L’economia politica fa confusione, in linea di principio, fra due generi assai differenti di proprietà privata, uno dei quali è fondato sul lavoro personale del produttore, l’altro sullo sfruttamento del lavoro altrui. Essa dimentica che questo ultimo genere di proprietà privata non solo costituisce l’antitesi diretta del primo, ma può crescere soltanto sulla tomba di quello.
Nell’Europa occidentale, patria dell’economia politica, il pro cesso dell’accumulazione originaria è più o meno compiuto. Quivi il regime capitalistico o si è assoggettata direttamente tutta la produzione nazionale; o, dove le condizioni economiche sono ancora meno sviluppate, esso controlla per lo meno indirettamente gli strati della società che continuano a vegetare in decadenza accanto ad esso e che fanno parte del modo di produzione antiquato. L’economista politico applica a questo mondo capitalistico ormai compiuto le idee giuridiche e della proprietà del mondo pre capitalistico con uno zelo tanto più ansioso e con una unzione tanto maggiore, quanto più i fatti fanno a pugni con la sua ideologia.
Nelle colonie le cose vanno altrimenti. Quivi il regime capitalistico s’imbatte dappertutto nell’ostacolo costituito dal produttore che come proprietario delle proprie condizioni di lavoro arricchisce col proprio lavoro se stesso e non il capitalista. La contraddizione fra questi due sistemi economici diametralmente opposti si attua qui praticamente nella loro lotta. Dove il capitalista ha alle spalle la potenza della madre patria, egli cerca di far con la forza piazza pulita del modo di produzione e di appropriazione fondato sul proprio lavoro.
Quello stesso interesse che nella madre patria induce quel sicofante del capitale che è l’economista politico a dichiarare in teoria che il modo di produzione capitalistico è proprio l’opposto di quello che è, quello stesso interesse, nelle colonie, spinge l’economista «to make a clean breast of it » (a parlar chiaro e tondo) e a proclamare ad alta voce l’antitesi dei due modi di produzione. A questo scopo egli dimostra come lo sviluppo della forza produttiva sociale del lavoro, la cooperazione, la divisione del lavoro, l’impiego delle macchine in grande, ecc. Sono impossibili senza l’espropriazione dei lavoratori e senza la corrispondente trasformazione dei loro mezzi di produzione in capitale. E nell’interesse della cosiddetta ricchezza nazionale l’economista cerca mezzi artificiali per produrre la povertà popolare. Qui la sua corazza apologetica si sbriciola pezzo per pezzo come esca marcita.
Il gran merito di E. G. Wakefield non è quello di aver scoperto qualcosa di nuovo sulle colonie254, ma di aver rivelato la verità sui rapporti capitalistici della madre patria. Come il sistema protezionistico alle origini255 tendeva alla fabbricazione di capitalisti nella madre patria, così la teoria della colonizzazione del Wakefield, che per un certo tempo l’Inghilterra ha cercato di mettere in atto per legge, si pone come scopo la fabbricazione di salariati nelle colonie. Egli chiama ciò « systematic colonization ».
La prima scoperta che il Wakefield ha fatto nelle colonie è che la proprietà di denaro, mezzi di sussistenza, macchine ed altri mezzi di produzione non imprime ancora all’uomo il marchio del capitalista, quando manchi il complemento, cioè l’operaio salariato, l’altro uomo che è costretto a vendersi volontariamente. Ha scoperto che il capitale non è una cosa, ma un rapporto sociale fra persone256 mediato da cose. Egli ci viene a fare le sue lamentele perché il signor Peel si è portato dall’Inghilterra allo Swan River nella Nuova Olanda mezzi di sussistenza e di produzione per un ammontare di cinquantamila sterline. Il signor Peel era stato tanto previdente da portare con sè, oltre al resto, tremila persone della classe lavoratrice, uomini, donne e bambini: ma, arrivati a destinazione, «il signor Peel rimase senza un servo per fargli il letto e per attingere acqua al fiume»257. Povero signor Peel, che aveva preveduto tutto fuorchè l’esportazione allo Swan River dei rapporti di produzione inglesi!
