Preparare in forma atta alla stampa il Libro II del Capitale - e in modo che si presentasse, da un lato, come opera coerente e il più possibile completa, dall'altro come opera esclusiva dell'autore, non dell'editore - non è stato compito lieve. Il grande numero di versioni esistenti, quasi tutte frammentarie, complicava ulteriormente l'impresa. Una sola al massimo (il Manoscritto IV) era redatta, fin dove arrivava, integralmente per la stampa; ma successive revisioni ne avevano invecchiata la maggior parte. Il grosso del materiale era bensì completamente elaborato nella sostanza, non però nella forma, e composto nella lingua in cui Marx soleva scrivere i suoi estratti: stile trasandato, vocaboli e locuzioni familiari, spesso crudamente umoristici; termini tecnici inglesi o francesi; non di rado frasi e addirittura pagine intere in inglese; trascrizione dei pensieri nella forma in cui via via si succedevano nella mente. Accanto a singole parti svolte con ampiezza, altre non meno importanti appena accennate; il materiale di fatti illustrativi raccolto ma non riordinato, non diciamo poi rielaborato; alla fine dei capitoli, nell'ansia di passare al successivo, spesso solo un paio di frasi monche, come pietre miliari di uno sviluppo lasciato incompiuto; infine, la ben nota scrittura, a volte illeggibile per lo stesso autore.
Io mi sono limitato a riprodurre i manoscritti, per quanto potevo, letteralmente, a modificare nello stile soltanto ciò che avrebbe modificato lo stesso Marx, e ad inserire incisi e spiegazioni soltanto là dove era assolutamente necessario, e dove, d'altra parte, il senso non dava adito a dubbi. Quanto alle frasi la cui interpretazione era anche solo lontanamente incerta, ho preferito riprodurle alla lettera. I rimaneggiamenti e le interpolazioni dovuti a me non superano, nell'insieme, le dieci pagine a stampa, e sono di natura puramente formale.
La sola enumerazione del materiale manoscritto lasciato da Marx per il Libro II prova con quale coscienziosità impareggiabile, con quale autocritica severa egli cercasse di elaborare fino alla perfezione estrema, prima di renderle pubbliche, le sue grandi scoperte economiche; rigore che solo di rado gli permetteva di adattare l'esposizione, per forma e contenuto, a un orizzonte costantemente ampliato da nuovi studi. Ecco in che cosa consiste questo materiale:
V'è prima di tutto un manoscritto Per la critica dell'economia politica, 1.472 pagine in-40 in 23 quaderni, redatto dall'agosto 1861 al giugno 1863. È la continuazione del primo quaderno dello stesso titolo pubblicato a Berlino nel 1859; e nelle pagine 1-220 (Quaderni I-V) e di nuovo nelle pagine 1.159-1.472 (Quaderni XIX-XXIII), affronta le questioni già sviscerate nel Libro I del Capitale, da « La trasformazione del denaro in capitale » sino alla fine, e ne è la prima redazione esistente. Le pagine 973-1.158 (Quaderni XVI-XVIII) riguardano i temi poi svolti nel manoscritto del Libro III: Capitale e profitto, Saggio di profitto, Capitale commerciale e Capitale denaro. Gli argomenti affrontati nel Libro II, come pure un gran numero di quelli fatti oggetto di trattazione nel Libro III, non sono invece partitamente raggruppati: vengono trattati per inciso, soprattutto nella Sezione che forma il corpo principale del manoscritto: pagine 220-972 (Quaderni VI-XV), Teorie sul plusvalore. Questa Sezione comprende una storia critica particolareggiata del nodo centrale dell'economia politica, la teoria del plusvalore; e parallelamente, in opposizione polemica ai predecessori, sviluppa la maggioranza dei temi poi esaminati partitamente e in connessione logica nel manoscritto per i Libri II e III. Mi riservo di pubblicare questa parte critica del manoscritto come Libro IV del Capitale, tralasciando i numerosi passi già svolti e approfonditi nei Libri II e III . Ai fini della presente edizione del Libro II, questo materiale, per quanto prezioso, era inutilizzabile.
Segue in ordine cronologico il manoscritto del Libro III. Esso risale, almeno nella maggior parte, al 1864-1865. Solo dopo averlo completato nelle linee essenziali, Marx passò ad elaborare il Libro I, uscito per le stampe nel 1867. Alla rielaborazione del suddetto manoscritto mi sto ora dedicando.
Del periodo successivo alla pubblicazione del Libro I esiste, per il Libro II, una raccolta di quattro manoscritti in folio, che lo stesso Marx numerò I-IV. Di questi, il Manoscritto I (150 pagine), che risale presumibilmente al 1865 o al 1867, è la prima redazione indipendente, ma più o meno frammentaria, del Libro II così com'è ora suddiviso. Anche di esso non era utilizzabile nulla. Il Manoscritto III consta, in parte, di una raccolta di citazioni e rinvii ai quaderni di estratti di Marx - per lo più relativi alla Sezione Prima del Libro II -, in parte di sviluppi di singoli punti, specialmente la critica delle idee di A. Smith sul capitale fisso e circolante e sulla sorgente del profitto, nonché di una esposizione del rapporto fra saggio di plusvalore e saggio di profitto, che rientra nel Libro III. I rinvii fornivano pochi elementi nuovi, i punti elaborati erano in parte superati da redazioni successive vuoi per il Libro II, vuoi per il Libro III; quindi si è dovuto, per lo più, lasciarli da parte. Il Manoscritto IV è una rielaborazione in forma pronta per la stampa della Sezione Prima del Libro II e del capitolo I della Sezione Seconda, ed è stato pure utilizzato a suo luogo. Benché risultasse composto prima del Manoscritto II, lo si è potuto utilizzare con profitto per la parte in questione del libro, in quanto era più completo nella forma; è bastato aggiungervi qualcosa dal Manoscritto II. Quest'ultimo è il solo testo pressoché compiuto del Libro II, che ci sia rimasto; e porta la data 1870. Le annotazioni – sulle quali torneremo - per la redazione definitiva dicono espressamente: «Si deve prendere a base la seconda versione».
