del debitore romano, secondo Linguet rappresentava il denaro del suo creditore) e sono in rapporto soltanto con lui, mentre l'operaio, in quanto viene a contatto con essi nel reale processo di produzione, non se ne occupa che come di valori d'uso della produzione, mezzi e materiali di lavoro. La diminuzione o l'aumento di quel valore non incide quindi sul suo rapporto con il capitalista più del fatto che egli lavori nel rame piuttosto che nel ferro. È vero che, come accenneremo in seguito, il capitalista ama concepire le cose in altro modo non appena il valore dei mezzi di produzione aumenta e quindi il saggio di profitto cala.

Secondo : Nella misura in cui, nel processo di produzione capitalistico, questi mezzi di produzione sono nello stesso tempo mezzi di sfruttamento del lavoro, il fatto che questi mezzi di sfruttamento siano relativamente a buon mercato o relativamente costosi non interessa all'operaio più che non interessi al cavallo il prezzo più o meno alto del morso e della briglia.

Infine: Come si è già visto, nella realtà l'operaio si atteggia di fronte al carattere sociale del proprio lavoro, alla sua combinazione con il lavoro di altri operai per uno scopo comune, come di fronte ad una potenza a lui estranea; le condizioni di realizzazione di questa combinazione sono proprietà altrui, il cui spreco gli sarebbe del tutto indifferente se non fosse costretto a farne economia...

Poiché la produzione in grande celebra il suo primo sviluppo nella forma capitalistica, la brama di profìtto da un lato, la concorrenza che costringe a produrre le merci il più possibile a buon mercato dall'altro, fanno apparire l'economia nell'impiego del capitale costante come caratteristica specifica del modo di produzione capitalistico e quindi come funzione del capitalista.

Come da un lato spinge allo sviluppo delle forze produttive del lavoro sociale, così dall'altro il modo di produzione capitalistico spinge all'economia nell'impiego del capitale costante.

La questione tuttavia non si esaurisce nel rapporto di alienazione e indifferenza fra l'operaio, depositario del lavoro, qui, e l'impiego economico, cioè razionale e parsimonioso delle sue condizioni di lavoro, là. Conformemente alla sua natura contraddittoria e antagonistica, il modo di produzione capitalistico giunge fino ad annoverare lo sperpero in vita e salute dell'operaio, lo stesso peggioramento delle sue condizioni di esistenza, fra le economie nell'impiego di capitale costante, quindi fra i mezzi per elevare il saggio di profitto...

Il capitale, come nell'impiego diretto del lavoro vivo tende a ridurlo a lavoro necessario, e ad abbreviare il lavoro necessario per la fabbricazione di un prodotto sfruttando le forze produttive sociali del lavoro, dunque a risparmiare il più possibile il lavoro vivo direttamente impiegato, così tende a utilizzare questo lavoro, ridotto alla sua misura necessaria, nelle condizioni più economiche, cioè a ridurre al minimo possibile il valore del capitale costante impiegato...

Capitolo VI

EFFETTI DELLE VARIAZIONI DI PREZZO

1. Oscillazioni nel prezzo delle materie prime e loro influenze dirette sul saggio di profitto

[...]

Nell'analisi che segue, ci si limiterà alle fluttuazioni nei prezzi della materia prima, non in quanto essa intervenga come materia prima delle macchine che fungono da mezzo di lavoro, o come materia ausiliaria nel loro impiego, ma in quanto entri come materia prima nel processo di produzione della merce...

La materia prima costituisce una parte essenziale del capitale costante. Anche in rami d'industria nei quali non entra una vera e propria materia prima, essa entra o come materia ausiliaria o come parte costitutiva della macchina etc., cosicché le fluttuazioni dei suoi prezzi influiscono pro tanto sul saggio di profitto. Se il prezzo della materia prima scende di una somma = d, allora p/C, ovvero = p/v + c, trapassa in p/C - d, ovvero in p/(c - d) + v; quindi il saggio di profitto sale. Inversamente, se il prezzo della materia prima aumenta, allora p/C, ovvero = p/v + c, diventa p/C + d, ovvero p/ (c + d) + v: il saggio di profitto perciò scende. Eguali restando le altre circostanze, quindi, il saggio di profitto sale o scende in ragione inversa del prezzo della materia prima...

II valore delle materie prime ed ausiliarie entra totalmente e in una sola volta nel valore del prodotto per fabbricare il quale sono consumate, mentre il valore degli elementi del capitale fisso entra nel prodotto nella sola misura del suo logorio, dunque solo gradualmente. Ne segue che il prezzo del prodotto risente assai più del prezzo della materia prima che di quello del capitale fisso, benché il saggio di profitto sia determinato dalla somma di valore complessiva del capitale impiegato, poco importa quanto di esso sia o no consumato. È però chiaro [...] che l'espansione o contrazione del mercato dipende dal prezzo della merce singola e sta in ragione inversa dell'aumento o della diminuzione di questo. Perciò, nella realtà, accade pure che, crescendo il prezzo della materia prima, il prezzo del prodotto non salga nella stessa proporzione e, scendendo il prezzo della materia prima, non subisca un ribasso proporzionale. Nell'un caso, quindi, il saggio di profitto scende più in basso, nell'altro sale più in alto, che se le merci fossero vendute al loro valore.

Nei rami di industria in cui entra in generale della materia prima, cioè in cui l'oggetto del lavoro è già esso stesso il prodotto di un lavoro precedente, la forza produttiva crescente del lavoro si esprime [...] nella proporzione in cui una maggior quantità di materia prima assorbe una data quantità di lavoro, dunque nella massa crescente di materia prima che, per es., in un'ora di lavoro viene convertita in prodotto, lavorata in merce. Perciò nella misura in cui la forza produttiva del lavoro si sviluppa, il valore della materia prima forma una parte costitutiva sempre crescente del valore della merce prodotta, non solo perché entra completamente in questa, ma perché in ogni aliquota del prodotto totale tanto la parte costituita dall'usura del macchinario, quanto la parte costituita dal lavoro aggiunto ex novo, decrescono continuamente. In seguito a questo movimento all'ingiù, l'altra parte di valore costituita dalla materia prima cresce relativamente, se questa crescita non è annullata, dal lato della materia prima, da un corrispondente decremento di valore, derivante dalla crescente produttività del lavoro impiegato nella sua produzione.

Ancora: poiché le materie prime ed ausiliarie, esattamente come il salario, costituiscono degli elementi del capitale circolante, quindi vanno costantemente reintegrate ogni volta mediante vendita del prodotto, mentre delle macchine non va reintegrata che l'usura, e ciò, a tutta prima, nella forma di un fondo di riserva — dove, in realtà, non è affatto essenziale che ogni singola vendita contribuisca per la sua parte al fondo di riserva, alla sola condizione che l'intera vendita annua gli fornisca ogni anno la sua parte —, si vede di qui, ancora una volta, come un aumento di prezzo della materia prima possa abbreviare o frenare l'intero processo di riproduzione, o perché il prezzo spuntato nella vendita della merce non basta a reintegrare tutti gli elementi della merce stessa, o perché esso rende impossibile la prosecuzione del processo su scala conforme alla sua base tecnica, così che solo una parte del macchinario possa essere impiegata, o così che l'insieme del macchinario non possa lavorare durante tutto il tempo per esso consueto...

2. Aumento di valore e svalorizzazione, liberazione e immobilizzo di capitale

Liberazione e immobilizzo di capitale da un lato, aumento di valore e svalorizzazione dall'altro, vanno considerati come fenomeni diversi?

Ci si chiede anzitutto: che cosa intendiamo per liberazione e immobilizzo di capitale? Le espressioni aumento di valore e svalorizzazione si capiscono da sé. Non significano se non che il capitale esistente, in seguito a circostanze economiche generali di qualunque natura — giacché non si tratta dei particolari destini di un qualsivoglia capitale privato —, cresce o decresce in valore; dunque, che il valore del capitale anticipato alla produzione, a prescindere dalla sua valorizzazione ad opera del pluslavoro da esso impiegato, aumenta o diminuisce.

Per immobilizzo di capitale costante intendiamo il fatto che, perché la produzione continui sulla sua scala originaria, date proporzioni del valore totale del prodotto devono essere nuovamente riconvertite negli elementi del capitale costante o variabile. Per liberazione di capitale intendiamo il fatto che, perché la produzione continui entro i limiti della sua scala originaria, una parte del valore totale del prodotto, che finora si doveva riconvertire o in capitale costante o in capitale variabile, si rende disponibile o superflua...

Valorizzazione e svalorizzazione possono riguardare o il capitale costante, o il capitale variabile, o tutti e due; nel caso del capitale costante, inoltre, possono riferirsi o alla parte fissa, o alla parte circolante, o ad entrambe.

Nel caso del capitale costante, vanno considerate le materie prime ed ausiliarie, ivi compresi i semilavorati, che qui raggruppiamo sotto il nome di materie prime in genere, e le macchine ed altro capitale fisso...

Se [...] un aumento nel prezzo della materia prima si accompagna alla presenza sul mercato di una massa considerevole di merci finite, quale che ne sia il grado di finitura, il valore di queste merci crescerà, quindi avrà luogo un aumento nel valore del capitale esistente. Lo stesso vale per le scorte di materia prima etc., che si trovano in mano ai produttori. Questo aumento di valore può indennizzare o più che indennizzare il capitalista singolo, o anche tutta una particolare sfera di produzione del capitale, per la caduta del saggio di profitto derivante dall'aumento di prezzo della materia prima. Senza entrare qui nei dettagli degli effetti della concorrenza, si può osservare per maggior completezza che: 1) le scorte immagazzinate di materia prima, quando sono notevoli, contrastano l'aumento di prezzo verificatosi sul luogo di produzione della materia prima, 2) i semilavorati o le merci finite presenti sul mercato, quando pesano in forte misura sul mercato stesso, impediscono al prezzo delle merci finite e dei semilavorati di crescere in proporzione al prezzo della loro materia prima.

Accade l'opposto se il prezzo della materia prima cade, elevando a parità di condizioni il saggio di profitto. Le merci esistenti sul mercato, gli articoli ancora in corso di finitura, le scorte di materia prima vengono svalutati, e così si contrasta l'aumento simultaneo del saggio di profitto...

Poiché il saggio di profitto è eguale al rapporto fra l'eccedenza di valore del prodotto e il valore del capitale totale anticipato, un aumento del saggio del profitto derivante da una svalorizzazione del capitale anticipato si collegherebbe ad una perdita in valore capitale, così come, d'altra parte, una diminuzione del saggio di profitto derivante da aumento di valore del capitale anticipato potrebbe collegarsi ad un guadagno...

Per la svalorizzazione, sono invece di importanza generale :

1) I continui perfezionamenti che privano relativamente del loro valore d'uso e quindi anche del loro valore il macchinario, le attrezzature di fabbrica, etc. esistenti...

2) Se il macchinario, la costruzione di edifici e in genere il capitale fisso hanno raggiunto una certa maturità, in modo da rimanere invariati per un tempo abbastanza lungo almeno nella loro struttura fondamentale, un'analoga svalorizzazione ha luogo in seguito a perfezionamento nei metodi di riproduzione di questo capitale fisso. Il valore delle macchine, etc., diminuisce allora non perché ben presto le soppianti, o in una certa misura le svaluti, un macchinario nuovo, più produttivo, etc., ma perché è possibile riprodurle a minor costo. È questa una delle ragioni per cui spesso le grandi imprese fioriscono solo in un secondo tempo, dopo che il primo proprietario ha fatto bancarotta e il secondo, il quale le ha comprate a basso prezzo, comincia appunto perciò a produrre fin dall'inizio con un minore esborso di capitale...

[Resta] da accennare al capitale variabile.

Nella misura in cui il valore della forza lavoro cresce perché cresce il valore dei mezzi di sussistenza richiesti per la sua riproduzione, o viceversa decresce perché decresce il valore di questi mezzi di sussistenza — e aumento di valore e svalorizzazione del capitale variabile non esprimono che questi due casi —, eguale restando la durata della giornata lavorativa, a tale aumento di valore corrisponde una diminuzione del plusvalore, e a tale svalorizzazione un aumento del plusvalore. Ma vi si possono nello stesso tempo collegare altre circostanze — liberazione e immobilizzo di capitale — che fin qui non si sono esaminate, e di cui ora si deve brevemente far cenno.

Se il salario cala in seguito a caduta di valore della forza lavoro (al che può anche accompagnarsi un aumento del prezzo reale del lavoro), una parte del capitale finora spesa in salario ne risulterà liberata: si avrà liberazione di capitale variabile. Per un capitale da investire ex novo, ciò ha semplicemente per effetto che esso lavori ad un saggio di plusvalore più alto: essendo la stessa quantità di lavoro messa in moto con meno denaro di prima, la parte non pagata del lavoro cresce a spese della parte pagata. Per un capitale già in azione, invece, non solo aumenta il saggio del plusvalore, ma oltre a ciò si rende libera una parte del capitale finora speso in salario. Essa era finora vincolata e costituiva una parte immobile, detratta dal ricavo della vendita del prodotto e destinata, se l'impresa doveva proseguire sulla vecchia scala, ad essere spesa in salario, a fungere da capitale variabile. Ora diventa disponibile; può quindi essere utilizzata come nuovo impiego di capitale sia per ampliamento della stessa impresa, sia per funzionamento in un'altra sfera di produzione...

Sia i vantaggi derivanti dalla liberazione, sia gli svantaggi derivanti dall'immobilizzo, di capitale variabile esistono solo per il capitale già impegnato e quindi riproducentesi in dati rapporti. Per il capitale da investire ex novo, il vantaggio da un lato, lo svantaggio dall'altro, si limitano all'incremento e, rispettivamente, decremento del saggio di plusvalore e alla variazione corrispondente, benché tutt'altro che proporzionale, del saggio di profitto.

La liberazione e l'immobilizzo di capitale variabile or ora esaminati sono conseguenza di una svalorizzazione e di un aumento di valore degli elementi del capitale variabile, cioè delle spese di riproduzione della forza lavoro. Si può tuttavia liberare capitale variabile anche se, in seguito a sviluppo della produttività, restando invariato il saggio del salario si richiedono meno operai per mettere in moto la medesima massa di capitale costante, così come, d'altronde, si può verificare immobilizzo di capitale variabile addizionale anche se, in seguito a diminuzione della forza produttiva del lavoro, sulla medesima massa di capitale costante si richiedono più operai...

Anche il capitale costante, come si è già visto, può essere vincolato o svincolato in seguito ad aumento di valore o a svalorizzazione degli elementi di cui è costituito. Prescindendo da ciò, un immobilizzo è possibile (senza che venga convertita in capitale costante una parte del capitale variabile) soltanto se la forza produttiva del lavoro aumenta e, quindi, la stessa massa di lavoro genera un maggior prodotto, dunque mette in moto più capitale costante. La stessa cosa può verificarsi, in certi casi, se la forza produttiva decresce, come per es. in agricoltura, in modo che, per generare lo stesso prodotto, la stessa quantità di lavoro abbisogni di più mezzi di produzione, per es. più sementi o concimi, lavori di drenaggio, etc. Senza svalorizzazione può liberarsi capitale costante se, in seguito a perfezionamenti, impiego di forze naturali, etc., un capitale costante di minor valore è posto in grado di rendere tecnicamente lo stesso servizio che, prima, un capitale costante di valore superiore...

Quanto più è sviluppata la produzione capitalistica, quanto maggiori sono perciò i mezzi per aumentare improvvisamente e in modo duraturo la parte del capitale costante composta di macchine, etc., quanto più rapida è l'accumulazione (come, soprattutto, in tempi di prosperità), tanto maggiore sarà la sovraproduzione relativa di macchine e altro capitale fisso, e tanto più frequente la sottoproduzione relativa delle materie prime vegetali ed animali; tanto più marcati saranno il già descritto aumento del loro prezzo e le ripercussioni ad esso corrispondenti. Saranno perciò anche più frequenti i rivolgimenti causati da questa violenta oscillazione nel prezzo di uno dei principali elementi del processo di riproduzione.

Se tuttavia si verifica un crollo di questi prezzi elevati, perché il loro aumento ha in parte causato una riduzione della domanda, ma è pure stato, in parte, causa qui di un ampliamento della produzione, là di una importazione da luoghi di produzione più remoti ai quali finora non si era fatto ricorso, o di cui ci si era meno serviti, e, con entrambe, un'offerta delle materie prime che superi la domanda — e la superi, particolarmente, ai vecchi prezzi elevati —, il risultato va allora preso in esame da diversi punti di vista. Il crollo improvviso del prezzo delle materie prime mette freno alla loro riproduzione; il monopolio dei paesi di origine, che producono nelle condizioni più favorevoli, viene così ristabilito; forse con certe limitazioni, ma ristabilito comunque. È vero che, grazie all'impulso ricevuto, la riproduzione delle materie prime prosegue su scala allargata, soprattutto nei paesi che più o meno detengono il monopolio di questa produzione. Ma la base sulla quale, in seguito all'aumento del macchinario, etc., la produzione si svolge e che, dopo qualche oscillazione, non può non imporsi come nuova base normale, come nuovo punto di partenza, si trova notevolmente allargata dai fenomeni verificatisi durante l'ultimo ciclo di rotazione. D'altro lato, in una parte delle fonti secondarie di approvvigionamento, la riproduzione da poco aumentata ha subito di nuovo considerevoli intralci...

Capitolo VII

INTEGRAZIONI

Dato, come si è supposto in questa sezione, che la massa di profitto appropriata in ogni particolare sfera di produzione sia eguale alla somma del plusvalore prodotto dal capitale totale investito in questa stessa sfera, il borghese non considererà tuttavia il profitto come identico al plusvalore, cioè al pluslavoro non retribuito, e ciò per le seguenti ragioni:

1) Nel processo di circolazione egli dimentica il processo di produzione. Realizzare il valore delle merci — ivi inclusa la realizzazione del loro plusvalore — equivale per lui a creare questo plusvalore...

2) Posto un grado costante di sfruttamento del lavoro, si è visto che, a prescindere da tutte le modificazioni apportate dal sistema creditizio, da tutti gli imbrogli e i reciproci raggiri dei capitalisti, oltre che da ogni favorevole scelta del mercato, il saggio di profitto può essere molto diverso a seconda che la materia prima sia acquistata più o meno a buon mercato, con maggiore o minore conoscenza di causa; a seconda della produttività, rispondenza allo scopo e basso prezzo del macchinario impiegato; a seconda della maggiore o minor perfezione dell'impianto generale dei diversi stadi del processo di produzione, del grado in cui è stato eliminato lo sperpero di materiale, della semplicità ed efficienza della direzione e della sorveglianza, etc. Insomma, dato il plusvalore per un certo capitale variabile, dipende ancora in forte misura dall'abilità individuale negli affari, sia del capitalista, sia dei suoi sottoispettori e commessi, che questo stesso plusvalore si esprima in un saggio di profitto più o meno elevato, e quindi fornisca una massa più o meno grande di profitto...

L'aumento del saggio di profitto si origina sempre o da un aumento relativo od assoluto del plusvalore in rapporto ai suoi costi di produzione, cioè al capitale totale anticipato, o da una riduzione della differenza fra saggio del profitto e saggio del plusvalore.

Oscillazioni nel saggio di profitto, indipendenti da una variazione negli elementi organici del capitale o dalla grandezza assoluta del capitale, sono possibili perché il valore del capitale anticipato, in qualunque forma esista, fissa o circolante, sale o scende per effetto di un aumento o di una diminuzione, indipendente dal capitale già esistente, del tempo di lavoro necessario per la sua riproduzione. Il valore di ogni merce — quindi anche delle merci di cui è composto il capitale —, è determinato non dal tempo di lavoro necessario in essa stessa contenuto, ma dal tempo di lavoro socialmente necessario richiesto per la sua riproduzione. Questa riproduzione può avvenire in circostanze, diverse dalle condizioni della produzione originaria, che la ostacolano o che la facilitano. Se, nelle condizioni mutate, per riprodurre lo stesso capitale materiale occorre in generale due volte o, viceversa, metà il tempo di prima, a valore invariato del denaro esso, se prima valeva 100 Lst., ora ne varrebbe 200 o rispettivamente 50. Se questo aumento di valore o questa svalorizzazione colpisse uniformemente tutte le parti del capitale, anche il profitto si esprimerebbe corrispondentemente in una somma di denaro doppia o solo dimezzata. Ma, se implica un mutamento nella composizione organica del capitale, se accresce o riduce il rapporto del capitale variabile al capitale costante, a parità di condizioni il saggio di profitto crescerà se il capitale variabile cresce relativamente, diminuirà se il capitale variabile diminuisce relativamente. Se sale o scende soltanto il valore monetario (in seguito a cambiamento di valore del denaro) del capitale anticipato, nella stessa proporzione salirà o scenderà l'espressione del plusvalore in denaro. Il saggio di profitto resterà invariato.

SEZIONE II

LA TRASFORMAZIONE DEL PROFITTO IN PROFITTO MEDIO

CAPITOLO VIII
DIVERSA COMPOSIZIONE DEI CAPITALI IN DIVERSI RAMI DI INDUSTRIA E CONSEGUENTE DIVERSITA DEI SAGGI DI PROFITTO

[...]

Se nella sezione precedente è risultato che, a grado costante di sfruttamento del lavoro, variando il valore degli elementi del capitale costante e, allo stesso modo, variando il tempo di rotazione del capitale varia anche il saggio di profitto, ne segue che i saggi di profitto di diverse sfere di produzione esistenti simultaneamente l'una accanto all'altra saranno diversi se, a parità di condizioni, il tempo di rotazione dei capitali impiegati è diverso, ovvero se è diverso il rapporto di valore fra le parti componenti organiche di questi capitali nei diversi rami di produzione. Quelle che prima consideravamo come variazioni susseguentisi nel tempo con lo stesso capitale, ora le consideriamo come differenze simultanee fra investimenti di capitale esistenti l'uno accanto all'altro in diverse sfere di produzione.

E qui dovremo esaminare: 1) la differenza nella composizione organica dei capitali; 2) la differenza nel loro tempo di rotazione.

Naturalmente, il presupposto di tutta questa ricerca è che, parlando di composizione o di rotazione del capitale in un determinato ramo di produzione, si intenda sempre lo stato normale medio del capitale investito in questo ramo di produzione; che si alluda alla media del capitale totale investito nella determinata sfera, non alle differenze accidentali fra i singoli capitali investiti...

Per composizione del capitale intendiamo, come già detto nel Libro I, il rapporto fra il suo elemento attivo e il suo elemento passivo, fra il capitale variabile e il capitale costante. Vanno qui considerati due rapporti, che non sono della stessa importanza, sebbene, in date condizioni, possano produrre gli stessi effetti.

Il primo rapporto poggia su basi tecniche e, a un certo stadio di sviluppo della forza produttiva, deve considerarsi come dato. Una determinata massa di forza lavoro, rappresentata da un determinato numero di operai, è necessaria per produrre per es. in un giorno una determinata massa di prodotto, quindi — implicitamente — per mettere in moto, per consumare produttivamente, una determinata quantità di mezzi di produzione, macchine, materie prime, etc. Un certo numero di operai corrisponde ad una certa quantità di mezzi di produzione; quindi una certa quantità di lavoro vivo ad una certa quantità di lavoro già oggettivato nei mezzi di produzione. Questo rapporto è molto diverso in diverse sfere di produzione, spesso in diversi rami di una sola e medesima industria, quantunque occasionalmente possa essere esattamente o quasi lo stesso in rami d'industria assai distanti fra loro.

Questo rapporto costituisce la composizione tecnica del capitale, ed è la vera base della sua composizione organica.

È però anche possibile che quel rapporto sia il medesimo in rami di industria diversi, in quanto il capitale variabile sia puro e semplice indice di forza lavoro e il capitale costante puro e semplice indice della massa di mezzi di produzione posti in moto dalla forza lavoro... La differenza fra composizione tecnica e composizione di valore si manifesta, in ogni ramo di industria, in ciò che, a composizione tecnica immutata, il rapporto di valore fra le due parti di capitale può variare e, a composizione tecnica mutata, il rapporto di valore può restare il medesimo; il medesimo, naturalmente, soltanto se la variazione nel rapporto fra le quantità di mezzi di produzione e di forza lavoro impiegate trova compenso in una opposta variazione nei loro valori.

Chiamiamo composizione organica del capitale la sua composizione di valore, nella misura in cui è determinata dalla sua composizione tecnica e la rispecchia..

La diversa composizione organica dei capitali è [...] indipendente dalla loro grandezza assoluta. Il problema è sempre soltanto quanto di ogni 100 sia capitale variabile e quanto capitale costante.

Capitali di grandezza diversa calcolati in percentuale, o, il che qui è lo stesso, capitali di pari grandezza operanti a parità di giornata lavorativa e a parità di grado di sfruttamento producono dunque quantità molto diverse di profitto, perché di plusvalore; e ciò per la ragione che, data la diversa composizione organica, in sfere di produzione diverse ne è diversa la parte variabile, quindi sono diverse le quantità del lavoro vivo da essi posto in moto, dunque anche le quantità di pluslavoro, sostanza del plusvalore e quindi del profitto, da essi appropriate. Quote di eguale grandezza del capitale totale nelle diverse sfere di produzione implicano fonti di grandezza diseguale del plusvalore, e l'unica fonte del plusvalore è il lavoro vivo. A pari grado di sfruttamento del lavoro, la massa del lavoro messo in moto da un capitale = 100, quindi anche del pluslavoro che esso si appropria, dipende dalla grandezza del suo elemento variabile. Se un capitale che consiste percentualmente in 90c + 10v, a pari grado di sfruttamento del lavoro producesse tanto plusvalore, o profitto, quanto un capitale consistente in 10c + 90v, allora sarebbe chiaro come il sole che il plusvalore, quindi il valore in generale, dovrebbe avere una fonte del tutto diversa dal lavoro e che, con ciò, l'economia politica verrebbe a perdere ogni base razionale...

Ma se capitali di diverse sfere di produzione, calcolati in percentuale, quindi capitali di pari grandezza in diverse sfere di produzione, creano profitti diseguali a causa della loro diversa composizione organica, ne segue che i profitti di capitali diseguali in diverse sfere di produzione non possono stare in rapporto alle loro rispettive grandezze; che dunque i profitti in sfere di produzione diverse non sono proporzionali alle grandezze dei rispettivi capitali in esse impiegati. Infatti un tale aumento del profitto pro rata della grandezza del capitale impiegato presupporrebbe che, considerati percentualmente, i profitti siano eguali, che quindi capitali di pari grandezza in sfere di produzione diverse abbiano eguali saggi di profitto malgrado la diversità della loro composizione organica. Solo all'interno della medesima sfera di produzione, dove perciò la composizione organica del capitale è data, o tra sfere di produzione diverse di eguale composizione organica del capitale, le masse dei profitti stanno in ragion diretta della massa dei capitali impiegati. Che i profitti di capitali di grandezza diseguale siano proporzionali alle loro grandezze non significa se non che capitali di pari grandezza dànno profitti di pari grandezza, ovvero che il saggio di profitto è il medesimo per tutti i capitali, qualunque ne sia la grandezza e qualunque ne sia la composizione organica...

Oltre alla diversa composizione organica dei capitali, quindi oltre alle diverse masse di lavoro e perciò anche, a parità di condizioni, di pluslavoro, che capitali di pari grandezza mettono in moto in diverse sfere di produzione, esiste pure un'altra fonte di diseguaglianza nei saggi di profitto: la diversità di durata della rotazione del capitale nelle differenti sfere di produzione. Nel capitolo IV abbiamo visto che, a eguale composizione dei capitali e a parità di altre condizioni, i saggi di profitto sono inversamente proporzionali ai tempi di rotazione e che, parimenti, lo stesso capitale variabile, se ruota in spazi di tempo diversi, produce masse diseguali di plusvalore annuo.

La diversità nei tempi di rotazione è dunque un'altra causa del fatto che capitali di pari grandezza in diverse sfere di produzione non producono profitti di pari grandezza in lassi di tempo eguali, e che perciò i saggi di profitto in queste diverse sfere sono differenti.

Per quanto riguarda invece il rapporto, nella composizione dei capitali, fra capitale fisso e circolante, esso, considerato in sé e per sé, non incide minimamente sul saggio di profitto. Può influirvi soltanto se questa diversa composizione coincide con un diverso rapporto fra parte variabile e parte costante, cioè se la diversità dei saggi di profitto è dovuta a questa differenza, e non a quella fra capitale fisso e circolante; oppure se il diverso rapporto fra elementi fissi e circolanti determina una differenza nel tempo di rotazione durante il quale si realizza un determinato profitto. Se capitali si ripartiscono in diversa proporzione in fisso e circolante, è vero che questo fatto influirà sempre sul loro tempo di rotazione, modificandolo; ma da ciò non segue che sia diverso il tempo di rotazione in cui gli stessi capitali realizzano profitto...

La diversità dei tempi di rotazione, in sé e per sé, ha importanza nella sola misura in cui incide sulla massa del pluslavoro che lo stesso capitale può appropriarsi e realizzare in un tempo dato. Se perciò una composizione ineguale in capitale circolante e fisso non implica necessariamente ineguaglianza nel tempo di rotazione, che determini a sua volta ineguaglianza nei saggi di profitto, è chiaro che, in quanto quest'ultima abbia luogo, ciò non deriva dalla composizione ineguale in capitale circolante e fisso in sé, ma dal fatto che essa qui indica solo una ineguaglianza nei tempi di rotazione, di cui risente il saggio di profitto.

Dunque, la diversa composizione del capitale costante in circolante e fisso in diversi rami d'industria non ha in sé alcuna importanza per il saggio di profitto, poiché quello che decide è il rapporto del capitale variabile al capitale costante, e il valore di quest'ultimo, dunque anche la sua grandezza relativa rispetto al capitale variabile, è del tutto indipendente dal carattere fisso o circolante dei suoi elementi...

Abbiamo dunque mostrato: che in diversi rami d'industria, in corrispondenza alla diversa composizione organica dei capitali, ed entro certi limiti anche in corrispondenza ai loro diversi tempi di rotazione, regnano saggi di profitto ineguali, e che perciò, anche a parità di saggi di plusvalore, vale soltanto per capitali di eguale composizione organica — supponendo eguali i tempi di rotazione — la legge (come tendenza generale) secondo cui i profitti stanno fra loro come le grandezze dei capitali, e quindi capitali di pari grandezza dànno in tempi eguali profitti di grandezza eguale. Quanto abbiamo svolto vale sulla base che è stata finora, in generale, la base della nostra esposizione: che cioè le merci si vendano ai loro valori. D'altra parte non v'è dubbio che nella realtà, a prescindere da differenze inessenziali, fortuite e compensantisi a vicenda, la differenza nei saggi medi di profitto per i diversi rami di industria non esiste, né potrebbe esistere senza distruggere l'intero sistema della produzione capitalistica. Si direbbe perciò che qui la teoria del valore sia inconciliabile con il movimento effettivo, sia inconciliabile con i fenomeni reali della produzione, e che perciò si debba rinunciare a comprendere questi ultimi.

Capitolo IX

FORMAZIONE DI UN SAGGIO GENERALE DI PROFITTO (SAGGIO MEDIO DI PROFITTO) E METAMORFOSI DEI VALORI DELLE MERCI IN PREZZI DI PRODUZIONE

La composizione organica del capitale dipende, in ogni momento dato, da due fattori: primo, il rapporto tecnico tra forza lavoro impiegata e massa di mezzi di produzione impiegati; secondo, il prezzo di questi mezzi di produzione. Essa va considerata, come si è visto, secondo il suo rapporto percentuale...

[I] saggi di profìtto sono in ogni sfera di produzione = p/C e, come si è visto nella prima sezione di questo Libro, devono essere sviluppati dal valore della merce. Senza questo sviluppo, il saggio generale di profitto (quindi anche il prezzo di produzione della merce) resta un concetto vago e privo di senso. Il prezzo di produzione della merce è dunque eguale al suo prezzo di costo più il profitto, corrispondente al saggio generale di profitto, ad esso aggiunto in percentuale, ovvero, è eguale al suo prezzo di costo più il profitto medio.

A causa della diversa composizione organica dei capitali investiti nei diversi rami di produzione; a causa perciò del fatto che, a seconda della diversa percentuale costituita dalla parte variabile in un capitale totale di grandezza data, quantità molto diverse di lavoro vengono messe in moto da capitali di pari grandezza, questi si appropriano anche quantità molto diverse di pluslavoro, ovvero producono masse molto diverse di plusvalore. I saggi di profitto che regnano in diversi rami di produzione sono quindi, all'origine, molto differenti. Tutti questi saggi di profitto differenti vengono livellati dalla concorrenza in un saggio generale di profitto, che ne è la media. Il profitto che, in corrispondenza a questo saggio generale di profitto, tocca ad un capitale di grandezza data, qualunque ne sia la composizione organica, si chiama profitto medio. Il prezzo di una merce, che è eguale al suo prezzo di costo, più la parte del profitto medio annuo sul capitale impiegato (non soltanto consumato) nella sua produzione che tocca alla merce stessa in rapporto alle sue condizioni di rotazione, è il suo prezzo di produzione. Supponendo per es. un capitale di 500, con 100 di capitale fisso di cui il 10% per usura durante un periodo di rotazione del capitale circolante di 400, e supponendo un profitto medio per la durata di questo periodo di rotazione del 10%, il prezzo di costo del prodotto ottenuto nel corso di questa rotazione sarà: 10c per usura, più 400 (c + v) capitale circolante, = 410; il suo prezzo di produzione sarà invece: 410 prezzo di costo più 50 (10% di profitto su 500) = 460.

Perciò, sebbene i capitalisti delle diverse sfere di produzione ritraggano dalla vendita delle proprie merci i valori capitali consumati nella loro produzione, non incassano tuttavia il plusvalore e quindi il profitto prodotti nella propria sfera nell'approntare quelle merci, ma solo tanto plusvalore e quindi tanto profitto, quanto ad ogni aliquota del capitale totale, supposta una ripartizione uniforme, tocca del plusvalore totale, o del profitto totale, prodotto dal capitale totale della società, in una frazione di tempo data, in tutte le sfere di produzione prese assieme. Percentualmente, ogni capitale anticipato, qualunque ne sia la composizione, ricava in ogni anno od altra frazione di tempo il profitto spettante per questa frazione di tempo a 100 come parte aliquota del capitale totale. Qui, per quanto concerne il profitto, i diversi capitalisti figurano come puri e semplici azionisti di una società per azioni, in cui le quote di profitto siano ripartite uniformemente per 100, e quindi, per i diversi capitalisti, non si distinguano che secondo la grandezza del capitale investito da ciascuno nell'impresa complessiva, secondo la sua parte relativa in essa o secondo il numero delle azioni possedute. Mentre la frazione del prezzo delle merci che reintegra le parti di valore del capitale consumate nella loro produzione, e con cui perciò devono essere riacquistati questi valori capitali consumati, mentre dunque questa parte, il prezzo di costo, dipende in tutto e per tutto dall'esborso effettuato entro le rispettive sfere di produzione, l'altra componente del prezzo delle merci, il profitto aggiunto a quel prezzo di costo, non dipende dalla massa di profitto prodotta da quel dato capitale in quella data sfera di produzione durante un periodo di tempo dato, ma dalla massa di profitto spettante in media ad ogni capitale impiegato, come aliquota del capitale totale sociale impiegato nella produzione complessiva, durante uno spazio di tempo dato...

Se dunque un capitalista vende la propria merce al suo prezzo di produzione, ricava denaro in proporzione della grandezza di valore del capitale da lui consumato nella produzione, e profitto in proporzione del capitale da lui anticipato come pura aliquota del capitale sociale totale. I suoi prezzi di costo sono specifici; il profitto aggiunto a questo prezzo di costo è indipendente dalla sua particolare sfera di produzione, è una semplice media per 100 unità del capitale anticipato...