Per comprendere le seguenti scoperte del Wakefield occorrono due osservazioni preliminari. Sappiamo che i mezzi di produzione e di sussistenza, quando sono proprietà del produttore immediato, non sono capitale. Diventano capitale solo in condizioni in cui servano contemporaneamente anche come mezzi per sfruttare e dominare l’operaio. Ma nella testa dell’economista politico quest’anima capitalistica dei mezzi di produzione è così intimamente coniugata con la loro sostanza materiale ch’egli li chiama capitale in ogni circostanza, anche se sono proprio il contrario. Così anche il Wakefield. Inoltre: egli chiama la dispersione dei mezzi di produzione quando sono proprietà individuale di molti lavoratori autonomi che lavorano per proprio conto, col nome di: divisione eguale del capitale. Succede all’economista politico come al giurista dell’età feudale, che appiccicava le sue etichette giuridiche feudali anche a rapporti puramente pecuniari.
Il Wakefield dice: «Se il capitale fosse distribuito in porzioni eguali fra tutti i membri della società, nessuno avrebbe interesse ad accumulare più capitale di quanto ne può impiegare con le proprie mani. Questo è in certa misura il caso delle nuove colonie americane, dove la passione per la proprietà fondiaria impedisce l’esistenza di una classe di operai salariati»258, Dunque, finché il lavoratore può accumulare per se stesso — e lo può finché rimane proprietario dei suoi mezzi di produzione —, sono impossibili l’accumulazione capitalistica e il modo di produzione capitalistico. Manca la classe degli operai salariati, che è indispensabile a questi ultimi. Ma come fu compiuta nella vecchia Europa l’espropriazione, dell’operaio dei suoi mezzi di produzione, e quindi creato il rapporto di capitale e lavoro salariato? Mediante un c o n t r a t s o c i a l di tipo originalissimo. « L’umanità.., ha adottato un metodo semplice per favorire l’accumulazione del capitale », che naturalmente le balenava davanti agli occhi come ultimo e unico fine della sua esistenza fin dai tempi di Adamo; «essa si è divisa in proprietari di capitale e in proprietari di lavoro...., questa divisione è stata il risultato di un accordo e patto volontario»259. In una parola: la massa dell’umanità ha espropriato se stessa in onore dell’accumulazione del capitale». Ora si dovrebbe credere che l’istinto di questo fanatismo di abnegazione dovrebbe lasciarsi andare a briglia sciolta particolarmente nelle colonie, poichè solo là esistono uomini e circostanze capaci di trasferire un contrat social dal regno dei sogni in quello della realtà. Ma allora a che scopo, la «colonizzazione sistematica» o in antitesi alla « colonizzazione spontanea»? Ma, ma: « Negli Stati settentrionali dell’Unione americana è dubbio se anche solo un decimo della popolazione faccia parte della categoria degli operai salariati... In Inghilterra.., la gran massa della popolazione consiste di operai salariati»260. Eh sì, l’istinto di autoespropriazione dell’umanità lavoratrice in onore del capitale esiste tanto poco che la schiavitù, perfino secondo il Wakefield, è l’unico fondamento spontaneo e naturale della ricchezza coloniale. La sua colonizzazione sistematica è un puro e semplice pis aller, dal momento che il Wakefleld ha a che fare non con degli schiavi, ma con uomini liberi. «i primi coloni spagnuoli in San Domingo non ricevevano operai dalla Spagna. Ma senza operai (cioè senza schiavitù) il capitale sarebbe andato perduto o per lo meno si sarebbe ridotto a quelle piccole quantità che possono essere impiegate da ciascuno con le proprie mani. E ciò avvenne realmente nell’ultima colonia fondata dagli inglesi, dove un gran capitale in sementi, bestiame e attrezzi andò in rovina per mancanza di operai, e dove nessun colono possiede molto più capitale di quanto possa impiegare con le proprie mani»261.