Dopo il 1870, subentrò una nuova pausa, dovuta essenzialmente a malattie. Come di consueto, Marx occupò il proprio tempo studiando: agronomia, condizioni dell'agricoltura americana ma soprattutto russa, mercato monetario e banche, poi scienze naturali - geologia e fisiologia -, infine, e ancor più, lavori a sé stanti di matematica, formano il contenuto dei numerosi quaderni di estratti di questo periodo. Al principio del 1877, egli si sentì abbastanza ristabilito per riprendere l'attività sua propria. Risalgono alla fine di marzo 1877 i rinvii e le note dei quattro Manoscritti succitati, base di un rifacimento del Libro II il cui inizio, il Manoscritto V di 56 pagine in folio, abbraccia i primi quattro capitoli, ma è ancora poco elaborato; punti essenziali vengono trattati in note a pie’ pagina; la materia è più riunita che filtrata; ciò non toglie ch'esso sia l'ultima esposizione compiuta di questa parte, la più importante, della Sezione Prima. Un primo tentativo di farne un manoscritto pronto per la stampa è rappresentato dalle 17 pagine in-40 (comprendenti la maggior parte del capitolo I) del Manoscritto VI, anteriore all'ottobre 1877 e successivo al luglio 1878; un secondo, e l'ultimo, dal Manoscritto VII, «2 luglio 1878», di appena 7 pagine in folio.
In quel torno di tempo, Marx sembra essersi convinto che, senza una rivoluzione completa nelle sue condizioni di salute, non sarebbe mai riuscito a portare a termine una elaborazione per lui soddisfacente dei Libri II e III. In realtà, i Manoscritti V-VIII recano tracce sin troppo frequenti di una dura lotta contro deprimenti stati di malattia. La parte più difficile della Sezione Prima era elaborata di bel nuovo nel Manoscritto V; il resto della Sezione Prima e tutta la Seconda (se si eccettua il capitolo XVII) non presentavano difficoltà teoriche di rilievo; la Sezione Terza, invece - riproduzione e circolazione del capitale sociale -, necessitava a suo avviso una profonda revisione. Infatti, nel Manoscritto V la riproduzione era prima considerata astraendo dalla circolazione del denaro, che pur ne è la mediazione, poi di nuovo in riferimento ad essa. Urgeva rimediarvi e rielaborare, in genere, l'intera Sezione, in modo da farla corrispondere all'orizzonte fattosi più vasto dell'autore. Cosi nacque il Manoscritto VIII, un quaderno di sole 70 pagine in-40; ma quante cose Marx abbia saputo pigiare in tale spazio risulta dal confronto con la Sezione Terza a stampa, escluse le parti inserite dal Manoscritto III.
Anche questo è solo uno svolgimento provvisorio del tema, nel quale si trattava, prima di tutto, di fissare i punti di vista di nuova acquisizione rispetto al Manoscritto II, tralasciando quelli intorno ai quali non v'era nulla di nuovo da dire. Anche una parte essenziale del capitolo XVII della Sezione Seconda, che d'altronde si intreccia in certo modo alla Terza, anticipandola, viene ripresa ed ampliata. L'ordine di successione logica è spesso interrotto, la trattazione è saltuariamente lacunosa e, specialmente alla fine, del tutto frammentaria. Ma ciò che Marx voleva dire, in un modo o nell'altro vi è detto.
È questo il materiale per il Libro II di cui, secondo quanto dichiarato da Marx alla figlia Eleanor poco prima di morire, io avrei dovuto «fare qualcosa». Ho accettato l'incarico nei suoi più rigorosi confini: dovunque la cosa era possibile, ho limitato la mia attività ad una scelta fra le diverse redazioni, attenendomi sempre al criterio di prendere a base l'ultima redazione esistente, confrontata con le precedenti. Presentavano a tale riguardo difficoltà vere e proprie, cioè non meramente tecniche, solo le Sezioni Prima e Terza: difficoltà, tuttavia, non piccole. Ho cercato di risolverle esclusivamente nello spirito dell'autore.
In genere, ho tradotto le citazioni contenute nel testo o quando documentavano dati di fatto, o dove, come in passi di A. Smith, l'originale è a disposizione di chiunque voglia andare a fondo delle cose. Ciò non è stato possibile soltanto nel capitolo X, perché qui si critica direttamente il testo originale inglese. Le citazioni dal Libro I recano il numero di pagina della seconda edizione, l'ultima uscita vivente Marx.
Per il Libro III, oltre alla prima versione del manoscritto Zur Kritik, ai brani citati del Manoscritto III e ad alcune brevi note occasionalmente intercalate in quaderni di estratti, esiste soltanto il già ricordato Manoscritto in folio del 1864-1865, elaborato quasi con la stessa completezza del Manoscritto II del Libro II, e infine un quaderno del 1875, Rapporto fra saggio di plusvalore e saggio di profitto, sviluppato matematicamente (in equazioni). La preparazione di questo libro in vista della stampa procede speditamente. Per quel che posso giudicare fino ad ora, esso non presenterà in sostanza che difficoltà tecniche, ad eccezione, è vero, di alcune Sezioni della massima importanza.
È qui il luogo di respingere un'accusa rivolta a Marx, dapprima solo a fior di labbra e isolatamente, ma ora, dopo la sua morte, diffusa come fatto assodato dai socialisti tedeschi della cattedra e di Stato e dal loro séguito - che cioè Marx abbia commesso un plagio ai danni di Rodbertus. In merito, ho già detto le cose più urgenti in altra sede»; ma solo qui posso fornire le pezze d'appoggio decisive.