Nella produzione capitalistica, gli elementi del capitale produttivo sono di norma acquistati sul mercato, quindi i loro prezzi contengono un profitto già realizzato e, dunque, anche il prezzo di produzione di un certo ramo di industria entra, insieme al profitto in esso contenuto, nel prezzo di costo di un altro; che perciò il profitto di un ramo d'industria entra nel prezzo di costo dell'altro. Ma, se mettiamo da un lato la somma dei prezzi di costo delle merci dell'intero paese e, dall'altro, la somma dei suoi profitti o plusvalori, è evidente che il conto deve tornare. Prendiamo per es. una merce A; il suo prezzo di costo può contenere in sé i profitti di B, C, D, così come nei prezzi di costo di B, C, D, etc., possono entrare i profitti di A. Se dunque facciamo il conto, nel prezzo di costo di A manca il suo profitto e, allo stesso modo, nei prezzi di costo di B, C, D, etc. mancano i loro rispettivi profitti: nessuno infatti calcola nel proprio prezzo di costo il proprio profitto. Se quindi le sfere di produzione sono, per esempio, n, e in ciascuna si ottiene un profitto = π, in tutti assieme il prezzo di costo sarà = k — nπ. Se si considera il calcolo complessivo, nella misura in cui i profitti di una sfera di produzione entrano nel prezzo di costo delle altre essi sono già computati nel prezzo totale del prodotto ultimo e finale e non possono figurare per la seconda volta dal lato del profitto. Se tuttavia vi figurano, è solo perché la merce stessa era un prodotto finale, per cui il suo prezzo di produzione non entra nel prezzo di costo di un'altra merce.

Se nel prezzo di costo di una merce entra una somma = π per i profitti dei produttori dei mezzi di produzione, e a questo prezzo di costo viene aggiunto un profitto = π’, il profitto totale II sarà = π + π’. Il prezzo di costo totale della merce, se si astrae da tutte le parti di prezzo che entrano in qualità di profitto, sarà allora il suo prezzo di costo meno II: se indichiamo questo prezzo di costo con si avrà evidentemente che k + n è = k + π + π’...

Non esiste alcuna differenza tra profitto e plusvalore, nella misura in cui, per es., il plusvalore di A entra nel capitale costante di B. Per il valore delle merci è infatti del tutto indifferente che il lavoro in esse contenuto consti di lavoro pagato o non pagato. Ciò mostra soltanto che B paga il plusvalore di A. Nel calcolo totale il plusvalore di A non può figurare due volte.

Ma la differenza è questa: oltre al fatto che il prezzo del prodotto, per es., del capitale B diverge dal suo valore, perché il plusvalore realizzato in B può essere maggiore o minore del profitto aggiunto al prezzo dei prodotti di B, lo stesso vale per le merci che formano la parte costante del capitale B e indirettamente, come mezzi di sussistenza degli operai, anche la sua parte variabile. Quanto alla parte costante, essa è eguale al prezzo di costo più il plusvalore, dunque, ora, al prezzo di costo più il profitto, e questo profitto può a sua volta essere maggiore o minore del plusvalore di cui occupa il posto. Quanto al capitale variabile, è vero che il salario giornaliero medio è sempre eguale al valore prodotto nel numero di ore in cui l'operaio deve lavorare per produrre i mezzi di sussistenza necessari, ma questo numero di ore è falsato a sua volta dalla deviazione dei prezzi di produzione dei mezzi di sussistenza necessari dal loro valore. La cosa tuttavia si risolve sempre nel fatto che se in una merce entra troppo in qualità di plusvalore, in un'altra invece ne entra troppo poco, cosicché le deviazioni dal valore implicite nei prezzi di produzione delle merci si compensano a vicenda. Nell'insieme della produzione capitalistica, è sempre in modo assai complicato e approssimativo, come media mai fissabile di eterne oscillazioni, che la legge generale si afferma come la tendenza dominante.

Poiché i saggi di profitto nelle diverse sfere di produzione sono diversi, in quanto nelle stesse, a seconda del rapporto fra capitale variabile e capitale totale, si producono masse molto diverse di plusvalore e quindi di profitto, è chiaro che il profitto medio per 100 unità del capitale sociale, e quindi il saggio medio di profitto, o saggio generale di profitto, sarà diversissimo a seconda delle grandezze rispettive dei capitali investiti nelle differenti sfere...

Il saggio generale di profitto è quindi determinato da due fattori :

1) la composizione organica dei capitali nelle diverse sfere di produzione; dunque, i diversi saggi di profitto delle singole sfere;

2) la ripartizione del capitale sociale totale in queste diverse sfere; dunque, la grandezza relativa del capitale investito in ogni particolare sfera, quindi ad un particolare saggio di profitto; cioè la quota proporzionale del capitale sociale totale che ogni singola sfera di produzione divora...

Poiché il prezzo di produzione della merce può divergere dal suo valore, anche il prezzo di costo di una merce, in cui è compreso il prezzo di produzione di altre merci, può stare sopra o sotto la parte del suo valore totale formata dal valore dei mezzi di produzione che entrano in essa. È necessario ricordarsi di questo mutamento avvenuto nel significato del prezzo di costo e, quindi, ricordarsi che, quando in una particolare sfera di produzione si equipara il prezzo di costo della merce al valore dei mezzi di produzione consumati nel produrla, un errore è sempre possibile... Il prezzo di costo delle merci è sempre inferiore al loro valore. Infatti, per quanto il prezzo di costo delle merci possa divergere dal valore dei mezzi di produzione in essa consumati, al capitalista questo errore trascorso è indifferente. Il prezzo di costo della merce è un prezzo dato, un presupposto indipendente dalla produzione del capitalista, mentre il risultato della produzione di costui è una merce che contiene plusvalore; dunque, eccedenza di valore sul prezzo di costo.

D'altronde, la proposizione che il prezzo di costo è inferiore al valore della merce si converte ora praticamente nell'altra, che il prezzo di costo è inferiore al prezzo di produzione. Per il capitale sociale totale, in cui prezzo di produzione è eguale a valore, questa proposizione è identica alla precedente, secondo cui il prezzo di costo è inferiore al valore. Benché essa abbia un significato diverso nelle particolari sfere della produzione, alla sua base resta però sempre il fatto che, se si considera il capitale sociale totale, il prezzo di costo delle merci da esso prodotte è inferiore al valore, o al prezzo di produzione — qui identico al valore —, della massa totale delle merci prodotte. Il prezzo di costo di una merce non si riferisce che alla quantità del lavoro pagato in essa contenuto; il valore, alla quantità complessiva del lavoro pagato e non pagato in essa contenuto; il prezzo di produzione, alla somma del lavoro pagato più una determinata quantità di lavoro non pagato, indipendente, per la particolare sfera di produzione, da essa stessa...

La formula che il prezzo di produzione di una merce è = k + π, il prezzo di costo più il profitto, si è ora ulteriormente determinata nel senso che, essendo π = k + π (dove π' è il saggio generale di profitto), il prezzo di produzione sarà k + kπ’...

Il prezzo di produzione delle merci in ogni particolare sfera di produzione può subire variazioni di grandezza:

1) a valore delle merci costante (cosicché la stessa quantità di lavoro vivo e morto entri, ora come prima, nella loro produzione), in seguito ad una variazione nel saggio generale di profitto indipendente dalla particolare sfera di produzione;

2) a saggio generale di profitto costante, in seguito a cambiamento di valore nella particolare sfera di produzione sia a causa di modificazione tecnica, sia a causa di variazione di valore delle merci che entrano come elementi costitutivi nel suo capitale costante;

3) infine, per azione congiunta di questi due fattori...

Se si considera il capitale sociale totale, la somma di valore delle merci da esso prodotte (o, in termini monetari, il loro prezzo) è = valore del capitale costante + valore del capitale variabile + plusvalore. Supponendo costante il grado di sfruttamento del lavoro, qui il saggio di profitto può variare, restando invariata la massa del plusvalore, soltanto se varia il valore del capitale costante, o varia il valore del capitale variabile, o variano entrambi, cosicché C si modifichi e, con esso, si modifichi p/C, il saggio generale di profitto. In ogni caso, perciò, una variazione nel saggio generale di profitto presuppone una variazione nel valore delle merci che entrano come elementi costitutivi o nel capitale costante, o nel capitale variabile, o contemporaneamente in entrambi.

O il saggio generale di profitto può variare, eguale restando il valore delle merci, se varia il grado di sfruttamento del lavoro.

O, eguale restando il grado di sfruttamento del lavoro, il saggio generale di profitto può variare se la somma del lavoro impiegato varia, relativamente al capitale costante, a seguito di cambiamenti tecnici nel processo di lavoro. Ma tali cambiamenti tecnici devono sempre manifestarsi in un cambiamento di valore delle merci, la cui produzione richiederebbe ora, rispetto a prima, una quantità maggiore o minore di lavoro; ed esserne accompagnati...

È ora soltanto un caso che il plusvalore, e quindi il profitto, realmente prodotto in una particolare sfera di produzione coincida col profitto contenuto nel prezzo di vendita della merce. Di regola, profitto e plusvalore, e non soltanto i loro saggi, sono ora grandezze realmente diverse. A grado dato di sfruttamento del lavoro, la massa di plusvalore prodotto in una particolare sfera di produzione è ora più importante per il profitto medio complessivo del capitale sociale, quindi per la classe capitalistica in genere, che direttamente per il capitalista all'interno di ogni particolare ramo di produzione. Per costui, essa è importante nella sola misura (Inutile dire che qui si prescinde dalla possibilità di ricavare un temporaneo extraprofitto mediante riduzione del salario, prezzo di monopolio, etc. - F.-E.) in cui la quantità di plusvalore prodotta nel suo ramo interviene in modo codeterminante nella regolazione del profitto medio. Ma questo è un processo che si svolge dietro le sue spalle, che egli non vede né comprende, e che, in realtà, non lo interessa. La reale differenza di grandezza fra profitto e plusvalore — non solo fra saggio di profitto e saggio di plusvalore — nelle particolari sfere di produzione nasconde ora totalmente la vera natura e l'origine del profitto, non soltanto per il capitalista, che qui ha un particolare interesse ad ingannarsi, ma anche per il lavoratore. Con la metamorfosi dei valori in prezzi di produzione, le basi stesse della determinazione del valore vengono sottratte alla vista. E infine: se nella pura e semplice metamorfosi del plusvalore in profitto la parte di valore delle merci che costituisce il profitto si contrappone all'altra parte di valore come al loro prezzo di costo, cosicché qui il concetto stesso di valore sfugge al capitalista già per il fatto di non avere davanti a sé il lavoro totale che costa la produzione della merce, ma solo quella parte di esso che egli ha pagato nella forma di mezzi di produzione vivi o morti, e così il profitto gli appare come qualcosa di esistente fuori del valore immanente della merce — se tutto ciò accade, questa rappresentazione viene pienamente confermata, consolidata, fossilizzata, in quanto il profitto aggiunto al prezzo di costo, se si considera la particolare sfera di produzione, non è determinato dai limiti della formazione di valore che in esso si compie, ma è stabilito in modo del tutto estrinseco.

Il fatto che qui per la prima volta appaia in piena luce questo nesso interno; che finora l'economia, come si vedrà dal seguito e dal Libro IV, abbia fatto deliberatamente astrazione dalle differenze fra plusvalore e profitto, saggio di plusvalore e saggio di profitto, per poter conservare come base la determinazione di valore, o meglio, con questa determinazione, abbia rinunciato ad ogni base e terreno di procedimento scientifico per attenersi alle differenze che colpiscono immediatamente la vista — tutta questa confusione dei teorici è la prova migliore di come il capitalista pratico, essendo irretito nella lotta di concorrenza e non penetrando in alcun modo i suoi fenomeni, debba essere assolutamente incapace di riconoscere, attraverso l'apparenza, l'essenza profonda e la forma intrinseca di questo processo.

Tutte le leggi sviluppate nella prima sezione sull'aumento e la caduta del saggio di profitto hanno in realtà il seguente duplice significato:

1) Da un lato, esse sono le leggi del saggio generale di profitto. Date le molte e diverse cause che, secondo quanto si è esposto, fanno aumentare o diminuire il saggio di profitto, si potrebbe credere che il saggio generale di profitto debba variare ogni giorno. Ma il movimento in una sfera di produzione controbilancia quello nelle altre, le influenze si incrociano e si paralizzano. Esamineremo in seguito verso quale parte tendano in ultima istanza a muoversi le oscillazioni; comunque, esse sono lente; la subitaneità, la multilateralità e la diversa durata delle oscillazioni nelle singole sfere di produzione fanno sì che in parte, nel loro succedersi, esse si compensino nel tempo, per cui ribasso di prezzo segue ad aumento di prezzo, e viceversa: che quindi rimangano locali, cioè limitate a particolari sfere di produzione; e che, infine, le diverse oscillazioni locali si neutralizzino a vicenda. Nell'ambito di ogni particolare sfera di produzione si verificano mutamenti, deviazioni dal saggio generale di profitto, che non si ripercuotono su quest'ultimo, da un lato perché in un dato lasso di tempo si compensano, dall'altro perché vengono annullate da altre e contemporanee oscillazioni locali. Poiché il saggio generale di profitto è determinato non soltanto dal saggio medio di profitto in ogni sfera, ma anche dalla ripartizione del capitale totale nelle diverse sfere particolari, e poiché questa ripartizione varia continuamente, è questa a sua volta una causa costante di variazione nel saggio generale di profitto — ma una causa di variazione che, date la continuità ininterrotta e l'onnilateralità di questo movimento, si paralizza in gran parte da sé.

2) All'interno di ogni sfera v'è un margine in cui, per un periodo più o meno lungo, il saggio di profitto della stessa sfera oscilla, prima che questo oscillare, nel senso di un aumento o di una caduta, si consolidi a sufficienza per avere il tempo di influire sul saggio generale di profitto, e quindi assumere importanza non soltanto locale. Entro tali limiti di spazio e di tempo, valgono quindi in pieno le leggi del saggio di profitto sviluppate nella prima sezione di questo volume...

Le variazioni nel tempo di lavoro necessario alla produzione delle merci, e quindi nel loro valore, appaiono ora, in rapporto al prezzo di costo e quindi anche al prezzo di produzione, come diversa ripartizione dello stesso salario su più o meno merci, a seconda che, nel medesimo tempo di lavoro, per il medesimo salario si producano più o meno merci. Ciò che vede il capitalista, e quindi anche l'economista, è che la parte del lavoro pagato spettante ad ogni unità di merce varia con la produttività del lavoro, quindi varia anche il valore di ogni singola unità; non vede che altrettanto accade per il lavoro non pagato contenuto in ogni unità, e tanto meno lo vede, in quanto il profìtto medio è in realtà determinato solo casualmente dal lavoro non pagato assorbito nella sua sfera. Soltanto in questa forma rozza ed aconcettuale traspare ancora il fatto che il valore delle merci è determinato dal lavoro in esse contenuto.

Capitolo X

LIVELLAMENTO DEL SAGGIO GENERALE DI PROFITTO AD OPERA DELLA CONCORRENZA.
PREZZI DI MERCATO E VALORI DI MERCATO.
SOVRAPROFITTO

In una parte delle sfere di produzione, il capitale in esse investito ha una composizione media; cioè, esattamente o approssimativamente, la composizione del capitale sociale medio.

In queste sfere, il prezzo di produzione delle merci prodotte coincide, esattamente o approssimativamente, con il loro valore espresso in denaro. Se non ci fosse altro modo di giungere al limite matematico, questo lo sarebbe. La concorrenza ripartisce il capitale sociale fra le diverse sfere di produzione in maniera tale, che in ognuna i prezzi di produzione si formano sul modello dei prezzi di produzione nelle sfere a composizione media, cioè = k + k π' (il prezzo di costo più il prodotto del saggio medio di profitto per il prezzo di costo). Ma questo saggio medio di profitto non è che il profitto calcolato in percento in queste sfere a composizione media, nelle quali perciò il profitto coincide con il plusvalore. In tutte le sfere di produzione, quindi, il saggio di profitto è lo stesso, cioè livellato su quello delle sfere di produzione intermedie in cui regna la composizione media del capitale. Ne deriva che la somma dei profitti di tutte le diverse sfere di produzione dev'essere eguale alla somma dei plusvalori, e la somma dei prezzi di produzione del prodotto sociale totale dev'essere eguale alla somma dei suoi valori. È però chiaro che il livellamento tra le sfere di produzione a composizione differente deve sempre tendere ad eguagliare queste ultime alle sfere a composizione media, corrispondano esse esattamente o solo in via approssimativa alla media sociale. Fra quelle che vi si avvicinano di più e quelle che vi si avvicinano di meno si verifica una tendenza al livellamento, nel senso di una posizione media ideale, cioè non esistente nella realtà; insomma, una tendenza a regolarsi su di essa. S'impone così necessariamente la tendenza a fare dei prezzi di produzione le pure e semplici forme trasmutate del valore, o a trasformare i profitti in pure e semplici frazioni del plusvalore, distribuite tuttavia non proporzionalmente al plusvalore prodotto in ogni sfera di produzione particolare, ma proporzionalmente alla massa del capitale impiegato in ognuna, in modo che frazioni (aliquote) di pari grandezza della totalità del plusvalore prodotto dal capitale sociale totale tocchino a masse di capitale di pari grandezza, comunque esse siano composte.

Per i capitali a composizione media o vicina alla media, il prezzo di produzione coincide perciò esattamente o approssimativamente con il valore, e il profitto con il plusvalore da essi prodotto. Tutti gli altri capitali, qualunque ne sia la composizione, tendono, sotto la pressione della concorrenza, a livellarsi su questi. Ma poiché i capitali a composizione media sono eguali o pressoché eguali al capitale sociale medio, ogni capitale, qualunque sia il plusvalore che esso produce, tende a realizzare attraverso i prezzi delle sue merci, invece di questo plusvalore, il profitto medio, cioè a realizzare così i prezzi di produzione.

Si può dire d'altra parte che, dovunque si generi un profitto medio e quindi un saggio generale di profitto — in qualunque modo si pervenga a un tale risultato —, questo profitto medio non può essere che il profitto sul capitale sociale medio la cui somma è pari alla somma dei plusvalori, e che i prezzi determinati, dall'aggiunta di questo profitto medio ai prezzi di costo non possono essere se non i valori convertiti in prezzi di produzione. Non cambierebbe nulla alla cosa se, in date sfere di produzione, per questo o quel motivo, dei capitali non soggiacessero al processo di livellamento: il profitto medio sarebbe allora calcolato sulla parte del capitale sociale che entra in tale processo. È chiaro che il profitto medio non può essere altro che la massa complessiva del plusvalore ripartita sulle masse di capitale in ogni sfera di produzione proporzionalmente alla loro grandezza. Ciò che tocca ai capitalisti è l'insieme del lavoro non retribuito che si è realizzato, e questa massa totale si rappresenta, non meno del lavoro retribuito, vivo e morto, nella massa totale di merci e di denaro.

Il problema veramente difficile è come avvenga questo livellamento dei profitti in un saggio generale di profitto, dato che questo, evidentemente, può essere solo un risultato, non un punto di partenza. È chiaro, prima di tutto, che una stima dei valori delle merci, per es. in denaro, può risultare solo dal loro scambio e che, se presupponiamo una tale stima, dobbiamo considerarla come il risultato di scambi effettivi di valori delle merci contro valori delle merci. Ma com'è potuto avvenire, questo scambio delle merci ai loro effettivi valori?...

Tutta la difficoltà viene da ciò che le merci non si scambiano semplicemente come merci, ma come prodotti di capitali che, in proporzione alla loro grandezza, o a parità di grandezza, pretendono un'eguale partecipazione alla massa totale del plusvalore. E il prezzo totale delle merci prodotte da un dato capitale in un lasso di tempo dato deve soddisfare questa pretesa. Ma il prezzo totale di queste merci non è che la somma dei prezzi delle singole merci costituenti il prodotto del capitale...

In qualunque modo i prezzi delle diverse merci vengano a tutta prima reciprocamente stabiliti o regolati, la legge del valore ne domina il movimento. I prezzi scendono se diminuisce il tempo di lavoro necessario alla produzione delle merci; i prezzi salgono, a parità di condizioni, se questo tempo di lavoro aumenta. A prescindere dal dominio della legge del valore sui prezzi e sul movimento dei prezzi, è dunque perfettamente conforme alla realtà considerare i valori delle merci, non solo in teoria, ma storicamente, come il prius dei prezzi di produzione.

Comunque siano regolati i prezzi, risulta che:

1) La legge del valore domina il loro movimento, in quanto una diminuzione o un aumento del tempo di lavoro richiesto per la produzione fa salire o scendere i prezzi di produzione...

2) Il profitto medio, che determina i prezzi di produzione, deve essere sempre approssimativamente eguale alla quantità di plusvalore che tocca a un dato capitale come aliquota del capitale sociale totale... Poiché è il valore totale delle merci a regolare il plusvalore totale, ma questo regola l'altezza del profitto medio, quindi del saggio generale di profitto — come legge generale, ovvero come ciò che domina le oscillazioni —, è la legge del valore che regola i prezzi di produzione...

Affinché le merci della stessa sfera di produzione, della stessa specie e, approssimativamente, della stessa qualità siano vendute ai loro valori, sono necessarie due condizioni:

Primo: i diversi valori individuali devono essere livellati ad un solo valore sociale, il suesposto valore di mercato, e a tal fine si richiede sia una concorrenza fra i produttori della stessa specie di merce, sia la presenza di un mercato sul quale essi offrano tutti insieme le loro merci. Affinché il prezzo di mercato di merci identiche, ognuna tuttavia prodotta in circostanze di diversa sfumatura individuale, corrisponda al valore di mercato, non ne diverga né per eccesso né per difetto, è necessario che la pressione esercitata gli uni sugli altri dai diversi venditori sia abbastanza forte da farli gettare sul mercato la quantità di merci richiesta dal fabbisogno sociale, la quantità per la quale la società è in grado di pagare il valore di mercato...

Secondo. Che la merce abbia un valore d'uso, significa soltanto che soddisfa un bisogno sociale quale che sia. Finché non trattavamo che delle merci singole, potevamo supporre che il bisogno di una merce particolare — la cui quantità era già implicita nel prezzo — esistesse di fatto, senza indagare oltre sulla misura del bisogno da soddisfare. Ma questa misura assume un'importanza essenziale quando da un lato sta il prodotto di tutto un ramo di produzione, dall'altro il bisogno sociale. Sorge allora la necessità di considerare la misura, cioè la quantità, di questo bisogno sociale...

Le merci vengono acquistate o come mezzi di produzione o come mezzi di sussistenza — e qui non cambia nulla il fatto che molti generi di merci possano servire ad entrambi gli scopi —, per entrare o nel consumo produttivo o in quello individuale. Si ha quindi domanda di esse da parte dei produttori (in questo caso, dei capitalisti, poiché si suppone che i mezzi di produzione siano convertiti in capitale) e dei consumatori. Il presupposto di tutt'e due i casi sembra innanzitutto, dal lato della domanda, una data quantità di bisogni sociali, alla quale corrispondono dall'altro lato determinate quantità di prodotto sociale nei diversi rami di produzione...

Sembra perciò che dal lato della domanda stia un certa grandezza di bisogni sociali determinati, per soddisfare i quali occorre che esista sul mercato una determinata quantità di articoli. Ma la determinatezza quantitativa di questo bisogno è del tutto elastica e fluttuante...

I limiti entro i quali il bisogno di merci rappresentato sul mercato — la domanda — differisce quantitativamente dal bisogno sociale effettivo variano naturalmente assai per le diverse merci; intendo dire la differenza fra la quantità di merci richiesta e la quantità che si richiederebbe se i prezzi monetari della mercanzia o le altre condizioni economiche e di vita dei compratori fossero diversi.

Nulla è più facile da rilevare che gli squilibrii fra domanda ed offerta, e le deviazioni dei prezzi di mercato dai valori di mercato che ne conseguono. La vera difficoltà consiste nello stabilire che cosa si debba intendere per equilibrio fra domanda ed offerta.

Domanda ed offerta sono in equilibrio se il loro rapporto è tale che la massa di merci di un determinato ramo di produzione può vendersi al suo valore di mercato, né sopra né sotto. È la prima cosa che ci sentiamo dire.

La seconda è: se le merci sono vendibili al loro valore di mercato, ecco che domanda e offerta si compensano, sono in equilibrio.

Se domanda e offerta si compensano, cessano di operare e, appunto perciò, la merce si vende al suo valore di mercato...

In realtà, domanda ed offerta non coincidono mai o, se ciò avviene, è solo per caso; dunque, dal punto di vista scientifico, la loro coincidenza va posta = 0, deve ritenersi non accaduta. Eppure, nell'economia politica si suppone che esse coincidano. Perché? Da un lato, per poter studiare i fenomeni nella loro forma normale, corrispondente al loro concetto, dunque fuori dell'apparenza generata dal movimento di domanda ed offerta; dall'altro, per individuare la tendenza effettiva del loro movimento e, in qualche modo, fissarla. Le diseguaglianze sono infatti di natura antagonistica e, dato che seguono costantemente l'una all'altra, finiscono per compensarsi appunto in virtù delle loro opposte direzioni, del loro antagonismo. Se perciò domanda e offerta non coincidono in nessun caso singolo dato, le loro diseguaglianze si susseguono — e il risultato della deviazione in un senso è di provocarne un'altra in senso inverso — in modo che, considerando l'insieme di un periodo più o meno lungo, offerta e domanda costantemente si pareggiano, ma solo come media del movimento trascorso e solo come moto costante del loro antagonismo. Così i prezzi di mercato divergenti dai valori di mercato si livellano, ove se ne consideri il numero medio, sui valori di mercato, perché gli scarti in più e in meno da questi ultimi si elidono a vicenda. E, per il capitale, questo numero medio ha un'importanza non puramente teorica ma pratica, in quanto il suo investimento è calcolato in base alle oscillazioni e compensazioni su un arco di tempo più o meno preciso...

Se domanda ed offerta determinano il prezzo di mercato, il prezzo di mercato e, in ultima analisi, il valore di mercato determinano a loro volta domanda ed offerta. La cosa è evidente per la domanda, dato che quest'ultima si muove in senso opposto al prezzo; cresce se questo scende e viceversa. Ma lo è anche per l'offerta, dato che i prezzi dei mezzi di produzione incorporati nella merce offerta determinano la domanda di questi stessi mezzi, quindi anche l'offerta delle merci la cui offerta implica una domanda di tali mezzi di produzione...

A questa confusione — determinazione dei prezzi ad opera della domanda e dell'offerta e, parallelamente, determinazione della domanda e dell'offerta ad opera dei prezzi — si aggiunge la circostanza che l'offerta è determinata dalla domanda e, viceversa, la domanda dall'offerta, il mercato è determinato dalla produzione e, viceversa, la produzione dal mercato...

Domanda ed offerta presuppongono la trasformazione del valore in valore di mercato e, nella misura in cui si esercitano su base capitalistica, nella misura in cui le merci sono prodotti del capitale, presuppongono processi di produzione capitalistici, quindi rapporti ben altrimenti complicati che la pura e semplice compravendita delle merci. Si tratta nel loro caso non della metamorfosi formale del valore delle merci in prezzo, cioè di un mero mutamento di forma, ma delle determinate deviazioni quantitative dei prezzi di mercato dai valori di mercato, ed ancora dai prezzi di produzione. Nella semplice compravendita, è sufficiente avere dei produttori di merci che si contrappongono come tali. Ad un'analisi ulteriore, domanda ed offerta presuppongono l'esistenza delle diverse classi e frazioni di classi che si ripartiscono il reddito totale della società e lo consumano tra loro come reddito, che quindi formano la domanda generata dal reddito, mentre d'altra parte, per la comprensione della domanda e dell'offerta generate fra loro dai produttori in quanto tali, esse richiedono la conoscenza della struttura complessiva del processo di produzione capitalistico.

Nella produzione capitalistica non si tratta soltanto di ricavare, per la massa di valore gettata in forma merce nella circolazione, una eguale massa di valore in altra forma — sia di denaro, sia di altra merce —, ma di ricavare, per il capitale anticipato alla produzione, lo stesso plusvalore o profitto di ogni altro capitale della stessa grandezza, o pro rata della sua grandezza, in qualunque ramo di produzione sia impiegato; si tratta perciò di vendere le merci, come minimo, a prezzi che arrechino il profitto medio, cioè a prezzi di produzione. Il capitale prende in questa forma coscienza di sé come potenza sociale alla quale ogni capitalista partecipa in proporzione alla sua parte nel capitale sociale totale.

In primo luogo la produzione capitalistica, in sé e per sé, è indifferente allo specifico valore d'uso e, in generale, alla particolarità della merce che produce. In ogni sfera di produzione non le importa che di produrre plusvalore, di appropriarsi nel prodotto del lavoro una determinata quantità di lavoro non retribuito. Del pari, è nella natura del lavoro salariato soggetto al capitale d'essere indifferente al carattere specifico del proprio lavoro, di doversi trasformare secondo le esigenze del capitale e lasciarsi catapultare da una sfera di produzione all'altra.

In secondo luogo, una sfera di produzione vale in realtà quanto l'altra, non è né migliore né peggiore; ognuna produce lo stesso profitto, e nessuna avrebbe scopo se la merce da essa prodotta non soddisfacesse un bisogno sociale di qualunque specie.

Se però le merci si vendono al loro valore, nelle diverse sfere di produzione si originano, come si è spiegato, saggi di profitto diversi a seconda della diversa composizione organica delle masse di capitale in esse investite. Ma il capitale si ritira da una sfera con saggio di profitto basso e si getta sull'altra che ne produce uno più alto. Grazie a questo costante emigrare ed immigrare, insomma grazie alla sua ripartizione fra le diverse sfere a seconda che il saggio del profitto qui sale e là scende, esso genera un tale rapporto fra domanda ed offerta, che il profitto medio nelle diverse sfere di produzione diventa lo stesso, e quindi i valori si trasformano in prezzi di produzione. Questo livellamento riesce più o meno al capitale secondo il grado di sviluppo capitalistico di una data società nazionale; cioè, secondo che le condizioni del paese in oggetto si adattano al modo di produzione capitalistico. Con il progredire della produzione capitalistica se ne sviluppano anche le condizioni, ed essa sottomette l'insieme dei presupposti sociali nel cui ambito si svolge il processo di produzione al suo carattere specifico e alle sue leggi immanenti.

Il costante livellamento delle costanti diseguaglianze si compie in modo tanto più rapido, 1) quanto più è mobile il capitale, cioè quanto più è facile trasferirlo da una sfera e da una località ad altre, 2) quanto più rapidamente si può catapultare la forza lavoro da una sfera all'altra e da un punto locale di produzione all'altro...

Da quanto detto segue che ogni singolo capitalista, così come la totalità dei capitalisti di ogni particolare sfera di produzione, partecipa allo sfruttamento dell'insieme della classe lavoratrice ad opera del capitale totale, e al grado di questo sfruttamento, non solo per generale simpatia di classe, ma in modo direttamente economico, perché, se si suppongono date tutte le altre circostanze, fra cui il valore del capitale totale costante anticipato, il saggio medio di profitto dipende dal grado di sfruttamento del lavoro totale ad opera del capitale totale...

Da quanto detto segue che ogni singolo capitalista, così come la totalità dei capitalisti di ogni particolare sfera di produzione, partecipa allo sfruttamento dell'insieme della classe lavoratrice ad opera del capitale totale, e al grado di questo sfruttamento, non solo per generale simpatia di classe, ma in modo direttamente economico, perché, se si suppongono date tutte le altre circostanze, fra cui il valore del capitale totale costante anticipato, il saggio medio di profitto dipende dal grado di sfruttamento del lavoro totale ad opera del capitale totale...

Ogni particolare sfera del capitale ed ogni singolo capitalista hanno l'identico interesse per la produttività del lavoro sociale occupato dal capitale totale, perché da ciò dipende: 1) la massa dei valori d'uso in cui si esprime il profitto medio, il che è doppiamente importante, in quanto il profitto medio serve sia come fondo di accumulazione di nuovo capitale, sia come fondo di reddito per il consumo; 2) l'altezza di valore del capitale totale (costante e variabile) anticipato che, a grandezza data del plusvalore o del profitto dell'intera classe capitalistica, determina il saggio di profitto, ovvero il profitto su una determinata quantità di capitale. La particolare produttività in una particolare sfera, o in una particolare azienda di questa sfera, interessa solo i capitalisti che vi partecipano direttamente, in quanto permette alla singola sfera nei confronti del capitale totale, o al singolo capitalista nei confronti della propria sfera, di lucrare un sovraprofitto.

Si ha qui dunque la prova matematicamente esatta del perché i capitalisti, mentre si comportano da falsi fratelli nella loro concorrenza reciproca, costituiscono poi una vera e propria massoneria di fronte all'insieme della classe operaia.

Il prezzo di produzione include il profitto medio. Noi gli abbiamo dato il nome di prezzo di produzione; esso è in realtà la stessa cosa che A. Smith chiama natural price, Ricardo price of production e cost of production, i fisiocratici prix nécessaire — ma nessuno di essi ha svolto la differenza del prezzo di produzione dal valore —, perché è, alla lunga, condizione dell'offerta, della riproduzione della merce di ogni particolare sfera di produzionea. Si capisce anche perché gli stessi economisti che si ribellano alla determinazione del valore delle merci mediante il tempo di lavoro, mediante la quantità di lavoro in esse contenuto, parlino sempre dei prezzi di produzione come dei centri intorno ai quali oscillano i prezzi di mercato. Si possono permettere di farlo, perché il prezzo di produzione è una forma già del tutto alienata e prima facie aconcettuale del valore della merce, una forma così come appare nella concorrenza, quindi nella coscienza del capitalista volgare, e come è perciò anche presente in quella dell'economista volgare.

Capitolo XI

EFFETTI DI OSCILLAZIONI GENERALI DEL SALARIO SUI PREZZI DI PRODUZIONE

[Marx analizza gli effetti di un aumento del salario del 25% in rapporto ad una capitale di composizione media, inferiore e superiore alla media giungendo alle seguenti conclusioni:]

1) Per quanto concerne il capitale di composizione sociale media, il prezzo di produzione della merce [rimane] invariato;

2) Per quanto concerne il capitale di composizione inferiore, il prezzo di produzione della merce [aumenta], benché non nella stessa proporzione in cui è caduto il profitto;

3) Per quanto concerne il capitale di composizione superiore, il prezzo di produzione della merce [diminuisce], benché, anche qui, non nella stessa proporzione del profitto.

Poiché il prezzo di produzione delle merci del capitale medio è rimasto invariato, eguale al valore del prodotto, anche la somma dei prezzi di produzione dei prodotti di tutti i capitali è rimasta invariata, eguale alla somma dei valori prodotti dal capitale totale; l'aumento da un lato, la diminuzione dall'altro si compensano, per il capitale totale, al livello del capitale sociale medio... Un aumento dei prezzi di produzione da un lato, una loro diminuzione dall'altro, a seconda che il capitale non raggiunga la composizione sociale media o la superi, non è che l'effetto del livellamento al nuovo profitto medio ridotto...

Quale sarebbe ora l'effetto di una caduta generale del salario e della corrispondente ascesa generale del saggio di profitto, quindi dei profitti medi, sui prezzi di produzione delle merci prodotte da capitali che divergono in sensi opposti dalla composizione sociale media?... 

Una caduta generale del salario ha per conseguenza un aumento generale del plusvalore, del saggio di plusvalore e, a parità di condizioni, del saggio di profitto, anche se espresso in altra proporzione; una caduta dei prezzi di produzione per le merci prodotte da capitali di composizione inferiore alla media, e un aumento dei prezzi di produzione per le merci prodotte da capitali di composizione superiore. È proprio il risultato opposto a quello registrato in caso di aumento generale del salario. In entrambi i casi — sia aumento che diminuzione del salario —, si presuppone che la giornata lavorativa, e così pure i prezzi di tutti i mezzi di sussistenza necessari, rimangano costanti. Qui, dunque, la caduta del salario è possibile soltanto se la retribuzione stava in precedenza al disopra, o viene ribassata al disotto, del prezzo normale del lavoro...