Si è visto che l’espropriazione della massa della popolazione e la sua espulsione dalla terra costituiscono il fondamento del modo di produzione capitalistico. Invece l’essenza di una libera colonia consiste nel fatto che la massa del suolo è ancora proprietà della popolazione, e che quindi ogni colono ne può trasformare una parte in sua proprietà privata e in un suo mezzo di produzione individuale, senza impedire con ciò che il colono sopraggiunto più tardi possa compiere la stessa operazione262. Questo è l’arcano, tanto della prosperità delle colonie quanto del male che le rode ossia della loro resistenza all’insediamento del capitale. « Dove la terra è molto a buon mercato e tutti gli uomini sono liberi, dove ognuno può mantenere a suo piacimento per se stesso un pezzo di terra, il lavoro è carissimo, per quanto riguarda la partecipazione dell’operaio al suo prodotto; non solo, ma la difficoltà sta nell’ottenere lavoro combinato, a qualsiasi prezzo»263.
Poichè nelle colonie non esiste ancora, o esiste solo sporadica mente, o solo in un ambito troppo limitato, il distacco fra il lavoratore e le condizioni di lavoro e la radice di queste, il suolo, non esiste ancora neppure la separazione dell’agricoltura dall’industria, la distruzione dell’industria domestica rurale: e di dove dovrebbe venire, allora, il mercato interno per il capitale? «Nessuna parte della popolazione americana è esclusivamente agricola, ad eccezione degli schiavi e dei loro padroni, che combinano il capitale e lavoro per grandi opere. Gli americani liberi che coltivano personalmente la terra hanno allo stesso tempo molte altre occupazioni. Una parte dei mobili e degli utensili che essi usano è abitualmente costruita da loro stessi. Spesso si costruiscono le loro case e portano il prodotto della loro industria a qualunque mercato, anche lontanissimo. Sono filatori e tessitori, fabbricano sapone e candele, scarpe e vestiti per proprio uso. In America spesso la coltivazione della terra costituisce l’attività secondaria del fabbro ferraio, del mugnaio, o del bottegaio»264. Fra gente così stramba, dove rimane il «settore dell’astinenza» per il capitalista?
La gran bellezza della produzione capitalistica consiste nel fatto ch’essa non solo riproduce costantemente l’operaio salariato come operaio salariato, ma inoltre produce sempre una sovrappopolazione relativa di operai salariati in proporzione dell’accumulazione del capitale. Così la legge della domanda e dell’offerta del lavoro viene tenuta sul binario giusto, l’oscillazione dei salari viene tenuta entro limiti giovevoli allo sfruttamento capitalistico, e infine è garantita la tanto indispensabile dipendenza sociale dell’operaio dal capitalista: rapporto assoluto di dipendenza che l’economista politico può trasformare a casa, nella madre patria, a furia di chiacchiere e di bugie, in un libero rapporto contrattuale fra compratore e venditore, fra possessori di merci egualmente autonomi, possessori della merce capitale e della merce lavoro. Ma nelle colonie questa bella illusione s’infrange. Quivi la popolazione assoluta cresce molto più rapidamente che nella madre patria, poichè molti operai arrivano sulla scena già maturi, eppure il mercato del lavoro è sempre al di sotto delle sue necessità. La legge della domanda e dell’offerta di lavoro se ne va in pezzi. Da una parte il vecchio mondo getta in continuazione nelle colonie capitale voglioso di sfruttamento, bisognoso di rinuncia; dall’altra parte la riproduzione regolare dell’operaio salariato come operaio salariato s’imbatte in ostacoli scortesissimi e in parte insuperabili. Peggio che mai per la produzione di operai salariati in soprannumero in proporzione dell’accumulazione del capitale! L’operaio salariato diventa dall’oggi al domani, contadino o artigiano indipendente che lavora per proprio conto. Scompare dal mercato del lavoro, ma... non finisce nella workhouse. Questa trasformazione costante dei salariati in produttori indipendenti, che invece di lavorare per il capitale lavorano per se stessi e invece di arricchire il signor capitalista arricchiscono se stessi, si ripercuote a sua volta in modo dannosissimo sulla situazione del mercato del lavoro. Non solo il grado di sfruttamento dell’operaio salariato si mantiene basso in modo indecente; ma l’operaio perde per giunta assieme al rapporto di dipendenza anche il senso di dipendenza dal capitalista dedito all’astinenza. Quindi tutti i gravi inconvenienti che il nostro E. G. Wakefield illustra con tanta diligenza, con tanta eloquenza e tanta commozione.