Per quel che ne so, l'accusa si trova formulata per la prima volta in Der Emancipationskampf des vierten Standes di R. Meyer, p. 43:
«Da queste pubblicazioni » (di Rodbertus, che risalgono alla seconda metà degli anni Venti) «si può dimostrare che Marx ha attinto la maggior parte della sua critica ».
Fino a prova ulteriore, posso supporre che tutta la «dimostrabilità» di questa affermazione consista nell'avere Rodbertus assicurato di ciò il signor Meyer. Nel 1879, lo stesso Rodbertus entra in scena e, a proposito del suo Zur Erkenntniss unserer staatswissenschaftlichen Zustände (1842), scrive a J. Zeller (« Zeitschrift für die gesammte Staatswissenschaft», Tubinga, 1879, p. 219) quanto segue:
«Lei troverà che lo stesso» (il ragionamento ivi esposto) «è già stato utilizzato... abilmente da Marx, senza però citarmi»; cosa che pappagallescamente ripete il suo editore postumo, Th. Kozak. (Rodbertus, Das Kapital, Berlino, 1884. Introduzione, p. xv). Infine, nelle Briefe und socialfiolitische Aufsätze von Dr. Rodbertus-Jagetzow», pubblicate nel 1881 da R. Meyer, si legge addirittura:
«Oggi mi trovo saccheggiato da Schäffle e da Marx, senza che mi si nomini» (Lettera n. 60, p. 134).
E in un altro passo la pretesa di Rodbertus prende forma più definita:
«Da che cosa scaturisca il plusvalore del capitalista, io l'ho dimostrato essenzialmente come Marx, solo più in breve e con maggior chiarezza, nella mia 3a Lettera sociale» (Lettera n. 48, p. 111).
Di tutte queste accuse di plagio, Marx era rimasto all'oscuro. Nella sua copia della Lotta di emancipazione erano state tagliate solo le pagine riguardanti l'Internazionale; a tagliare il resto ho provveduto io soltanto dopo la sua morte. La rivista di Tubinga egli non la vide mai. Anche le Lettere, ecc., a R. Meyer gli rimasero sconosciute, e solo nel 1884 lo stesso dott. Meyer ebbe la bontà di richiamare la mia attenzione sul passo riguardante il «saccheggio». Marx conosceva, invece, la Lettera n. 48; il sign. Meyer aveva avuto la compiacenza di regalarne l'originale alla sua figlia minore. Marx, al quale certamente era giunto all'orecchio qualche misterioso mormorio sulla fonte segreta della sua critica, da ricercarsi in Rodbertus, me la mostrò, osservando che lì disponeva finalmente di un'informazione autentica sulle pretese di Rodbertus; se questi si limitava a tanto, a lui poteva anche star bene; se giudicava più breve e chiaro il proprio modo di esporre il problema, poteva anche lasciargli questa soddisfazione. In realtà, con quella lettera di Rodbertus egli ritenne chiusa tutta la faccenda.
Lo poteva tanto più in quanto, come so per certo, dell'intera attività letteraria di Rodbertus non aveva avuto sentore prima del 1859 circa, quando la sua propria critica dell'economia politica era ormai ultimata non solo nelle grandi linee, ma nei particolari più importanti. Aveva cominciato i suoi studi economici nel 1843 a Parigi con i grandi inglesi e francesi; dei tedeschi non conosceva che Rau e List, e ne aveva abbastanza. Né io né Marx sapevamo nulla dell'esistenza di Rodbertus, prima che nel 1849 ne criticassimo i discorsi come deputato di Berlino e gli atti come ministro nella «Neue Rheinische Zeitung». Ne eravamo talmente all'oscuro, che chiedemmo ai deputati renani chi fosse mai quel Rodbertus così improvvisamente salito a dignità ministeriale. Che invece Marx, anche senza l'aiuto di Rodbertus, sapesse fin d'allora molto bene non solo da dove, ma come «scaturisca il plusvalore del capitalista», è provato sia dalla Miseria della filosofia, 1847, sia dalle conferenze su Lavoro salariato e capitale tenute a Bruxelles nello stesso anno e apparse nel 1849 nei n. 264-269 della «Neue Rheinische Zeitung». Solo attraverso Lassalle, intorno al 1859, Marx apprese l'esistenza anche di un Rodbertus economista, e ne trovò la Terza Lettera sociale al British Museum.
Questo il nesso reale dei fatti. E che dire, del contenuto di cui Marx avrebbe « saccheggiato » Rodbertus?
«Da che cosa scaturisca il plusvalore del capitalista», dice costui, «l'ho già dimostrato essenzialmente come Marx, solo più in breve e con maggior chiarezza, nella mia 3a Lettera sociale».
Eccolo, dunque, il nocciolo: la teoria del plusvalore; e in realtà non si può dire che cos'altro, in ogni caso, Rodbertus potesse reclamare da Marx come sua proprietà. Qui dunque Rodbertus si proclama il vero padre della teoria del plusvalore, di cui Marx l'avrebbe derubato.
E che cosa ci dice, la Terza Lettera sociale, sulla genesi del plusvalore? Semplicemente che «la rendita», come Rodbertus affastella rendita fondiaria e profitto, nasce non da una «aggiunta di valore» al valore della merce, ma «da una sottrazione di valore che subisce il salario; in altri termini, dal fatto che il salario ammonta solo ad una parte del valore del prodotto», e, data una produttività sufficiente del lavoro, «non ha bisogno di equivalere al valore naturale di scambio del suo prodotto, affinché ne rimanga ancora abbastanza per reintegrare il capitale e fornire una rendita ».
Dove non ci si dice che cosa diavolo sia un «valore naturale di scambio» con cui non resta nulla a fini di «reintegrazione del capitale» e quindi anche delle materie prime e dell'usura degli strumenti di lavoro.