[In nota Marx osserva:]

{È oltremodo singolare che Ricardo (il quale, naturalmente, procede in modo diverso da quanto avvenuto qui, perché non ha compreso il livellamento dei valori a prezzi di produzione), non abbia contemplato neppure una volta questa ipotesi, ma solo il primo caso, cioè l'aumento del salario e la sua influenza sui prezzi di produzione delle merci. E il servum pecus imitatorum, il gregge servile degli imitatori non si è spinto fino a compiere questa del tutto naturale e, in effetti, tautologica applicazione pratica.}

Va [...] qui osservato una volta per tutte:

Se l'aumento o la diminuzione del salario è l'effetto di una variazione di valore dei mezzi di sussistenza necessari, quanto detto sopra può subire una modifica nella sola misura in cui le merci la cui variazione di prezzo eleva o deprime il capitale variabile entrino pure come elementi costitutivi nel capitale costante, quindi non agiscano soltanto sul salario. Nella misura in cui tuttavia si limitano ad agire sul salario, lo sviluppo fin qui compiuto contiene tutto ciò che v'è da dire.

Capitolo XII

INTEGRAZIONI

1. Cause che determinano una variazione nel prezzo di produzione

Il prezzo di produzione di una merce può variare solo per due cause:

Primo. Varia il saggio generale di profitto. Ciò è possibile solo perché varia lo stesso saggio medio del plusvalore, ovvero, a saggio medio del plusvalore immutato, perché varia il rapporto fra la somma dei plusvalori appropriati e la somma del capitale sociale totale anticipato.

Una variazione del saggio di plusvalore, in quanto non poggi sulla compressione del salario al disotto, o sul suo aumento al disopra, del livello normale — e movimenti del genere vanno considerati solo come oscillatorii —, può verificarsi soltanto a causa di una caduta o di un'ascesa del valore della forza lavoro, l'una e l'altra impossibili senza un cambiamento nella produttività del lavoro che produce mezzi di sussistenza, quindi senza una variazione nel valore delle merci che entrano nel consumo dell'operaio.

Oppure varia il rapporto fra la somma del plusvalore appropriato e il capitale totale anticipato della società. Poiché qui la variazione non dipende dal saggio del plusvalore, deve dipendere dal capitale totale, e precisamente dalla sua parte costante. La massa di quest'ultima, considerata tecnicamente, cresce o decresce in rapporto alla forza lavoro acquistata dal capitale variabile, come pure la massa del suo valore cresce o decresce con l'aumento o la diminuzione della sua massa stessa; cresce dunque o decresce anche in rapporto alla massa di valore del capitale variabile. Se lo stesso lavoro mette in moto più capitale costante, il lavoro è divenuto più produttivo: inversamente se accade l'opposto. Si è dunque verificato un cambiamento nella produttività del lavoro, e un cambiamento deve essersi prodotto nel valore di date merci.

Per ambedue i casi vale perciò questa legge : se il prezzo di produzione di una merce varia in seguito a mutamento nel saggio generale di profitto, il suo valore può bensì essere rimasto immutato, ma un cambiamento di valore dev'essersi verificato in altre merci.

Secondo. Il saggio generale di profitto resta invariato. Il prezzo di produzione di una merce può allora cambiare solo perché è cambiato il suo valore; perché si richiede più o meno lavoro per riprodurla, sia che varii la produttività del lavoro che produce la stessa merce nella sua forma ultima, sia che varii la produttività del lavoro che produce le merci che entrano nella sua produzione...

Ogni variazione nel prezzo di produzione delle merci si risolve, in ultima istanza, in una variazione di valore, ma non ogni variazione del valore delle merci si esprime necessariamente in una variazione del prezzo di produzione, perché questo è determinato non soltanto dal valore della particolare merce, ma dal valore complessivo di tutte le merci. Ne segue che la variazione nella merce A può essere compensata da una variazione opposta nella merce B, in modo che il rapporto generale rimanga lo stesso.

2. Prezzo di produzione delle merci di composizione media

Si è visto come la deviazione dei prezzi di produzione dai valori tragga origine dal fatto che:

1) al prezzo di costo della merce viene aggiunto non il plusvalore in essa contenuto, ma il profitto medio;

2) il prezzo di produzione di una merce, così divergente dal valore, entra come elemento nel prezzo di costo di altre merci, cosicché già nel prezzo di costo di una merce può essere implicita una deviazione dal valore dei mezzi di produzione in essa consumati, a prescindere dalla deviazione che per essa stessa può verificarsi a causa della differenza fra profitto medio e plusvalore.

È perciò anche possibile che in merci prodotte da capitali di composizione media il prezzo di costo diverga dalla somma di valore degli elementi di cui si compone questa parte del loro prezzo di produzione...

Ma questa possibilità non cambia in nulla la giustezza di quanto sostenuto per le merci di composizione media. La quantità di profitto che tocca a queste merci è eguale al plusvalore in esse contenuto...

Se [...]i le merci si vendono ai loro reali valori, è chiaro che, a parità di condizioni, l'aumento o la diminuzione del salario provoca un aumento o una diminuzione corrispondenti del profitto, ma nessuna variazione nel valore delle merci, e che, in tutti i casi, l'aumento o la diminuzione del salario non può mai incidere sul valore delle merci, ma sempre soltanto sulla grandezza del plusvalore.

3. Motivi di composizione per il capitalista

La concorrenza livella i saggi di profitto delle diverse sfere di produzione al saggio medio di profitto e appunto così trasforma in prezzi di produzione i valori dei prodotti di quelle sfere diverse. E ciò avviene mediante un continuo travaso di capitale da una sfera all'altra in cui il profitto supera temporaneamente la media; dove però vanno considerate le oscillazioni del profitto connesse all'alternarsi di annate magre e grasse, così come si succedono sull'arco di un dato lasso di tempo in un dato ramo d'industria. L'incessante emigrare ed immigrare del capitale fra diverse sfere della produzione provoca movimenti di ascesa e discesa del saggio di profitto, che più o meno si compensano a vicenda e tendono perciò a ridurre dovunque il saggio di profitto al medesimo livello comune e generale...

Quello che la concorrenza non mostra è la determinazione del valore che domina il movimento della produzione; sono i valori che stanno dietro i prezzi di produzione e che, in ultima istanza, li determinano. La concorrenza mostra invece: 1) i profitti medi che sono indipendenti dalla composizione organica del capitale nelle diverse sfere della produzione, quindi anche dalla massa del lavoro vivo che un dato capitale si è appropriato in una data sfera di sfruttamento; 2) l'aumento e la diminuzione dei prezzi di produzione in seguito a variazioni nell'altezza del salario — fenomeno che a prima vista contraddice al rapporto di valore delle merci; 3) le oscillazioni dei prezzi di mercato che riducono il prezzo medio di mercato delle merci in un dato periodo di tempo non al valore di mercato, ma ad un ben diverso prezzo di produzione di mercato, che da quel valore di mercato diverge. Tutti questi fenomeni sembrano contraddire sia alla determinazione del valore mediante il tempo di lavoro, sia alla natura, consistente in pluslavoro non pagato, del plusvalore. Nella concorrenza, dunque, tutto appare capovolto. La forma finita dei rapporti economici, così come si manifesta in superficie, nella loro reale esistenza, e quindi anche le rappresentazioni in cui i depositari e gli agenti di questi rapporti cercano di venirne in chiaro, sono ben diverse dalla loro forma interna, profonda ed essenziale, ma nascosta, e dal concetto che vi corrisponde; ne sono in realtà il capovolgimento e l'antitesi.

Inoltre: non appena la produzione capitalistica abbia raggiunto un certo grado di sviluppo, il livellamento fra i diversi saggi di profitto delle singole sfere in un saggio generale di profitto non avviene più unicamente attraverso il gioco di attrazione e repulsione, in cui i prezzi di mercato attirano o respingono capitale. Dopo che i prezzi medi e i prezzi di mercato ad essi corrispondenti si sono per un certo periodo consolidati, entra nella coscienza2 dei singoli capitalisti il fatto che in tale livellamento si compensano determinate differenze, cosicché essi si affrettano ad inserirle nei loro calcoli reciproci. Esse vivono nella rappresentazione dei capitalisti, e vengono da questi messe in conto come motivi di compensazione.

La nozione fondamentale a questo proposito è lo stesso profitto medio, l'idea che capitali di pari grandezza debbano, nello stesso spazio di tempo, arrecare profitti di pari grandezza. Alla sua base sta, a sua volta, l'idea che il capitale di ogni sfera di produzione debba partecipare, pro rata della sua grandezza, al plusvalore totale estorto agli operai dal capitale sociale totale; ovvero che ogni particolare capitale debba considerarsi come una semplice frazione del capitale totale, e ogni capitalista, in realtà, come puro e semplice azionista dell'impresa complessiva, che partecipa al profitto totale pro rata dell'ammontare della sua quota di capitale.

Sezione III

LEGGE DELLA CADUTA TENDENZIALE DEL SAGGIO DI PROFITTO

Capitolo XIII
LA LEGGE IN QUANTO TALE

A salario e giornata lavorativa dati, un capitale variabile, per es. di 100, rappresenta un numero determinato di operai messi in moto; è l'indice di questo numero. Supponiamo per es. che ioo Lst. sia il salario per 100 operai, diciamo per una settimana. Se questi 100 operai eseguono tanto lavoro necessario, quanto pluslavoro; se dunque ogni giorno lavorano tanto tempo per sé, cioè per la riproduzione del loro salario, quanto per il capitalista, cioè per la produzione di plusvalore, il valore totale da essi prodotto sarebbe = 200 Lst. e il plusvalore da essi prodotto ammonterebbe a 100 Lst. Il saggio di plusvalore p/v sarebbe = 100%. Ma, come abbiamo visto, questo saggio di plusvalore si esprimerebbe in saggi di profitto assai diversi a seconda del volume del capitale costante c e quindi del capitale totale C, poiché il saggio di profitto è = p/C... 

Lo stesso saggio di plusvalore, a grado di sfruttamento del lavoro invariato, si esprimerebbe dunque in un saggio di profitto decrescente, perché con il suo volume materiale, benché non nella stessa proporzione, cresce pure la grandezza di valore del capitale costante, quindi del capitale totale.

Supponendo inoltre che questo graduale mutamento nella composizione del capitale non si verifichi soltanto in sfere di produzione isolate, ma più o meno in tutte, o almeno in quelle decisive; che dunque implichi mutamenti nella composizione organica media del capitale totale appartenente ad una determinata società, allora questo graduale aumento del capitale costante in rapporto al capitale variabile avrà necessariamente per risultato una graduale caduta del saggio generale di profitto pur restando invariato il saggio di plusvalore, ovvero il grado di sfruttamento de! lavoro da parte del capitale. Ora si è constatato, come legge del modo di produzione capitalistico, che al suo sviluppo si accompagna una diminuzione relativa del capitale variabile in rapporto al capitale costante, quindi al capitale totale messo in moto. Ciò significa soltanto che lo stesso numero di operai, la stessa quantità di forza lavoro resa disponibile da un capitale variabile di data grandezza di valore, grazie ai metodi di produzione peculiari che si sviluppano in seno alla produzione capitalistica mette in moto, aziona, consuma produttivamente nel medesimo tempo una massa sempre crescente di mezzi di lavoro, macchine e capitale fisso di ogni sorta, materie prime ed ausiliarie — quindi anche un capitale costante di grandezza di valore sempre crescente.

Questa progressiva diminuzione relativa del capitale variabile in rapporto al capitale costante e quindi al capitale totale equivale ad una composizione organica sempre più elevata del capitale sociale nella sua media. Nello stesso tempo, non è che un'altra espressione dell'incessante sviluppo della forza produttiva sociale del lavoro, la quale si manifesta appunto in ciò che, grazie a un impiego crescente di macchine e, in genere, di capitale fisso, lo stesso numero di operai trasforma in prodotti, nello stesso tempo e quindi con meno lavoro, una maggiore quantità di materie prime ed ausiliarie. A questa crescente grandezza di valore del capitale costante — ben lontana, tuttavia, dal rappresentare l'aumento nella massa effettiva dei valori d'uso di cui è materialmente composto il capitale costante — corrisponde un crescente ribasso di prezzo dei prodotti. Ogni prodotto individuale, preso a sé, contiene quindi una somma di lavoro minore che in stadi più bassi della produzione, nei quali la grandezza del capitale speso in lavoro è, proporzionalmente al capitale speso in mezzi di produzione, molto superiore...

La produzione capitalistica [...] genera, con la continua diminuzione relativa del capitale variabile in confronto al capitale costante, una composizione organica del capitale totale sempre più elevata, la cui conseguenza immediata è che il saggio di plusvalore, eguale restando e perfino crescendo il grado di sfruttamento del lavoro, si esprime in un saggio generale di profitto continuamente decrescente...

La tendenza progressiva alla diminuzione del saggio generale di profitto non è perciò che un'espressione, propria del modo di produzione capitalistico, dell'incessante sviluppo della produttività sociale del lavoro. Con ciò non si sostiene che il saggio di profitto non possa temporaneamente cadere anche per altre cause; ma dalla natura stessa del modo di produzione capitalistico si dimostra come necessità di per sé evidente che, nel suo procedere, il saggio medio generale del plusvalore si esprime in un saggio generale del profitto decrescente...

Per quanto, in base ai precedenti sviluppi, la legge appaia semplice, finora l'economia non è mai riuscita a scoprirla [...] Essa ha visto il fenomeno, e si è arrabattata in contraddittori tentativi di spiegarlo. Malgrado tuttavia la grande importanza che ha questa legge per la produzione capitalistica, si può dire che essa costituisca il mistero intorno alla cui soluzione ruota tutta l'economia politica dai tempi di Adam Smith, e che la differenza fra le diverse scuole da allora succedutesi consista nei diversi tentativi per risolverlo...

 La caduta del saggio di profitto esprime [...] il rapporto decrescente del plusvalore stesso al capitale totale anticipato, ed è perciò indipendente da qualsivoglia ripartizione di questo plusvalore fra diverse categorie....

La legge del saggio decrescente di profitto, in cui si esprime lo stesso o perfino un crescente saggio di plusvalore, significa in altre parole che, presa una quantità determinata, quale che essa sia, del capitale sociale medio, per es. un capitale di 100, una parte sempre maggiore di esso si rappresenta in mezzi di lavoro ed una sempre minore in lavoro vivo. Poiché dunque la massa complessiva del lavoro vivo applicato ai mezzi di produzione decresce in rapporto al valore di questi stessi mezzi di produzione, anche il lavoro non retribuito e la parte di valore in cui esso si rappresenta decrescono relativamente al valore del capitale totale anticipato. Ovvero: una aliquota sempre minore del capitale totale sborsato si converte in lavoro vivo, quindi questo capitale totale succhia, proporzionalmente alla sua grandezza, sempre meno pluslavoro, per quanto possa crescere nello stesso tempo il rapporto fra la parte non retribuita del lavoro impiegato e quella retribuita. La diminuzione proporzionale del capitale variabile e l'aumento proporzionale del capitale costante, benché entrambe le parti crescano in assoluto, non è, come si è detto, che un'altra espressione dell'aumentata produttività del lavoro...

La legge della caduta progressiva del saggio di profitto, o della diminuzione relativa del pluslavoro appropriato in confronto alla massa di lavoro oggettivato messa in moto dal lavoro vivo, non esclude affatto che la massa assoluta del lavoro messo in moto e sfruttato dal capitale sociale, quindi anche la massa assoluta del pluslavoro che esso si appropria cresca; non esclude neppure che i capitali sottoposti al comando dei singoli capitalisti comandino una massa crescente di lavoro e quindi di pluslavoro, quest'ultimo anche se non cresce il numero degli operai da essi comandati.

 Prendiamo una determinata popolazione operaia, per es. di due milioni; prendiamo inoltre come dati la lunghezza e l'intensità della giornata lavorativa media, il salario e, quindi, il rapporto fra lavoro necessario e pluslavoro. Tanto il lavoro totale di questi due milioni, quanto il loro pluslavoro, che si rappresenta nel plusvalore, producono sempre la stessa grandezza di valore. Ma, aumentando la massa del capitale costante — fisso e circolante — che mette in moto quel lavoro, decresce il rapporto fra questa grandezza di valore e il valore di quel capitale, valore che aumenta, benché non nella stessa proporzione con la sua massa. Tale rapporto, quindi il saggio di profitto, diminuisce, sebbene il capitale comandi la stessa massa di lavoro vivo e succhi la stessa massa di pluslavoro. Il rapporto varia non perché diminuisca la massa del lavoro vivo, ma perché aumenta la massa del lavoro già oggettivato che essa mette in moto. La diminuzione è relativa, non assoluta, e in realtà non ha nulla a che vedere con la grandezza assoluta del lavoro e del plus- lavoro messi in moto. La caduta del saggio di profitto non deriva da una diminuzione assoluta, ma da una diminuzione soltanto relativa della parte variabile del capitale totale, dalla sua diminuzione in confronto alla parte costante.

Quel che vale per una data massa di lavoro e di pluslavoro, vale per un numero crescente di operai, e quindi, nell'ipotesi data, per una massa crescente del lavoro comandato in genere e della sua parte non retribuita, il pluslavoro, in specie.

Se la popolazione operaia sale da 2 a 3 milioni, se allo stesso modo il capitale variabile pagato in salario, che prima era di due milioni, ora è di tre, mentre il capitale costante sale da 4 a 15, nell'ipotesi data (giornata lavorativa e saggio di plusvalore costanti) la massa del pluslavoro, del plusvalore, cresce della metà, del 50%, da 2 a 3 milioni. Ciononostante, malgrado questo aumento della massa assoluta del pluslavoro e quindi del plusvalore del 50%, il rapporto fra capitale variabile e costante cadrebbe da 2 : 4 a 3 : 15...

Mentre la massa del plusvalore è salita della metà, il saggio di profitto è caduto alla metà del livello precedente. Ma il profitto non è che il plusvalore calcolato sul capitale sociale; quindi la massa del profitto, la sua grandezza assoluta, considerata socialmente, è eguale alla grandezza assoluta del plusvalore. La grandezza assoluta del profitto, la sua massa totale, sarebbe quindi cresciuta del 50% malgrado l'enorme diminuzione nel rapporto fra questa massa di profitto e il capitale totale anticipato, ovvero malgrado l'enorme caduta del saggio generale di profitto. Dunque, il numero degli operai impiegati dal capitale, quindi la massa assoluta del lavoro messo in moto dal capitale, quindi la massa assoluta del pluslavoro da esso succhiato, quindi la massa del plusvalore da esso prodotto, quindi la massa assoluta del profitto da esso generato, possono crescere, e crescere progressivamente, malgrado la caduta progressiva del saggio di profitto. Non soltanto questo può avvenire; ma, sulla base della produzione capitalistica — a prescindere da oscillazioni temporanee — deve avvenire...

Il processo di produzione capitalistico è per essenza, nello stesso tempo, processo di accumulazione...

Con lo sviluppo della forza produttiva sociale del lavoro, cresce ancora di più la massa dei valori d'uso prodotti, di cui i mezzi di produzione costituiscono una parte...

Dalla natura del processo di accumulazione capitalistico — che è solo un aspetto del processo di produzione capitalistico — segue necessariamente che la massa accresciuta dei mezzi di produzione destinati ad essere convertiti in capitale trovi sempre a sua disposizione una popolazione sfruttabile cresciuta in proporzione e perfino in eccesso. Dunque, via via che si svolge il processo di produzione e d'accumulazione, la massa del pluslavoro suscettibile di accaparramento, ed effettivamente accaparrato, quindi la massa assoluta di profitto che il capitale sociale accaparra, devono aumentare. Ma le stesse leggi della produzione e dell'accumulazione esaltano in progressione crescente, insieme alla massa, il valore del capitale costante più rapidamente di quello della parte variabile del capitale, scambiata contro lavoro vivo. Le stesse leggi producono quindi, per il capitale sociale, una massa assoluta crescente di profitto e un saggio di profitto calante...

A popolazione operaia data, se aumenta il saggio di plusvalore, sia per prolungamento o intensificazione della giornata lavorativa, sia per riduzione di valore del salario in seguito a sviluppo della produttività del lavoro, la massa del plusvalore e quindi la massa assoluta del profitto devono crescere, malgrado la diminuzione relativa del capitale variabile in rapporto al capitale costante.

Lo stesso sviluppo della forza produttiva del lavoro sociale, le stesse leggi che si traducono nella diminuzione relativa del capitale variabile rispetto al capitale totale e nell'accumulazione in tal modo accelerata, mentre d'altro lato l'accumulazione diviene per reazione il punto di partenza di un ulteriore sviluppo della produttività e di un'ulteriore diminuzione relativa del capitale variabile, lo stesso sviluppo si esprime, prescindendo da oscillazioni temporanee, nell'aumento crescente della forza lavoro complessiva impiegata, nell'aumento crescente della massa assoluta del plusvalore e quindi del profitto...

Le stesse cause che provocano una diminuzione assoluta del plusvalore e quindi del profitto su un capitale dato, quindi anche del saggio di profitto calcolato in percento, generano un aumento nella massa assoluta del plusvalore e quindi del profitto che il capitale sociale (cioè l'insieme dei capitalisti) si appropria...

Con la diminuzione relativa del capitale variabile, quindi con lo sviluppo della produttività sociale del lavoro, per mettere in moto la stessa quantità di forza lavoro e succhiare la stessa massa di pluslavoro è necessaria una massa sempre crescente di capitale totale. Perciò, nella stessa proporzione in cui si sviluppa la produzione capitalistica, si sviluppa la possibilità di una popolazione operaia relativamente soprannumeraria, non perché la forza produttiva del lavoro sociale diminuisca, ma perché aumenta3, non, dunque, a causa di una sproporzione assoluta fra lavoro e mezzi di sussistenza, o mezzi per la produzione di questi mezzi di sussistenza, ma a causa di una discrepanza, causata dallo sfruttamento capitalistico del lavoro, fra l'aumento crescente del capitale e la diminuzione relativa del suo bisogno di popolazione crescente...

e il saggio di profitto cade del 50%, cade della metà. Ne segue che, perché la massa del profitto rimanga immutata, il capitale deve raddoppiarsi. Perché la massa del profitto non cambi diminuendo il saggio di profitto, il moltiplicatore che indica l'aumento del capitale totale dev'essere eguale al divisore che indica la caduta del saggio di profitto...

Lo stesso sviluppo della produttività sociale del lavoro si esprime, progredendo il modo di produzione capitalistico, in una tendenza alla caduta progressiva del saggio di profitto e, d'altro lato, in un aumento costante della massa assoluta del plusvalore o profitto accaparrato; cosicché, nell'insieme, alla diminuzione relativa del capitale variabile e del profitto corrisponde un aumento assoluto di entrambi. Questo duplice effetto può rappresentarsi, come si è mostrato, solo in un aumento del capitale totale in progressione più rapida di quella in cui discende il saggio di profitto. Per impiegare un capitale variabile aumentato in assoluto, data una più alta composizione del capitale o un più forte aumento relativo del capitale costante, il capitale totale deve crescere non solo proporzionalmente alla composizione elevatasi, ma ancora più in fretta. Ne segue che, più si sviluppa il modo di produzione capitalistico, una maggiore quantità di capitale è necessaria per impiegare la stessa forza lavoro, e ancora di più per impiegarne una crescente. Su base capitalistica, la produttività crescente del lavoro produce quindi di necessità una sovrapopolazione operaia apparente permanente...

Incapace di spiegare la legge della caduta del saggio di profitto, l'economia politica ha finora presentato la massa di profitto crescente, l'aumento della grandezza assoluta del profitto, sia per il capitalista singolo, sia per il capitale sociale, come una specie di motivo di conforto, che però si basa su puri e semplici luoghi comuni e possibilità.

Che la massa del profitto sia determinata da due fattori, primo il saggio di profitto, secondo la massa del capitale impiegato a questo saggio di profitto, non è che una tautologia. Che perciò la massa del profitto possa aumentare benché il saggio di profitto contemporaneamente diminuisca, non è che un'espressione di questa tautologia e non aiuta a fare un passo avanti, perché è altrettanto possibile che il capitale aumenti senza che aumenti la massa del profitto, e che possa perfino crescere ancora mentre essa decresce...

se le stesse cause che provocano la caduta del saggio di profitto favoriscono l'accumulazione, cioè la formazione di capitale addizionale, e se ogni capitale addizionale mette in moto lavoro addizionale e produce plusvalore addizionale; se d'altra parte la semplice riduzione del saggio di profitto implica che il capitale costante e quindi tutto il vecchio capitale sia cresciuto, allora l'intero processo cessa di apparire misterioso...

La legge che alla caduta del saggio di profitto in seguito ad aumento della produttività si accompagna un aumento nella massa del profitto, si esprime anche nel fatto che alla caduta del prezzo delle merci prodotte dal capitale si accompagna un aumento relativo delle masse di profitto che esse contengono, e che si realizzano mediante la loro vendita.

Poiché lo sviluppo della produttività e la più elevata composizione del capitale che vi corrisponde mettono in moto una quantità sempre maggiore di mezzi di produzione con una sempre minore quantità di lavoro, ogni aliquota del prodotto totale, ogni singola merce o quantità determinata della massa complessiva delle merci prodotte, assorbe meno lavoro vivo e contiene inoltre meno lavoro oggettivato, sia nell'usura del capitale fisso impiegato, sia nelle materie prime e ausiliarie consumate : ogni singola merce contiene perciò una somma minore di lavoro oggettivato in mezzi di produzione e aggiunto ex novo durante la produzione. Si ha quindi diminuzione di prezzo della merce singola. La massa di profitto contenuta nella singola merce può tuttavia aumentare, se aumenta il saggio assoluto o relativo di plusvalore. La merce singola contiene meno lavoro aggiunto ex novo, ma la parte di esso non pagata cresce in rapporto a quella pagata. Così avviene, però, solo entro dati limiti. Con la diminuzione assoluta — che si verifica in grado enormemente superiore via via che la produzione si sviluppa — della somma di lavoro vivo aggiunto ex novo nella merce singola, decresce anche in assoluto la massa di lavoro non pagato che la merce contiene, per quanto essa sia cresciuta relativamente, cioè in rapporto alla parte pagata. La massa del profitto su ogni singola merce diminuisce sensibilmente con lo sviluppo della produttività del lavoro, benché il saggio di plusvalore aumenti; e questa diminuzione, esattamente come la caduta del saggio di profitto, è solo rallentata dal ribasso di prezzo degli elementi del capitale costante, e dalle altre circostanze, esposte nella prima sezione di questo Libro, che, a saggio di plusvalore dato e perfino calante, elevano il saggio di profitto.

Che diminuisca il prezzo delle singole merci della cui somma si compone il prodotto complessivo del capitale, non significa se non che una data quantità di lavoro si realizza in una massa più grande di merci; che, quindi, ogni singola merce contiene meno lavoro di prima. È questo il caso anche se aumenta il prezzo di una delle parti del capitale costante, materie prime, etc. Eccettuati casi singoli (per es. quando la produttività del lavoro rende uniformemente meno cari tutti gli elementi sia del capitale costante, che del capitale variabile), il saggio di profitto cadrà, nonostante l'aumento del saggio di plusvalore, i) perché anche una maggior quota non pagata della somma totale diminuita di lavoro aggiunto ex novo è più piccola di quanto non fosse una minor quota non pagata della somma totale più grande, 2) perché nella merce singola la più elevata composizione del capitale si esprime nella diminuzione della sua parte di valore in cui si rappresenta lavoro aggiunto ex novo rispetto alla parte di valore che si rappresenta in materie prime, materie ausiliarie ed usura del capitale fisso. Questo cambiamento nella proporzione dei diversi elementi del prezzo della merce singola — la diminuzione della parte di prezzo che rappresenta lavoro vivo aggiunto ex novo e l'aumento delle parti di prezzo che rappresentano lavoro precedentemente oggettivato — è la forma sotto la quale si esprime, nel prezzo della singola merce, la diminuzione del capitale variabile in rapporto al capitale costante...

Se la produttività dell'industria cresce, il prezzo della merce singola decresce. Essa contiene meno lavoro, meno lavoro pagato e non pagato. Se per es. lo stesso lavoro produce tre volte tanto, per ogni prodotto vi saranno — in meno di lavoro. E poiché il profitto può costituire soltanto una parte di questa massa di lavoro contenuta nella merce singola, la massa del profitto per unità di merce deve diminuire — entro certi limiti, anche se aumenta il saggio di plusvalore. In ogni caso, la massa del profitto sul prodotto totale non cadrà al disotto della massa di profitto originaria, ove il capitale impieghi, a pari grado di sfruttamento, lo stesso numero di operai. (O se impiega meno operai a grado di sfruttamento superiore). Infatti, nella stessa proporzione in cui diminuisce la massa del profitto sul prodotto singolo, cresce il numero dei prodotti. La massa del profitto non cambia; solo si distribuisce diversamente sulla somma delle merci, cosa che, d'altra parte, non cambia nulla alla ripartizione fra operai e capitalisti del quantum di valore prodotto dal lavoro aggiunto ex novo. Dato che si impieghi la stessa massa di lavoro, la massa del profitto può aumentare solo se aumenta il plusvalore non pagato o, a grado costante di sfruttamento del lavoro, solo se cresce il numero degli operai. Oppure, se i due fattori si combinano. In tutti questi casi — che però, stando all'ipotesi, presuppongono aumento del capitale costante rispetto al variabile e grandezza crescente del capitale totale impiegato —, la singola merce contiene una massa di profitto minore e il saggio di profitto diminuisce anche se calcolato sulla merce singola; poiché una data quantità di lavoro addizionale si rappresenta in una quantità di merci maggiore, il prezzo della singola merce decresce. In astratto, se, in seguito ad aumento della produttività del lavoro, il prezzo della merce singola cala, e se perciò, nello stesso tempo, cresce il numero di queste merci a prezzo ridotto, il saggio di profitto può restare invariato, per es., qualora l'aumento della produttività agisca contemporaneamente e in modo uniforme su tutte le parti costitutive delle merci, cosicché il prezzo complessivo della merce scenda nella stessa proporzione in cui è cresciuta la produttività del lavoro e, d'altra parte, rimanga invariato il reciproco rapporto fra i diversi elementi di prezzo della merce. Il saggio di profitto potrebbe aumentare perfino se all'aumento del saggio di plusvalore si collegasse una sensibile diminuzione di valore degli elementi del capitale costante, soprattutto del capitale fisso. In realtà, come si è visto, alla lunga il saggio di profitto deve cadere. In nessun caso la sola diminuzione di prezzo della singola merce permette di giungere ad una conclusione sul saggio di profitto: tutto dipende dall'entità del capitale totale investito nella sua produzione...

Il fenomeno, derivante dalla natura del modo di produzione capitalistico, per cui, aumentando la produttività del lavoro, il prezzo della merce individuale o di una data quota di merci decresce, il numero delle merci aumenta, la massa di profitto sulla singola merce e il saggio di profitto sulla somma delle merci diminuiscono, ma la massa di profitto sul totale delle merci aumenta — questo fenomeno non rappresenta, in superfìcie, se non : diminuzione della massa del profitto sulla singola merce, caduta del suo prezzo, aumento della massa del profitto sul numero maggiore di merci complessivamente prodotte dal capitale totale della società o anche dal singolo capitalista. La cosa viene allora interpretata nel senso che il capitalista grava a suo arbitrio la merce singola di meno profitto, ma se ne ripaga grazie al maggior numero di merci prodotte...

Poiché nella concorrenza tutto si presenta in una luce distorta, anzi si presenta capovolto, il capitalista individuale può immaginarsi: i) di ridurre il proprio profitto sulla singola merce ribassandone il prezzo, ma di ottenere un più alto profìtto grazie alla maggior quantità delle merci vendute; 2) di stabilire il prezzo della merce singola e poi determinare per moltiplicazione il prezzo del prodotto totale, mentre il processo originario è quello della divisione[...] e la moltiplicazione è giusta solo in seconda istanza, cioè in base al presupposto di quella divisione. In realtà, l'economista volgare non fa che tradurre in un linguaggio in apparenza più teorico e generalizzatore le bizzarre rappresentazioni dei capitalisti irretiti nelle maglie della concorrenza, e ingegnarsi a costruirne l'esattezza.

In effetti, la caduta dei prezzi delle merci e l'aumento della massa del profitto sulla quantità cresciuta delle merci diventate meno care non è se non una diversa espressione della legge della caduta del saggio di profitto parallela all'ascesa della massa del profitto.

Capitolo XIV

CAUSE CONTRASTANTI

Se si considera l'enorme sviluppo delle forze produttive del lavoro sociale, anche solo negli ultimi trent'anni, rispetto ad ogni periodo precedente; se si considera, in particolare, l'enorme massa di capitale fisso che, oltre al macchinario in senso proprio, entra nell'insieme del processo di produzione sociale, invece della difficoltà in cui finora si sono dibattuti gli economisti di spiegare la caduta del saggio di profitto sorge la difficoltà opposta, quella di spiegare perché questa caduta non sia più forte o più rapida. Devono qui essere in gioco influenze antagonistiche, che contrastano o neutralizzano l'azione della legge generale, dandole solo il carattere di una tendenza; motivo per cui, anche, abbiamo designato la caduta del saggio generale di profitto come caduta tendenziale. Le più generali di queste cause sono le seguenti:

i. Aumento del grado di sfruttamento del lavoro

Ad elevare il grado di sfruttamento del lavoro, l'appropriazione di pluslavoro e di plusvalore, sono soprattutto il prolungamento della giornata lavorativa e l'intensificazione del lavoro...

La massa di plusvalore fornita da un capitale di data grandezza è il prodotto di due fattori: il saggio di plusvalore, moltiplicato per il numero di operai occupati al saggio dato Dipende quindi, a saggio di plusvalore dato, dal numero di operai e, a numero di operai dato, dal saggio di plusvalore; dunque, in generale, dal rapporto composto fra la grandezza assoluta del capitale variabile e il saggio di plusvalore. Ora si è visto che, nella media, le stesse cause che elevano il saggio del plusvalore relativo riducono la massa della forza lavoro impiegata. È però chiaro che qui, a seconda del rapporto determinato in cui si compie questo movimento antagonistico, interviene un più o un meno, e che la tendenza alla diminuzione del saggio di profitto viene in particolare indebolita dall'aumento del saggio del plusvalore assoluto, risultante dal prolungamento della giornata lavorativa...

L'aumento del saggio di plusvalore — poiché, in particolare, esso si verifica anche in circostanze in cui, come precedentemente esposto, non ha luogo nessun aumento, o nessun aumento relativo, del capitale costante rispetto al variabile — è un fattore che concorre a determinare la massa del plusvalore, quindi anche il saggio di profitto. Non annulla la legge generale, ma fa sì che agisca più come tendenza, cioè come legge la cui attuazione completa è frenata, ritardata, indebolita, da circostanze antagonistiche. Ma poiché le medesime cause che elevano il saggio di plusvalore (lo stesso prolungamento del tempo di lavoro è un risultato della grande industria) tendono a ridurre la forza lavoro impiegata da un dato capitale, esse tendono parimenti ad abbassare il saggio di profitto e a rallentare il movimento di questo ribasso...

2. Diminuzione del compenso del lavoro al disotto del suo valore

Questo caso viene indicato solo empiricamente, perché in realtà, come molti altri casi che qui si dovrebbero menzionare, non ha nulla a che vedere con l'analisi generale del capitale, ma rientra nell'illustrazione, non svolta in questo libro, della concorrenza. È però una delle cause più importanti che frenano la tendenza alla caduta del saggio di profitto.

3. Ribasso di prezzo degli elementi del capitale costante

[...] Il medesimo sviluppo che accresce la massa del capitale costante rispetto al variabile, in seguito all'aumentata produttività del lavoro riduce il valore dei suoi elementi; quindi impedisce al valore del capitale costante, benché aumenti di continuo, di crescere nella stessa proporzione del suo volume materiale, cioè del volume materiale dei mezzi di produzione che la stessa quantità di forza lavoro mette in moto. In casi singoli, la massa degli elementi del capitale costante può persino aumentare mentre il suo valore rimane invariato, o diminuisce.