Egli lamenta che l’offerta di lavoro salariato non sia nè costante, nè regolare, nè sufficiente. È «sempre non solo troppo piccola, ma anche incerta»265. «Benchè il prodotto da spartire fra operaio e capitalista sia grande, l’operaio ne prende una parte così grande da diventare rapidamente capitalista... Per contro, pochi, anche se vivono straordinariamente a lungo, possono accumulare grandi masse di ricchezza»266. Gli operai semplicemente non permettono al capitalista di astenersi dal pagamento della maggior parte del loro lavoro. Non gli serve neppure di essere tanto furbo da importare dall’Europa, col proprio capitale, anche i propri salariati. «Presto cessano di essere operai salariati, si trasformano presto in contadini indipendenti o addirittura in concorrenti dei loro antichi padroni sul mercato stesso del lavoro salariato»267. Pensate che orrore! Il bravo capitalista si è importato lui stesso dall’Europa, a sue proprie spese, i propri concorrenti in carne e ossa! Ma allora è proprio la fine! Non c’è da meravigliarsi che il Wakefield si lamenti della mancanza del rapporto di dipendenza e del senso di dipendenza negli operai sala nati delle colonie. Il suo discepolo Merivale dice che nelle colonie, a causa degli alti salari, c’è un appassionato desiderio di lavoro più a buon mercato e più sottomesso, di una classe alla quale il capitalista possa dettar condizioni, invece di sentirsele dettare... In paesi di vecchia civiltà l’operaio, benchè libero, dipende per legge di natura dal capitalista, nelle colonie questa dipendenza deve essere creata con mezzi artificiali268.
E qual è, secondo il Wakefield, la conseguenza di questo inconveniente nelle colonie? Un « sistema barbarico di dispersione » dei produttori e del patrimonio nazionale269. La dispersione dei mezzi di produzione fra innumerevoli proprietari che lavorano per conto proprio, distruggendo la centralizzazione del capitale, distrugge anche ogni base del lavoro combinato. Ogni impresa di lungo respiro che si estenda per un numero di anni e richieda un esborso di capitale fisso urta contro ostacoli nella sua esecuzione. In Europa il capitale non esita neppure un istante, poichè la classe operaia costituisce i suoi accessori viventi, sempre presenti in sovrabbondanza, sempre a disposizione. Ma nei paesi coloniali! Il Wakefield racconta un aneddoto estremamente doloroso. Un giorno conversava con alcuni capitalisti del Canada e dello Stato di New York, dove per giunta spesso le ondate dell’immigrazione ristagnano, lasciando un sedimento di operai « in soprannumero». «Il nostro capitale», sospira uno dei personaggi del melodramma, «era pronto per molte operazioni che hanno bisogno di un periodo considerevole per esser condotte a termine: ma potevamo noi iniziarle con operai che, lo sapevamo bene, ci avrebbero presto voltato le spalle? Se fossimo stati sicuri di poter trattenere il lavoro di questi immigrati, li avremmo subito ingaggiati e a prezzo elevato. Anzi, malgrado fossimo stati sicuri di perderli, li avremmo ingaggiati, se fossimo stati sicuri di nuovi rifornimenti a seconda del nostro fabbisogno»270.