Per buona sorte, ci è dato constatare quale impressione abbia ricevuto Marx della «scoperta che fa epoca» di Rodbertus. Nel manoscritto Zur Kritik etc, Quaderno X, pp. 445 segg., si trova una Digressione. Il signor Rodbertus. Una nuova teoria della rendita fondiaria. È solo da questo punto di vista che vi si considera la Terza Lettera sociale. La teoria rodbertusiana del plusvalore viene in generale liquidata con l'osservazione ironica: « Il signor Rodbertus ricerca in primo luogo come stiano le cose in un paese in cui la proprietà fondiaria e il possesso di capitale non siano separati, poi giunge all’importante risultato che la rendita (e per rendita egli intende l'intero plusvalore) è semplicemente eguale al lavoro non pagato o al quantum di prodotto in cui esso si rappresenta ».
Sono ormai diversi secoli che l'umanità capitalistica produce plusvalore, e, a poco a poco, è pure arrivata a farsi delle idee sulla sua origine. La prima opinione fu quella nascente dalla prassi commerciale immediata: il plusvalore scaturisce da una aggiunta al valore del prodotto. Essa dominò in campo mercantilista, ma già James Steuart ebbe ad intuire che, in tale operazione, ciò che l'uno guadagna, l'altro necessariamente deve perdere. Ciò malgrado, questa opinione continua ad aggirarsi a lungo come un fantasma, in particolare fra i socialisti; ma dalla scienza classica viene espulsa ad opera di A. Smith.
In lui si legge, Wealth of Nations, Libro I, cap. VI:
«Non appena un capitale (stock) si è accumulato nelle mani di particolari persone, alcune di esse naturalmente lo impiegheranno a dar lavoro a gente industriosa (industrious people) che provvedono di materie prime e mezzi di sussistenza con l'intenzione di trarre profitto dalla vendita del prodotto del loro lavoro, o da ciò che il loro lavoro ha aggiunto al valore delle materie prime... Il valore che i lavoratori aggiungono alla materia prima, si decompone dunque in questo caso in due parti, di cui l'una paga il loro salario, l'altra il profitto dell'imprenditore sull'intero capitale, in materie prime e salario, ch'egli ha anticipat ».
E un po' più avanti:
«Non appena tutto il suolo di un paese è divenuto proprietà privata, i proprietari terrieri, come tutti gli uomini, sono presi dalla brama di mietere ove non hanno seminato, e chiedono una rendita perfino per il naturale prodotto delle loro terre... Egli (il contadino) deve lasciare al proprietario della terra una parte di ciò che il suo lavoro ha raccolto o prodotto. Questa parte o, ciò che è lo stesso, il prezzo di questa parte, costituisce la rendita fondiaria».
Nel citato manoscritto Zur Krìtik etc, p. 253, Marx annota come segue questo passo: «Dunque, Adam Smith concepisce il plusvalore - cioè il pluslavoro, l'eccedenza del lavoro fornito e realizzato nella merce sul lavoro pagato, sul lavoro che nel salario ha ricevuto il proprio equivalente - come la categoria generale, di cui il vero e proprio profitto e la rendita fondiaria non sono che diramazioni».
A. Smith, Libro I, cap. VIII, dice inoltre:
«Non appena la terra è divenuta proprietà fondiaria, il proprietario domanda una parte di quasi tutti i prodotti che l'agricoltore può raccogliere o produrre sulla sua terra. La sua rendita opera la prima detrazione dal prodotto del lavoro impiegato sulla terra. Di rado avviene che colui che ara il terreno abbia di che mantenersi fino al tempo del raccolto. Generalmente il suo mantenimento gli è anticipato dal capitale (stock) di un padrone, il fittavolo che lo impiega, e che non avrebbe interesse a impiegarlo se non partecipasse al prodotto del suo lavoro, o se il proprio capitale non gli venisse rimborsato con un profitto. Questo profitto opera una seconda detrazione dal prodotto del lavoro impiegato sulla terra. Il prodotto di quasi ogni altra specie di lavoro è soggetto ad una tale detrazione del profitto. In tutte le arti e manifatture la maggior parte dei lavoratori hanno bisogno di un padrone che anticipi le materie prime e il salario fino al termine del lavoro. Questo padrone partecipa al prodotto del loro lavoro, o al valore da esso aggiunto alle materie prime, e questa parte costituisce il suo profitto ».
Al che Marx (Manoscritto, p. 256): «In questo passo, dunque, Adam Smith designa in termini precisi la rendita fondiaria e il profitto del capitale come semplici detrazioni dal prodotto dell'operaio o dal valore del suo prodotto, valore eguale alla quantità di lavoro da lui aggiunta alla materia prima. Ma questa detrazione, come lo Smith stesso ha spiegato prima, non può essere rappresentata che dalla porzione di lavoro aggiunta alla materia prima, eccedente la quantità di lavoro che paga [soltanto] il suo salario o fornisce un equivalente del suo salario; non rappresenta dunque che il pluslavoro, la parte di lavoro non pagata».
Dunque, «da che cosa scaturisca il plusvalore del capitalista» e, in aggiunta, del proprietario fondiario, A. Smith lo sapeva già; Marx lo riconosce francamente fin dal 1861, mentre Rodbertus e la schiera dei suoi ammiratori, nascenti come funghi sotto la tiepida pioggia estiva del socialismo di Stato, sembrano averlo completamente scordato.
Tuttavia, continua Marx, «non sviluppando espressamente il plusvalore nella forma di una categoria determinata, Adam Smith lo confonde direttamente con le forme del profitto illustrate più avanti (profitto e rendita fondiaria)... Ne deriva, e ciò colpisce specialmente in Ricardo, ... una serie di incongruenze». Questo passo calza alla lettera al caso di Rodbertus. La sua «rendita» è semplicemente la somma di rendita fondiaria + profitto; della rendita, egli si fa una teoria completamente erronea; quanto al profitto, lo accoglie senza ulteriore esame come lo trova nei suoi predecessori. Il plusvalore di Marx, invece, è la forma generale della somma di valore che il detentore dei mezzi di produzione si è appropriata senza equivalente, e che, conformemente a leggi del tutto peculiari scoperte per la prima volta da Marx, si scinde nelle forme particolari, trasmutate, del profitto e della rendita fondiaria. Queste leggi sono sviluppate nel Libro III, dove soltanto si vedrà quanti anelli intermedi siano necessari per giungere dalla comprensione del plusvalore in generale a quella della sua metamorfosi in profitto e rendita fondiaria, e quindi alla comprensione delle leggi di ripartizione del plusvalore entro la classe dei capitalisti.