4. La sovrapopolazione relativa

La sua creazione è inseparabile dallo sviluppo della forza produttiva del lavorò, che si esprime nella caduta del saggio di profitto, e ne è accelerata. La sovrapopolazione relativa è tanto più appariscente in un paese, quanto più vi è sviluppato il modo di produzione capitalistico. Da un lato essa ha per effetto che, in molti rami di produzione, il processo di sussunzione più o meno incompleta del lavoro sotto il capitale continui, e si prolunghi più di quanto non comporti a prima vista lo stadio generale dello sviluppo; conseguenza, questa, della diminuzione di prezzo e dell'abbondanza di operai salariati disponibili, o messi in libertà, e della maggiore resistenza che, per la loro natura, molti rami di produzione oppongono alla trasformazione del lavoro manuale in lavoro meccanico. D'altro lato, si aprono nuovi rami di produzione, anche in particolare per il consumo di lusso, che prendono appunto a base la popolazione relativa spesso « liberata » dal prevalere del capitale costante in altri rami, poggiano a loro volta sul predominio dell'elemento del lavoro vivo, e solo a poco a poco percorrono la stessa parabola degli altri rami di produzione. In tutt'e due i casi il capitale variabile occupa una proporzione notevole del capitale totale e il salario sta al disotto della media, cosicché in questi rami di produzione tanto il saggio, quanto la massa del plusvalore sono eccezionalmente elevati. Dato che il saggio generale di profitto si forma grazie al livellamento dei saggi di profitto nei particolari rami di produzione, anche qui la medesima causa che provoca la tendenza alla caduta del saggio di profitto genera un contrappeso a questa tendenza, che, più o meno, ne paralizza l'azione.

5. Il commercio estero

Nella misura in cui rende più a buon mercato sia gli elementi del capitale costante, sia i mezzi di sussistenza necessari in cui si converte il capitale variabile, il commercio estero agisce nel senso di elevare il saggio di profitto, aumentando il saggio di plusvalore e diminuendo il valore del capitale costante. Agisce, in generale, in questo senso perché consente di allargare la scala della produzione. Così, da un lato, accelera l'accumulazione, ma dall'altro accelera anche la diminuzione del capitale variabile rispetto al costante, e perciò la caduta del saggio di profitto....

Le medesime cause alle quali si deve la caduta del saggio generale di profitto provocano reazioni che ostacolano, rallentano e in parte paralizzano questa caduta. Non sopprimono la legge, ma ne indeboliscono l'azione. Se così non fosse, sarebbe incomprensibile non la caduta del saggio generale di profitto, ma, viceversa, la lentezza relativa di questa caduta. Perciò la legge agisce solo come tendenza la cui azione non si manifesta nettamente che in date circostanze e nel lungo periodo...

6. L'aumento del capitale azionario

Con il progredire della produzione capitalistica, che va di pari passo con una accumulazione accelerata, una parte del capitale viene calcolata ed impiegata solo come capitale produttivo di interesse. E non nel senso che ogni capitalista il quale dà a prestito del capitale si accontenti degli interessi, mentre il capitalista industriale intasca l'utile d'intrapresa [...], ma nel senso che, dedotte tutte le spese, questi capitali, benché investiti in grandi imprese produttive, non fruttano che grandi o piccoli interessi, o, come si chiamano, dividendi. Per es. nelle ferrovie. Essi non entrano nel livellamento del saggio generale del profitto, perché forniscono un saggio di profitto inferiore alla media. Se vi entrassero, il saggio medio di profitto scenderebbe ancora di più. In teoria se ne potrebbe tener conto, ma così si otterrebbe un saggio di profitto inferiore a quello che apparentemente esiste e che, per i capitalisti, è veramente decisivo, poiché appunto in quelle imprese il capitale costante raggiunge, in rapporto al capitale variabile, la grandezza maggiore.

Capitolo XV

SVILUPPO DELLE CONTRADDIZIONI INTRINSECHE DELLA LEGGE

1. Generalità

Caduta del saggio di profitto e accumulazione accelerata non sono che espressioni diverse del medesimo processo, nella misura in cui esprimono entrambe lo sviluppo della forza produttiva del lavoro. Da parte sua, l'accumulazione accelera la caduta del saggio di profitto in quanto implica la concentrazione dei lavori su grande scala, e quindi una più alta composizione organica del capitale. D'altro lato, la caduta del saggio di profitto accelera a sua volta la concentrazione del capitale e la sua centralizzazione mediante l'espropriazione dei più piccoli capitalisti e degli ultimi resti di produttori immediati presso i quali vi sia ancora qualcosa da espropriare. Ma così si accelera pure, quanto alla massa, l'accumulazione, anche se con il saggio di profitto anche il saggio di accumulazione diminuisce.

D'altra parte, nella misura in cui il saggio di valorizzazione del capitale totale, il saggio di profitto, è il pungolo della produzione capitalistica (così come la valorizzazione del capitale ne è l'unico scopo), la sua caduta rallenta la formazione di nuovi capitali indipendenti, e così appare come una minaccia per lo sviluppo del processo di produzione capitalistico; favorisce la sovrapproduzione, la speculazione, le crisi, l'eccesso di capitale accanto all'eccesso di popolazione...

Il conseguimento del plusvalore costituisce il processo di produzione immediato, che, come si è detto, non trova davanti a sé altra barriera che quella sopra indicata. Il plusvalore è prodotto non appena la quantità di pluslavoro che si può estorcere si sia oggettivata in merci. Ma, con questa produzione del plusvalore, è finito solo il primo atto del processo di produzione capitalistico, il processo di produzione immediato. Il capitale ha assorbito una data quantità di lavoro non pagato. Sviluppandosi il processo che si esprime nella caduta del saggio di profitto, la massa del plusvalore così prodotto si gonfia a dismisura. Ha allora inizio il secondo atto del processo. L'intera massa di merci, il prodotto totale, sia la frazione che costituisce il capitale costante e variabile, sia quella che rappresenta il plusvalore, dev'essere venduta. Se ciò non avviene, o avviene solo in parte, o soltanto a prezzi inferiori ai prezzi di produzione, l'operaio allora è bensì sfruttato, ma il suo sfruttamento non si realizza come tale per il capitalista, può non collegarsi ad alcuna realizzazione (o collegarsi ad una realizzazione soltanto parziale) del plusvalore estorto, e perfino collegarsi ad una perdita parziale o completa del suo capitale.

Le condizioni dello sfruttamento immediato e quelle della sua realizzazione non si identificano; divergono non solo quanto a tempo e a spazio, ma anche dal punto di vista concettuale. Le une sono unicamente limitate dalla forza produttiva della società, le altre dalla proporzionalità dei diversi rami di produzione e dal potere di consumo della società. Ma quest'ultimo non è determinato né dalla forza produttiva assoluta, né dal potere assoluto di consumo, bensì dal potere di consumo sulla base di rapporti di distribuzione antagonistici, che riduce il consumo delle grandi masse della società ad un minimo variabile solo entro confini più o meno ristretti. È inoltre limitato dalla spinta all'accumulazione, all' aumento del capitale e alla produzione di plusvalore su scala allargata. È questa, per la produzione capitalistica, una legge determinata dalle continue rivoluzioni nei metodi di produzione stessi, dalla svalorizzazione che vi si ricollega di continuo del capitale esistente, dalla lotta generale di concorrenza, e dalla necessità di migliorare la produzione ed estenderne la scala, anche solo come mezzo di conservazione e pena la rovina.

Il mercato deve perciò essere costantemente allargato, cosicché i suoi nessi interni e le condizioni che li regolano assumono sempre più la forma di una legge naturale indipendente dai produttori, diventano sempre più incontrollabili. La contraddizione interna cerca di compensarsi estendendo il campo esterno della produzione. Ma quanto più la forza produttiva si sviluppa, tanto più entra in conflitto con la base angusta sulla quale poggiano i rapporti di consumo...

Se, come si è mostrato, un saggio di profitto calante coincide con una massa di profitto crescente, il capitalista si appropria una parte maggiore del prodotto annuo del lavoro sotto la categoria del capitale (a reintegrazione di capitale consumato) e una parte relativamente minore sotto la categoria del profitto...

D'altronde, la massa del profitto cresce, anche a saggio più basso, con la grandezza del capitale sborsato. Ciò tuttavia determina nello stesso tempo concentrazione del capitale, dato che ora le condizioni di produzione esigono l'impiego in massa di capitale. Determina egualmente la centralizzazione di quest'ultimo, cioè l'inghiottimento dei piccoli capitalisti ad opera dei grandi e la loro decapitalizzazione Una volta di più, non si tratta che della separazione, ma alla seconda potenza, delle condizioni di lavoro dai produttori, ai quali questi più piccoli capitalisti appartengono perché in essi il lavoro personale recita ancora una sua parte; in genere, infatti, il lavoro del capitalista sta in ragione inversa alla grandezza del suo capitale, cioè al grado in cui egli è capitalista. È in questa separazione fra condizioni del lavoro qui e produttori là, che risiede il concetto di capitale; essa ha inizio con l'accumulazione originaria (Libro I, capitolo XXIV), appare poi come processo costante nell'accumulazione e concentrazione del capitale, e qui finalmente si esprime come centralizzazione in poche mani di capitali già esistenti e decapitalizzazione (in ciò si trasforma ora l'espropriazione) di molti. Questo processo porterebbe rapidamente al crollo la produzione capitalistica, se accanto alla forza centripeta tendenze contrastanti non agissero continuamente in senso centrifugo.

2. Conflitto fra estensione della produzione e valorizzazione

Lo sviluppo della forza produttiva sociale del lavoro si manifesta in due modi : prima di tutto, nel volume delle forze produttive già prodotte, del valore e della massa delle condizioni di produzione nelle quali avviene la nuova produzione, e nella grandezza assoluta del capitale produttivo già accumulato; in secondo luogo, nella relativa esiguità della parte di capitale sborsata in salario rispetto al capitale totale, cioè nella relativa esiguità del lavoro vivo richiesto per la riproduzione e la valorizzazione di un dato capitale, per la produzione di massa. Ciò presuppone, nello stesso tempo, concentrazione del capitale.

Per quanto riguarda la forza lavoro impiegata, lo sviluppo della produttività si manifesta egualmente in due modi : prima di tutto, nell'aumento del pluslavoro, cioè nella riduzione del tempo di lavoro necessario richiesto per la riproduzione della forza lavoro; in secondo luogo, nella diminuzione della quantità di forza lavoro (numero di operai) impiegata in generale per mettere in moto un dato capitale.

I due movimenti non solo vanno di pari passo, ma si condizionano a vicenda, sono fenomeni in cui si esprime la medesima legge. Agiscono però in senso opposto sul saggio di profitto. La massa totale del profitto è eguale alla massa totale del plusvalore; il saggio di profitto è = p/C = plusvalore/capitale totale anticipato

Ma il plusvalore è determinato, come importo totale, primo dal suo saggio, secondo dalla massa del lavoro contemporaneamente impiegato a questo saggio, ovvero, il che è lo stesso, dalla grandezza del capitale variabile. Da un lato uno dei fattori, il saggio di plusvalore, aumenta; dall'altro il secondo fattore, il numero degli operai, diminuisce (relativamente o in assoluto). Nella misura in cui lo sviluppo della produttività riduce la parte retribuita del lavoro impiegato, accresce il plusvalore perché ne eleva il saggio; in quanto però riduce la massa totale del lavoro impiegato da un dato capitale, riduce anche il fattore del numero per il quale si moltiplica il saggio del plusvalore per ricavarne la massa...

Contemporaneamente alle spinte verso l'aumento effettivo della popolazione operaia, emananti dall'aumento della parte del prodotto sociale totale che funziona come capitale, agiscono i fattori che generano una sovrapopolazione soltanto relativa.

Contemporaneamente alla caduta del saggio di profitto cresce la massa dei capitali, e le si accompagna una svalorizzazione del capitale esistente che frena questa caduta e dà un impulso accelerante all'accumulazione di valore capitale.

Contemporaneamente allo sviluppo della forza produttiva si sviluppa una più alta composizione del capitale, una diminuzione relativa della parte variabile rispetto alla parte costante.

Queste diverse influenze si fanno valere ora più simultaneamente nello spazio, ora più successivamente nel tempo; periodicamente, il conflitto tra i fattori contrastanti esplode in crisi. Le crisi sono sempre soluzioni violente solo temporanee delle contraddizioni esistenti, eruzioni violente che ristabiliscono per il momento l'equilibrio turbato.

Espressa in termini affatto generali, la contraddizione consiste in ciò, che il modo di produzione capitalistico racchiude una tendenza allo sviluppo assoluto delle forze produttive, a prescindere dal valore e dal plusvalore in esso incluso, e a prescindere anche dai rapporti sociali nel cui ambito si svolge la produzione capitalistica; mentre d'altro lato ha come scopo la conservazione del valore capitale esistente e la sua valorizzazione nella misura estrema (l'aumento sempre accelerato di questo valore). Il suo carattere specifico è di servirsi del valore capitale esistente come mezzo per la valorizzazione massima possibile di questo valore. I metodi con cui essa raggiunge questo risultato comprendono : la diminuzione del saggio di profitto, la svalorizzazione del capitale esistente e lo sviluppo delle forze produttive del lavoro a spese delle forze produttive già prodotte.

La svalorizzazione periodica del capitale esistente, che è un mezzo immanente del modo di produzione capitalistico per frenare la caduta del saggio di profitto e accelerare l'accumulazione di valore capitale mediante formazione di nuovo capitale, turba le condizioni date in cui si svolge il processo di circolazione e riproduzione del capitale, ed è quindi accompagnata da improvvisi arresti e crisi del processo produttivo.

La diminuzione del capitale variabile in rapporto al capitale costante, che va di pari passo con lo sviluppo delle forze produttive, dà impulso all'aumento della popolazione operaia, mentre crea di continuo una sovrapopolazione artificiale. L'accumulazione del capitale, considerata secondo il valore, viene rallentata dalla caduta del saggio di profitto, per accelerare ulteriormente l'accumulazione del valore d'uso; a sua volta, questa dà all'accumulazione considerata quanto al valore un ritmo accelerato.

La produzione capitalistica tende incessantemente a superare questi suoi limiti immanenti, ma li supera solo con mezzi che le contrappongono di nuovo, e su scala più imponente, questi stessi limiti.

Il vero limite della produzione capitalistica è il capitale stesso, è il fatto che il capitale e la sua autovalorizzazione appaiono come punto di partenza e come punto di arrivo, come movente e come fine della produzione; il fatto che la produzione è soltanto produzione per il capitale e non, inversamente, i mezzi di produzione sono puri e semplici mezzi per una espansione sempre più diversificata e completa del processo di vita per la società 1 dei produttori. I confini entro i quali soltanto può muoversi la conservazione e valorizzazione del valore capitale, poggiante sull'espropriazione e l'immiserimento della grande massa dei produttori, entrano perciò continuamente in conflitto con i metodi di produzione che il capitale deve utilizzare per i suoi scopi, e che tendono ad un aumento illimitato della produzione, alla produzione come fine in sé, all'incondizionato sviluppo delle forze produttive sociali — entrano in permanente conflitto con il fine angusto della valorizzazione del capitale esistente. Se perciò il modo di produzione capitalistico è un mezzo storico per sviluppare la forza produttiva materiale e creare il mercato mondiale ad essa corrispondente, è al tempo stesso la contraddizione permanente fra questa sua missione storica e i rapporti sociali di produzione che gli corrispondono.

3. Eccesso di capitale con eccesso di popolazione

Con la caduta del saggio di profitto cresce il minimo di capitale che dev'essere nelle mani del singolo capitalista a scopo di impiego produttivo del lavoro; che è richiesto sia per il suo sfruttamento in generale, sia affinché il tempo di lavoro impiegato sia il tempo di lavoro necessario per la produzione delle merci, affinché non superi la media del tempo di lavoro socialmente necessario per produrre le merci. E nello stesso tempo cresce la concentrazione, perché al di là di certi confini un grande capitale con basso saggio di profitto si accumula più rapidamente che un piccolo capitale con alto saggio di profitto. A sua volta questa concentrazione crescente, raggiunto un certo livello, provoca una nuova caduta del saggio di profitto. La massa dei piccoli capitali dispersi viene così trascinata sulla via dell'avventura: speculazione, frodi creditizie, frodi azionarie, crisi.

La cosiddetta pletora di capitale si riferisce sempre essenzialmente o alla pletora del capitale per cui la caduta del saggio di profitto non trova un compenso nella sua massa — ed è questo sempre il caso per i capitali freschi di nuova formazione —, o alla pletora che questi capitali incapaci di azione propria e indipendente mettono, sotto forma di credito, a disposizione dei dirigenti dei grandi rami di affari. Questa pletora di capitale trae origine dalle stesse circostanze che provocano una sovrapopolazione relativa ed è quindi un fenomeno complementare di quest'ultima, benché le due si trovino su poli opposti, capitale inutilizzato da una parte e popolazione operaia inutilizzata dall'altra.

Perciò sovrapproduzione di capitale, non di singole merci — sebbene la sovrapproduzione di capitale implichi sempre una sovrapproduzione di merci — non significa altro che sovraccumulazione di capitale. . Per capire che cosa sia questa sovraccumulazione (la sua analisi approfondita segue più oltre), non ce che da supporla come assoluta. Quando sarebbe assoluta la sovrapproduzione di capitale — e una sovrapproduzione che non si estenda a questo o a quel campo della produzione, o a un paio di settori importanti della produzione, ma sia assoluta nella sua stessa estensione, quindi abbracci tutti i rami dell'attività produttiva?

Si avrebbe sovrapproduzione assoluta non appena il capitale addizionale per lo scopo della produzione capitalistica fosse = 0. Ma lo scopo della produzione capitalistica è la valorizzazione del capitale, cioè l'appropriazione di pluslavoro, la produzione di plusvalore, di profitto. Se dunque il capitale fosse cresciuto, in rapporto alla popolazione operaia, in una proporzione tale che non si potesse né prolungare il tempo di lavoro assoluto fornito da questa popolazione, né estendere il tempo di pluslavoro relativo (cosa, quest'ultima, comunque inattuabile nel caso in cui la domanda di lavoro fosse molto forte e quindi i salari avessero la tendenza a salire); se dunque il capitale accresciuto producesse solo una massa di plusvalore equivalente o persino inferiore a quella prodotta prima della sua crescita, allora si avrebbe una sovrapproduzione assoluta di capitale; cioè il capitale cresciuto C + AC non produrrebbe un profitto maggiore, o ne produrrebbe perfino uno minore, che il capitale C prima del suo incremento di AC...

Nella realtà, la cosa si presenterebbe in modo che una parte del capitale resterebbe totalmente o parzialmente inoperosa (perché dovrebbe, prima di potersi valorizzare, scacciare dalla sua posizione il capitale già in funzione), e l'altra, sotto la pressione del capitale inutilizzato o semi-inutilizzato, si valorizzerebbe a un tasso di profitto inferiore...

È però chiaro che questa svalorizzazione di fatto del vecchio capitale non potrebbe avvenire senza lotta; che il capitale addizionale A C non potrebbe funzionare come capitale senza una battaglia. Il saggio di profitto non cadrebbe in seguito a concorrenza dovuta a sovrapproduzione di capitale; al contrario, si avrebbe lotta di concorrenza perché caduta del saggio di profìtto e sovrapproduzione di capitale nascono ora dalle stesse cause. La parte di A C che dovesse trovarsi in mano ai vecchi capitalisti in funzione sarebbe lasciata giacere più o meno in ozio da costoro per non svalorizzare il proprio capitale originario e per non restringerne il posto nel campo di produzione, o essi se ne servirebbero per scaricare su nuovi venuti e in genere sui loro concorrenti, anche a prezzo di una perdita temporanea, l'inattivazione del capitale addizionale.

La parte di ∆C che si trovasse in nuove mani cercherebbe di conquistarsi un posto a spese del vecchio capitale, e in parte vi riuscirebbe, riducendone all'inattività una frazione e costringendolo a cedergli il posto per prendere quello del capitale addizionale utilizzato solo in parte o non utilizzato affatto.

Una messa a riposo di una aliquota del vecchio capitale dovrebbe comunque avvenire; una messa a riposo nella sua qualità di capitale destinato a funzionare come capitale e a valorizzarsi. Quale parte ne sarà colpita, lo deciderà la lotta di concorrenza. Finché tutto va bene, come si è visto a proposito del livellamento del saggio generale di profitto, la concorrenza agisce come fratellanza pratica della classe dei capitalisti, che quindi si ripartiscono il bottino comune in proporzione al rischio assunto da ogni singolo individuo. Non appena tuttavia si tratta n°n più di dividersi il profitto, ma le perdite, ognuno cerca di ridurre il più possibile la sua quota in esse, e di riversarla sulle spalle altrui. Per la classe nel suo insieme la perdita è inevitabile. Ma quanto di essa ogni individuo debba sopportare, in qual misura debba prendervi parte, diventa allora questione di forza e di astuzia, e la concorrenza si trasforma in lotta tra fratelli-nemici. L'antitesi fra l'interesse di ogni singolo capitalista e quello della classe capitalistica nel suo insieme si fa allora valere così come, prima, l'identità di questi interessi si affermava in pratica attraverso la concorrenza.

Come si appianerebbe questo conflitto, e come si ristabilirebbero le condizioni proprie di un « sano » movimento della produzione capitalistica? Il modo di appianamento è già racchiuso nella semplice enunciazione del conflitto che si tratta di appianare. Esso implica una messa a riposo e perfino una parziale distruzione di capitale per l'ammontare di valore dell'intero capitale addizionale AC o almeno di una sua parte, benché, come risulta già dalla presentazione del conflitto, questa perdita non si ripartisca affatto uniformemente fra i singoli capitali individuali, ma la sua ripartizione si decida in una lotta di concorrenza nella quale, a seconda dei particolari vantaggi o di posizioni già acquisite, la perdita si distribuisce in modo altamente ineguale e in forma molto diversa, cosicché un capitale giace inattivo, un altro viene distrutto, un terzo subisce solo una perdita relativa o una svalorizzazione temporanea, etc.

In tutti i casi, però, l'equilibrio si ristabilirebbe mettendo a riposo in misura più o meno grande e perfino distruggendo capitale... Ciò si estenderebbe in parte alla sostanza materiale del capitale; per es. una parte dei mezzi di produzione, capitale fisso e circolante, non entrerebbe in funzione, non agirebbe come capitale; una parte delle imprese produttive cesserebbe la sua attività...

 Il ribasso dei prezzi e la lotta di concorrenza, d'altra parte, avrebbero spronato ogni capitalista a comprimere il valore individuale del proprio prodotto complessivo al disotto del suo valore generale, mediante impiego di nuove macchine, metodi di lavoro perfezionati, nuove combinazioni; l'avrebbero cioè spronato ad accrescere la forza produttiva di una data quantità di lavoro, a diminuire il rapporto del capitale variabile al capitale costante e, di conseguenza, a licenziare operai; insomma, a creare una sovrapopolazione artificiale. La svalorizzazione degli elementi del capitale costante sarebbe inoltre essa stessa un fattore tale da implicare l'aumento del saggio di profitto. La massa del capitale costante impiegato sarebbe cresciuta rispetto al capitale variabile, ma il valore di questa massa potrebb'essere diminuito. Il ristagno intervenuto nella produzione avrebbe preparato — entro i limiti capitalistici — un ulteriore allargamento della produzione.

E così il cerchio sarebbe di nuovo percorso. Una parte del capitale che l'arresto del suo funzionamento aveva svalorizzato riprenderebbe il suo valore originario. E lo stesso circolo vizioso sarebbe ripercorso in condizioni di produzione allargata, con un mercato più vasto ed una forza produttiva superiore...

Sovraproduzione di capitale non significa mai altro che sovraproduzione di mezzi di produzione — mezzi di lavoro e mezzi di sussistenza — in grado di funzionare come capitale, cioè d'essere utilizzati per sfruttare il lavoro a un dato grado di sfruttamento, poiché la discesa di questo grado di sfruttamento al disotto di un certo punto provoca perturbazioni e ristagni nel processo di produzione capitalistico, crisi, distruzione di capitale. Non v'è nulla di contraddittorio nel fatto che a questa sovrapproduzione di capitale si accompagni una più o meno grande sovrapopolazione relativa: le stesse circostanze che hanno elevato la forza produttiva del lavoro, aumentato la massa delle merci prodotte, esteso i mercati, accelerato l'accumulazione del capitale, sia come massa sia come valore, e diminuito il saggio di profitto, le stesse circostanze hanno creato e creano di continuo una sovrapopolazione relativa; una Sovra- popolazione di operai che il capitale sovrabbondante non impiega a causa del basso grado di sfruttamento del lavoro al quale soltanto li si potrebbe impiegare, o almeno a causa del saggio di profitto troppo basso che se ne otterrebbe a grado di sfruttamento dato...

Poiché il capitale non ha come scopo la soddisfazione dei bisogni, ma la produzione di profitto, e raggiunge tale scopo solo grazie a metodi che regolano la massa della produzione in funzione della sua scala, e non viceversa, è inevitabile che si crei una discrepanza continua fra le dimensioni limitate del consumo su base capitalistica e una produzione che tende costantemente a superare il proprio limite immanente. Del resto il capitale si compone di merci, quindi la sovrapproduzione di capitale implica sovrapproduzione di merci...

 La contraddizione del modo di produzione capitalistico risiede appunto nella sua tendenza allo sviluppo assoluto delle forze produttive, che entrano costantemente in conflitto con le specifiche condizioni di produzione in cui si muove, e soltanto può muoversi, il capitale.

Non è che si producano troppi mezzi di sussistenza in rapporto alla popolazione esistente. Al contrario. Se ne producono troppo pochi per poter soddisfare in modo decente ed umano la massa della popolazione.

Non è che si producano troppi mezzi di produzione per poter occupare la parte della popolazione idonea al lavoro. Al contrario. Prima si produce una parte eccessiva della popolazione, che non è realmente atta al lavoro; che, per le sue condizioni, dipende dallo sfruttamento di lavoro altrui, o da lavori che possono valere come tali solo nell'ambito di un modo di produzione miserabile. Non si producono, in secondo luogo, mezzi di produzione sufficienti perché tutta la popolazione idonea al lavoro lavori nelle condizioni più produttive, quindi il suo tempo di lavoro assoluto si abbrevi grazie alla massa e all'efficienza del capitale costante impiegato nel corso del tempo di lavoro.

Ma periodicamente si producono troppi mezzi di lavoro e Mezzi di sussistenza, per farli funzionare come mezzi di sfrut- tomento dei lavoratori a un saggio di profitto dato. Si producono troppe merci per poter realizzare nelle condizioni di distribuzione e nei rapporti di consumo dati dalla produzione capitalistica il valore in esse contenuto e il plusvalore ivi racchiuso, e riconvertirli in nuovo capitale, cioè per poter compiere questo processo senza esplosioni perennemente ricorrenti.

Non è che si produca troppa ricchezza. È che si produce periodicamente troppa ricchezza nella sua contraddittoria forma capitalistica.

Il limite del modo di produzione capitalistico si rivela:

1) Nel fatto che lo sviluppo della forza produttiva del lavoro genera, nella caduta del saggio di profitto, una legge che a un certo punto si oppone nel modo più ostile al suo stesso svolgimento, e che perciò dev'essere continuamente superata per mezzo di crisi.

2) Nel fatto che a decidere dell'ampliamento o della limitazione della produzione non è il rapporto fra la produzione e i bisogni sociali, i bisogni di uomini socialmente evoluti, ma l'appropriazione di lavoro non pagato e il rapporto fra questo lavoro non pagato e il lavoro oggettivato in generale, o, per esprimersi in termini capitalistici, il profitto e il rapporto fra questo profitto e il capitale impiegato, quindi un certo livello del saggio di profitto. Ne segue che esso si scontra in barriere già ad un grado di estensione della produzione che invece, partendo da altri presupposti, apparirebbe in larga misura insoddisfacente: si arresta quando non la soddisfazione dei bisogni, ma la produzione e la realizzazione del profitto, gli impongono di arrestarsi.

Se diminuisce il saggio di profitto, da un lato si ha tensione da parte del capitale di tutte le sue forze perché il singolo capitalista riduca con metodi migliori etc. il valore individuale delle sue merci singolarmente prese al disotto del loro valore sociale medio, e così, a un dato prezzo di mercato, lucri un sovraprofitto; dall'altro si ha frode e incitamento alla frode mediante appassionati tentativi di innovazione nei metodi di produzione, negli investimenti di capitale, nelle avventure, per assicurarsi un sovraprofitto qualunque che sia indipendente dalla media generale, e la superi...

 Lo sviluppo delle forze produttive del lavoro sociale è il compito storico e la legittimazione del capitale. Appunto così esso crea inconsciamente le condizioni materiali di una forma di produzione superiore. Quel che allarma Ricardo è che il saggio di profitto, pungolo della produzione capitalistica e condizione e motore dell'accumulazione, sia minacciato dallo stesso sviluppo della produzione. E qui il rapporto quantitativo è tutto. In realtà, alla base del problema v'è qualcosa di più profondo, ch'egli appena intuisce. In modo puramente economico, cioè dal punto di vista borghese, nei limiti delle capacità di comprensione capitalistiche, dall'angolo visuale della produzione capitalistica, qui si rivelano i suoi confini, la sua relatività, il fatto che esso non è un modo di produzione assoluto, ma soltanto storico, corrispondente ad una certa e limitata epoca di sviluppo delle condizioni materiali della produzione.

4. Integrazioni

Poiché lo sviluppo della produttività del lavoro è assai diverso in differenti rami di industria e avviene non solo in modo, quanto al grado, diseguale, ma spesso in senso opposto, ne risulta che la massa del profitto medio (= plusvalore) deve stare molto al disotto del livello che, dato lo sviluppo della forza produttiva nei rami d'industria più progrediti, si dovrebbe supporre raggiunto. Il fatto che lo sviluppo della produttività nei diversi rami d'industria avvenga non solo in proporzioni molto diverse, ma spesso in senso opposto, non deriva soltanto dall'anarchia della concorrenza e dalla peculiarità del modo di produzione borghese. La produttività del lavoro è pure legata a condizioni naturali che non di rado diventano meno redditizie nella stessa misura in cui la produttività — in quanto dipendente da condizioni sociali — aumenta. Di qui un movimento contraddittorio in queste diverse sfere, progresso in alcune, regresso in altre...

I fatti principali della produzione capitalistica:

1 ) Concentrazione in poche mani dei mezzi di produzione, per cui questi cessano di apparire come proprietà dei lavoratori immediati e si trasformano in potenze sociali della produzione. Anche se, a tutta prima, come proprietà privata dei capitalisti. Questi ultimi sono i fiduciari 0 gerenti (trustees) della società borghese, ma di questa gerenza intascano tutti i frutti.

2 ) Organizzazione dello stesso lavoro come lavoro sociale: mediante la cooperazione, la divisione del lavoro, l'unione fra lavoro e scienze naturali.

In tutt'e due i sensi, il modo di produzione capitalistico sopprime, benché in forme contraddittorie, la proprietà privata e il lavoro privato.

3) Creazione del mercato mondiale.

L'enorme forza produttiva, in rapporto alla popolazione, che si sviluppa in seno al modo di produzione capitalistico, e, benché non nella stessa proporzione, l'aumento dei valori capitali (non solo del loro substrato materiale), che crescono molto più rapidamente della popolazione, contrastano sia con la base per la quale lavora questa enorme forza produttiva, e che diventa, in rapporto all' aumento della ricchezza, sempre più angusta, sia con le condizioni di valorizzazione di questo capitale dilatantesi. Di qui le crisi.

Sezione IV

TRASFORMAZIONE DEL CAPITALE MERCE E DEL CAPITALE DENARO IN CAPITALE PER IL COMMERCIO DI MERCI E CAPITALE PER IL COMMERCIO DI DENARO (CAPITALE COMMERCIALE

Capitolo XVI
IL CAPITALE PER IL COMMERCIO DI MERCI

Il capitale commerciale, o mercantile, si suddivide in due forme o sottospecie, capitale per il commercio di merci e capitale per il commercio di denaro, che ora caratterizzeremo ulteriormente nella misura in cui l'analisi del capitale nella sua struttura intima lo richiede...

Se si considera il capitale totale della società, una parte di esso, benché di grandezza variabile e composta di elementi sempre diversi, si trova costantemente sul mercato come merce per trapassare in denaro, mentre un'altra si trova sul mercato in denaro per trapassare in merce. Il capitale totale è sempre impegnato nel movimento di questo trapasso, di questa metamorfosi formale. Nella misura in cui questa funzione del capitale che si trova nel processo di circolazione si autonomizza come particolare funzione di un particolare capitale, nella misura in cui si fissa come funzione riservata dalla divisione del lavoro ad un particolare genere di capitalisti, il capitale merce diventa capitale per il commercio di merci, ovvero capitale commerciale...

L'esistenza del capitale come capitale merce e la metamorfosi che esso subisce in quanto capitale merce entro la sfera di circolazione, sul mercato — metamorfosi che si risolve in acquisto e vendita, trasformazione di capitale merce in capitale denaro e di capitale denaro in capitale merce —, costituiscono una fase del processo di riproduzione del capitale industriale, dunque del suo processo globale di produzione; ma che, nello stesso tempo, esso si distingue in questa sua funzione come capitale di circolazione da se stesso in quanto capitale produttivo. Si tratta di due diverse e distinte forme di esistenza dello stesso capitale. Una parte del capitale sociale totale si trova costantemente sul mercato in questa forma di esistenza come capitale di circolazione, impegnato nel processo di questa metamorfosi, benché per ogni singolo capitale la sua esistenza come capitale merce e la sua metamorfosi in quanto tale non costituiscano che un punto di passaggio costantemente transeunte e costantemente rinnovato, uno stadio di trapasso nella continuità del suo processo di produzione, e benché, di conseguenza, gli elementi del capitale merce che si trova sul mercato mutino di continuo, in quanto vengono continuamente sottratti al mercato delle merci e con altrettanta continuità restituiti ad esso come nuovo prodotto del processo di produzione.

Il capitale per il commercio di merci non è che la forma trasmutata di una parte di questo capitale di circolazione esistente costantemente sul mercato, impegnato nel processo della sua metamorfosi e sempre circoscritto dalla sfera di circolazione. Diciamo una parte, perché una frazione della compravendita delle merci non cessa mai di compiersi direttamente fra gli stessi capitalisti industriali...

Il commerciante in merci, in quanto capitalista in generale, accede al mercato in primo luogo come rappresentante di una certa somma di denaro che anticipa in quanto capitalista, che cioè intende convertire da x (il valore originario della somma) in x + ∆x (quella somma più il relativo profitto). Ma, per lui non solo come capitalista in genere, bensì come commerciante di merci in specie, è pacifico che il suo capitale debba apparire originariamente sul mercato sotto forma di capitale denaro, perché egli non produce merci ma si limita a commerciare con merci, a mediarne il movimento, e per commerciare con esse deve prima acquistarle, dunque possedere capitale denaro...

Il capitale per il commercio di merci, [...], non è null'altro che il capitale merce del produttore destinato a compiere il processo della sua metamorfosi in denaro, la sua funzione di capitale merce sul mercato; solo che questa funzione appare come operazione esclusiva di un genere particolare di capitalisti, i commercianti in merci, anziché come operazione occasionale del produttore; viene resa autonoma come faccenda propria di un peculiare investimento di capitale.