Il Wakefield, dopo aver pomposamente messo a contrasto la agricoltura capitalistica inglese e il suo lavoro «combinato» con la coltivazione contadina disseminata che si ha in America, si lascia sfuggire anche il rovescio della medaglia. Ci illustra la massa della popolazione americana agiata, indipendente, piena di spirito d’iniziativa e relativamente istruita, mentre «il lavoratore agricolo inglese è uno sciagurato straccione (a miserable wretch) un pauper... In quale paese, fuorchè nell’America del Nord e in alcune nuove colonie, i salari del lavoro libero utilizzato nelle campagne superano notevolmente i mezzi di sussistenza più indispensabili dell’operaio ?... In Inghilterra i cavalli da tiro, essendo una proprietà di gran valore, sono senza dubbio nutriti meglio del coltivatore inglese»271. Ma never mind (Non importa), la ricchezza nazionale ormai è, per natura, tutt’uno con la miseria popolare.
E allora come guarire la cancrena dell’anticapitalismo delle colonie? Se si volesse trasformare tutta la terra d’un colpo da proprietà del popolo in proprietà privata, certo sarebbe distrutta la radice del male, ma anche.., la colonia. L’arte sta nel prendere due piccioni con una fava. Si dia alla terra vergine per decreto del governo un prezzo artificiale, indipendente dalla legge della domanda e dell’offerta, tale da costringere l’immigrato a dedicarsi per un certo tempo al lavoro salariato fìnché avrà potuto guadagnare il denaro sufficiente per comprarsi la terra272 e trasformarsi in contadino indipendente.
Il governo, d’altra parte, dovrebbe utilizzare il fondo che deriva dalla vendita dei terreni a un prezzo relativamente proibitivo per l’operaio, cioè questo fondo in denaro estorto al salario lavorativo con violazione della sacra legge della domanda e dell’offerta, per importare dall’Europa nelle colonie, man mano che il fondo aumenta e nella stessa misura, dei nullatenenti: e così mantenere ben rifornito il mercato del lavoro salariato per il signor capitalista. In queste circostanze tout sera pour le mieux dans le meilleur des mondes possibles. Ecco il gran segreto della « colonizzazione sistematica ». «Con questo piano», esclama trionfante il Wakefield, «l’offerta di lavoro non potrà non essere costante e regolare; poichè, in primo luogo, siccome nessun operaio è in grado di procurarsi la terra prima di aver lavorato in cambio di denaro, tutti gli operai immigrati produrrebbero ai loro padroni capitale per impiegare più operai, e ciò per il fatto che lavorerebbero combinati e per un salario; in secondo luogo, chiunque buttasse alle ortiche il lavoro salariato e diventasse proprietario di terra, proprio con l’acquisto della terra assicurerebbe un fondo per il trasporto di nuovo lavoro nelle colonie»273, Il prezzo del suolo imposto dallo Stato deve naturalmente essere «sufficiente» (s u f f i c i e n t p r i c e), cioè tanto alto «da impedire agli operai di diventare contadini indipendenti finché non ci siano altri operai pronti a prendere il loro posto sul mercato del lavoro salariato»274. Questo «prezzo sufficiente della terra » non è altro che una perifrasi eufemistica per indicare il riscatto che l’operaio paga al capitalista per avere il permesso di lasciare il mercato del lavoro salariato e di ritirarsi in campagna. Prima deve procurare «del capitale» al signor capitalista, affinché questi possa sfruttare più operai, e poi portare sul mercato del lavoro un «sostituto», spedito oltre mare dal governo, a spese dell’operaio, al suo ex signor capitalista.