Ricardo si spinge già notevolmente oltre A. Smith. Egli fonda la sua concezione del plusvalore su una nuova teoria del valore, già presente in germe in A. Smith, ma da lui sempre dimenticata nel corso della trattazione; teoria che è divenuta il punto di partenza di ogni successiva scienza economica. Dalla determinazione del valore delle merci mediante la quantità di lavoro in esse realizzato egli fa derivare la ripartizione fra i lavoratori e i capitalisti del quantum di valore aggiunto dal lavoro alle materie prime, la sua divisione in salario e profitto (cioè, qui, plusvalore). Dimostra che il valore delle merci resta il medesimo comunque varii il rapporto fra queste due porzioni; una legge alla quale egli ammette tuttavia che esistano singole eccezioni. Stabilisce perfino alcune leggi fondamentali sul rapporto reciproco fra salario e plusvalore (inteso nella forma del profitto), sia pure in una formulazione troppo generale (Marx, II Capitale, I, cap. XV, 4) e indica nella rendita fondiaria una eccedenza, generantesi in date condizioni, sul profitto. In nessuno di questi punti Rodbertus si è spinto oltre Ricardo. Le contraddizioni interne della teoria di Ricardo, contro le quali è naufragata la sua scuola, gli sono rimaste completamente ignote, o gli hanno unicamente suggerito (cfr. Zur Erkenntniss etc, p. 130) rivendicazioni utopistiche invece che soluzioni economiche.
Ma la teoria ricardiana del valore e del plusvalore non aveva bisogno di aspettare la Zur Erkenntniss etc. di Rodbertus per essere sfruttata in senso socialista. Alla p. 609 del Libro I del Capitale (2a ediz.), si trova citata la frase «The possessors of surplus produce or capital» da The Source and Remedy of the National Difficulties, A Letter to Lord John Russell, Londra, 1821. In questo scritterello, sulla cui importanza i termini surplus produce or capital avrebbero già dovuto richiamare l'attenzione, e che è un pamphlet di 40 pagine strappato da Marx all'oblio, si legge:
«Qualunque sia la quantità spettante (dal punto di vista del capitale) al capitalista, questi non può ricevere che l'eccedenza del lavoro (surplus labour) dell'operaio, poiché l'operaio deve vivere » (P- 23).
Come però l'operaio viva, e quindi di quale grandezza possa essere il pluslavoro che il capitale si appropria, è molto relativo:
«Se il capitale non ribassa in valore nella misura in cui aumenta in massa, i capitalisti esigeranno dagli operai il prodotto di ogni ora lavorativa che supera lo strettamente necessario al mantenimento dell'operaio... I capitalisti sono infine capaci di dire... agli operai: Voi non dovete mangiar pane, poiché il tritello d'orzo costa meno. Voi non dovete mangiare carne, poiché si può vivere di rape e di patate. E siamo già arrivati a questo punto» (pp. 23, 24). «Se si può indurre l'operaio a vivere di patate invece che di pane, non vi è alcun dubbio che si può esigere una parte maggiore del suo lavoro; cioè, se, finché si nutriva di pane, egli era costretto a impiegare per il mantenimento della sua persona e della sua famiglia il lavoro del lunedì e del martedì, vivendo di patate gli basterà la metà del lunedì, e l'altra metà del lunedi e tutto il martedì diventeranno disponibili per il lavoro per Io Stato e per il capitalista» (p. 26). «Non si contesta (it is admitted) che l'interesse pagato ai capitalisti, assuma esso la natura di rendita, di interesse monetario o di guadagno dell'imprenditore, è pagato dal lavoro altrui» (p. 23).
Anche qui, tale e quale, la «rendita» di Rodbertus; solo che invece di «rendita» si dice: interesse.
A questo proposito, annota Marx (Manoscritto Zur Kritik, p. 852): «Questo opuscolo poco conosciuto..., apparve in un periodo in cui "quell'incredibile imbrattacarte" di Mac Culloch cominciava a far parlare di sé. Esso rappresentò un progresso essenziale su Ricardo. L'autore designa direttamente come "pluslavor ", come lavoro che l'operaio compie gratuitamente oltre il quantum di lavoro che ricostituisce il valore della sua forza lavoro, o produce l'equivalente del suo salario, il plusvalore o "profitto", spesso anche "sovraprodotto" (surplus produce), come lo chiama Ricardo, o "interesse", interest, come lo chiama l'autore dello scritto. Come era importante risolvere il valore in lavoro, così era importante rappresentare in pluslavoro (surplus labour) il plusvalore (surplus value) che si realizza in un sovraprodotto (surplus produce). Questo in realtà lo dice già A. Smith, e costituisce una fase importante dello svolgimento di Ricardo. Ma in lui non è mai enunciato e fissato nella forma assoluta». A p. 859 del Ms. si legge inoltre: «Per il resto, l'autore è rinchiuso nelle categorie economiche come le trova già formulate. In Ricardo la confusione fra plusvalore e profitto porta a spiacevoli contraddizioni, e lo stesso succede a lui, che battezza il plusvalore col nome di interesse del capitale. È però superiore a Ricardo per il fatto che riduce, in primo luogo, ogni plusvalore a pluslavoro e, pur chiamando il plusvalore interesse del capitale, mette in evidenza nello stesso tempo che per interesse del capitale egli intende la forma generale del pluslavoro, a differenza dalle sue forme particolari, rendita, interesse del denaro e profitto industriale... Ma egli prende il nome di una di queste forme particolari, l'interesse, per la forma generale. E ciò è sufficiente perché ricada nel gergo» (slang nel manoscritto) «degli economisti».