Del resto, lo si vede anche dalla specifica forma di circolazione del capitale per il commercio di merci. Il commerciante compra la merce e poi la vende: D-M-D'... Il duplice cambio di posto della stessa merce ha per effetto che il denaro anticipato viene nuovamente ritratto dalla circolazione. Proprio in ciò si dimostra che la merce non è ancora definitivamente venduta allorché è passata dalle mani del produttore in quelle del commerciante; che quest'ultimo prosegue soltanto l'operazione della vendita — o la mediazione della funzione del capitale merce. Ma, nello stesso tempo, si dimostra che quella che per il capitalista produttivo è M-D, una semplice funzione del suo capitale nella forma transeunte di capitale merce, per il commerciante è D-M-D', una particolare valorizzazione del capitale denaro da lui anticipato. In riferimento al commerciante, una fase della metamorfosi delle merci si presenta qui come D-M-D', dunque come evoluzione di un particolare genere di capitale...

Ora che cosa dà al capitale per il commercio di merci il carattere di capitale funzionante in modo autonomo, mentre nelle mani del produttore che vende egli stesso la sua merce appare chiaramente solo come una particolare forma del suo capitale in una fase particolare del suo processo di riproduzione, durante la sua permanenza nella sfera di circolazione?

Primo: Il fatto che il capitale merce compia la sua definitiva conversione in denaro sul mercato, dunque la sua prima metamorfosi, la funzione che gli compete in quanto capitale merce, nelle mani di un agente diverso dal suo produttore, e che questa funzione del capitale merce sia mediata dall'operazione del commerciante, dai suoi atti di compravendita, cosicché questa operazione si configura come attività specifica, distinta dalle altre funzioni del capitale industriale e, quindi, autonomizzata. È una forma particolare della divisione sociale del lavoro, per cui una parte della funzione che altrimenti deve svolgersi in una fase particolare del processo di riproduzione del capitale, qui della circolazione, appare come funzione esclusiva di un agente specifico della circolazione, distinto dal produttore. Ma, con ciò, questa particolare attività non apparirebbe ancora come funzione di un particolare capitale, diverso dal capitale industriale impegnato nel suo processo di riproduzione, e da esso indipendente, come in realtà non appare tale laddove il commercio di merci è esercitato da semplici commessi viaggiatori o altri agenti diretti del capitalista industriale. Deve quindi intervenire un secondo fattore.

Secondo: questo secondo fattore consiste nel fatto che l'agente indipendente della circolazione, il commerciante, anticipa in tale posizione capitale denaro (proprio o a credito). Ciò che, per il capitale industriale impegnato nel suo processo di riproduzione, si presenta semplicemente come M-D, conversione del capitale merce in capitale denaro, pura e semplice vendita, per il commerciante si presenta come D-M-D', compera e vendita della stessa merce e perciò riflusso del capitale denaro, che si allontana da lui nella compera e ritorna a lui grazie alla vendita...

Nel capitale per il commercio di merci, il capitale merce assume [...] la forma di un genere indipendente di capitale, perché il commerciante anticipa capitale denaro che si valorizza come capitale, funziona come capitale, solo dedicandosi esclusivamente a mediare la metamorfosi del capitale merce, la sua funzione di capitale merce, cioè la sua conversione in denaro; e lo fa mediante acquisto e vendita ripetuti di merci. È questa la sua operazione esclusiva; è questa attività di mediazione del processo di circolazione del capitale industriale l'esclusiva funzione del capitale denaro con cui opera il commerciante. Grazie a questa funzione egli converte il suo denaro in capitale denaro, rappresenta il suo D come D-M-D' e, con lo stesso processo, converte il capitale merce in capitale per il commercio di merci.

Se si considera il processo di riproduzione del capitale sociale totale, il capitale per il commercio di merci, nella misura e fino a quando esiste nella forma di capitale merce, non è chiaramente altro che la frazione del capitale industriale che si trova ancora sul mercato, impegnata nel processo della sua metamorfosi, e che ora esiste e funziona come capitale merce. È dunque soltanto il capitale denaro anticipato dal commerciante, che è destinato esclusivamente all'acquisto e alla vendita, quindi non assume mai forma diversa da quella di capitale merce e di capitale denaro, non assume mai la forma di capitale produttivo, rimanendo sempre confinato nella sfera di circolazione del capitale...

Se il commerciante resta commerciante, il produttore risparmia tempo nel vendere e può dedicarlo alla sorveglianza del processo di produzione, mentre il commerciante deve consacrare tutto il suo tempo alla vendita.

Se il capitale commerciale non supera le sue necessarie proporzioni, si deve ammettere che:

1) in seguito alla divisione del lavoro, il capitale che si occupa esclusivamente di comprare e vendere (ed esso comprende, oltre al denaro per l'acquisto di merci, il denaro da spendere nel lavoro necessario per l'esercizio dell'impresa commerciale, nel capitale costante del commerciante, magazzini, trasporto etc.) è minore di quel che sarebbe se il capitalista industriale dovesse accollarsi tutta la parte commerciale della sua impresa;

2) poiché il commerciante si occupa esclusivamente di questa attività, non solo per il produttore la sua merce si converte più rapidamente in denaro, ma lo stesso capitale merce compie prima la sua metamorfosi di quanto non avverrebbe in mano al produttore;

3) se si considera il capitale commerciale complessivo in rapporto al capitale industriale, una rotazione del capitale commerciale può rappresentare non solo le rotazioni di molti capitali in una sfera di produzione, ma le rotazioni di tutta una serie di capitali in diverse sfere di produzione...

Nella misura in cui lo stesso capitale commerciale serve in diverse rotazioni a convertire successivamente in denaro diversi capitali merce, nella misura dunque in cui li compra e vende uno dopo l'altro, esso svolge come capitale denaro, nei confronti del capitale merce, la stessa funzione svolta dal denaro in generale, con il numero dei suoi giri in un periodo dato, nei confronti delle merci...

Quanto più rapida è la rotazione del capitale commerciale, tanto minore è la parte dell'intero capitale denaro che figura come capitale commerciale; quanto più lenta è la sua rotazione, tanto maggiore è questa parte...

La velocità di circolazione del capitale denaro anticipato dal commerciante dipende: 1) dalla velocità con cui si rinnova il processo di produzione e con cui i diversi processi di produzione si intrecciano; 2) dalla velocità del consumo.

Non è necessario che il capitale commerciale compia semplicemente la rotazione considerata più sopra, prima comprando merce per tutta la sua grandezza di valore, poi vendendola. Il commerciante compie invece simultaneamente i due movimenti. Il suo capitale si divide quindi in due parti: una consiste in capitale merce, l'altra in capitale denaro. Egli vende qui, e così trasforma il suo denaro in merce: vende là, e così trasforma un'altra parte del capitale merce in denaro. Da un lato il suo capitale gli rifluisce come capitale denaro; dall'altro gli ritorna come capitale merce. Più grande è la parte esistente in una forma, più piccola è quella esistente nell'altra...

Il capitale commerciale non è che capitale operante nell'ambito della sfera di circolazione. Il processo di circolazione è una fase del processo complessivo di riproduzione. Ma nel processo di circolazione non si produce nessun valore, quindi anche nessun plusvalore; si modifica soltanto la forma della stessa massa di valore: non avviene, in realtà, che la metamorfosi delle merci, e questa, in quanto tale, non ha nulla a che vedere con la creazione di valore o la variazione di valore. Se, nella vendita della merce prodotta, viene realizzato un plusvalore, è solo perché in essa questo esiste già...

Il capitale commerciale, dunque, non crea né valore né plusvalore, cioè non li crea direttamente. In quanto collabora ad abbreviare il tempo di circolazione, può contribuire indirettamente ad accrescere il plusvalore prodotto dal capitalista industriale. In quanto giova ad estendere il mercato e media la divisione del lavoro fra i capitali, permettendo così al capitale di lavorare su scala più vasta, la sua funzione stimola la produttività del capitale industriale e la sua accumulazione. In quanto abbrevia il tempo di circolazione, eleva il rapporto fra plusvalore e capitale anticipato, quindi il saggio di profitto. In quanto relega nella sfera della circolazione, come capitale denaro, una parte minore del capitale. aumenta la parte del capitale direttamente impiegata nella produzione.

Capitolo XVII

IL PROFITTO COMMERCIALE

Il capitale per il commercio di merci - spogliato di ogni funzione eterogenea, come l'immagazzinaggio, la spedizione, il trasporto, la ripartizione, la vendita al dettaglio, che vi si possa collegare, e limitato alla sua vera funzione di comprare per vendere — non crea né valore né plusvalore, ma si limita a mediarne la realizzazione; quindi a mediare, nello stesso tempo, il reale scambio delle merci, il loro passaggio da una mano all'altra, il metabolismo sociale. Poiché tuttavia la fase di circolazione del capitale industriale costituisce, non meno della produzione, una fase del processo di riproduzione, il capitale autonomamente funzionante nel processo di circolazione deve fornire il profitto annuo medio esattamente come il capitale funzionante nei diversi rami della produzione. Se il capitale commerciale fornisse un profitto percentuale medio superiore a quello del capitale industriale, una frazione del capitale industriale si convertirebbe in commerciale. Se fornisse un profitto medio inferiore, si avrebbe il processo opposto: una frazione del capitale commerciale si convertirebbe in industriale. Nessun tipo di capitale possiede infatti una maggiore facilità di cambiar destinazione, di passare da una funzione all'altra, che il capitale commerciale.

Poiché il capitale commerciale non crea esso stesso plusvalore alcuno, è chiaro che il plusvalore attribuitogli come profitto medio costituirà una frazione del plusvalore generato dal capitale produttivo totale. Ma la questione ora è: come avviene che il capitale commerciale accaparri la frazione attribuitagli del plusvalore, o profitto, generato dal capitale produttivo?

È solo un'apparenza che il profitto mercantile non sia che maggiorazione del prezzo delle merci, suo aumento nominale, al disopra del loro valore.

È chiaro che il commerciante può trarre il suo profitto unicamente dal prezzo delle merci da lui vendute; ed è ancor più chiaro che questo profitto, derivante dalla vendita delle sue merci, dev'essere eguale alla differenza fra prezzo di acquisto e prezzo di vendita, all'eccedenza dell'uno sull'altro...

Mentre il capitalista industriale si limita a realizzare nella circolazione il plusvalore o profitto fino a quel momento prodotto, il commerciante deve non solo realizzare il suo profitto, ma cominciare a ricavarlo, nella circolazione, e per suo tramite. E ciò sembra possibile solo se egli vende al disopra dei loro prezzi di produzione le merci che il capitalista industriale gli ha vendute ai loro prezzi di produzione o, se si considera la totalità del capitale merce, ai loro valori; solo se applica un'aggiunta nominale ai loro prezzi; dunque, considerando la totalità del capitale merce, solo se lo vende al disopra del suo valore e incassa questa eccedenza del valore nominale sul valore reale; insomma, se vende le merci più care di quel che valgano...

In realtà, l'idea che il profitto nasca da un aumento nominale del prezzo della merce, o dalla sua vendita al disopra del suo valore, è scaturita interamente dall'ottica del capitale mercantile.

A guardar meglio, tuttavia, ben presto ci si avvede che è pura apparenza. E che, supposto dominante il modo di produzione capitalistico, il profitto commerciale non si realizza affatto per questa via...

Perché supponiamo che il commerciante in merci possa realizzare un profitto [...] sulle sue merci alla sola condizione di venderle [...] sopra il loro prezzo di produzione? Perché abbiamo supposto che il produttore di queste merci, il capitalista industriale (che, in quanto personificazione del capitale industriale, di fronte al mondo esterno figura sempre come «il produttore») le abbia vendute al commerciante al loro prezzo di produzione. Se i prezzi di acquisto delle merci pagati dal commerciante equivalgono ai loro prezzi di produzione e, in ultima istanza, ai loro valori, cosicché il prezzo di produzione e, in ultima istanza, il valore delle merci rappresenti per il commerciante il prezzo di costo, allora l'eccedenza del suo prezzo di vendita sul suo prezzo di acquisto - e solo da questa differenza sgorga il suo profitto - dev'essere una eccedenza del loro prezzo mercantile sul loro prezzo di produzione, e in ultima analisi il commerciante deve vendere tutte le merci al disopra dei loro valori. Ma perché si è supposto che al commerciante il capitalista industriale venda le merci ai loro prezzi di produzione? O meglio, che cosa si presupponeva in tale ipotesi? Si presupponeva che il capitale mercantile (qui abbiamo che fare con esso ancora soltanto come capitale per il commercio di merci) non entri nella formazione del saggio generale di profitto...

Il capitale commerciale entra [invece] in modo determinante nella formazione del saggio generale di profitto pro rata della parte del capitale totale che esso costituisce...

Per prezzo di produzione si deve intendere, ora come prima, il prezzo della merce = il suo costo (il valore del capitale costante in esso contenuto + il valore del capitale variabile) + il profitto medio su di esso. Ma questo profitto medio è ora determinato in altro modo. È determinato dal profitto totale fornito dal capitale produttivo totale, non però calcolato su questo capitale produttivo totale,[...], ma calcolato sul capitale produttivo totale + il capitale commerciale... Nel saggio medio di profitto è già calcolata la quota di profitto totale spettante al capitale mercantile. Il valore o prezzo di produzione effettivo dell'intero capitale merce è quindi = k + π+ h (dove h è il profitto commerciale). Ne segue che il prezzo di produzione, ovvero il prezzo al quale il capitalista industriale in quanto tale vende i suoi prodotti, è minore del prezzo di produzione effettivo della merce; ossia, se consideriamo la totalità delle merci, i prezzi ai quali esse sono vendute dalla classe dei capitalisti industriali sono inferiori ai rispettivi valori... Se manteniamo l'espressione prezzo di produzione nel senso più preciso or ora sviluppato, è chiaro che il profitto del capitalista industriale è = l'eccedenza del prezzo di produzione della merce sul suo prezzo di costo, e che, a differenza di questo profitto industriale, il profitto commerciale è = l'eccedenza del prezzo di vendita sul prezzo di produzione della merce che, per il commerciante, è il suo prezzo di acquisto; ma che il prezzo effettivo della merce è = il suo prezzo di produzione + il profitto mercantile (commerciale). Come il capitale industriale realizza solo un profitto che è già contenuto come plusvalore nel valore della merce, così il capitale commerciale realizza un profitto soltanto perché l'intero plusvalore o profitto non è ancora realizzato nel prezzo della merce incassato dal capitale industriale. Il prezzo di vendita del commerciante supera dunque il prezzo di acquisto, non perché quello stia sopra il valore totale, ma perché questo gli sta sotto.

Perciò il capitale commerciale entra nel livellamento del plusvalore in profitto medio, benché non nella produzione di questo plusvalore: il saggio generale di profitto contiene già la detrazione dal plusvalore che spetta al capitale commerciale, dunque una detrazione dal profitto del capitale industriale...

Nel livellamento integrativo dei profitti mediante intervento del capitale commerciale, si è visto che nessun elemento addizionale per il capitale denaro anticipato dal commerciante entra nel valore delle merci; che l'aumento di prezzo da cui il commerciante trae il suo profitto è solo eguale alla parte di valore della merce che il capitale produttivo non ha calcolato, ha omesso di calcolare, nel prezzo di produzione della merce. Per questo capitale denaro le cose stanno come per il capitale fisso del capitalista industriale, nella misura in cui non è consumato e, quindi, il suo valore non costituisce un elemento del valore della merce: nel prezzo di acquisto del capitale merce il commerciante reintegra in denaro il suo prezzo di produzione, = D; il prezzo di vendita, da lui praticato è [...] = D + ∆D, dove ∆D esprime l'aumento sul prezzo delle merci determinato dal saggio generale di profitto. Se quindi egli vende la merce, oltre a ∆D gli rifluisce il capitale denaro originario anticipato nel suo acquisto. Appare qui di nuovo che il suo capitale denaro non è altro che il capitale merce del capitalista industriale convertito in capitale denaro, capitale denaro che non può incidere sulla grandezza di valore di quel capitale merce più che se questo fosse direttamente venduto al consumatore ultimo invece che al commerciante. In realtà, esso si limita ad anticipare il pagamento ad opera del consumatore finale.

Ma questo è giusto soltanto se si ammette, come si è ammesso finora, che il commerciante non abbia spese improduttive o che, oltre al capitale denaro che deve anticipare per l'acquisto della merce dal produttore, non debba anticipare nel processo della metamorfosi delle merci, del comprare e del vendere, nessun altro capitale, circolante o fisso. Le cose però non stanno così. [Le] spese di circolazione si presentano in parte come spese di cui il commerciante deve rifarsi su altri agenti della circolazione, in parte come spese che scaturiscono direttamente dalla sua attività specifica.

Di qualunque genere siano queste spese di circolazione; nascano dall'attività puramente commerciale in quanto tale, dunque appartengano agli specifici costi di circolazione del commerciante, o rappresentino voci derivanti da processi di produzione successivi svolgentisi nell'ambito del processo di circolazione, come la spedizione, il trasporto, la conservazione, etc.; esse presuppongono sempre, dal lato del commerciante, oltre al capitale denaro anticipato nell'acquisto di merci, un capitale addizionale anticipato nella compera e nel pagamento di questi mezzi di circolazione. In quanto consiste in capitale circolante, questo elemento di costo entra totalmente nel prezzo di vendita delle merci e, in quanto consiste in capitale fisso, vi entra nella misura del proprio logorio, come elemento aggiuntivo, ma come elemento che costituisce un valore nominale anche quando non costituisce un'aggiunta effettiva di valore alla merce, come le spese di circolazione puramente commerciali. Fisso o circolante che sia, però, tutto questo capitale addizionale entra nella formazione del saggio generale di profitto...

Tutte queste spese si fanno non già nella produzione dei valori d'uso delle merci, ma nella realizzazione dei loro valori; sono puri costi di circolazione. Non entrano nel processo di produzione immediato, ma nel processo di circolazione, quindi nel processo complessivo della riproduzione...

Se ora il capitalista industriale che è il commerciante di se stesso, oltre al capitale addizionale con cui acquista nuova merce prima che il suo prodotto in circolazione sia riconvertito in denaro, ha anticipato per di più capitale (spese di ufficio e salari per lavoratori del commercio) al fine di realizzare il valore del suo capitale merce, dunque per il processo di circolazione, queste anticipazioni formano bensì capitale addizionale, ma non creano plusvalore. Bisogna reintegrarle attingendo al valore delle merci, perché una parte del loro valore deve nuovamente convertirsi in spese di circolazione; ma, con questo, non si crea nessun plusvalore addizionale. In realtà, dal punto di vista del capitale complessivo della società, ciò significa che una parte di esso è richiesta per operazioni secondarie che non entrano nel processo di valorizzazione, e che questa parte del capitale sociale dev'essere costantemente riprodotta a tale scopo. Per il capitalista singolo e per l'intera classe dei capitalisti industriali, il saggio di profitto ne risulta diminuito - come accade per ogni aggiunta di capitale addizionale in quanto ciò sia richiesto al fine di mettere in moto la stessa massa di capitale variabile.

Nella misura in cui le spese addizionali legate alla stessa attività di circolazione vengono sostenute dal capitalista commerciale anziché dal capitalista industriale, questa riduzione del saggio di profitto ha egualmente luogo, solo in grado minore e per diversa via. Le cose stanno ora così: il commerciante anticipa più capitale di quanto sarebbe necessario se quelle spese non esistessero, e il profitto su questo capitale addizionale aumenta la somma del profitto mercantile; quindi il capitale commerciale entra in proporzione maggiore nel livellamento del saggio medio di profitto insieme al capitale industriale: ne consegue che il profitto medio cade...

Come stanno le cose per i salariati del commercio occupati dal capitalista mercantile, qui dal commerciante in merci?...

La difficoltà, per quanto riguarda i lavoratori mercantili, non sta nello spiegare come producano direttamente profitto per colui che li impiega, benché non producano direttamente plusvalore (di cui il profitto non è che una forma trasmutata). Questo problema, in realtà, è già risolto dall'analisi generale del profitto mercantile. Esattamente come il capitale industriale ottiene un profitto vendendo il lavoro contenuto e realizzato nelle merci, e per il quale non ha pagato nessun equivalente, così il capitale commerciale lo ottiene non pagando interamente al capitale produttivo il lavoro non retribuito contenuto nella merce (nella merce, nella misura in cui il capitale sborsato nella sua produzione funziona come aliquota del capitale industriale totale), mentre nella vendita delle merci si fa pagare questa parte di valore racchiusa nelle merci e da lui non pagata. Il rapporto del capitale commerciale al plusvalore è diverso da quello del capitale industriale. Quest'ultimo produce il plusvalore mediante appropriazione diretta di lavoro altrui non retribuito. Il primo si appropria una parte di questo plusvalore facendosela trasferire dal capitale industriale...

È solo grazie alla sua funzione di realizzazione dei valori, che il capitale commerciale opera nel processo di riproduzione come capitale, e quindi, come capitale in funzione, attinge al plusvalore prodotto dal capitale totale. Per il singolo commerciante, la massa del profitto dipende dalla massa di capitale che può impiegare in questo processo, e può impiegarne tanto più nel comprare e nel vendere, quanto maggiore è il lavoro non pagato dei suoi commessi. La stessa funzione in virtù della quale il suo denaro è capitale viene in gran parte affidata dal capitalista commerciale ai suoi lavoratori. Il lavoro non retribuito di questi commessi, pur non creando plusvalore, gli genera appropriazione di plusvalore (il che, quanto al risultato, per questo capitale è la stessa cosa); è quindi, per esso, la sorgente del profitto. Se così non fosse, l'attività commerciale non potrebbe mai essere esercitata su grande scala, in forma capitalistica.

Come il lavoro non retribuito dell'operaio crea direttamente plusvalore al capitale produttivo, così il lavoro non retribuito del salariato del commercio assicura al capitale commerciale una partecipazione al plusvalore...

La difficoltà è la seguente: poiché il tempo di lavoro e il lavoro del commerciante non è esso stesso lavoro creatore di valore, benché gli assicuri una partecipazione al plusvalore già prodotto, come stanno le cose per il capitale variabile ch'egli spende nell'acquisto di forza lavoro commerciale? Questo capitale variabile va messo in conto come spese al capitale commerciale anticipato?...

Se designiamo con B l'intero capitale commerciale investito direttamente nella compravendita di merci, e con b il corrispondente capitale variabile speso nel pagamento di ausiliari del commercio, B + b sarà minore di quanto dovrebb'essere l'intero capitale commerciale B se ogni commerciante se la sbrigasse senza commessi, se quindi una sua parte non fosse investita in b. Con questo, tuttavia, la difficoltà non è ancora risolta.

Il prezzo di vendita delle merci dev'essere sufficiente, 1) per pagare il profitto medio su B + b, come si spiega già per il fatto che B + b è una riduzione del B originario, rappresenta un capitale commerciale minore di quel che sarebbe necessario senza b; 2) a sostituire, oltre al profitto su b che ora si presenta in aggiunta, anche il salario pagato, il capitale variabile del commerciante = b. È qui che sorge la difficoltà: b costituisce un nuovo elemento del prezzo, o non è che una parte del profitto ottenuto con B + b, una parte che per il lavoratore mercantile appare come salario e, per lo stesso commerciante, come pura e semplice reintegrazione del suo capitale variabile?...

Il lavoratore commerciale non produce direttamente plusvalore. Ma il prezzo del suo lavoro è determinato dal valore della sua forza lavoro, quindi dai costi di produzione della stessa, mentre l'esercizio di questa forza lavoro, in quanto tensione, estrinsecazione e consumo di energia, non è limitato dal suo valore più che non lo sia per ogni altro lavoratore salariato. Il salario del lavoratore di commercio non sta quindi in alcun rapporto necessario con la massa del profitto che aiuta il capitalista a realizzare. Quel che costa al capitalista e quel che gli rende sono grandezze differenti. Gli rende non già creando direttamente plusvalore, ma contribuendo, nella misura in cui esegue un lavoro in parte non retribuito, a ridurre i costi di realizzazione del plusvalore. Il vero e proprio lavoratore del commercio appartiene alla categoria meglio retribuita dei salariati, a coloro il cui lavoro è lavoro qualificato, superiore alla media. Ma, nel procedere del modo di produzione capitalistico, il salario ha la tendenza a diminuire, anche in rapporto al lavoro medio. E ciò in parte a causa della divisione del lavoro entro l'ufficio (bisogna quindi produrre uno sviluppo soltanto unilaterale della capacità di lavoro, e le spese di questa produzione in parte non costano nulla al capitalista, mentre l'abilità del lavoratore si sviluppa con la stessa funzione, e tanto più rapidamente, quanto più, con la divisione del lavoro, esso diventa unilaterale); in secondo luogo perché con il progresso della scienza e dell'istruzione popolare, la formazione professionale, la conoscenza del commercio e delle lingue, etc., vengono riprodotte tanto più rapidamente, con tanto maggior facilità, su scala tanto più generale, e tanto più a buon mercato, quanto più il modo di produzione capitalistico orienta in senso pratico i metodi di insegnamento, e così via. La generalizzazione dell'istruzione popolare permette di reclutare questo genere di lavoratori da classi che prima ne erano escluse, che erano abituate a un genere di vita inferiore. In tal modo essa accresce l'afflusso e perciò la concorrenza. Ne segue che, sviluppandosi la produzione capitalistica, con poche eccezioni la forza lavoro di questa gente si svaluta; il loro salario cala, mentre la loro capacità di lavoro cresce...

Le funzioni commerciali e le spese di circolazione sono autonomizzate unicamente per il capitale mercantile. Il lato del capitale industriale rivolto alla circolazione esiste non soltanto nel suo essere permanente di capitale merce e capitale denaro, bensì anche nell'ufficio commerciale accanto all'officina. Ma, per il capitale mercantile, si autonomizza. Per esso, l'ufficio è la sua unica officina. La quota di capitale impiegata nella forma di spese di circolazione appare presso il grossista molto maggiore che presso l'industriale, perché, a parte gli uffici particolari collegati ad ogni officina industriale, la frazione di capitale che l'intera classe dei capitalisti industriali dovrebbe così impiegare è concentrata nelle mani di singoli commercianti che, come provvedono al proseguimento delle funzioni di circolazione, così provvedono al proseguimento delle spese di circolazione che ne derivano.

Al capitale industriale le spese di circolazione appaiono e sono spese improduttive. Al commerciante appaiono come sorgente del suo profitto, che - dato il saggio generale di profitto - è proporzionale alla loro grandezza. L'esborso da effettuare in queste spese di circolazione è dunque per il capitale mercantile un investimento produttivo: quindi è anche immediatamente produttivo il lavoro commerciale ch'esso acquista.

Capitolo XVIII

LA ROTAZIONE DEL CAPITALE COMMERCIALE. I PREZZI

La rotazione del capitale industriale è unità del suo tempo di produzione e del suo tempo di circolazione; dunque abbraccia l'intero processo di produzione. La rotazione del capitale commerciale, invece, non costituendo in realtà che il movimento automatizzato del capitale merce, rappresenta soltanto la prima fase della metamorfosi della merce, M-D, in quanto movimento che rifluisce in se stesso di un particolare capitale; D-M, M-D in senso commerciale, come rotazione del capitale commerciale. Il commerciante acquista, converte in merce il suo denaro, poi vende, riconverte in denaro questa stessa merce, e così via in costante ripetizione...

La ripetuta rotazione del capitale per il commercio di merci non esprime [...] mai altro che la ripetizione di acquisto e vendita, mentre quella del capitale industriale esprime la periodicità ed il rinnovo dell'insieme del processo di riproduzione (ivi compreso il processo di consumo). Per il capitale commerciale, invece, ciò appare solo come condizione estrinseca. Affinché resti possibile una veloce rotazione del capitale commerciale, il capitale industriale deve costantemente gettare delle merci sul mercato e ritirarle di nuovo. Se il processo di riproduzione in generale è lento, lo è anche la rotazione del capitale commerciale. Ora è vero che quest'ultimo media la rotazione del capitale produttivo, ma solo in quanto ne abbrevia il tempo di circolazione. Non agisce direttamente sul tempo di produzione, che costituisce una barriera anche per il tempo di rotazione del capitale industriale. È questo il primo limite della rotazione del capitale commerciale. Il secondo, a prescindere dalla barriera rappresentata dal consumo riproduttivo, è costituito in definitiva dalla velocità e dall'ampiezza dell'insieme del consumo individuale, perché tutta la parte del capitale merce che entra nel fondo di consumo ne dipende.

Tuttavia [...], prima di tutto il capitale commerciale abbrevia la fase M-D per il capitale produttivo e, in secondo luogo, nel moderno sistema del credito dispone di gran parte del capitale denaro complessivo della società, cosicché può ripetere le sue compere prima di avere definitivamente venduto il già acquistato; e qui è indifferente che il nostro commerciante venda direttamente al consumatore ultimo o fra questo e quello si interpongano altri 12 mercanti. Data la straordinaria elasticità del processo di riproduzione, che si può sempre spingere al di là di ogni barriera data, egli non trova ostacoli, o ne trova soltanto uno molto elastico, nella produzione stessa...

Nonostante la sua autonomizzazione, il movimento del capitale commerciale non è mai altro che il movimento del capitale industriale nell'ambito della sfera di circolazione. Ma, per effetto della sua autonomizzazione, esso si muove, entro certi limiti, indipendentemente dalle barriere del processo di riproduzione, quindi anche spinge quest'ultimo al di là dei suoi confini. La dipendenza interna e l'indipendenza esterna lo incalzano fino a raggiungere il punto in cui il nesso interno viene ristabilito con violenza, da una crisi...

La crisi scoppia non appena gli incassi dei commercianti che vendono su mercati lontani (o le cui scorte si sono eccessivamente accumulate sul mercato interno) si sono talmente rallentati e ridotti, che le banche premono per il pagamento, o le cambiali per merci acquistate vengono a scadenza, prima che le merci stesse siano rivendute. Cominciano allora le vendite forzate, le vendite per poter pagare. Ed ecco prodursi il crack, che tutto a un tratto mette fine alla prosperità apparente...

Se il prezzo di produzione di una merce è modico, lo è pure la somma che il commerciante anticipa nel suo prezzo di acquisto, cioè per una determinata quantità di essa, e quindi, a saggio di profitto dato, lo è l'ammontare del profitto ch'egli ottiene su quella data quanta di merce a buon prezzo; ovvero, il che è lo stesso, con un dato capitale, [...], egli può comprare un grande quantitativo di quella merce a buon mercato, e il profitto totale [...] da lui ottenuto [...] si distribuisce in piccole frazioni su ogni singola unità di questa massa di merce. Nel caso inverso, vale l'opposto. Tutto dipende dalla maggiore o minore produttività del capitale industriale con le cui merci egli traffica. Se si eccettuano i casi in cui il commerciante gode in quanto tale di un monopolio e, nello stesso tempo, monopolizza la produzione, [...] nulla può essere più assurdo dell'idea corrente che dipenda dal commerciante di vendere molta merce con poco profitto, o poca merce con molto profitto sulla merce singola.

I due limiti per il suo prezzo di vendita sono, da una parte, il prezzo di produzione della merce, sul quale egli non ha nessun potere, e dall'altra il saggio medio di profitto, sul quale è altrettanto vero che egli non può nulla. L'unica cosa in merito alla quale egli deve prendere una decisione, e qui hanno la loro parte la grandezza del capitale disponibile ed altre circostanze, è se trattare in merci ad alto o basso prezzo. Dipende quindi in tutto e per tutto dal grado di sviluppo del modo di produzione capitalistico, non dalla volontà del commerciante, come egli si comporti in questo caso...

L'alto o basso livello dei prezzi delle merci non determina né la massa del plusvalore che produce un dato capitale, né il saggio di plusvalore, sebbene, a seconda della quantità relativa di merce prodotta da una data quantità di lavoro, il prezzo della singola merce, quindi anche la parte di plusvalore in questo prezzo, sia più o meno grande. I prezzi di ogni quantità di merce sono determinati, nella misura in cui corrispondono ai valori, dalla quantità complessiva del lavoro oggettivato in questa merce. Se poco lavoro si materializza in molta merce, il prezzo della merce singola è basso e il plusvalore in esso contenuto è piccolo. Come il lavoro incorporato in una merce si divida in pagato e non pagato, e quanto perciò del prezzo della merce rappresenti plusvalore, non ha nulla a che fare con la quantità complessiva del lavoro e quindi col prezzo della merce. Ma il saggio di plusvalore non dipende dalla grandezza assoluta del plusvalore contenuto nel prezzo della singola merce; dipende dalla sua grandezza relativa, dal suo rapporto al compenso del lavoro, al salario, annidato nella stessa merce. Può, quindi, essere alto benché la grandezza assoluta del plusvalore per ogni singola merce sia modesta. E questa grandezza assoluta del plusvalore in ogni singola merce dipende in prima linea dalla produttività del lavoro e solo in seconda dalla sua ripartizione in pagato e non pagato.

Nel caso del prezzo di vendita commerciale, il prezzo di produzione è un presupposto esterno dato.

L'altezza del prezzo commerciale delle merci in altri tempi era dovuta: i) all'altezza dei prezzi di produzione, cioè alla scarsa produttività del lavoro, 2) all'assenza di un saggio generale di profìtto, in quanto il capitale commerciale si impadroniva di una quota del plusvalore molto più alta di quella che gli sarebbe spettata in caso di mobilità generale dei capitali.

La cessazione di questo stato di cose è quindi, sotto entrambi gli aspetti, un risultato dello sviluppo del modo di produzione capitalistico...

Le rotazioni del capitale commerciale sono più lunghe o più brevi, il loro numero nel corso dell'anno è, dunque, maggiore o minore nei diversi rami del commercio. All'interno dello stesso ramo, la rotazione è più o meno rapida in fasi diverse del ciclo economico. Esiste però un numero medio di rotazioni, che l'esperienza permette di scoprire...

Quanto maggiore è il numero delle rotazioni del capitale industriale totale, tanto maggiore è la massa del profitto, la massa del plusvalore prodotto annualmente, e perciò, a parità di condizioni, il saggio di profitto. Non così per il capitale commerciale. Per esso il saggio di profitto è una grandezza data, determinata da una parte dalla massa del profitto prodotto dal capitale industriale, dall'altra dalla grandezza relativa del capitale commerciale totale, dal suo rapporto quantitativo con la somma del capitale anticipato nel processo di produzione e nel processo di circolazione. Certo, il numero delle sue rotazioni agisce in modo determinante sul suo rapporto al capitale totale, o sulla grandezza relativa del capitale commerciale necessario alla circolazione, essendo chiaro che grandezza assoluta del capitale commerciale necessario e sua velocità di rotazione stanno in ragione inversa; ma la sua grandezza relativa, ovvero la parte che esso costituisce del capitale totale, è data, eguali restando tutte le altre circostanze, dalla sua grandezza assoluta...

In confronto a condizioni precedenti, il modo di produzione capitalistico sviluppato agisce in duplice modo sul capitale commerciale: la medesima quantità di merci viene fatta ruotare con una massa minore di capitale commerciale realmente funzionante; a causa della più veloce rotazione del capitale commerciale e della maggiore velocità del processo di riproduzione su cui questo si basa, il rapporto del capitale commerciale al capitale industriale si riduce. D'altra parte: con lo sviluppo del modo di produzione capitalistico, ogni produzione diventa produzione di merci, quindi ogni prodotto cade nelle mani degli agenti della circolazione, senza contare che in modi di produzione precedenti, che producevano in piccolo, a prescindere dalla massa di prodotti consumati direttamente in natura dallo stesso produttore e dalla massa di prestazioni eseguite in natura, una parte molto notevole dei produttori vendeva la propria merce direttamente ai consumatori o lavorava su ordinazione personale di essi...

Supposta però come data la grandezza relativa del capitale commerciale in rapporto al capitale totale, la differenza delle rotazioni in diversi rami di commercio non incide né sulla grandezza del profitto complessivo spettante al capitale commerciale, né sul saggio generale di profitto. Il profitto del commerciante è determinato non dalla massa del capitale merce alla cui rotazione egli provvede, ma dalla grandezza del capitale denaro che anticipa per mediare questa rotazione...