È un fatto altamente caratteristico che il governo inglese abbia per anni messo in pratica questo metodo di «accumulazione originaria» prescritto dal signor Wakefleld, proprio per l’uso nei paesi coloniali. Naturalmente il fiasco è stato vergognoso quanto quello della legge sulla Banca d’Inghilterra del Peel. La corrente migratoria non fece altro che deviare dalle colonie inglesi in direzione degli Stati Uniti. Nel frattempo, il progresso della produzione capitalistica in Europa, accompagnato da una crescente pressione governativa, ha reso superflua la ricetta del Wakefield. Da una parte, l’enorme e ininterrotta fiumana di uomini che anno per anno vengono spinti in America, lascia dietro a sè nell’est degli Stati Uniti dei depositi stazionari, poichè l’ondata migratoria dell’Europa vi getta gli uomini sul mercato del lavoro più rapidamente di quanto l’ondata migratoria verso l’ovest li possa gettare su quelle coste. Dall’altra parte, la guerra civile americana ha avuto come conseguenza un debito nazionale colossale, accompagnato da una pressione fiscale, dalla nascita della più volgare aristocrazia finanziaria, dalla donazione di una parte enorme dei terreni pubblici a società di speculatori al fine dello sfruttamento di ferrovie, miniere, ecc.., in breve, ha avuto come conseguenza una rapidissima centralizzazione del capitale. Dunque la grande repubblica ha cessato di essere la terra promessa degli operai emigranti. La produzione capitalistica vi procede a passi di giganti, anche se l’abbassamento dei sa lari e la dipendenza dell’operaio salariato non sono stati ancora, e ci manca molto, abbassati al livello normale europeo. Lo sperpero spudorato del suolo coloniale incolto, ceduto ad aristocratici e a capitalisti da parte del governo inglese, denunciato a voce così alta dallo stesso Wakefìeld, ha generato, in particolare in Australia275, insieme colla fiumana di uomini attratti dai gold-diggings (cave d’oro, miniere d’oro.) e con la concorrenza che l’importazione di merci inglesi fa anche al più piccolo artigiano, una sufficiente « sovrappopolazione relativa », cosicchè quasi ogni postale porta la triste notizia di un sovraccarico del mercato australiano del lavoro — «glut of the Australian labourmarket» — e la prostituzione vi prospera qua e là rigogliosa come allo Havmarket di Londra.
Tuttavia quel che qui ci interessa non è la situazione delle colonie. Qui ci interessa soltanto il segreto scoperto nel nuovo mondo dall’economia politica del vecchio mondo e proclamato ad alta voce: il modo capitalistico di produzione e di accumulazione, e dunque anche la proprietà privata capitalistica, portano con sè la distruzione della proprietà privata fondata sul lavoro personale, cioè portano con sè l’espropriazione dell’operaio.
253 Qui si tratta di colonie reali, terra vergine che viene colonizzata da liberi Immigrati. Economicamente parlando, gli Stati Uniti sono tuttora terra coloniale dell’Europa. Del resto rientrano in questa categoria anche quelle antiche piantagioni dove l’abolizione della schiavitù ha completamente sovvertito la situazione.
254 Perfino i pochi tratti lucidi del Wakefield sul carattere delle colonie sono completamente anticipati da Mirabeau père, il fisiocratico; e anche molto prima da economisti inglesi.
255 In seguito esso diventa una necessità temporanea nella lotta della concorrenza internazionale. Ma qualunque ne sia il motivo, le conseguenze sono sempre le stesse.
256 «Un negro è un negro. Soltanto in determinate condizioni egli diventa uno schiavo. Una macchina filatrice di Cotone è una macchina per filare il cotone. Soltanto in determinate condizioni essa diventa capitale. Sottratta a queste condizioni essa non è capitale, allo stesso modo che l’oro in sè e per sè non è denaro e lo zucchero non è il prezzo dello zucchero.., Il capitale è un rapporto sociale di produzione. È un rapporto Storico di produzione» (KARL MARX, Lohnarbeit und Kapital. Neue Rheiuische Zeitunq, n. 266, 7 aprile 1849 [Lavoro salariato e capitale]).
257 E. G. WAKEFIELD, England and America, vol, lI, p. 33.
258 Ivi, voi. I, p. 17.
259 Ivi, p. 18.
260 Ivi, pp. 42, 43, 44.
261 lvi, vol. II, p. 5.