Quest'ultimo passo calza a pennello al nostro Rodbertus. Anch'egli è irretito nelle categorie economiche così come le trova già formulate. Anch'egli battezza il plusvalore col nome di una delle sue sottoforme trasmutate, che per giunta rende del tutto indistinta: la rendita. Il risultato di questi due svarioni è che anch'egli ricade nel gergo degli economisti, non sviluppa criticamente il suo progresso su Ricardo, e si lascia sviare a mettere la propria teoria incompleta, prima ancora che sia uscita dal guscio, a base di un'utopia, con la quale arriva, come al solito, troppo tardi. Il pamphlet uscì nel 1821 e anticipa già in tutto e per tutto la «rendita» rodbertusiana.
Il nostro opuscoletto è solo l'estremo avamposto di tutta una letteratura che, negli anni Venti, rivolge la teoria ricardiana del valore e del plusvalore, nell'interesse del proletariato, contro la produzione capitalistica; che combatte la borghesia con le sue stesse armi. L'intero comunismo oweniano, in quanto si presenta in veste economico-polemica, si fonda su Ricardo. Ma, accanto a Owen, v'è tutta una serie di scrittori, dei quali già nel 1847 Marx cita contro Proudhon (Misere de la Philosophie, p. 49) soltanto alcuni: Edmonds, Thompson, Hodgskin, ecc., e «oltre quattro pagine di ecc.». Da questa congerie di opuscoli ne scelgo a piacere uno solo, An Inquiry into the Pnnciples of the Distribution of Wealth, most conducive to Human Happiness, di William Thompson, nuova ediz., Londra, 1850. Questo scritto, composto nel 1822, vide la luce per la prima volta nel 1824. Anche qui la ricchezza appropriata dalle classi non produttive viene dovunque designata come detrazione dal prodotto dell'operaio, e in termini abbastanza forti:
«La costante aspirazione di quella che chiamiamo società è consistita nell'indurre l'operaio produttivo, con la frode o con la persuasione, con la paura o con la costrizione, a eseguire il lavoro contro la parte minore possibile del prodotto del suo lavoro» (p. 28). «Perché l'operaio non deve ricevere l'intero, assoluto prodotto del suo lavoro?» (p. 32). «Questo compenso che i capitalisti estorcono all'operaio produttivo sotto il nome di rendita fondiaria o profitto, viene rivendicato per l'uso del suolo o di altri oggetti... Poiché tutte le materie fisiche sulle quali, o mediante le quali, l'operaio produttivo nullatenente, che non possiede nulla all'infuori della sua capacità di produrre, può esercitare questa sua capacità di produzione, sono in possesso di altri, i cui interessi contrastano con i suoi, e il cui consenso è condizione preliminare della sua attività, non dipende forse, e non deve dipendere, dalla buona grazia di questi capitalisti quale parte dei frutti del suo lavoro essi vogliono che gli spetti a compenso di tale lavoro?» (p. 125). «...Riguardo alla grandezza del prodotto trattenuto, lo si chiami profitto o furto..., queste defalcazioni...» (p. 126), e così via.
Confesso che scrivo queste righe non senza una certa vergogna. Che in Germania la letteratura anticapitalistica inglese degli anni Venti e Trenta sia così completamente sconosciuta, benché Marx vi faccia diretto riferimento già nella Miseria della Filosofia, e ne citi numerosi brani - dal pamphlet del 1821, da Ravenstone, da Hodgskin, ecc. - nel Libro I del Capitale, passi ancora. Ma che non soltanto il literatus vulgaris che si aggrappa disperatamente alle falde di Rodbertus, e che «veramente non ha ancora imparato nulla», ma anche il professore in carica e titolo «pavoneggiatesi della sua erudizione», abbiano dimenticato la loro economia classica al punto di rimproverare seriamente a Marx di aver derubato Rodbertus di cose che si possono già leggere in A. Smith e Ricardo - tutto ciò dimostra quanto sia caduta in basso l'economia ufficiale al giorno d'oggi.
Ma che cosa di nuovo ha detto Marx, dunque, sul plusvalore? Come avviene che la teoria del plusvalore di Marx sia scoppiata come un fulmine a ciel sereno, e ciò in tutti i paesi civili, mentre le teorie di tutti i suoi precursori socialisti, compreso Rodbertus, si sono sgonfiate senza lasciar traccia di sé?
La storia della chimica ce lo può mostrare con un esempio.
È noto che, ancora verso la fine del secolo scorso, dominava la teoria flogistica, secondo la quale l'essenza di ogni combustione risiedeva nel fatto che dal corpo in combustione se ne separava un altro, ipotetico - un combustibile assoluto, designato col nome di flogisto. Questa teoria riusciva a spiegare la maggior parte dei fenomeni chimici allora conosciuti, sebbene, in molti casi, non senza farvi violenza. Ora, nel 1774 Priestley descrisse una specie d'aria « da lui trovata così pura o così libera da flogisto, che al suo confronto l'aria comune sembrava già corrotta », e la chiamò aria deflogistizzata. Qualche tempo dopo, in Svezia, Scheele descrisse la stessa specie d'aria, e ne dimostrò la presenza nell'atmosfera, osservando inoltre che scompariva se si bruciava un corpo in essa 0 in aria comune: la chiamò, quindi, aria di fuoco.
«Da questi risultati egli concluse che la combinazione derivante dall'unione del flogisto con una delle componenti dell'aria» (dunque, dalla combustione) «non è che fuoco o calore sfuggente attraverso il vetro».