Il numero delle rotazioni del capitale commerciale in diversi rami di commercio incide quindi direttamente sui prezzi di mercato delle merci. L'altezza della maggiorazione di prezzo mercantile, ovvero dell'aliquota del profitto mercantile di un dato capitale relativa al prezzo di produzione della singola merce, sta quindi in ragione inversa al numero delle rotazioni, ovvero alla velocità di rotazione dei capitali commerciali in diversi rami d'affari...

L'incidenza sui prezzi di vendita del tempo medio di rotazione dei capitali in diversi rami di commercio si riduce al fatto che, in rapporto a questa velocità di rotazione, la stessa massa di profitto, determinata, a grandezza data del capitale commerciale, dal saggio annuo generale di profitto, dunque indipendentemente dallo speciale carattere delle operazioni commerciali di questo capitale, si ripartisce in modo diverso su masse di merci del medesimo valore..

Dunque, il medesimo saggio percentuale del profitto mercantile in rami diversi del commercio eleva, in rapporto ai loro tempi di rotazione, i prezzi di vendita delle merci di percentuali completamente diverse, calcolate sul valore di queste merci...

Dal punto di vista del capitale commerciale, quindi, è la rotazione che sembra determinare il prezzo. D'altra parte, mentre la velocità di rotazione del capitale industriale, in quanto permette a un dato capitale di sfruttare più o meno lavoro, agisce in modo determinante e delimitante sulla massa del profitto, quindi sul saggio generale del profitto, al capitale mercantile il saggio di profitto è dato dall'esterno e il suo nesso intrinseco con la formazione del plusvalore è totalmente eliso. Se lo stesso capitale industriale, eguali restando tutte le altre circostanze e, in particolare, a parità di composizione organica, compie nell'anno quattro rotazioni invece di due, esso produce due volte tanto plusvalore e quindi profitto; e questo fatto si manifesta tangibilmente non appena e fin tanto che questo capitale possiede il monopolio del sistema di produzione perfezionato che gli permette di accelerare così la sua rotazione. Il diverso tempo di rotazione in rami diversi del commercio appare invece in ciò che il profitto ottenuto sulla rotazione di un determinato capitale merce sta in ragione inversa al numero delle rotazioni del capitale denaro che fa ruotare questo capitale merce. Small profìts and quick returns, modesti profitti e rapidi ricavi, sembra al shopkeeper un principio, ch'egli segue per principio.

Capitolo XIX

IL CAPITALE PER IL COMMERCIO DI DENARO

I movimenti puramente tecnici eseguiti dal denaro nel processo di circolazione del capitale industriale e, come ora possiamo aggiungere, del capitale per il commercio di merci (poiché questo assume come movimento suo proprio e specifico una parte del movimento circolatorio del capitale industriale) — questi movimenti, autonomizzati in funzione di un particolare capitale che li esercita in esclusiva come operazioni sue proprie, trasformano questo capitale in capitale per il commercio di denaro. Se allora una parte del capitale industriale, come pure del capitale per il commercio di merci, esiste costantemente non solo in forma denaro, come capitale denaro in generale, ma come capitale denaro impegnato nelle suddette funzioni tecniche, dal capitale totale si separa una certa frazione che si rende autonoma nella forma di capitale denaro la cui funzione capitalistica consiste esclusivamente nell'eseguire queste operazioni per l'intera classe dei capitalisti industriali e commerciali. Come nel caso del capitale per il commercio di merci, una parte del capitale industriale presente nel processo di circolazione sotto forma di capitale denaro si distacca ed esegue per tutto il restante capitale queste operazioni del processo di riproduzione. I suoi movimenti non sono perciò a loro volta che movimenti di una parte autonomizzatasi del capitale industriale impegnato nel processo della sua riproduzione...

Una data parte del capitale deve sempre essere presente come tesoro, capitale denaro potenziale: riserva di mezzi di acquisto, riserva di mezzi di pagamento, capitale inoperoso che attende in forma denaro d'essere fatto operare; e una parte del capitale rifluisce continuamente in questa forma. Oltre ad operazioni di incasso, pagamento e contabilità, tutto ciò implica custodia del tesoro, e questa è di nuovo una particolare operazione. In realtà, il tesoro non cessa mai di risolversi in mezzi di circolazione e mezzi di pagamento e di ricostituirsi con denaro ottenuto nella vendita e con pagamenti venuti a scadenza; è questo continuo movimento della parte del capitale esistente come tesoro, separato dalla funzione stessa del capitale, è questa operazione puramente tecnica che genera un particolare lavoro e dà luogo a particolari spese — spese di circolazione.

La divisione del lavoro ha per effetto che queste operazioni tecniche, determinate dal funzionamento del capitale, vengano eseguite come funzioni esclusive, per l'intera classe capitalistica, da una categoria di agenti o di capitalisti, ovvero che si concentrino nelle loro mani. V'è qui, come per il capitale commerciale, divisione del lavoro in due sensi: nasce un particolare ramo d'affari che, operando ai fini del meccanismo monetario dell'intera classe, viene concentrato, si esercita su larga scala; all'interno di questo particolare ramo d'affari si ha poi di nuovo divisione del lavoro, sia mediante scissione in più rami reciprocamente indipendenti, sia mediante sviluppo dell'azienda nell'ambito di questi rami (grandi uffici, numerosi contabili e cassieri, divisione del lavoro spinta all'estremo). Gli esborsi, gli incassi, i saldi, la tenuta di conti correnti, la custodia del denaro, etc., separati dagli atti che rendono indispensabili queste operazioni tecniche, fanno del capitale anticipato per queste funzioni un capitale per il commercio di denaro.

Le diverse operazioni dal cui autonomizzarsi in attività particolari si origina il commercio di denaro nascono dalle diverse determinazioni del denaro stesso e dalle sue funzioni, al cui adempimento deve quindi soggiacere anche il capitale nella forma di capitale denaro.

Ho già avuto occasione di mostrare come l'istituto del denaro, con tutto ciò che vi si collega, abbia la sua prima origine nello scambio di prodotti fra comunità diverse.

È perciò dagli scambi internazionali che si svolge dapprima il commercio di denaro, il traffico con la merce denaro. Non appena esistono diverse monete locali, i commercianti che procedono ad acquisti su mercati stranieri si trovano o a dover convertire le monete del loro paese nelle monete locali, e viceversa, o a dover scambiare differenti monete con argento od oro puro, non coniato, come denaro mondiale. Di qui le operazioni cambiarie, che vanno considerate come una delle basi naturali del moderno commercio del denaro...

Dal processo di produzione capitalistico, così come dal commercio in generale, anche in modo di produzione precapitalistico, risulta:

Primo, l'ammasso del denaro come tesoro, ovverosia della parte del capitale che dev'essere sempre presente in forma monetaria, in quanto fondo di riserva di mezzi di pagamento e di acquisto. È questa la prima forma del tesoro, come riappare nel modo di produzione capitalistico e come, sviluppandosi il capitale commerciale, si costituisce almeno per questo. E ciò vale sia per la circolazione interna, sia per la circolazione internazionale. Questo tesoro è in flusso costante, si riversa di continuo nella circolazione e di continuo ne rifluisce. La seconda forma del tesoro è quella del capitale che giace inoperoso, momentaneamente inutilizzato, in forma denaro, ivi compreso il capitale denaro accumulato di fresco, non ancora investito. Le funzioni che questa formazione di tesoro rende in quanto tale necessarie sono, prima di tutto, la sua conservazione, la contabilità, etc.

Ma, secondo, a ciò si collegano esborsi di denaro all'atto della compera, incassi all'atto della vendita, pagamenti fatti e ricevuti, pareggio dei pagamenti etc. A tutto questo provvede il commerciante in denaro dapprima come semplice cassiere per i commercianti e i capitalisti industriali...

Come la circolazione di denaro in tutto il suo volume, le sue forme e i suoi movimenti, è puro e semplice risultato della circolazione di merci, che dal punto di vista capitalistico non rappresenta a sua volta se non il processo di circolazione del capitale (compreso lo scambio di capitale con reddito e di reddito con reddito, in quanto la spesa di reddito si realizza nel commercio al dettaglio), è del tutto evidente che il commercio di denaro non media soltanto il puro risultato e il modo di manifestarsi della circolazione di merci, la circolazione monetaria. Questa stessa circolazione monetaria, in quanto momento della circolazione delle merci, per esso è data. Ciò ch'esso media sono le sue operazioni tecniche, che il commercio di denaro concentra, abbrevia e semplifica. Il commercio di denaro non crea i tesori, ma fornisce i mezzi tecnici per ridurre al suo minimo economico questa tesaurizzazione, nella misura in cui è volontaria (dunque, nella misura in cui non è espressione di capitale inutilizzato o di perturbazione del processo di riproduzione), in quanto i fondi di riserva di mezzi di acquisto e pagamento, se amministrati per l'intera classe capitalistica, non hanno bisogno d'essere grandi come nel caso di ogni capitalista preso a sé...

Nella forma pura in cui lo consideriamo in questa sede, cioè separatamente dal sistema creditizio, il commercio di denaro ha quindi per oggetto soltanto la tecnica di una fase della circolazione di merci, ossia la circolazione monetaria e le diverse funzioni del denaro che ne scaturiscono...

Nella misura in cui capitale denaro viene anticipato in questa mediazione tecnica della circolazione monetaria da una particolare categoria di capitalisti — un capitale che rappresenta su scala ridotta il capitale addizionale che altrimenti i commercianti e i capitalisti industriali si dovrebbero essi stessi anticipare a questo scopo —, anche qui ci troviamo in presenza della forma generale del capitale D-D'. Mediante anticipo di D, si crea per l'anticipante D + ∆D. Ma la mediazione di D-D' si riferisce qui non agli elementi materiali, ma solo agli elementi tecnici della metamorfosi.

È chiaro che la massa di capitale denaro con cui hanno a che fare i commercianti di denaro è il capitale denaro dei commercianti e industriali presente nella circolazione, e che le operazioni da essi eseguite non sono se non le operazioni di coloro ai quali essi servono da intermediari.

Altrettanto chiaro è che il loro profitto non è che una detrazione dal plusvalore, poiché essi trattano soltanto con valori già realizzati (anche se nell'unica forma di titoli di credito).

Come nel commercio di merci, si ha qui sdoppiamento di funzione, perché una parte delle operazioni tecniche legate alla circolazione del denaro dev'essere eseguita dagli stessi commercianti in merci e produttori di merci.

Capitolo XX

CENNI STORICI SUL CAPITALE COMMERCIALE

Finora abbiamo considerato il capitale commerciale dal punto di vista ed entro i confini del modo di produzione capitalistico. Tuttavia, non solo il commercio, ma il capitale commerciale è più antico del modo di produzione capitalistico; in realtà, è il libero modo di esistere del capitale storicamente più antico...

II capitale commerciale essendo confinato nella sfera di circolazione, e la sua funzione consistendo esclusivamente nel mediare lo scambio di merci, per la sua esistenza — a prescindere da forme non sviluppate nascenti dallo scambio diretto, dal baratto — non sono necessarie condizioni diverse da quelle richieste per la circolazione mercantile e monetaria semplice. O piuttosto la circolazione monetaria semplice è la sua condizione di esistenza. Qualunque sia il modo di produzione sulla cui base si producono i prodotti che entrano come merci nella circolazione — la comunità primigenia o la produzione schiavistica, la produzione ad opera di piccoli contadini e piccoli artigiani o la produzione capitalistica —, ciò nulla cambia al loro carattere di merci; e come merci essi devono attraversare il processo di scambio e i mutamenti di forma che lo accompagnano. Gli estremi fra i quali il capitale commerciale fa da intermediario sono dati per esso esattamente come lo sono per il denaro e per il movimento del denaro. L'unica cosa necessaria è che questi estremi siano presenti come merci, poco importa che la produzione sia in tutta la sua estensione produzione di merci o che produttori indipendenti gettino sul mercato solo l'eccedenza al disopra dei bisogni immediati che la loro produzione soddisfa. Il capitale commerciale non media che il movimento di questi estremi, delle merci come presupposti ad esso dati.

Il volume in cui la produzione entra nel commercio, passa per le mani dei commercianti, dipende dal modo di produzione e raggiunge il massimo nel pieno sviluppo della produzione capitalistica, in cui il prodotto viene ancora soltanto prodotto come merce, non come mezzo di sussistenza immediato. D'altra parte, sulla base di ogni modo di produzione, il commercio stimola la produzione di prodotti eccedenti, destinati ad entrare nello scambio per alimentare i piaceri o accrescere i tesori dei produttori (da intendere qui come i proprietari dei prodotti); conferisce quindi alla produzione un carattere sempre più orientato verso il valore di scambio.

La metamorfosi delle merci, il loro movimento, consiste:

1) materialmente, nello scambio reciproco di diverse merci;

2) formalmente, nella conversione della merce in denaro, vendita, e nella conversione del denaro in merce, compera. E in queste funzioni, scambio di merci mediante compravendita, si risolve la funzione del capitale commerciale...

Qualunque sia l'organizzazione sociale delle sfere di produzione di cui il commerciante media lo scambio di merci, il suo patrimonio esiste tuttavia sempre come patrimonio monetario e il suo denaro funziona sempre come capitale. La sua forma è sempre D-M-D'; denaro, la forma autonoma del valore di scambio, come punto di partenza; aumento del valore di scambio come scopo autonomo; lo stesso scambio di merci e le operazioni che lo mediano — separate dalla produzione e compiute da non-produttori — come puro mezzo di incremento non solo della ricchezza, ma della ricchezza nella sua forma sociale generale di valore di scambio. Il motivo propulsore e lo scopo determinante è trasformare D in D + ∆D; gli atti D-M e M-D', che mediano l'atto D-D', appaiono come semplici momenti transitori della trasformazione di D in D + AD. Questo D-M-D' come movimento caratteristico del capitale commerciale lo distingue da M-D-M, il commercio di merci fra gli stessi produttori, orientato nel senso dello scambio di valori d'uso come scopo finale.

Quindi, meno è sviluppata la produzione, più il patrimonio monetario si concentra nelle mani dei mercanti o appare come forma specifica del patrimonio commerciale.

All'interno del modo di produzione capitalistico — cioè non appena il capitale si sia impadronito della produzione stessa, dandole una forma completamente diversa e specifica — il capitale commerciale appare soltanto come capitale in una particolare funzione. In tutti gli altri modi di produzione precedenti, e tanto più quanto più la produzione è produzione immediata dei mezzi di sussistenza del produttore, il capitale commerciale appare come la funzione par excellence del capitale.

Non è quindi affatto difficile capire perché il capitale commerciale appaia come forma storica del capitale molto prima che il capitale si sia assoggettata la stessa produzione...

Sviluppo autonomo e prevalente del capitale in quanto capitale commerciale significa mancata sottomissione della produzione al capitale, quindi sviluppo del capitale sulla base di una forma sociale della produzione ad esso estranea e da esso indipendente. Lo sviluppo autonomo del capitale commerciale sta dunque in ragione inversa allo sviluppo economico generale della società.

Il patrimonio commerciale indipendente, come forma dominante del capitale, è l'autonomizzazione del processo di circolazione nei confronti dei suoi estremi, e questi estremi sono gli stessi produttori che effettuano lo scambio. Questi estremi rimangono autonomi nei confronti del processo di circolazione, e questo processo nei loro confronti. Il prodotto qui diventa merce grazie al commercio. È il commercio, qui, che sviluppa la configurazione dei prodotti in merci; non è la merce prodotta il cui movimento costituisce il commercio. Qui dunque il capitale come capitale si manifesta dapprima nel processo di circolazione. Nel processo di circolazione il denaro evolve in capitale. Nella circolazione il prodotto si sviluppa per la prima volta come valore di scambio, come merce e denaro. Il capitale può formarsi nel processo di circolazione, e deve formarsi in esso, prima di apprendere a dominare i suoi estremi, le diverse sfere di produzione fra le quali la circolazione funge da mediatrice. La circolazione di denaro e la circolazione di merci possono mediare le sfere di produzione delle organizzazioni più diverse che, per la loro struttura interna, sono ancora essenzialmente orientate verso la produzione di valori d'uso. Questa autonomizzazione del processo di circolazione, per cui le sfere di produzione vengono collegate fra loro da un terzo elemento, esprime due cose: da un lato, che la circolazione non si è ancora impadronita della produzione, ma sta di fronte ad essa come presupposto dato; dall'altro, che il processo di produzione non ha ancora accolto in sé la circolazione come puro e semplice momento. Nella produzione capitalistica, invece, si hanno entrambe le cose. Il processo di produzione poggia interamente sulla circolazione, e la circolazione è un semplice momento, una fase di trapasso della produzione, non è che la realizzazione dèi prodotto creato come merce e la sostituzione dei suoi elementi di produzione prodotti come merci. La forma del capitale originantesi direttamente dalla circolazione — il capitale commerciale — appare qui ancora soltanto come una delle forme del capitale nel suo movimento di riproduzione...

Nei primi stadi della società capitalistica il commercio domina l'industria; nella società moderna avviene l'opposto. Naturalmente il commercio reagisce più o meno sulle comunità fra le quali lo si esercita; sottopone sempre più la produzione al valore di scambio, facendo dipendere godimenti e sussistenza più dalla vendita che dall'uso immediato del prodotto. Dissolve in tal modo i rapporti tradizionali. Aumenta la circolazione di denaro. Non si limita più a impadronirsi dell'eccedenza della produzione, ma divora via via anche quest'ultima, e si subordina interi rami di produzione. Tuttavia questo effetto dissolvente dipende in alto grado dalla natura della comunità produttrice...

Finché il capitale commerciale media lo scambio di prodotti fra comunità non sviluppate, il profitto commerciale non solo appare come imbroglio e truffa, ma in gran parte ne deriva...

Lo sviluppo del commercio e del capitale commerciale stimola dovunque l'orientamento della produzione verso il valore di scambio, ne aumenta il volume, la rende più varia e cosmopolita, trasforma il denaro in denaro mondiale. Perciò il commercio agisce dovunque come fattore più o meno dissolvente sulle organizzazioni della produzione che trova già costituite, e che, in tutte le loro forme diverse, sono essenzialmente orientate verso il valore d'uso. Ma fino a che punto esso provochi la disgregazione dei vecchi modi di produzione dipende, in primo luogo, dalla loro stabilità e articolazione interna. E dove sfoci questo processo di disgregazione, cioè quale nuovo modo di produzione subentri al vecchio, dipende non dal commercio, ma dal carattere del vecchio modo di produzione stesso. Nel mondo antico, l'azione del commercio e lo sviluppo del capitale commerciale sfociano sempre nell'economia schiavistica; a seconda del punto di partenza, anche solo nella metamorfosi di un sistema schiavistico patriarcale, orientato verso la produzione di mezzi di sussistenza immediati, in un sistema schiavistico orientato verso la produzione di plusvalore. Nel mondo moderno, invece, mettono sempre capo al modo di produzione capitalistico. Ne segue che a determinare questi stessi risultati furono circostanze non riducibili al solo sviluppo del capitale commerciale...

Non v'è alcun dubbio - e proprio questo fatto ha suscitato concezioni del tutto erronee - che, nei secoli XVI e XVII, le grandi rivoluzioni che in seguito alle scoperte geografiche si verificarono nel commercio e che favorirono un rapido sviluppo ulteriore del capitale commerciale costituirono un fattore di primaria importanza nel promuovere il passaggio dal modo di produzione feudale a quello capitalistico. L'improvvisa espansione del mercato mondiale, la diversificazione delle merci circolanti, la rivalità fra le nazioni europee per impadronirsi dei prodotti asiatici e dei tesori americani, e il sistema coloniale, contribuirono decisamente a travolgere le barriere feudali della produzione. Tuttavia, nel suo primo periodo, il periodo manifatturiero, il modo di produzione moderno si sviluppò soltanto là dove le condizioni a ciò necessarie si erano prodotte nel corso stesso del Medioevo...

E se, nel XVI e in parte ancora nel XVII secolo, l'improvvisa espansione del commercio e la creazione di un nuovo mercato mondiale esercitarono un influsso soverchiante sul declino del vecchio modo di produzione e sull'ascesa di quello capitalistico, ciò accadde, viceversa, sulle fondamenta di quest'ultimo, ormai costituito. Il mercato mondiale forma infatti esso stesso la base del modo di produzione capitalistico. D'altra parte, la necessità ad esso immanente di produrre su scala sempre più vasta spinge alla costante espansione del mercato mondiale, cosicché qui non è il commercio a rivoluzionare l'industria, ma questa a rivoluzionare continuamente quello...

Il passaggio dal modo di produzione feudale si compie per due vie. Il produttore diventa commerciante e capitalista in contrasto con l'economia naturale agricola e con l'artigianato stretto in corporazioni dell'industria medievale urbana. È questa la via veramente rivoluzionatrice. Oppure il commerciante si impadronisce direttamente della produzione. Se quest'ultima via funge storicamente da trapasso [...] in sé e per sé non rivoluziona tuttavia l'antico modo di produzione, che invece conserva e mantiene come suo presupposto...

Presupposto in origine della trasformazione del mestiere artigiano-corporativo e rurale-domestico e dell'agricoltura feudale in produzioni capitalistiche, il commercio sviluppa il prodotto in merce, sia creandogli un mercato, sia apportando nuovi equivalenti di merci e nuove materie prime ed ausiliarie per la produzione, e così aprendo nuovi rami di produzione basati fin dall'inizio sul commercio, tanto sulla produzione per il mercato, e per il mercato mondiale, quanto sulle condizioni di produzione che dal mercato mondiale si originano. Non appena si è in una certa misura rafforzata, la manifattura e ancor più la grande industria si crea a sua volta un mercato, lo conquista con le sue merci. Il commercio diventa ora servo della produzione industriale, di cui è condizione di vita il costante ampliamento del mercato. Una produzione di massa sempre più estesa inonda il mercato esistente e lavora perciò sempre ad allargarlo, a travolgerne le barriere. Il limite di questa produzione di massa non è rappresentato dal commercio (in quanto esso non fa che esprimere la domanda esistente) ma dalla grandezza del capitale in funzione e dallo sviluppo della produttività del lavoro. Il capitalista industriale ha continuamente davanti a sé il mercato mondiale, confronta e deve costantemente confrontare i suoi prezzi di costo con i prezzi di mercato non solo del suo paese, ma del mondo intero.

Sezione V

RIPARTIZIONE DEL PROFITTO IN INTERESSE E UTILE D'INTRAPRESA.

IL CAPITALE PRODUTTIVO DI INTERESSE.

Capitolo XXI
IL CAPITALE PRODUTTIVO D'INTERESSE

Consideriamo dapprima la specifica circolazione del capitale produttivo di interesse. Bisognerà poi esaminare in seconda istanza il modo peculiare in cui esso è venduto come merce, ossia dato in prestito invece che ceduto una volta per tutte.

Il punto di partenza è il denaro che A anticipa a B. Ciò può avvenire con o senza pegno; la prima forma è però la più antica, eccezion fatta per gli anticipi su merci o su titoli di credito, come cambiali, azioni, etc. Queste forme particolari qui non ci riguardano. Qui abbiamo a che fare con il capitale produttivo di interesse nella sua forma corrente.

Nelle mani di B il denaro viene effettivamente convertito in capitale, compie il movimento D-M-D' e ritorna ad A come D', come D + ∆D, dove ∆D rappresenta l'interesse. Per semplificare, astraiamo momentaneamente dal caso in cui il capitale resta piuttosto a lungo in mano a B, e gli interessi vengono pagati a termine.

Il movimento è dunque:

D-D-M-D'-D'.

Ciò che qui appare sdoppiato è: 1) la spesa del denaro come capitale; 2) il suo riflusso come capitale realizzato, come D', ovvero D + ∆D...

A questa doppia spesa del denaro come capitale, di cui la prima è puro trasferimento da A a B, corrisponde il suo duplice riflusso. Il denaro rifluisce dal movimento, come D' o D + ∆D, al capitalista in funzione B. Questi poi lo ritrasferisce ad A, ma nello stesso tempo con una parte del profitto, come capitale realizzato, come D + ∆D, dove ∆D non è eguale all'intero profitto, ma ne è solo una parte, l'interesse. A B esso rifluisce soltanto come ciò che egli ha speso, come capitale in funzione, ma come proprietà di A. Perché il suo riflusso sia completo, B deve quindi ritrasferirlo ad A. Ma, oltre alla somma capitale, B deve cedere ad A, sotto il nome di interesse, una parte del profitto da lui conseguito con questa somma capitale, perché A gli ha dato il denaro soltanto come capitale, cioè come valore che non solo si conserva nel movimento, ma crea al suo proprietario un plusvalore. Resta in mano a B solo finché è capitale in funzione. E, con il suo riflusso — trascorso il termine fissato —, cessa di funzionare come capitale. Ma, come capitale non più in funzione, dev'essere ritrasferito ad A, che non ha cessato d'esserne il proprietario giuridico.

La forma del dare in prestito, che è propria di questa merce, del capitale come merce, e ricorre del resto anche in altre transazioni, invece della forma del vendere, risulta già dalla determinazione per cui il capitale si presenta qui come merce, ovvero il denaro in quanto capitale diventa merce...

Il proprietario di denaro che intende valorizzare il proprio denaro come capitale produttivo d'interesse, lo aliena a un terzo, lo getta in circolazione, ne fa una merce come capitale, non solo come capitale per lui stesso, ma anche per altri; esso non è soltanto capitale per colui che lo aliena, ma viene a priori ceduto al terzo come capitale, come valore che possiede il valore d'uso di creare plusvalore, profitto; come valore che si conserva nel movimento e, dopo aver funzionato, ritorna a colui che l'ha originariamente dato via, qui al proprietario di denaro; dunque si distacca da lui solo per un periodo di tempo, e dal possesso del suo proprietario passa, in via soltanto temporanea, in quello del capitalista in funzione; dunque non viene dato in pagamento né venduto, ma soltanto prestato; viene solo alienato, alla condizione, in primo luogo, di tornare dopo un dato periodo al suo punto di partenza, in secondo luogo di tornare come capitale realizzato, in modo da aver realizzato il suo valore d'uso di produrre plusvalore...

Il modo del riflusso è [...] determinato di volta in volta dal reale movimento circolatorio del capitale che si riproduce, e delle sue forme particolari. Ma per il capitale prestato il riflusso prende la forma del rimborso, perché l'anticipo, l'alienazione dello stesso, ha la forma del prestito...

Il denaro, in quanto lo si presti come capitale, viene prestato appunto come questa somma di denaro che si conserva e che si accresce, che dopo un certo periodo ritorna con un'aggiunta, e che può compiere sempre di nuovo il medesimo processo. Non è speso né come denaro né come merce, dunque né scambiato con merce se anticipato come denaro, né venduto contro denaro se anticipato come merce; ma è speso come capitale. Il rapporto con se stesso, in cui il capitale si presenta allorché si considera il processo capitalistico come un tutto e come unità, e in cui il capitale interviene come denaro figliarne denaro, gli è qui semplicemente incorporato, senza la mediazione del movimento intermedio, come suo carattere, come sua determinatezza. E in questa determinatezza esso viene alienato quando lo si presta come capitale denaro...

Il ritorno del capitale al suo punto di partenza è, in generale, il movimento caratteristico del capitale nel suo ciclo complessivo. Ciò non caratterizza soltanto il capitale produttivo d'interesse. Ciò che lo caratterizza è la forma esteriore, separata dal ciclo che lo media, del ritorno...

Nel primo atto, l'atto introduttivo, il mutuante cede il suo capitale al mutuatario. Nel secondo atto, l'atto successivo e finale, il mutuatario restituisce il capitale al mutuante. Nella misura in cui si considera soltanto la transazione fra i due — e a prescindere, per il momento, dall'interesse -, nella misura dunque in cui si tratta solo del movimento dello stesso capitale prestato fra mutuante e mutuatario, questi due atti (separati da un tempo più o meno lungo entro il quale cade il vero e proprio movimento di riproduzione del capitale) abbracciano la totalità di questo movimento. E questo movimento, cessione a condizione di rimborso, è in generale il movimento del dare e prendere a prestito, forma specifica dell'alienazione in via soltanto condizionale di denaro o merce.

Il movimento caratteristico del capitale in generale, il ritorno del denaro al capitalista, il ritorno del capitale al suo punto di partenza, riceve nel capitale produttivo di interesse una forma del tutto esteriore, separata dall'effettivo movimento di cui è forma. A cede il suo denaro non come denaro, ma come capitale. Qui il capitale non subisce nessun mutamento; cambia solo di mano. La sua vera e propria conversione in capitale si compie solo in mano a B. Ma per A esso è diventato capitale grazie alla pura e semplice cessione a B. L'effettivo riflusso del capitale dal processo di produzione e circolazione ha luogo soltanto per B..Ma per A esso avviene nella stessa forma che l'alienazione. Dalla mano di B il capitale ritorna a quella di A. Cessione, prestito di denaro per un certo tempo, e suo recupero con interesse (plusvalore): ecco l'intera forma del movimento proprio del capitale produttivo d'interesse in quanto tale...

Nel capitale produttivo di interesse, il ritorno, come la cessione, non è che risultato di una transazione giuridica fra il proprietario del capitale ed una seconda persona. Noi vediamo soltanto cessione e rimborso. Tutto ciò che avviene nell'intervallo è estinto...

Il prestito di denaro come capitale - la sua cessione a condizione del rimborso dopo un certo tempo — ha dunque come presupposto che il denaro venga realmente usato come capitale, rifluisca effettivamente al suo punto di partenza. Il reale movimento ciclico del denaro come capitale è quindi il presupposto della transazione giuridica in forza della quale il mutuatario deve restituire il denaro al mutuante. Se il mutuatario non spende il denaro come capitale, è affar suo. Il mutuante lo presta come capitale e, in quanto tale, esso deve assolvere le funzioni di capitale, che includono il ciclo del capitale denaro fino al suo riflusso in forma denaro al suo punto di partenza...

Il mutuante dà via il suo denaro come capitale; la somma di denaro che aliena ad altri è capitale, quindi gli rifluisce. Il semplice ritorno a lui non sarebbe tuttavia riflusso della somma di valore prestata come capitale, ma pura restituzione di una somma di valore prestata. Per rifluire come capitale, la somma di valore anticipata deve non soltanto essersi conservata nel movimento, ma essersi valorizzata, aver aumentato la sua grandezza di valore, dunque ritornare con un plusvalore, come D + ∆D, e questo ∆D è qui l'interesse, ovvero la parte del profitto medio che non resta nelle mani del capitalista in funzione, ma tocca al capitalista monetario.

Che questi lo alieni come capitale, significa che glielo si deve restituire come D + ∆D...

Che cosa il capitalista monetario dà al mutuatario, al capitalista industriale? Che cosa, in realtà, gli aliena, giacché solo l'atto dell'alienazione fa del prestito di denaro un'alienazione del denaro come capitale, cioè un'alienazione del capitale come merce?...

Che cos'è il valore d'uso che il capitalista monetario aliena per la durata del prestito e cede al capitalista produttivo, il mutuatario? È il valore d'uso che il denaro acquisisce per il fatto di poter essere convertito in capitale, di poter funzionare come capitale, e, quindi, di produrre nel suo movimento un determinato plusvalore, il profitto medio (ciò che gli sta sopra o sotto, qui, appare fortuito); per il fatto inoltre di conservare la sua originaria grandezza di valore. Nel caso delle altre merci, il valore d'uso viene, in ultima istanza, consumato, e così scompare la sostanza della merce e con essa il suo valore. La merce capitale, invece, ha questo di peculiare: che, mediante il consumo del suo valore d'uso, il suo valore e il suo valore d'uso vengono non solo conservati, ma accresciuti.

È questo valore d'uso del denaro come capitale — la capacità di produrre il profitto medio che il capitalista monetario aliena al capitalista industriale per il tempo in cui gli cede la facoltà di disporre del capitale prestato...

Il valore d'uso del denaro prestato è di poter funzionare come capitale e, in quanto tale, produrre in condizioni medie il profitto medio...

Il mutuatario prende in prestito il denaro come capitale, come valore che si valorizza. Ma esso è dapprima solo capitale in sé, come ogni capitale al suo punto di partenza, all'atto della sua anticipazione. Solo con il suo uso esso si valorizza, si realizza come capitale. Ma il mutuatario deve rimborsarlo come capitale realizzato, dunque come valore più plusvalore (interesse); e quest'ultimo può essere solo una parte del profitto da lui realizzato. Solo una parte, non il tutto. Giacché il suo valore d'uso, per il mutuatario, è di produrgli un profitto. Altrimenti non si sarebbe avuta da parte del mutuante nessuna alienazione del valore d'uso. D'altro lato, al mutuatario non può toccare tutto quanto il profitto. In caso contrario, egli non pagherebbe nulla per l'alienazione del valore d'uso, e restituirebbe al mutuante il denaro anticipato solo come denaro semplice, non come capitale, come capitale realizzato, perché capitale realizzato esso è unicamente come D + ∆D.

Entrambi spendono la stessa somma di denaro come capitale, il mutuante come il mutuatario. Ma solo nelle mani del secondo essa funziona come capitale. Il profitto non viene raddoppiato per effetto della doppia esistenza della stessa somma di denaro come capitale per due persone. Quel denaro può funzionare per entrambi come capitale solo attraverso spartizione del profitto. La parte che tocca al mutuante si chiama interesse...

Interesse come prezzo del capitale è a priori un'espressione del tutto irrazionale...

Il capitale si manifesta come capitale valorizzandosi; il grado della sua valorizzazione esprime il grado quantitativo in cui esso si realizza come capitale. Il plusvalore o profitto ch'esso genera — il saggio o livello di tale plusvalore — può essere solo misurato comparandolo con il valore del capitale anticipato. Anche la valorizzazione più o meno grande del capitale produttivo d'interesse è quindi misurabile solo comparando l'ammontare dell'interesse, la parte del profitto totale che gli compete, con il valore del capitale anticipato. Se perciò il prezzo esprime il valore della merce, l'interesse esprime la valorizzazione del capitale denaro, quindi appare come il prezzo pagato per esso al mutuante...

Il carattere sociale antagonistico della ricchezza materiale — la sua antitesi al lavoro come lavoro salariato — si esprime già, indipendentemente dal processo di produzione, nella proprietà del capitale in quanto tale. Questo fattore particolare, isolato dallo stesso processo di produzione capitalistico di cui è costante risultato, e come suo costante risultato è il suo costante presupposto, si esprime nel fatto che il denaro, ed egualmente la merce, sono in sé, in forma latente, in potenza, capitale; che possono essere venduti come capitale, e che in questa forma sono comando su lavoro altrui, dànno diritto ad appropriarsi lavoro altrui; sono, perciò, valore che si valorizza.

Capitolo XXIIxo

RIPARTIZIONE DEL PROFITTO

INTERESSE

SAGGIO «NATURALE» DELL'INTERESSE

Poiché l'interesse è semplicemente una parte del profitto che, secondo quanto abbiamo finora presupposto, il capitalista industriale deve pagare al capitalista monetario, come limite massimo dell'interesse appare lo stesso profitto qualora la parte spettante al capitalista in funzione fosse = 0. Prescindendo da casi singoli, in cui l'interesse può effettivamente essere maggiore del profitto, ma allora non può essere pagato attingendolo da quest'ultimo, si potrebbe forse considerare come limite massimo dell'interesse l'intero profitto meno la parte di esso, da sviluppare in seguito, che si può risolvere in salario di sorveglianza (wages of superintendence). Il limite minimo dell'interesse è invece assolutamente indeterminabile: può scendere a qualunque profondità si voglia, dopo di che subentrano però sempre di nuovo circostanze agenti in senso opposto, che lo sollevano al disopra di questo minimo relativo...

«Il rapporto fra la somma pagata per l'uso di un capitale e questo stesso capitale esprime il saggio dell'interesse, misurato in denaro». «Il saggio d'interesse dipende, 1) dal saggio di profitto, 2) dal rapporto in cui il profitto totale viene ripartito fra mutuante e mutuatario» («Economist», 22 gennaio 1853)...