262 «La terra, per divenire un elemento della colonizzazione, non solo deve essere incolta, ma dev’essere anche proprietà pubblica, convertibile in proprietà privata» (ivi, vol. Il, p. 125).
263 Ivi, vol. I, p. 247.
264 Ivi, pp. 21, 22.
265 lvi, vol. II, p. 116.
266 Ivi, vol. I, p. 131.
267 Ivi, vol. lI, p. 5.
268 MERIVALE, Lectures on Colonization ecc., vol. II, pp. 235-314 passim. Per fino il mite economista volgare Molinari, sostenitore del libero scambio, dice: «Nelle colonie dove la schiavitù e stata abolita senza che il lavoro forzato sia stato sostituito da una quantità corrispondente di lavoro libero si vide svolgersi proprio il contrario di quello che accade ogni giorno sotto i nostri occhi Si sono visti i semplici operai sfruttare a loro volta gli imprenditori industriali esigendo da essi salari che non sono affatto proporzionati alla parte legittima (part légitime) che spetterebbe loro sul prodotto. Poichè i piantatori non erano in grado di. ottenere per il loro zucchero un prezzo sufficiente a coprire l’aumento dei salari, sono stati costretti a coprire l’eccedenza prima ricorrendo ai loro profitti, poi ai loro stessi capitali. Così una quantità di piantatori è andata in rovina, mentre altri hanno chiuso le loro aziende per sfuggire alla rovina imminente È indubbiamente meglio vedere perire accumulazioni di capitali che generazioni d uomini (ma com’è generoso il signor Mo linari!); ma non sarebbe meglio che non andassero in rovina nè gli uni nè gli altri?» (MOLINARI, Etudes économiques, pp. 51, 52). Ma, signor Molinari, signor Molinari! Dove va mai a finire il decalogo con Mosè e coi profeti, dove va a finire la legge della domanda e dell’offerta, se in Europa l’«entrepreneur» può dar un taglio alla part légitime dell’operaio, e nelle Indie Occidentali l’operaio può dar un taglio alla part légitime dell’entrepreneur! E che cos’è, per favore, questa part légitime che, come Ella confessa, il capitalista in Europa tutti i giorni non paga? Il signor Molinari sente un gran prurito di far funzionare bene, per mezzo della polizia, laggiù nelle colonie, dove gli operai sono così «sempliciotti» da «sfruttare» il capitalista, la legge della domanda e dell’offerta che altrove opera automaticamente.
269 WAKEFIELD, England and America, vol. Il, p. 52
270 Ivi, pp. 191, 192.
271 Ivi, vol. I, pp. 47, 264.
272 «Voi aggiungerete che si deve all’appropriazione del suolo e dei capitali se l’uomo che possiede solo le sue braccia trova un’occupazione e si procura un’entrata... invece, proprio dall’appropriazione individuale del suolo deriva il fatto che ci sono uomini che hanno soltanto le loro braccia... Se mettete un uomo nel vuoto pneumatico, siete voi a rapirgli l’aria. Questo è quel che voi fate quando vi impadronite del suolo... È un mettere l’operaio in un vuoto privo d’ogni ricchezza per non lasciarlo vivere altro che a vostro beneplacito» (COLINS, L’Èconomie Politique ecc., vol. III, pp. 267-271 passim).
273 WAKEFIELD, England and America, vol. II, p. 192.
274 Ivi, p. 45.
753 Appena l’Australia è diventata legislatrice autonoma, ha emanato naturalmente leggi favorevoli agli immigrati; ma quest’azione è intralciata dallo sperpero del suolo ormai compiuto dagli inglesi. «Lo scopo primo e più importante che si propone la nuova legge sulle terre del 1862, consiste nel creare maggiori facilitazioni per la popolazione che vi si voglia stabilire» (The Land Law of Victoria, by the Hon. G. DUFFY, Minister of Public Lands, Londra, 1862, p. 3).