Sia Priestley, sia Scheele avevano descritto l'ossigeno, ma non sapevano che cosa fosse loro capitato sotto gli occhi: restarono «rinchiusi nelle categorie» flogistiche «così come le trovavano già formulate». Nelle loro mani, l'elemento destinato a sconvolgere l'intera concezione flogistica e a rivoluzionare la chimica era stato colpito da sterilità. Ma, subito dopo, Priestley aveva comunicato la sua scoperta a Lavoisier, a Parigi; e, alla luce di questa nuova teoria, Lavoisier riesaminò l'intera chimica flogistica, scoprì che la nuova specie d'aria era un nuovo elemento chimico e che quanto avviene nella combustione non è che il misterioso flogisto si distacchi dal corpo comburente, ma che il nuovo elemento si combini col corpo; e in tal modo rimise in piedi la chimica, che nella sua forma flogistica stava a testa in giù. E, se anche non descrisse l'ossigeno, come ebbe a sostenere poi, contemporaneamente agli altri e indipendentemente da loro, egli rimane tuttavia il vero scopritore dell'ossigeno di fronte agli altri due, che si erano limitati a descriverlo senza sospettare minimamente che cosa descrivessero.
Marx sta ai suoi predecessori nella teoria del plusvalore come Lavoisier sta a Priestley e Scheele. A stabilire l'esistenza della parte di valore dei prodotti che oggi chiamiamo plusvalore, così come ad esprimere più o meno chiaramente in che cosa esso consiste, cioè nel prodotto del lavoro per il quale colui che se l'appropria non ha pagato nessun equivalente, si era provveduto molto prima di Marx. Ma più oltre non ci si era spinti. Gli uni - gli economisti borghesi classici - si limitavano tutt'al più ad indagare il rapporto di grandezza in cui il prodotto del lavoro viene ripartito fra l'operaio e il detentore dei mezzi di produzione; gli altri - i socialisti -, che trovavano ingiusta questa ripartizione, andavano in cerca di mezzi utopistici per sopprimere l'ingiustizia. Gli uni e gli altri rimasero irretiti nelle categorie economiche così come le trovavano già formulate.
Qui intervenne Marx. E in antitesi diretta ai suoi predecessori. Dove questi avevano visto una soluzione, egli non vide che un problema. Vide che non ci si trovava di fronte né ad aria deflogistizzata, né ad aria di fuoco, ma ad ossigeno - che non si trattava né della pura e semplice constatazione di un fatto economico, né della sua incompatibilità con la giustizia eterna e la pura morale, ma di un fatto chiamato a rivoluzionare l'intera economia, e che forniva la chiave alla comprensione di tutta la produzione capitalistica - per chi se ne sapesse servire. In base a ciò, sottopose a indagine l'insieme delle categorie che trovava bell'e pronte, così come Lavoisier aveva indagato in base all'ossigeno le categorie appartenenti al retaggio trasmessogli dalla chimica flogistica. Per sapere che cos'era il plusvalore, doveva sapere che cos'era il valore. Bisognava prima di tutto studiare criticamente la teoria ricardiana del valore. Marx quindi esaminò il lavoro nella sua qualità di creatore di valore; stabilì per primo quale lavoro crea valore, e perché, e come; e ne concluse che il valore in generale non è se non lavoro coagulato di questa specie - punto che Rodbertus fino all'ultimo non ha capito. Poi indagò il rapporto fra merce e denaro, e mostrò come e perché la merce, in virtù della qualità di valore ad essa inerente, e lo scambio di merci, debbano generare l'antitesi fra merce e denaro; la sua teoria del denaro, poggiante su questa base, è la prima davvero esauriente, e quella oggi tacitamente adottata da tutti. Studiò la metamorfosi del denaro in capitale, e mostrò ch'essa si fonda sulla compravendita della forza lavoro. Ponendo qui la forza lavoro, la proprietà di creare valore, al posto del lavoro, risolse d'un colpo tutte le difficoltà scontrandosi nelle quali era andata a picco la scuola ricardiana: l'impossibilità di mettere d'accordo lo scambio reciproco di capitale e lavoro con la legge di Ricardo sulla determinazione del valore mediante il lavoro. Constatando la divisione del capitale in costante e variabile, riuscì per primo a descrivere fin nei particolari più minuti il processo di formazione del plusvalore nel suo effettivo decorso - impresa che nessuno dei suoi predecessori aveva portato a termine; constatò quindi una differenza nell'ambito dello stesso capitale, da cui né Ricardo, né gli economisti borghesi erano stati in grado di trarre partito, ma che offre una chiave alla soluzione dei problemi economici più aggrovigliati; del che ancora una volta dà una prova decisiva il Libro II - e ancor più, come si vedrà, il III. Sottopose ad ulteriore esame lo stesso plusvalore, e ne trovò le due forme: plusvalore assoluto e plusvalore relativo, e mostrò le diverse funzioni, in ambo i casi tuttavia determinanti, da esse assolte nello sviluppo storico della produzione capitalistica. Sulla base del plusvalore, svolse la prima teoria razionale del salario che noi possediamo, e diede per la prima volta le linee fondamentali di una storia dell'accumulazione capitalistica e un'esposizione della sua tendenza storica.
E Rodbertus? Letto tutto ciò, egli vi trova - come sempre, economista tendenzioso! - una «irruzione nella società »; trova di aver già detto molto più succintamente e con maggior chiarezza da che cosa scaturisce il plusvalore; trova infine che tutto questo si adatta, è vero, alla «forma presente del capitale», cioè al capitale così come esiste storicamente, ma non al «concetto di capitale», cioè alla rappresentazione utopistica che del capitale si fa il signor Rodbertus. Tale e quale il vecchio Priestley, insomma, che fino all'ultimo giurò sul flogisto e non ne volle sapere dell'ossigeno. Solo che Priestley descrisse veramente per primo l'ossigeno, mentre Rodbertus non aveva riscoperto nel suo plusvalore o meglio nella sua «rendita» nulla più che un luogo comune, e Marx, all'opposto del modo di procedere di Lavoisier, non si sognò di pretendere d'essere stato il primo a scoprire il fatto che esiste il plusvalore.