Supponiamo a tutta prima che fra il profitto totale e la parte di esso che si deve versare come interesse al capitalista monetario esista un rapporto fisso. Allora è chiaro che l'interesse salirà o scenderà come il profitto totale, e questo è determinato dal saggio generale di profitto e dalle sue oscillazioni...

Supposte eguali tutte le altre circostanze, cioè ammesso come più o meno costante il rapporto fra interesse e profitto totale, il capitalista in funzione potrà e vorrà pagare un interesse più o meno elevato in ragion diretta del livello del saggio di profitto..

Supposto come dato il saggio generale di profitto, dunque la grandezza del profitto per un capitale di grandezza data, diciamo = 100, è chiaro che le variazioni dell'interesse saranno inversamente proporzionali a quelle della parte di profitto che rimane al capitalista in funzione il quale però lavori con capitale preso a prestito. E le circostanze che determinano la grandezza del profitto da spartire, del valore prodotto da lavoro non pagato, sono assai diverse da quelle che determinano la sua ripartizione fra queste due categorie di capitalisti, e spesso agiscono in senso del tutto opposto...

Se si considerano i cicli di rotazione in cui si muove l'industria moderna stato di quiete, crescente animazione, prosperità, sovraproduzione, crack, ristagno, stato di quiete etc., cicli la cui analisi ulteriore esula dal campo della nostra indagine -, si troverà che, per lo più, il basso livello dell'interesse corrisponde ai periodi di prosperità o di extraprofitto, l'aumento dell'interesse si colloca tra la fase di prosperità e la sua inversione, e il livello massimo dell'interesse, fino agli estremi dell'usura, si ha durante la crisi...

L'interesse raggiunge il più alto livello durante la crisi, in cui, costi quel che costi, per pagare si deve prendere a prestito. È questa, nello stesso tempo, dato che all'aumento dell'interesse corrisponde una caduta nel prezzo dei titoli, un'ottima occasione perché gente con capitale denaro disponibile si impadronisca a prezzi irrisori di quei titoli fruttiferi che, nel corso abituale delle cose, devono nuovamente raggiungere, non appena il saggio d'interesse ridiscenda, almeno il loro prezzo medio...

C'è però anche una tendenza alla caduta del saggio d'interesse indipendentemente dalle oscillazioni del saggio di profitto. E per due cause principali:

I. «Anche supponendo che nessuno prenderebbe a prestito capitale se non per impiegarlo produttivamente, nondimeno l'interesse potrebbe cambiare senza che si verificasse alcun cambiamento nel saggio del profitto lordo. Via via infatti che una nazione progredisce sulla strada della ricchezza, sorge e si sviluppa sempre più una classe di uomini che, grazie alle fatiche dei loro antenati, si trovano in possesso di fondi dei cui interessi possono vivere. E molti, che in gioventù e nella maturità erano dediti attivamente agli affari, si ritirano per vivere tranquillamente nella vecchiaia dell'interesse delle somme che essi stessi hanno accumulato...

II. Lo sviluppo del sistema creditizio, la capacità, grazie ad esso continuamente crescente, degli industriali e dei commercianti — intermediari i banchieri — di disporre di tutti i risparmi in denaro di ogni classe della società, e la progressiva concentrazione di questi risparmi in masse tali da poter funzionare come capitale denaro, devono parimenti esercitare una pressione sul saggio d'interesse...

Per trovare il saggio medio dell'interesse, bisogna: 1) calcolare la media dell'interesse durante le sue variazioni nei grandi cicli industriali; 2) l'interesse negli investimenti in cui si presta capitale a lungo termine.

Il saggio medio d'interesse regnante in un paese — a differenza dei sempre oscillanti saggi di mercato — non è determinabile mediante alcuna legge. Non esiste dunque un saggio naturale dell'interesse nel senso in cui gli economisti parlano di un saggio naturale del profitto e di un saggio naturale del salario...

Se poi si chiede perché i limiti del saggio medio d'interesse non si possano derivare da leggi generali, la risposta va cercata semplicemente nella natura dell'interesse. Esso non è che una parte del profitto medio. Il medesimo capitale appare in una duplice determinazione: come capitale da prestito in mano al mutuante, come capitale industriale o commerciale in mano al capitalista in funzione. Ma opera solo una volta e produce egualmente solo una volta il profitto. Nello stesso processo di produzione il carattere del capitale in quanto capitale da prestito non recita nessuna parte. Come le due persone che rivendicano questo profitto se lo ripartiscano, è in sé e per sé un fatto puramente empirico, appartenente al regno del caso, tanto quanto la ripartizione delle parti percentuali del profitto comune di una società fra i vari soci. Nella divisione fra plusvalore e salario, sulla quale essenzialmente si basa la determinazione del saggio di profitto, agiscono in modo determinante due elementi del tutto diversi, forza lavoro e capitale; sono funzioni di due variabili indipendenti che si limitano a vicenda, e dalla loro differenza qualitativa scaturisce la ripartizione quantitativa del valore prodotto. Vedremo in seguito che la stessa cosa avviene nella ripartizione del plusvalore fra rendita e profitto. Nel caso dell'interesse, non ve nulla di simile. Qui, come subito vedremo, la differenza qualitativa scaturisce, tutto all'opposto, dalla ripartizione puramente quantitativa della stessa frazione del plusvalore.

Da quanto esposto finora risulta, che non esiste un saggio «naturale» d'interesse. Ma se, da un lato, in antitesi al saggio generale di profitto, l'interesse medio o il saggio medio d'interesse, a differenza dei suoi saggi di mercato continuamente oscillanti, non è determinabile nei suoi confini mediante leggi generali, perché non si tratta che della ripartizione del profitto lordo fra due proprietari del capitale sotto titoli diversi, dall'altro il saggio d'interesse, sia esso il saggio medio, sia il saggio di mercato di volta in volta esistente, appare invece come una grandezza uniforme, determinata e tangibile, ben diversamente da quel che avviene per il saggio generale di profitto..

Il saggio d'interesse sta al saggio di profitto esattamente come il prezzo di mercato della merce al suo valore. Nella misura in cui il saggio d'interesse è determinato dal saggio di profitto, lo è sempre dal saggio generale di profitto, non dagli specifici saggi di profitto che possono regnare in particolari rami d'industria, meno che mai dall'extraprofitto che il singolo capitalista può carpire in una determinata sfera d'affari...

Il saggio medio d'interesse in ogni paese appare, per periodi di una certa lunghezza, come una grandezza costante, perché il saggio generale di profitto — nonostante il continuo mutamento dei saggi particolari di profitto, dove però la variazione in una sfera viene compensata da variazioni opposte nelle altre — cambia solo in periodi piuttosto lunghi. E la sua costanza relativa si manifesta appunto in questo carattere più o meno costante del saggio medio di interesse (average rate or common rate of interest).

Per quanto invece riguarda il saggio di mercato dell'interesse, che oscilla di continuo, esso è dato in ogni momento come grandezza fissa, al modo del prezzo di mercato delle merci, perché sul mercato monetario tutto il capitale da prestito si contrappone costantemente come massa complessiva al capitale in funzione, quindi il rapporto tra offerta di capitale da prestito da un lato e sua domanda dall'altro decide il livello di mercato raggiunto di volta in volta dall'interesse. E ciò tanto più, in quanto lo sviluppo e la concentrazione ad esso legata dal sistema del credito conferiscono al capitale da prestito un carattere generalmente sociale e lo gettano di colpo, contemporaneamente, sul mercato del denaro...

Si è visto che il capitale produttivo d'interesse, pur essendo una categoria assolutamente diversa dalla, merce, diventa merce sui generis e quindi l'interesse ne diventa il prezzo, fissato di volta in volta, come nelle merci usuali il loro prezzo di mercato, dalla domanda e dall'offerta. Il saggio di mercato dell'interesse, benché continuamente oscillante, appare quindi in ogni momento dato altrettanto costantemente fisso ed uniforme quanto il prezzo di mercato di volta in volta vigente della merce: sono i capitalisti monetari che offrono questa merce, e i capitalisti in funzione che la comprano, che ne formano la domanda...

Con lo sviluppo della grande industria, il capitale denaro, in quanto si presenta sul mercato, tende sempre più a non essere rappresentato dal singolo capitalista, proprietario di questa o quella frazione del capitale reperibile sul mercato, ma ad intervenire come massa concentrata, organizzata, che soggiace, ben altrimenti dalla produzione reale, al controllo dei banchieri rappresentanti il capitale sociale. Così, per quanto riguarda la forma della domanda, al capitale prestabile si contrappone il peso di tutta una classe e, per quanto riguarda la offerta, esso si presenta a sua volta en masse come capitale da prestito...

Esattamente come le variazioni di valore del denaro non gli impediscono di avere, di fronte a tutte le merci, lo stesso valore; esattamente come i prezzi di mercato delle merci oscillano bensì di giorno in giorno, ma ciò non impedisce loro d'essere registrati giornalmente nei listini; esattamente così il saggio d'interesse è regolarmente registrato come «prezzo del denaro». E ciò perché qui il capitale stesso viene offerto in forma denaro come merce; quindi la fissazione del suo prezzo è, come per tutte le altre merci, fissazione del suo prezzo di mercato; il saggio d'interesse si presenta perciò come saggio generale d'interesse, come tanto per tanto denaro, come alcunché di quantitativamente determinato.

Capitolo XXIII

INTERESSE E UTILE D'INTRAPRESA

E' soltanto la divisione dei capitalisti in monetari e industriali che trasforma in interesse una parte del profitto, che crea in generale la categoria dell'interesse; ed è solo la concorrenza fra queste due classi di capitalisti che genera il saggio d'interesse...

Perché un capitale denaro continui ad esistere come capitale denaro, occorre che sia prestato sempre di nuovo, al saggio d'interesse esistente, diciamo all'1 %, e alla stessa classe dei capitalisti industriali e mercantili. Finché questi operano come capitalisti, la differenza fra chi opera con capitale ottenute in prestito e chi con capitale proprio si riduce al fatto che l'uno deve pagare un interesse e l'altro no; l'uno intasca tutto il profitto π, l'altro π-z , il profitto meno l'interesse; più z si avvicina a zero, più π-z diventa = π; più, dunque, i due capitali stanno alla pari. L'uno dei due capitalisti deve rimborsare il capitale e prenderlo di nuovo in prestito; l'altro, per far funzionare il suo capitale, deve egualmente anticiparlo sempre di nuovo al processo di produzione, indipendentemente dal quale non ne può disporre. L'unica differenza che sussiste ancora, è il fatto di per sé evidente che il secondo è proprietario del suo capitale, e il primo no.

La questione che ora sorge è la seguente: come accade che questa divisione puramente quantitativa del profitto in profitto netto e in interesse si converta in divisione qualitativa? In altre parole, come accade che anche il capitalista il quale impiega soltanto capitale proprio, non capitale preso a prestito, raggruppi una frazione del suo profitto lordo sotto la particolare categoria dell'interesse, e in quanto tale la calcoli a parte? E, ancora, che quindi ogni capitale, dato o no a prestito, si distingua come produttivo d'interesse da sé come produttivo di profitto netto?...

Per rispondere al quesito, dobbiamo trattenerci ancora brevemente sull'effettivo punto di avvio nella formazione dell'interesse; cioè muovere dal presupposto che capitalista monetario e capitalista produttivo si fronteggino realmente non soltanto come persone giuridicamente diverse, ma come persone che svolgono funzioni del tutto diverse nel processo di riproduzione, o nelle cui mani lo stesso capitale effettua in realtà due movimenti completamente diversi. L'uno si limita a prestare il capitale, l'altro ne fa uso produttivo.

Per il capitalista produttivo che lavora con capitale preso a prestito, il profitto lordo si suddivide in due frazioni: l'interesse da pagare al mutuante, e l'eccedenza sull'interesse che costituisce la sua quota di partecipazione al profitto. Se è dato il saggio generale di profitto, quest'ultima frazione è determinata dal saggio d'interesse; se è dato il saggio d'interesse, è determinata dal saggio generale di profitto. Inoltre, per quanto in ogni caso singolo il profitto lordo, l'effettiva grandezza di valore del profitto totale, possa discostarsi dal profitto medio, la parte spettante al capitalista in funzione è determinata dall'interesse, perché questo è fissato e presupposto come stabilito in anticipo (a prescindere da particolari stipulazioni giuridiche) dal saggio generale d'interesse, prima che abbia inizio il processo di produzione; dunque, prima che ne sia stato ottenuto il risultato, cioè il profitto lordo.

Abbiamo visto che il vero e specifico prodotto del capitale è il plusvalore e, più precisamente, il profitto. Tuttavia, per il capitalista che lavora con capitale ottenuto in prestito, quello specifico prodotto non è il profitto, ma il profitto meno l'interesse, la parte del profitto che gli rimane una volta pagato l'interesse. Perciò questa parte del profitto gli appare necessariamente come prodotto del capitale nella misura in cui funziona; e così è per lui realmente, giacché egli rappresenta il capitale solo in quanto capitale funzionante: ne è la personificazione nella sola misura in cui esso agisce, ed esso agisce nella sola misura in cui è investito in modo da produrre un profitto o nell'industria o nel commercio, e nella sola misura in cui chi lo impiega compie con esso le operazioni di volta in volta prescritte dal ramo d'affari praticato. Contrariamente all'interesse, che egli deve versare al mutuante prelevandolo dal profitto lordo, la parte di profitto che ancora gli tocca assume perciò necessariamente la forma del profitto industriale o mercantile, ovvero, per usare un'espressione tedesca che abbraccia tutt'e due i tipi di profitto, la forma dell’Unternehmergewinti [letteralmente, guadagno dell'imprenditore], l'utile d'intrapresa. Se il profitto lordo è = il profitto medio, la grandezza dell'utile d'intrapresa è esclusivamente determinata dal saggio d'interesse. Se il profitto lordo diverge dal profitto medio, la sua differenza da quest'ultimo (detratto da una parte e dall'altra l'interesse) è determinata dall'insieme delle congiunture che provocano una deviazione temporanea sia del saggio di profitto in una particolare sfera di produzione dal saggio di profitto generale, sia del profitto ottenuto da un singolo capitalista in una determinata sfera dal profitto medio di quest'ultima...

[Se si suppone che] il capitalista in funzione non sia nello stesso tempo proprietario del capitale. La proprietà del capitale è rappresentata di fronte a lui dal mutuante, il capitalista monetario. L'interesse ch'egli versa a quest'ultimo appare perciò come la parte del profitto lordo spettante alla proprietà di capitale in quanto tale, mentre, per contrasto, la parte del profitto spettante al capitalista attivo appare come utile d'intrapresa, utile derivante esclusivamente dalle operazioni o dalle funzioni da lui svolte, con il capitale, nel processo di riproduzione; dunque, in particolare, dalle funzioni da lui svolte come imprenditore nell'industria o nel commercio.

Nei suoi confronti, l'interesse appare quindi come puro frutto della proprietà di capitale, del capitale in sé, astratto dal processo di riproduzione del capitale, in quanto non «lavora», in quanto non funziona, mentre l'utile d'intrapresa appare come frutto esclusivo delle funzioni da lui svolte con il capitale, del movimento e del processo del capitale, un processo che gli si configura come sua propria attività in antitesi alla non-attività, alla non-partecipazione al processo di produzione, del capitalista monetario.

Questa divisione qualitativa fra le due parti del profitto lordo, per cui l'interesse è frutto del capitale in sé, della proprietà di capitale, astrazion fatta dal processo di produzione, e l'utile d'intrapresa è frutto del capitale in processo, del capitale agente nel processo di produzione, quindi della funzione attiva svolta da colui che impiega il capitale nel processo di riproduzione — questa divisione qualitativa non è affatto un'idea puramente soggettiva del capitalista monetario qui e del capitalista industriale là. Essa poggia su un dato di fatto oggettivo, perché l'interesse affluisce al capitalista monetario, al prestatore, che è mero proprietario del capitale e quindi rappresenta la mera proprietà di capitale prima e fuori del processo di produzione, mentre l'utile d'intrapresa affluisce al capitalista puramente funzionante, che è non-proprietario del capitale.

Sia per il capitalista industriale, in quanto lavori con capitale preso a prestito, sia per il capitalista monetario, in quanto non impieghi egli stesso il suo capitale, la ripartizione puramente quantitativa del profitto lordo fra due persone diverse, aventi diversi titoli di diritto sullo stesso capitale e quindi sul profitto da esso generato, si capovolge così in divisione qualitativa. Una parte del profitto appare ora come frutto spettante in sé e per sé del capitale in una determinazione, come interesse; l'altra appare come frutto specifico del capitale in una determinazione opposta, quindi come utile d'intrapresa; l'una come mero frutto della proprietà di capitale, l'altra come frutto del mero operare con il capitale, come frutto del capitale in quanto capitale in processo, o delle funzioni assolte dal capitalista attivo. E questa cristallizzazione e reciproca autonomizzazione delle due parti del profitto lordo, quasi che scaturissero da due fonti essenzialmente diverse, deve imporsi all'intera classe capitalistica e al capitale totale...

Il profitto di ogni capitale, dunque anche il profitto medio basato sul reciproco livellamento dei capitali, si suddivide o viene ripartito in due frazioni qualitativamente diverse, autonome l'una nei confronti dell'altra e reciprocamente indipendenti, interesse e utile d'intrapresa, entrambe determinate da leggi particolari. Il capitalista che lavora con capitale proprio, esattamente come quello che lavora con capitale preso a prestito, suddivide il suo profitto lordo in interesse, che gli compete come proprietario, come prestatore di capitale a se stesso, e in utile d'intrapresa, che gli compete in quanto capitalista attivo, capitalista in funzione. Per questa suddivisione, in quanto è qualitativa, diviene indifferente il fatto che il capitalista debba veramente dividere qualcosa con un altro, oppure no. Colui che impiega il capitale, anche se lavora con capitale proprio, si scende in due persone, il mero proprietario del capitale e l'utilizzatore del capitale; a sua volta il suo capitale, in riferimento alle categorie di profitto da esso generate, si scinde in proprietà di capitale, capitale fuori del processo di produzione, che in sé frutta interesse, e capitale nel processo di produzione, che in quanto capitale in processo frutta un utile d'intrapresa...

È ora molto facile spiegare perché, una volta che questa ripartizione del profitto lordo in interesse e utile d'intrapresa è divenuta qualitativa, essa assuma questo carattere di ripartizione qualitativa anche per il capitale totale e per l'intera classe dei capitalisti...

La metamorfosi di una parte del profitto lordo nella forma dell'interesse ne trasforma l'altra parte in utile d'intrapresa. Quest'ultimo, in realtà, è solo la forma contrapposta assunta dall'eccedenza del profitto lordo sull'interesse, non appena quest'ultimo esiste come categoria a sé stante. Tutta la ricerca sul modo in cui il profitto lordo si differenzia in interesse e utile d'intrapresa si risolve semplicemente nella ricerca sul modo in cui una parte del profitto lordo si cristallizza e si autonomizza su scala generale come interesse. Ora, storicamente, il capitale produttivo d'interesse esiste come forma finita, trasmessa per tradizione, e quindi l'interesse come sottoforma finita del plusvalore generato dal capitale, assai prima che esistano il modo di produzione capitalistico e i concetti ad esso corrispondenti di capitale e profitto. Perciò ancor oggi nella concezione popolare il capitale denaro, il capitale produttivo d'interesse, vale come capitale in sé, capitale par excellence... Il fatto che il capitale dato in prestito frutti interesse, sia o no impiegato realmente come capitale — anche quando è preso a prestito a puri fini di consumo —, consolida l'idea dell'autonomia di questa forma del capitale...

Il fatto che il capitalista industriale lavori con capitale proprio, oppure con capitale preso a prestito, non toglie che la classe dei capitalisti monetari gli stia di fronte come una particolare categoria di capitalisti, il capitale denaro come un genere autonomo di capitale, e l'interesse come la forma indipendente del plusvalore che corrisponde a questo capitale specifico.

Dal punto di vista qualitativo, l'interesse è il plusvalore che fornisce la mera proprietà del capitale, che arreca il capitale in sé, sebbene il suo proprietario rimanga fuori del processo di riproduzione; è, quindi, il plusvalore che dà il capitale separato dal suo processo.

Dal punto di vista quantitativo, la parte del profitto che costituisce l'interesse non appare riferita al capitale industriale e commerciale in quanto tale, ma al capitale monetario, e il saggio di questa parte del plusvalore, il saggio d'interesse, consolida tale rapporto. Infatti, primo, il saggio d'interesse — pur dipendendo dal saggio generale di profitto — viene determinato in modo autonomo; e, secondo, appare di fronte all'inafferrabile saggio di profitto, al modo del prezzo di mercato delle merci, come un rapporto fisso, uniforme, tangibile, e, malgrado ogni variazione, sempre dato. Se tutto il capitale fosse in mano ai capitalisti industriali, non esisterebbe né interesse, né saggio d'interesse. La forma autonoma che assume la suddivisione quantitativa del profitto lordo genera quella qualitativa. Se il capitalista industriale si confronta col capitalista monetario, ciò che lo distingue da costui è solo l'utile d'intrapresa, come eccedenza del profitto lordo sull'interesse medio che, grazie al saggio d'interesse, appare come grandezza empiricamente data. Se d'altra parte egli si confronta con il capitalista industriale che lavora con capitale proprio anziché preso a prestito, questi si distingue da lui solo come capitalista monetario, in quanto intasca egli stesso l'interesse invece di pagarlo ad altri. Da entrambi i lati la frazione di profitto lordo distinta dall'interesse gli appare come utile d'intrapresa, e l'interesse come un plusvalore prodotto dal capitale in sé e per sé, suscettibile quindi d'esserne prodotto anche senza impiego produttivo...

La trasformazione dell'intero capitale in capitale denaro senza che ci sia della gente che acquista e valorizza i mezzi di produzione nella cui forma è presente il capitale totale, a prescindere dalla parte relativamente piccola dello stesso che esiste in denaro — tutto ciò è naturalmente assurdo. E racchiude l'assurdità ancora più grande che, sulla base del modo di produzione capitalistico, il capitale possa produrre interesse senza funzionare come capitale produttivo, cioè senza creare il plusvalore di cui l'interesse non è che una parte; che il modo di produzione capitalistico possa fare il suo corso senza la produzione capitalistica...

L'interesse non è dunque che l'espressione del fatto che il valore in generale — il lavoro oggettivato nella sua forma generalmente sociale —, che assume nel reale processo di produzione la forma dei mezzi di produzione, si contrappone alla forza lavoro viva come potenza autonoma ed è il mezzo per appropriarsi lavoro non retribuito; e che esso è questa potenza in quanto si contrappone come proprietà altrui al lavoratore. Ma, d'altra parte, nella forma dell'interesse questa contrapposizione al lavoro salariato è estinta, perché il capitale produttivo di interesse ha come tale per sua antitesi non il lavoro salariato, ma il capitale in funzione; il capitalista mutuante si contrappone direttamente in quanto tale al capitalista che funziona realmente nel processo di riproduzione, non invece al lavoratore salariato, il quale appunto sulla base della produzione capitalistica è espropriato dei mezzi di produzione. Il capitale produttivo d'interesse è il capitale come proprietà di fronte al capitale come funzione. Ma, nella misura in cui non funziona, il capitale non sfrutta gli operai e non entra in antagonismo col lavoro.

D'altro lato, l'utile d'intrapresa non costituisce un'antitesi al lavoro salariato, ma solo all'interesse.

Primo: Supposto come dato il profitto medio, il saggio dell'utile di intrapresa non è determinato dal salario, ma dal saggio d'interesse: è alto o basso in ragione inversa a quest'ultimo...

Secondo: Il capitalista in funzione deduce il suo diritto all'utile d'intrapresa, quindi lo stesso utile d'intrapresa, non dalla sua proprietà sul capitale, ma dalla funzione del capitale in contrasto alla determinazione nella quale esiste unicamente come proprietà inerte. Questo contrasto appare immediatamente presente non appena egli opera con capitale preso a prestito, dove perciò interesse e utile d'intrapresa spettano a due diverse persone. L'utile d'intrapresa scaturisce dal funzionamento del capitale nel processo di riproduzione, dunque dalle operazioni, dall'attività, con cui il capitalista operante media queste funzioni del capitale industriale e mercantile. Ma essere rappresentante del capitale in funzione non è una sinecura come lo è la rappresentanza del capitale produttivo d'interesse. Sulla base della produzione capitalistica, il capitalista dirige sia il processo di produzione, sia il processo di circolazione. Lo sfruttamento del lavoro produttivo costa sforzo, che lo esegua egli stesso o lo faccia eseguire da altri in nome suo. Contrariamente all'interesse, quindi, il suo utile d'intrapresa gli si rappresenta come indipendente dalla proprietà di capitale e, piuttosto, come risultato delle sue funzioni di non-proprietario, di... lavoratore.

Perciò nella sua scatola cranica si sviluppa necessariamente l'idea che il suo utile d'intrapresa — ben lungi dal formare in alcun modo un'antitesi al lavoro salariato, e dall'essere solo lavoro altrui non retribuito —, sia esso stesso retribuzione del lavoro, salario, salario di sorveglianza, wages of superintendence of labour, salario superiore a quello del salariato comune, 1) perché si tratta di lavoro più complicato, 2) perché egli paga a se stesso il salario. Che la sua funzione di capitalista consista nel produrre plusvalore, cioè lavoro non retribuito, e nelle condizioni più economiche, lo si dimentica completamente, di fronte alla contraddizione per cui l'interesse tocca al capitalista anche se egli non esercita la funzione di capitalista, ma è puro e semplice proprietario del capitale, mentre l'utile d'intrapresa tocca al capitalista in funzione anche se questi non è proprietario del capitale con cui opera. A causa della forma antagonistica delle due parti in cui si suddivide il profitto e quindi il plusvalore, si dimentica che entrambe non sono che parti del plusvalore, e che la sua ripartizione non può cambiare nulla alla sua natura, alla sua origine e alle sue condizioni di esistenza.

Nel processo di riproduzione, il capitalista in funzione rappresenta il capitale come proprietà altrui di fronte all'operaio salariato, e il capitalista monetario partecipa, in quanto rappresentato dal capitalista in funzione, allo sfruttamento del lavoro. Del fatto che solo come rappresentante dei mezzi di produzione di fronte agli operai il capitalista attivo possa esercitare la funzione di far lavorare per sé gli operai, o di far funzionare come capitale i mezzi di produzione, ci si dimentica, di fronte all'antitesi tra la funzione del capitale nel processo di riproduzione e la pura e semplice proprietà sul capitale fuori del processo di riproduzione...

Fissato l'elemento della determinatezza sociale specifica del capitale nel modo di produzione capitalistico — la proprietà di capitale che possiede la caratteristica d'essere comando sul lavoro d'altri —, per cui l'interesse appare come la parte del plusvalore che il capitale produce sotto questo aspetto, l'altra parte del plusvalore — l'utile d'intrapresa — appare necessariamente come originantesi non dal capitale in quanto capitale, ma dal processo di produzione separato dalla sua specifica determinatezza sociale, che nell'espressione interesse di capitale ha già ricevuto la sua particolare forma di esistenza. Ma, isolato dal capitale, il processo di produzione è processo di lavoro in generale. Il capitalista industriale, in quanto distinto dal proprietario di capitale, si presenta perciò non come capitale in funzione, ma come funzionario anche a prescindere dal capitale, come semplice depositario del processo di lavoro in generale, come operaio, e precisamente come operaio salariato.

L'interesse in sé esprime appunto l'esistenza delle condizioni di lavoro come capitale nella loro antitesi sociale al lavoro e nella loro trasformazione in potenze personali nei confronti del lavoro e sul lavoro. Rappresenta la mera proprietà di capitale come mezzo per appropriarsi i prodotti del lavoro altrui. Ma rappresenta questo carattere del capitale come qualcosa che gli compete fuori del processo di produzione, e che non è in alcun modo il risultato della determinatezza specificamente capitalistica di questo processo di produzione. Lo rappresenta non in antitesi diretta al lavoro, ma, al contrario, senza rapporto col lavoro e come mero rapporto di un capitalista con un altro: dunque, come una determinazione esterna e indifferente al rapporto del capitale col lavoro...

D'altro lato, questa forma dell'interesse conferisce all'altra parte del profitto la forma qualitativa dell'utile d'intrapresa e, di qui, del salario di sorveglianza. Le funzioni particolari che il capitalista in quanto tale deve svolgere, e che gli competono appunto a differenza di e in antitesi ai lavoratori, vengono rappresentate come mere funzioni di lavoro. Egli crea plusvalore non perché lavori come capitalista, ma perché, a prescindere dalla sua qualità di capitalista, anche lavora. Questa parte del plusvalore non è più, dunque, plusvalore, ma il suo contrario, equivalente di lavoro compiuto. Poiché il carattere alienato del capitale, il suo contrapporsi al lavoro, viene trasferito al di là dell'effettivo processo di sfruttamento, cioè nel capitale produttivo d'interesse, questo stesso processo di sfruttamento appare come un puro e semplice processo lavorativo, in cui il capitalista in funzione si limita a compiere un lavoro diverso da quello dell'operaio. Il lavoro dello sfruttare e il lavoro sfruttato sono così, entrambi come lavoro, identici ; il lavoro consistente nello sfruttare è lavoro allo stesso titolo del lavoro che è oggetto di sfruttamento. All'interesse è attribuita la forma sociale del capitale, ma espressa in una forma neutra e indifferente; all'utile d'intrapresa, la funzione economica del capitale, ma astratta dal carattere determinato, capitalistico, di questa funzione...

Il lavoro di sovrintendenza e direzione si origina necessariamente dovunque il processo di produzione immediato abbia la forma di un processo socialmente combinato e non si presenti come lavoro isolato dei produttori indipendenti...

il lavoro di sovrintendenza sorge necessariamente in ogni modo di produzione basato sull'antagonismo fra l'operaio come produttore immediato e il proprietario dei mezzi di produzione. Quanto maggiore è questo antagonismo, tanto maggiore è il ruolo svolto da questo lavoro di sovrintendenza. Esso quindi raggiunge il suo massimo nel sistema schiavista. Ma è indispensabile anche nel modo di produzione capitalistico, perché qui il processo di produzione è, nello stesso tempo, processo di consumo della forza lavoro ad opera del capitalista...

In quanto non sia una funzione particolare derivante dalla natura stessa di ogni lavoro sociale combinato, ma sorga dall'antitesi fra il detentore dei mezzi di produzione e quello della pura e semplice forza lavoro [...], il lavoro di direzione e di sovrintendenza derivante dallo stato di asservimento del produttore immediato è addotto fin troppo spesso come giustificazione di questo stesso rapporto, e altrettanto spesso l'appropriazione di lavoro altrui non retribuito, lo sfruttamento, viene presentato come retribuzione spettante al proprietario del capitale...

La stessa produzione capitalistica ha avuto per effetto che il lavoro di direzione viaggia per le strade in completa separazione dalla proprietà del capitale: è quindi inutile che ad eseguirlo siano dei capitalisti... Di fronte al capitalista monetario, il capitalista industriale è lavoratore, ma lavoratore come capitalista, cioè come sfruttatore di lavoro altrui. Il compenso che, per questo lavoro, egli rivendica ed ottiene, equivale esattamente alla qualità appropriata di lavoro altrui, e dipende direttamente, nella misura in cui egli si assoggetta al necessario onere dello sfruttamento, dal grado di sfruttamento di questo lavoro, non dal grado di tensione che questo sfruttamento gli costa e che egli, contro moderato compenso, può scaricare sulle spalle di un manager...

Il «salario» di amministrazione per il dirigente sia mercantile che industriale appare completamente separato dall'utile d'intrapresa tanto nelle fabbriche cooperative di operai, quanto nelle società per azioni capitalistiche. La separazione fra il primo e il secondo, che in altri casi appare fortuita, è qui costante. Nella fabbrica cooperativa il carattere antagonistico del lavoro di sorveglianza svanisce, in quanto il dirigente è pagato dai lavoratori invece di rappresentare nei loro confronti il capitale. Le società per azioni — sviluppatesi con il sistema del credito — tendono in generale a separare sempre più questo lavoro amministrativo, come funzione, dal possesso del capitale, sia esso capitale proprio o preso in prestito, esattamente come, sviluppandosi la società borghese, le funzioni giudiziarie e amministrative si separano dalla proprietà fondiaria di cui erano degli attributi nell'epoca feudale. Ma nella misura in cui, da un lato, al mero proprietario del capitale, al capitalista monetario, si contrappone il capitalista in funzione e, sviluppandosi il credito, questo stesso capitale monetario assume un carattere sociale, si concentra in banche, e sono le banche, non più il suo proprietario diretto, a prestarlo; nella misura in cui, d'altro lato, il semplice dirigente che non detiene a nessun titolo il capitale, né in prestito né in altra forma, assolve tutte le funzioni reali spettanti al capitalista in funzione in quanto tale, non resta che il funzionario, e il capitalista scompare come persona superflua dal processo di produzione...

La confusione fra utile d'intrapresa e salario di sorveglianza o di amministrazione è sorta in origine dalla forma antagonistica assunta, in contrapposto all'interesse, dall'eccedenza del profitto su quest'ultimo, e si è ulteriormente sviluppata per l'apologetico disegno di presentare il profitto non come plusvalore, cioè come lavoro non pagato, ma come retribuzione del lavoro compiuto dal capitalista stesso...

Lo sviluppo della cooperazione dal lato degli operai, delle società per azioni dal lato della borghesia, ha pure tolto il terreno sotto i piedi all'ultimo pretesto addotto per confondere utile d'intrapresa e salario di amministrazione, e il profitto è apparso anche in pratica quel che era innegabilmente in teoria, mero plusvalore, valore per il quale non si paga nessun equivalente, lavoro non retribuito realizzato; così che il capitalista in funzione sfrutta realmente il lavoro, e il frutto del suo sfruttamento, quando egli lavora con capitale preso a prestito, si suddivide in interesse e utile d'intrapresa, eccedenza del profitto sull'interesse.

Sulla base della produzione capitalistica, un nuovo genere di truffa con il salario di amministrazione si sviluppa nelle società per azioni, poiché accanto e al disopra dell'effettivo dirigente entrano in scena una quantità di consiglieri di amministrazione e sorveglianza, presso i quali amministrazione e sorveglianza diventano in realtà puri e semplici pretesti per saccheggiare gli azionisti ed arricchire se stessi...


Capitolo XXIV

ESTERIORIZZAZIONE DEL RAPPORTO DI CAPITALE NELLA FORMA DEL CAPITALE PRODUTTIVO DI INTERESSE

Nel capitale produttivo d'interesse, il rapporto di capitale giunge alla sua forma più alienata e feticistica. Qui abbiamo D-D', denaro che produce più denaro, valore che si valorizza, senza il processo che media i due estremi. Nel capitale commerciale D-M-D', è almeno presente la forma generale del movimento capitalistico, benché essa rimanga confinata nella sfera della circolazione e quindi il profitto appaia come mero profitto da alienazione; ma si rappresenta pur sempre come prodotto di un rapporto sociale, non come prodotto di una pura e semplice cosa. La forma del capitale commerciale rappresenta ancora un processo, l'unità di fasi antitetiche, un movimento che si scinde in due atti contrapposti, compra e vendita di merci. In D-D', la forma del capitale produttivo di interesse, tutto ciò scompare...

È un rapporto di grandezza, il rapporto della somma principale, come valore dato, con se stessa come valore che si valorizza, come somma principale che ha prodotto un plusvalore. E, lo si è visto, il capitale si rappresenta come tale, come questo valore che immediatamente si valorizza, per tutti i capitalisti attivi, non importa se funzionino con capitale proprio o con capitale ricevuto in prestito.

D-D': abbiamo qui il punto di partenza originario del capitale, il denaro nella formula D-M-D' ridotta ai suoi due estremi D-D', dove D' è = D + ∆D, denaro che genera più denaro. È la formula originaria e generale del capitale condensata in un resumé privo di senso. È il capitale fatto e finito, unità di processo di produzione e processo di circolazione, che perciò genera in un determinato periodo di tempo un determinato plusvalore. Nella forma del capitale produttivo di interesse ciò appare immediatamente, senza la mediazione del processo di produzione e del processo di circolazione. Il capitale si presenta come fonte misteriosa e autogeneratrice dell'interesse, del suo proprio incremento. La cosa (denaro, merce, valore) è, come mera cosa, già capitale, e il capitale appare come semplice cosa; il risultato dell'intero processo di riproduzione appare come proprietà di per sé inerente ad una cosa; dal possessore del denaro, cioè della merce nella sua forma sempre scambiabile, dipende se esso sarà speso come denaro o prestato come capitale. Perciò nel capitale produttivo d'interesse questo feticcio automatico trova la sua espressione più pura, è valore che si valorizza, denaro che figlia denaro, e in questa forma non reca più nessuna traccia della sua origine. Il rapporto sociale è completato come rapporto di una cosa, del denaro, con se stessa. Anziché la reale metamorfosi del denaro in capitale, qui se ne mostra soltanto la forma priva di contenuto. Come per la forza lavoro, qui il valore d'uso del denaro consiste nel creare valore, un valore più grande di quello in esso contenuto. Il denaro in quanto tale è già, in potenza, valore che si valorizza, e come tale viene prestato; il che per questa merce peculiare è la forma della vendita. Produrre valore, fruttare interesse, diventa così proprietà del denaro, come è proprietà di un albero di pero il produrre pere...

E come una tale cosa produttiva di interesse il prestatore di denaro vende il suo denaro. Ma non basta. Il capitale veramente operante, come si è visto, si rappresenta in modo da arrecare interesse non in quanto capitale in funzione, ma in quanto capitale in sé, capitale denaro.
x Lo stravolgimento non si arresta qui: mentre l'interesse non è che una parte del profitto, ossia del plusvalore che il capitalista in funzione estorce all'operaio, ora l'interesse appare, viceversa, come il vero e proprio frutto del capitale, l'elemento originario, laddove il profitto, ora trasmutato nella forma dell'utile d'intrapresa, appare come puro accessorio ed ingrediente venuto ad aggiungersi nel processo di riproduzione. Qui la forma feticistica del capitale e la rappresentazione del capitale come feticcio sono complete. In D-D' abbiamo la forma concettualmente impropria del capitale, lo stravolgimento all'ennesima potenza dei rapporti di produzione come cose: la forma produttiva di interesse diventa la forma semplice del capitale, in cui esso è presupposto al proprio processo di riproduzione. La capacità della merce, e rispettivamente del denaro, di valorizzare il proprio valore indipendentemente dalla riproduzione, ecco la mistificazione del capitale nella sua forma più flagrante.
Per l'economia volgare, che pretende di rappresentare il capitale come fonte autonoma del valore, della creazione di valore, questa forma — in cui la fonte del profitto non è più riconoscibile e il risultato del processo di produzione capitalistico assume, scisso da questo stesso processo, un'esistenza indipendente — è naturalmente la manna.

Solo nel capitale denaro il capitale diviene una merce la cui proprietà di autovalorizzarsi ha un prezzo fisso, registrato nel saggio d'interesse di volta in volta vigente.
x Come capitale produttivo d'interesse, e precisamente nella sua forma immediata di capitale denaro che arreca un interesse (le altre forme del capitale produttivo d'interesse, che qui non ci riguardano, sono a loro volta derivate da questa forma; la presuppongono) il capitale riceve la sua pura forma di feticcio, D-D' come soggetto, cosa alienabile. E questo, prima di tutto, per la sua perdurante esistenza di denaro, una forma in cui tutte le sue determinazioni particolari sono estinte e i suoi reali elementi sono invisibili: infatti, il denaro è la forma nella quale la differenza fra le merci in quanto valori d'uso è elisa, quindi è pure elisa la differenza fra i capitali industriali consistenti in queste merci e nelle loro condizioni di produzione; è la forma in cui il valore — e qui il capitale — esiste come valore di scambio autonomo: nel processo di riproduzione del capitale, la forma denaro è transeunte, puro momento di trapasso; sul mercato monetario, invece, il capitale esiste sempre in questa forma. In secondo luogo, il plusvalore da esso generato, qui ancora una volta sotto forma di denaro, appare come pertinente ad esso in quanto tale. Come il crescere è connaturato agli alberi, così il generare denaro (tókos) appare connaturato al capitale in questa sua forma di capitale denaro.

Nel capitale produttivo d'interesse, il movimento del capitale è raccorciato; dal processo di mediazione si prescinde, e un capitale = 1.000 è fissato come cosa che in sé è = 1.000 ma, in un certo periodo di tempo, si trasforma in 1.100, così come in cantina, dopo un certo lasso di tempo, il vino migliora il proprio valore d'uso. Il capitale adesso è cosa, ma in quanto cosa è capitale. Ora il denaro ha l'amore in corpo. Non appena è concesso in prestito, o anche investito nel processo di riproduzione (nella misura in cui arreca al capitalista in funzione, in quanto suo possessore, un interesse distinto dall'utile d'intrapresa), gli cresce in grembo l'interesse, sia che dorma e sia che vegli, sia che rimanga a casa e sia che viaggi, sia che faccia giorno e sia che faccia notte. Così nel capitale produttivo di interesse (e ogni capitale, secondo la sua espressione di valore, è capitale denaro, o vale come espressione del capitale denaro) il pio desiderio del tesaurizzatore si è fatto realtà...

Il processo di accumulazione del capitale può essere concepito come accumulazione di interesse composto nei limiti in cui si può chiamare interesse la parte del profitto (plusvalore) che si riconverte in capitale, cioè che serve a succhiare nuovo plusvalore. Ma:

1) Astrazion fatta da ogni perturbazione accidentale, nel corso del processo di riproduzione accade regolarmente che una gran parte del capitale esistente più o meno si svalorizzi, perché il valore delle merci è determinato non già dal tempo di lavoro che originariamente costa la loro produzione, ma dal tempo di lavoro che costa la loro riproduzione, e questo decresce di continuo a causa dello sviluppo della produttività sociale del lavoro. Ad uno stadio di sviluppo superiore della produttività sociale, ogni capitale esistente appare perciò non come il risultato di un lungo processo di risparmio di capitale, ma come il risultato di un tempo di riproduzione relativamente brevissimo.

2) Come si dimostra nella III sezione di questo libro, il saggio di profitto decresce in rapporto alla crescente accumulazione del capitale e all'elevarsi della produttività del lavoro sociale che le corrisponde, elevarsi della produttività del lavoro sociale che si esprime appunto nella crescente diminuzione relativa della parte variabile del capitale in confronto alla parte costante. Per generare lo stesso saggio di profitto, se il capitale costante messo in moto da un operaio si decuplica, il tempo di pluslavoro dovrebbe aumentare di dieci volte, e presto l'intero tempo di lavoro, le stesse 24 ore del giorno, non basterebbero allo scopo neppure se il capitale se li appropriasse totalmente...

L'identità del plusvalore con il pluslavoro pone una barriera qualitativa all'accumulazione del capitale: la giornata lavorativa totale, lo sviluppo di volta in volta esistente delle forze produttive e della popolazione, che limita il numero delle giornate lavorative suscettibili d'essere simultaneamente sfruttate. Se invece il plusvalore viene concepito nella forma concettualmente impropria dell'interesse, il limite è soltanto quantitativo, e sfida qualunque immaginazione.

Ma nel capitale produttivo d'interesse giunge a compimento la rappresentazione del capitale-feticcio, la rappresentazione che attribuisce al prodotto accumulato del lavoro, per giunta fissato come denaro, la forza di generare plusvalore in progressione geometrica in virtù di una misteriosa qualità innata, come puro automa, di modo che questo prodotto accumulato del lavoro, come pensa l'«Economist», avrebbe già da tempo scontato per l'eternità, in quanto ad esso spettanti e appartenenti di diritto, tutte le ricchezze del mondo. Qui il prodotto del lavoro passato, lo stesso lavoro passato, è gravido in sé e per sé di una frazione di pluslavoro vivo presente o futuro. Si sa invece che, in primo luogo, la conservazione e, in questi limiti, anche la riproduzione del valore dei prodotti del lavoro trascorso è in realtà soltanto il risultato del contatto di quest'ultimo con il lavoro vivo, e che, in secondo luogo, il dominio dei prodotti del lavoro trascorso sul vivente pluslavoro dura solo finché dura il rapporto capitalistico, il rapporto sociale determinato in cui il lavoro passato si contrappone in modo indipendente e soverchiante al lavoro vivo.


Capitolo XXV

CREDITO E CAPITALE FITTIZIO

Ho mostrato in precedenza (Libro I, capitolo III, 3, b) , come dalla circolazione semplice delle merci si svolga la funzione del denaro in quanto mezzo di pagamento e, con esso, un rapporto di creditore a debitore fra produttore di merci e commerciante in merci. Con lo sviluppo del commercio e del modo di produzione capitalistico, che produce solo in considerazione della circolazione, questa base naturale e spontanea del sistema creditizio si allarga, si generalizza, si perfeziona. Nell'insieme, qui il denaro funge solo da mezzo di pagamento, cioè la merce è venduta non contro denaro, ma contro la promessa scritta che si pagherà a una data scadenza. Per brevità possiamo riassumere tutte queste promesse di pagamento sotto la generale categoria delle cambiali. Fino al loro giorno di scadenza e rimborso, queste circolano a loro volta come mezzi di pagamento, e costituiscono il vero e proprio denaro del mondo commerciale. In quanto finiscono per annullarsi mediante compensazione di credito e debito, esse funzionano assolutamente come denaro, non verificandosi quindi nessuna finale conversione in moneta. Come queste anticipazioni reciproche dei produttori e dei commercianti costituiscono la vera e propria base del credito, così il loro strumento di circolazione, la cambiale, costituisce la base del vero e proprio denaro di credito, biglietti di banca, etc. Questi poggiano non sulla circolazione del denaro, sia esso moneta metallica o cartamoneta emessa dallo Stato, ma sulla circolazione delle cambiali...

Ch. Coquelin, Du Crédit et des Banques dans l'Industrie, in «Revue des Deux Mondes», 1842, tomo XXXI:

«In ogni paese, quasi tutte le operazioni di credito si svolgono nella cerchia stessa delle relazioni industriali [...]. Il produttore della materia prima la anticipa al fabbricante che la lavorerà, ricevendone una promessa di pagamento a data fissa. A sua volta il fabbricante, eseguita la sua parte di lavoro, anticipa il prodotto — a condizioni analoghe — a un altro fabbricante che lo sottoporrà ad ulteriore trattamento, e così il credito si estende ognor più, dall'uno all'altro, fino al consumatore. Il grossista anticipa delle merci al dettagliante e, a sua volta, ne riceve a credito dal fabbricante o dal commissionario. Ognuno prende a prestito con una mano e dà a prestito con l'altra, a volte denaro, assai più di frequente prodotti. Avviene così nelle relazioni industriali uno scambio incessante di anticipi, che si combinano e si incrociano in tutte le direzioni. Appunto nel moltiplicarsi e crescere di questi reciproci accreditamenti consiste lo sviluppo del credito, ed è qui la vera sede della sua potenza».

L'altro lato del sistema creditizio si collega allo sviluppo del commercio del denaro, che naturalmente, nella produzione capitalistica, va di pari passo con quello del commercio delle merci. Nella sezione precedente (capitolo XIX), si è visto come nelle mani dei commercianti in denaro si concentrino la custodia dei fondi di riserva degli uomini d'affari, le operazioni tecniche di incasso e consegna del denaro e dei pagamenti internazionali, quindi anche il commercio dei lingotti. In correlazione con questo commercio si sviluppa l'altro lato del sistema creditizio: l'amministrazione del capitale produttivo di interesse, o del capitale denaro, come funzione specifica dei commercianti in denaro. Il prendere e dare a prestito diviene la loro attività peculiare. Essi intervengono come mediatori fra l'effettivo mutuante e il mutuatario di capitale denaro. Espressa in termini generali, l'attività del banchiere consiste, sotto quest'aspetto, nel concentrare nelle proprie mani in grandi masse il capitale denaro prestabile, cosicché, invece del singolo prestatore, i banchieri si presentano come rappresentanti di tutti i prestatori di denaro di fronte ai capitalisti industriali e commerciali. Essi diventano gli amministratori generali del capitale monetario, mentre d'altra parte concentrano i mutuatari di fronte a tutti i mutuanti prendendo a prestito per l'intero mondo del commercio. Da un lato, una banca rappresenta la centralizzazione del capitale denaro, quindi dei mutuanti; dall'altro, rappresenta la centralizzazione dei mutuatari. Il suo profitto consiste in generale nel prendere a prestito a un interesse inferiore a quello al quale essa concede prestiti.

Il capitale prestabile di cui dispongono le banche affluisce loro in più modi. Anzitutto si concentra nelle loro mani, fungendo esse da cassieri dei capitalisti industriali, il capitale denaro che ogni produttore e commerciante tiene come fondo di riserva, o che riceve in pagamento. Così questi fondi si convertono in capitale denaro prestabile; il fondo di riserva del mondo del commercio, essendo concentrato come fondo di riserva collettivo, si limita al minimo indispensabile, e una parte del capitale denaro che altrimenti sonnecchierebbe come fondo di riserva viene dato in prestito, funziona come capitale fruttante interesse. In secondo luogo, il capitale prestabile delle banche è composto dai depositi dei capitalisti monetari, che hanno loro affidato il compito di cederli in prestito. Con lo sviluppo del sistema bancario, in specie da quando per il deposito le banche pagano un interesse, vi si depositano inoltre i risparmi liquidi e il denaro momentaneamente inutilizzato di tutte le classi. Piccole somme, ognuna di per sé incapace di agire come capitale denaro, vengono così riunite in grandi masse e costituiscono una potenza monetaria.

Il prestito (qui consideriamo soltanto il vero e proprio credito commerciale) avviene sia mediante sconto di cambiali — loro conversione in denaro prima della data di scadenza —, sia mediante anticipazioni in varia forma: anticipi diretti su credito personale; anticipi su pegni, su titoli fruttiferi, su titoli di Stato, su azioni di ogni sorta, ma anche su polizze di carico, su dock-warrants e su altri titoli autenticati di proprietà su merci; crediti allo scoperto in eccedenza sui depositi, etc.
Ora il credito accordato da un banchiere può assumere forme diverse, per es. cambiali e assegni su altre banche, aperture di credito dello stesso tipo, e infine, nel caso di banche con diritto di emissione, proprie banconote. La banconota non è che una tratta sul banchiere pagabile in qualunque momento al portatore e sostituita dal banchiere alle tratte private. È quest'ultima forma di credito che colpisce soprattutto il profano, al quale essa sembra di particolare importanza, 1) perché questo tipo di denaro di credito esce dalla pura e semplice circolazione commerciale per entrare in quella generale, in cui funziona come denaro; 2) perché nella maggioranza dei paesi le principali banche di emissione, curiosa miscela di banca nazionale e banca privata, hanno in realtà alle loro spalle il credito nazionale e i loro biglietti sono mezzi di pagamento più o meno legali; 3) perché qui si vede chiaramente che ciò in cui traffica il banchiere è lo stesso credito e la banconota non rappresenta che un segno di credito circolante. Ma il banchiere traffica pure nel credito sotto ogni altra forma anche quando anticipa in contanti il denaro depositato presso di lui. In effetti la banconota non è che la moneta del commercio all'ingrosso, e in banca è sempre il deposito, sostanzialmente, ad aver peso...

«La funzione delle banche è duplice [...]. 1) Raccogliere il capitale di coloro che non hanno modo di impiegarlo immediatamente, e distribuirlo e trasmetterlo ad altri, che invece possono farne uso. 2) Ricevere depositi di redditi dei clienti, e versarne loro l'ammontare via via che le loro spese di consumo lo richiedono. Nel primo caso, si tratta di circolazione di capitale; nel secondo, si tratta di circolazione di denaro (currency)». «La prima è concentrazione del capitale da un lato e sua ripartizione dall'altro; la seconda, amministrazione dei mezzi di circolazione per gli scopi locali del distretto». Tooke, Inquiry into the Currency Principle, pp. 36-37...

Quanto segue da J. W. Gilbart, The History and Principles of Banking, Londra, 1834: [...] «I profitti di un banchiere sono, in genere, proporzionali all'ammontare del capitale da lui avuto in prestito, o banking capital. Per stabilire il reale profitto di una banca, si deve detrarre dal profitto lordo l'interesse sul capitale investito; il resto è il profitto bancario» (p. 118). «Le anticipazioni di un banchiere ai suoi clienti si fanno con denaro altrui» (p. 146). «Proprio i banchieri che non emettono banconote creano mediante sconto di cambiali un capitale bancario. Essi aumentano i loro depositi attraverso le loro operazioni di sconto. I banchieri londinesi scontano solo per le ditte che tengono presso di loro un conto deposito» (p. 119).,,

[Abbiamo visto come già nel 1834 Gilbart sapesse che «tutto ciò che facilita gli affari facilita anche la speculazione; in molti casi, affari e speculazione sono così strettamente legati, che è diffìcile dire dove finiscano i primi e dove cominci la seconda».

Quanto più è facile ottenere anticipazioni su merci invendute, tanto più tali anticipazioni vengono stipulate, tanto più è forte la tentazione di fabbricare merci, o di scaraventarne di già fabbricate su mercati lontani, al solo scopo di ottenere su di esse, in primo luogo, anticipi in denaro. [L']'intero mondo degli affari in un paese [può] lasciarsi prendere da questa vertigine ...


Capitolo XXVI

ACCUMULAZIONE DI CAPITALE DENARO; SUO INFLUSSO SUL SAGGIO DI INTERESSE

«In Inghilterra ha luogo una costante accumulazione di ricchezza addizionale, che tende infine ad assumere la forma del denaro. Ma, dopo l'aspirazione a guadagnar denaro, il desiderio più ardente è quello di disfarsene in questa o quella forma d'investimento che arrechi un interesse o profitto; giacché il denaro in quanto tale non produce ricchezza. Se perciò, contemporaneamente a questo costante afflusso di capitale addizionale, non avviene una estensione sufficiente e progressiva del campo d'impiego dello stesso, è inevitabile che si assista ad accumulazioni periodiche di denaro in cerca di investimento, che saranno più o meno importanti a seconda dei casi. Per una lunga serie d'anni, il debito pubblico è stato il grande mezzo di assorbimento della ricchezza superflua in Inghilterra. Da quando, nel 1816, esso ha raggiunto il massimo e non agisce più come forza assorbente, ci si è trovati di fronte ogni anno ad una somma di almeno 27 milioni che cercava altri campi di investimento. Si sono inoltre verificati numerosi rimborsi di capitale [...]. Almeno nel nostro paese, sono assolutamente necessarie imprese che peT realizzarsi abbiano bisogno di grandi capitali, e che assorbano di tempo in tempo l'eccesso di capitale inattivo [...], per far defluire le accumulazioni periodiche di ricchezza superflua della società che non trovano spazio nei rami ordinari d'investimento» (The Currency Theory reviewed, Londra, 1845, pp. 32-34).

A proposito dell'anno 1845, si legge nello stesso volume:

«In un lasso di tempo molto breve, i prezzi hanno fatto un balzo all'insù dal punto più basso della depressione [...]. Il debito pubblico al 3% sta quasi alla pari [...]. L'oro nei forzieri della Banca d'Inghilterra supera ogni quantitativo in essi precedentemente accumulato. Si quotano a prezzi che sono in quasi tutti i casi inauditi azioni di ogni genere, e il saggio d'interesse è caduto così in basso, che è quasi più soltanto nodale [...]. Tutto ciò prova che v'è nuovamente in Inghilterra una forte accumulazione di ricchezza inoperosa, e che siamo alla vigilia di un altro periodo di febbre speculativa» (ibid., p. 36).

[Segue una lunga analisi di estratti provenienti dalla relazione parlamentare sul Commercial disease, 1847/48, che consente a Marx di sfoggiare il suo sarcasmo nei confronti di "esperti" (banchieri, finanzieri, economisti, ecc.) che, nel tenativo di spiegare il modo in cui funziona l'economia capitalistica, cadono in contraddizioni di ogni genere.]


Capitolo XXVII

IL RUOLO DEL CREDITO NELLA PRODUZIONE CAPITALISTICA

Le considerazioni generali che il sistema del credito ci ha finora suggerito sono le seguenti:
I) Sua necessaria formazione, per mediare il livellamento dei saggi di profitto o il movimento di questo livellamento, su cui si basa l'intera produzione capitalistica.
II) Riduzione dei costi di circolazione.

1. Uno dei principali costi di circolazione è lo stesso denaro, in quanto valore in sé. Il credito permette di economizzarlo in tre modi:

A. Perché per una gran parte delle transazioni esso sparisce totalmente.

B. Perché la circolazione del medio circolante si accelera... Da un lato, l'accelerazione è tecnica, cioè, a parità di grandezza e numero degli effettivi scambi di merci che mediano il consumo, una massa minore di denaro o di segni monetari esegue lo stesso servizio, e ciò si ricollega alla tecnica del sistema bancario; dall'altro, il credito accelera la velocità della metamorfosi delle merci, quindi la velocità della circolazione del denaro.

C. Sostituzione della carta alla moneta aurea.

2. Accelerazione ad opera del credito, prima, delle singole fasi della circolazione o della metamorfosi delle merci, poi della metamorfosi del capitale; e, con ciò, accelerazione del processo di riproduzione in genere. (D'altra parte, il credito permette di tener più a lungo separati gli atti della compera e della vendita, quindi serve di base alla speculazione). Contrazione dei fondi di riserva, il che si può considerare sotto due aspetti: primo, come riduzione del medio circolante; secondo, come limitazione della parte di capitale che deve sempre esistere in forma denaro...

III. Formazione di società per azioni. Di qui:

1. Enorme estensione della scala della produzione, e imprese che per capitali individuali erano impossibili. Nello stesso tempo, imprese che prima erano governative diventano sociali.

2. Il capitale, che in sé poggia su un modo di produzione sociale e presuppone una concentrazione sociale di mezzi di produzione e forze lavoro, riceve qui direttamente la forma di capitale sociale (capitale di individui direttamente associati) in contrapposto al capitale privato, e le sue imprese si presentano come imprese sociali in antitesi alle imprese private. È la soppressione del capitale come proprietà privata entro i confini del modo stesso di produzione capitalistico.

3. Trasformazione del capitalista effettivamente funzionante in puro e semplice dirigente, amministratore di capitale altrui, e dei proprietari di capitale in puri e semplici proprietari, puri e semplici capitalisti monetari. Anche quando i dividendi che essi intascano includono l'interesse e l'utile d'intrapresa, cioè il profitto totale (perché lo stipendio del dirigente è, o dev'essere, pura e semplice retribuzione di un certo tipo di lavoro qualificato, il cui prezzo sul mercato del lavoro è regolato al modo di quello di ogni altro lavoro), questo profitto totale è intascato ancora soltanto nella forma dell'interesse, cioè come puro e semplice indennizzo della proprietà del capitale, ora separata dalla funzione svolta nell'effettivo processo di riproduzione esattamente come questa funzione è separata, nella persona del dirigente, dalla proprietà del capitale.

Il profitto (non più soltanto quella sua parte, l'interesse, che trae la sua giustificazione dal profitto del mutuatario) si rappresenta quindi come mera appropriazione di pluslavoro altrui, nascente dalla trasformazione dei mezzi di produzione in capitale, ossia dalla loro estraniazione rispetto ai veri e propri produttori, dal loro contrapporsi come proprietà altrui ad ogni individuo veramente attivo nella produzione, dal dirigente fino all'ultimo giornaliero. Nelle società per azioni, la funzione è separata dalla proprietà di capitale, quindi anche il lavoro è completamente separato dalla proprietà dei mezzi di lavoro e del pluslavoro. Questo risultato del massimo sviluppo della produzione capitalistica è un punto di passaggio necessario per la riconversione del capitale in proprietà dei produttori, ma non più come proprietà privata di produttori isolati, bensì come loro proprietà in quanto produttori associati, come proprietà sociale immediata. È, d'altra parte, punto di passaggio per la trasformazione di tutte le funzioni finora connesse alla proprietà del capitale nel processo di riproduzione in semplici funzioni dei produttori associati, in funzioni sociali.

IV. A prescindere dal sistema azionario — che è una negazione dell'industria privata capitalistica sulla base del sistema capitalistico stesso, e nella misura in cui si estende e invade nuove sfere di produzione annulla l'industria privata — il credito fornisce al singolo capitalista, o a colui che passa per capitalista, la facoltà assoluta, entro certi limiti, di disporre di capitale altrui e proprietà altrui, quindi di lavoro altrui...

Il successo e l'insuccesso portano qui contemporaneamente alla centralizzazione dei capitali e, perciò, all'espropriazione sulla scala più grandiosa. Questa espropriazione si estende dai produttori immediati agli stessi capitalisti piccoli e medi. Essa è il punto di partenza del modo di produzione capitalistico; realizzarla è il suo scopo, e lo è, in ultima analisi, l'espropriare ogni individuo dei mezzi di produzione che, con lo sviluppo della produzione sociale, cessano d'essere mezzi e, insieme, prodotti della produzione privata, per poter essere ancora soltanto mezzi di produzione nelle mani dei produttori associati, dunque loro proprietà sociale, così come sono il loro prodotto sociale. Ma, nell'ambito dello stesso sistema capitalistico, questa espropriazione si rappresenta in forma antagonistica, cioè come appropriazione della proprietà sociale ad opera di pochi, e a questi pochi il credito conferisce sempre più il carattere di puri e semplici cavalieri di ventura. Poiché qui la proprietà esiste nella forma delle azioni, il suo movimento e il suo trasferimento diventano puro e semplice risultato del gioco di borsa, dove i pesci piccoli vengono divorati dagli squali e le pecore dai lupi. Nel sistema azionario è già insito il contrasto con la vecchia forma in cui il mezzo di produzione sociale appare come proprietà individuale, ma la metamorfosi nella forma delle azioni rimane ancora imprigionata entro i confini capitalistici, per cui, invece di superare l'antitesi fra il carattere della ricchezza come ricchezza sociale e quello della ricchezza come ricchezza privata, si limita a darle nuova forma...

La valorizzazione del capitale basata sul carattere antagonistico della produzione capitalistica non permette che fino a un certo punto il vero, libero sviluppo, quindi costituisce di fatto un ceppo e una barriera immanente della produzione, che il sistema del credito spezza di continuo*. (* [Nota 88], Thomas Chalmers.) Perciò il sistema creditizio accelera lo sviluppo materiale delle forze produttive e la formazione del mercato mondiale, che il modo di produzione capitalistico ha il compito storico di creare, fino a un certo livello, come fondamento materiale della nuova forma di produzione. Nello stesso tempo, il credito affretta le violente eruzioni di questo antagonismo, le crisi, quindi gli elementi dissolventi del vecchio modo di produzione.

I due caratteri immanenti del sistema del credito: il fatto, da un lato, di sviluppare quella che è la molla della produzione capitalistica, l'arricchimento mediante sfruttamento di lavoro altrui, fino al più puro e colossale sistema di gioco ed imbroglio e di limitare sempre più il numero dei pochi che sfruttano la ricchezza sociale; il fatto, d'altro lato, di costituire la forma di transizione a un nuovo modo di produzione — è questa ambivalenza che dei principali araldi del credito, da Law fino a Isaac Péreire fa un così piacevole miscuglio di ciarlatano e di profeta.


Capitolo XXVIII

MEDIO CIRCOLANTE E CAPITALE LA CONCEZIONE DI TOOKE E FULLARTON

[Marx analizza la confusione, presente in Tooke e Fullarton fra "mezzo di circolazione come denaro, come capitale denaro in generale e come capitale produttivo di interesse". L'analisi è molto tecnica. Riporto alcune conclusioni di ordine generale.)

Il mezzo di circolazione da un lato circola come moneta (denaro) in quanto media la spesa di reddito cioè i rapporti di scambio fra consumatori individuali e dettaglianti, categoria nella quale vanno inclusi tutti i commercianti che vendono ai consumatori — ai consumatori individuali a differenza dei consumatori produttivi, o produttori. Qui il denaro circola nella funzione della moneta, sebbene sostituisca continuamente capitale. Una certa parte del denaro esistente in un paese è sempre destinata a questa funzione, anche se consta di singole monete continuamente varianti. Nella misura invece in cui media i trasferimenti di capitale, sia come mezzo di acquisto (mezzo di circolazione), sia come mezzo di pagamento, il denaro è capitale. Non è dunque né la funzione di mezzo di acquisto né quella di mezzo di pagamento a distinguerlo dalla moneta, perché anche fra commerciante e commerciante può fungere da mezzo di acquisto nella misura in cui essi comprano in contanti l'uno dall'altro, e può anche figurare come mezzo di pagamento fra commerciante e consumatore nella misura in cui si fa credito e il reddito viene consumato prima d'essere pagato.

La differenza è che, nel secondo dei due casi suddetti, questo denaro non si limita a sostituire capitale per una delle parti, cioè il venditore, ma viene anche speso come capitale, anticipato, dall'altra parte, il compratore. La differenza è dunque, in realtà, tra forma denaro del reddito e forma denaro del capitale, non fra medio circolante e capitale, perché sia come intermediaria fra i commercianti, sia come intermediaria fra consumatori e commercianti, una frazione quantitativamente determinata del denaro circola-, quindi esso è, in pari grado, mezzo di circolazione in entrambe le funzioni...

È dunque completamente errato trasformare la differenza fra circolazione come circolazione di reddito e circolazione come circolazione di capitale, in una differenza fra medio circolante (currency) e capitale...

La differente determinazione — il fatto di funzionare come forma denaro del reddito o come forma denaro del capitale — non cambia dapprima nulla al carattere del denaro come mezzo di circolazione; esso conserva questo carattere sia che assolva l'una funzione, sia che assolva l'altra. È vero che il denaro, quando si presenta come forma monetaria del reddito, funziona più come vero e proprio mezzo di circolazione (moneta, mezzo di acquisto), sia a causa della frammentazione di questi acquisti e vendite, sia perché la maggioranza di coloro che spendono reddito, cioè i lavoratori, possono comprare a credito relativamente poche cose, mentre nelle transazioni del mondo del commercio, dove il medio circolante è forma denaro del capitale, il denaro, in parte a causa della concentrazione, in parte a causa del predominio del sistema creditizio, funziona essenzialmente come mezzo di pagamento. Ma la differenza fra il denaro come mezzo di pagamento e il denaro come mezzo di acquisto (medio circolante) è una differenza inerente al denaro stesso, non una differenza fra denaro e capitale...

Il grado della velocità di circolazione, quindi il numero delle ripetizioni della medesima funzione di mezzo di acquisto e di pagamento da parte delle medesime monete in un periodo di tempo dato, la massa degli acquisti e delle vendite, rispettivamente dei pagamenti, simultanei, la somma dei prezzi delle merci circolanti, infine le bilance dei pagamenti da saldare nella stessa epoca, determinano in entrambi i casi la massa del denaro circolante, della currency. Che, per chi paga o per chi incassa, il denaro che così funziona rappresenti capitale o invece reddito, è indifferente, non cambia assolutamente nulla alla cosa. La sua massa è semplicemente determinata dalla sua funzione di mezzo di acquisto e di pagamento...

In tempi di prosperità, di grande espansione, di accelerazione ed energia del processo di riproduzione, gli operai sono totalmente occupati. Per lo più si verifica anche un aumento dei salari, che compensa in una certa misura la loro caduta al disotto del livello medio negli altri periodi del ciclo commerciale. Nello stesso tempo, i redditi dei capitalisti registrano notevoli aumenti. Il consumo cresce su scala generale. Anche i prezzi delle merci salgono regolarmente, quanto meno in diversi e decisivi rami d'affari. Cresce perciò la quantità del denaro circolante, almeno entro certi limiti, perché la maggior velocità di circolazione pone da parte sua delle barriere all'aumento della massa del medio circolante. Dato che la parte del reddito sociale consistente in salario viene originariamente anticipata dal capitalista industriale sotto forma di capitale variabile, e sempre in forma denaro, in tempi di prosperità per la sua circolazione occorre più denaro. Ma noi non lo dobbiamo calcolare due volte: una come denaro necessario per la circolazione del capitale variabile, un'altra come denaro necessario per la circolazione del reddito dei lavoratori. Il denaro versato come remunerazione agli operai viene speso nel commercio al minuto, e così torna più o meno settimanalmente alle banche come deposito dei dettaglianti dopo aver mediato in cicli minori ogni sorta di affari intermedi. In tempi di prosperità, il riflusso del denaro scorre via liscio per i capitalisti industriali, cosicché il loro bisogno di disponibilità monetarie, quindi di prestiti, non aumenta per il fatto di dover pagare più salario, di aver bisogno di più denaro per la circolazione del loro capitale variabile.

Il risultato globale è che, in periodi di prosperità, la massa dei mezzi di circolazione che serve per la spesa di reddito cresce decisamente.

Per quanto poi riguarda la circolazione necessaria al trasferimento di capitale, dunque solo fra i capitalisti stessi, questo periodo di affari a gonfie vele è nello stesso tempo il periodo di massima elasticità e facilità del credito. La velocità della circolazione fra capitalista e capitalista è direttamente regolata dal credito, quindi la massa del mezzo di circolazione richiesto per il saldo dei pagamenti, nonché per acquisti in contanti, subisce una contrazione relativa, Può crescere in assoluto, ma diminuisce in tutti i casi relativamente, in confronto cioè all'espansione del processo di riproduzione. Da un lato si liquidano senza alcun intervento di denaro più forti pagamenti in massa; dall'altro, data la grande vivacità del processo, regna un più veloce movimento delle stesse quantità di denaro come mezzi sia di acquisto, sia di pagamento. La stessa massa monetaria media il riflusso di un maggior numero di capitali individuali...

I riflussi esprimono la riconversione del capitale merce in denaro, D-M-D'. Il credito rende indipendente il riflusso in forma monetaria, sia per il capitalista industriale, sia per il commerciante, dal momento del riflusso effettivo. Ciascuno dei due vende a credito; la sua merce è quindi alienata prima che per lui si riconverta in denaro; prima, dunque, che gli sia rifluita in forma denaro. D'altra parte, egli acquista a credito, cosicché per lui il valore della sua merce si è già riconvertito vuoi in capitale produttivo, vuoi in capitale merce, prima che questo valore si sia realmente trasformato in denaro, prima che il prezzo della merce, scaduto il termine di pagamento, venga corrisposto. In questi periodi di prosperità, il riflusso avviene senza intoppi. Il dettagliante paga con sicurezza al grossista, questi al fabbricante, questi all'importatore della materia prima, etc. L'apparenza di rapidi e sicuri riflussi sopravvive sempre per un periodo piuttosto lungo alla scomparsa della loro realtà grazie al credito una volta in corso, perché i riflussi creditizi sostituiscono quelli reali. Le banche cominciano a vedere la mal parata non appena i loro clienti pagano più in cambiali che in denaro...

Ciò che distingue il periodo di ristagno da quello di prosperità non è [...] la forte domanda di prestiti, ma la facilità con cui questa domanda viene soddisfatta in tempo di prosperità e la difficoltà con cui viene soddisfatta non appena si verifica ristagno. È appunto l'eccezionale sviluppo del sistema del credito durante il periodo di prosperità, dunque anche l'enorme aumento della domanda di capitale da prestito e la prontezza con cui in tali frangenti l'offerta si mette a sua disposizione, a provocare la stretta creditizia in fase di ristagno. Non è dunque la diversità nella grandezza della domanda di prestiti a caratterizzare i due periodi.

Come si è già osservato in precedenza, i due periodi si distinguono anzitutto per il fatto che, in periodo di prosperità, predomina la domanda di mezzi di circolazione fra consumatori e commercianti, in periodo di regresso la domanda di mezzi di circolazione fra capitalisti. In periodo di ristagno degli affari, diminuisce la prima e aumenta la seconda.