Tutto il resto che Rodbertus ha compiuto in campo economico sta al medesimo livello. La sua elaborazione del plusvalore in utopia è già stata criticata non intenzionalmente da Marx nella Miseria della Filosofia; quanto v'era da dire in più, l'ho detto io nella premessa alla versione tedesca di quest'opera. La sua spiegazione delle crisi commerciali con il sottoconsumo della classe operaia si trova già nei Nouveaux Principes de l'Economie Politique di Sismondi, Libro IV, cap. 4. («Ecco quindi che, con la concentrazione della ricchezza nelle mani di pochi proprietari, il mercato interno si restringe sempre più e l'attività produttiva si vede sempre più costretta a cercare sbocchi sui mercati esteri, dove sconvolgimenti anche maggiori la minacciano » (cioè la crisi del 1817, descritta subito dopo). Nouv. Princ, ed. 1819, I, p. 336.) Solo che Sismondi ebbe sempre davanti agli occhi il mercato mondiale, mentre l'orizzonte di Rodbertus non si spinge oltre le frontiere della Prussia. Le sue speculazioni sul problema se il salario derivi dal capitale o dal reddito appartengono al mondo della scolastica, e sono definitivamente liquidate dalla Sezione Terza del presente Libro II del Capitale. La sua teoria della rendita è rimasta sua esclusiva proprietà, e può continuare a dormire placidi sonni fino alla pubblicazione del manoscritto di Marx che la critica. Infine, le sue proposte per l'emancipazione della proprietà fondiaria antico-prussiana dal giogo del capitale sono a loro volta completamente utopistiche, perché eludono la sola questione pratica qui in gioco - come il latifondista antico-prussiano possa incassare un anno dopo l'altro, diciamo, 20.000 marchi e spenderne, diciamo, 30.000, senza tuttavia indebitarsi.
La scuola ricardiana naufragò intorno al 1830 contro lo scoglio del plusvalore. Ciò che non potè risolvere, rimase insolubile a maggior ragione per la sua continuatrice, l'economia volgare. I due punti nei quali essa inciampò furono i seguenti:
Primo. Il lavoro è la misura del valore. Ora, nello scambio con il capitale, il lavoro vivo ha un valore inferiore al lavoro oggettivato contro il quale lo si scambia. Il salario, il valore di una data quantità di lavoro vivo, è sempre minore del valore del prodotto che è generato da questa stessa quantità di lavoro vivo, o in cui quest'ultima si rappresenta. In realtà, posta in questi termini, la questione è insolubile. Essa è stata posta correttamente da Marx, e quindi risolta. Non è il lavoro ad avere un valore. Come attività creatrice di valore, esso non può avere un particolare valore più che la gravità non possa avere un peso particolare, il calore una particolare temperatura, l'elettricità un particolare amperaggio. Non è il lavoro ad essere comprato e venduto come merce, ma la forza lavoro. Non appena la forza lavoro diviene merce, il suo valore si conforma al lavoro incorporato ad essa in quanto prodotto sociale; è pari al lavoro socialmente necessario per la sua produzione e riproduzione. La compravendita della forza lavoro in base a questo suo valore non contraddice affatto alla legge economica del valore.
Secondo: Stando alla legge ricardiana del valore, due capitali che impieghino la stessa quantità di lavoro vivo egualmente pagato, a parità di condizioni producono nello stesso tempo prodotti di egual valore, così come plusvalore o profìtto di eguale entità. Se invece impiegano quantità diseguali di lavoro vivo, non possono produrre plusvalore o, come dicono i ricardiani, profitto di eguale entità. In effetti, è vero l'opposto: capitali eguali, non importa quanto lavoro vivo impieghino in più o in meno, producono in media, in tempi eguali, profitti eguali. V'è qui una contraddizione con la legge del valore, che già Ricardo osservò, e che la sua scuola fu, non meno di lui, incapace di risolvere. Neppure Rodbertus poteva non avvertire questa contraddizione: invece di risolverla, egli ne fa uno dei punti di partenza della propria utopia. (Zur Erkenntniss, p. 131). Questa contraddizione, Marx l'aveva già risolta nel manoscritto Zur Kritik ; la soluzione, secondo il piano del Capitale, segue nel Libro III. Fino alla pubblicazione di quest'ultimo, passeranno ancora mesi. Qui dunque gli economisti che pretendono di scoprire in Rodbertus la fonte segreta e un precursore più grande di Marx hanno un'occasione per mostrare quali servizi possa rendere l'economia rodbertusiana. Se proveranno come non solo senza violazione della legge del valore, ma anzi sulla sua base, possa e debba formarsi un eguale saggio di profìtto, e sia: continueremo a parlarci insieme. Intanto, abbiano la compiacenza di affrettarsi. Le brillanti ricerche di questo Libro II e i suoi risultati del tutto nuovi in campi finora pressoché vergini, non sono che premesse al contenuto del Libro III, che sviluppa i risultati finali dell'esposizione marxiana del processo di riproduzione sociale su basi capitalistiche. Quando questo Libro III sarà uscito, di un economista Rodbertus non si parlerà quasi più.
I Libri secondo e terzo del Capitale dovevano essere dedicati, come mi disse ripetutamente Marx, a sua moglie.
Londra, nell'anniversario della nascita di Marx, 5 maggio 1885.
F. Engels
La presente II edizione è, sostanzialmente, una ristampa letterale della I. Gli errori di stampa sono stati corretti, alcune trascuratezze stilistiche eliminate, qualche breve capoverso contenente soltanto ripetizioni soppresso.
Anche il Libro III, che ha presentato difficoltà del tutto impreviste, è quasi pronto in manoscritto. Se la salute mi assiste, la stampa potrà cominciare fin dal prossimo autunno.
Londra, 15 luglio 1893.
F. Engels