Il Capitale - libro I

SEZIONE VII - IL PROCESSO DI ACCUMULAZIONE DEL CAPITALE

CAPITOLO 22

TRASFORMAZIONE DEL PLUSVALORE IN CAPITALE
1. PROCESSO DI PRODUZIONE CAPITALISTICO SU SCALA ALLARGATA.
CONVERSIONE DELLE LEGGI DELLA PROPRIETÀ DELLA PRODUZIONE DELLE MERCI IN LEGGI DELL’APPROPRIAZIONE CAPITALISTICA.

In precedenza avevamo da considerare come il plusvalore nasca dal capitale, ora dobbiamo vedere come il capitale nasce dal plusvalore. Adoperare plusvalore come capitale ossia ritrasformare plusvalore in capitale significa accumulazione del capitale21.

Esaminiamo questo procedimento in primo luogo dalla visuale del singolo capitalista.

Supponiamo per esempio che un padrone di filanda abbia anticipato un capitale di 120.000 €, quattro quinti dei quali in cotone, macchine ecc., l’ultimo quinto in salario lavorativo. Egli produce 240.000 qli di refe all’anno, per un valore di 144.000 €. Se il saggio del plusvalore è del 100%, il plusvalore sta nel plusprodotto ossia prodotto netto di 40.000 qli di refe, cioè sta in un sesto del prodotto lordo, del valore di 24.000 € che verranno realizzate dalla vendita. Una somma di valore di 24.000 € è una somma di valore di 24.000 €. Non si sente dall’odore di questo denaro, né si vede dal suo aspetto che esso è plusvalore. Il carattere di plusvalore di un valore mostra come esso sia arrivato al suo proprietario, ma non cambia nulla alla natura del valore o del denaro.

Dunque il filandiere, per trasformare in capitale la nuova somma aggiuntasi di 24.000 € e eguali rimanendo tutte le altre circo stanze, ne anticiperà quattro quinti in acquisto di cotone ecc. e un quinto in acquisto di nuovi operai filatori i quali troveranno sul mercato i mezzi di sussistenza il cui valore è stato loro anticipato dal padrone della filanda. A questo punto il nuovo capitale di 2000 sterline entra in funzione nella filanda e rende a sua volta un plus valore di 400 sterline.

Il valore capitale era anticipato originariamente in forma di denaro: invece il plusvalore esiste fin da principio come valore di una parte determinata del prodotto lordo. Se quest’ultimo viene venduto, trasformato in denaro, il valore capitale riacquista la sua forma originaria, ma il plusvalore cambia la sua forma originaria d’esistenza. Tuttavia da questo momento in poi, valore capitale e plusvalore sono l’uno e l’altro somme di denaro, e la loro ritrasformazione in capitale avviene del tutto alla stessa maniera. Il capitalista investe tanto l’una che l’altra somma di denaro nell’acquisto delle merci che lo mettono in grado di ricominciare la fabbricazione del suo articolo, e, questa volta, su scala allargata. Ma per acquistare queste merci egli deve trovarle sul mercato.

I suoi filati circolano soltanto perché egli porta sul mercato il suo prodotto annuo, come fanno anche tutti gli altri capitalisti con le loro merci. Ma prima che venissero sul mercato, le merci si erano già trovate nel fondo annuo di produzione, cioè nella massa complessiva degli oggetti d’ogni specie nei quali si trasforma durante il corso dell’anno la somma totale dei capitali singoli ossia il capitale sociale complessivo, e della quale ogni singolo capitalista detiene solo una parte aliquota. Quel che avviene sul mercato mette semplicemente in atto la vendita dei singoli elementi costitutivi della produzione annua, li fa passare di mano in mano, ma non può né ingrandire la produzione annua complessiva, né cambiar la natura degli oggetti prodotti. Dunque, quale uso si possa fare del prodotto complessivo annuo, dipende dalla composizione di questo e non dipende affatto dalla circolazione.

La produzione annua deve fornire in primo luogo tutti quegli oggetti (valori d’uso) coi quali si debbono reintegrare le parti materiali del capitale consumate nel corso dell’anno. Detratti questi, rimane il prodotto netto o plusprodotto nel quale ha sede il plusvalore. E in che cosa consiste questo plusprodotto? Forse in cose destinate a soddisfare i bisogni e le voglie della classe dei capitalisti, che quindi passano nel suo fondo di consumo? Se tutto fosse qui, il plusvalore verrebbe speso fino in fondo in bagordi e si avrebbe soltanto una riproduzione semplice.

Per accumulare si deve trasformare in capitale una parte del plusprodotto. Ma, se non si fanno miracoli, si possono trasformare in capitale solo quelle cose che si possono adoperare nel processo lavorativo, cioè mezzi di produzione e inoltre cose con le quali l’operaio può sostentarsi, cioè mezzi di sussistenza. Di conseguenza, una parte del pluslavoro annuo deve essere stata adoperata nella produzione di mezzi addizionali di produzione e di sussistenza, in più della quantità che era richiesta per la reintegrazione del capitale anticipato. In una parola: il plusvalore è trasformabile in capitale solo per la ragione che il plusprodotto, del quale il plusvalore costituisce il valore, contiene già le parti costitutive materiali di un nuovo capitale21a.

Ora, per far funzionare di fatto come capitale quelle parti costitutive, la classe capitalista ha bisogno di un supplemento di lavoro. Se lo sfruttamento degli operai già occupati non deve crescere in estensione o in intensità, debbono essere assunti operai supplementari. Il meccanismo della produzione capitalistica ha già provveduto anche a questo, riproducendo la classe degli operai come classe dipendente dal salario lavorativo, il cui salario abituale è sufficiente non solo ad assicurarne il sostentamento, ma anche la moltiplicazione. Queste forze-lavoro addizionali, che gli vengono fornite annualmente dalla classe operaia in differenti stadi di età, debbono ormai soltanto essere incorporate dal capitale ai mezzi di produzione addizionali già contenuti nella produzione annua, e la metamorfosi del plusvalore in capitale è fatta. Considerata in concreto, l’accumulazione si risolve in riproduzione del capitale su scala progressiva. Il ciclo della riproduzione semplice si scambia e si trasforma, per dirla con il Sismondi, in una spirale21b.

E ora torniamo al nostro esempio. È sempre la vecchia storia:

Abramo generò Isacco, Isacco generò Giacobbe, e così via. Il capitale originario di 120.000 € produce un plusvalore di 24.000 € che viene capitalizzato. Il nuovo capitale di 24.000 € produce un plusvalore di 4.800 €; questo, capitalizzato a sua volta, cioè trasformato in un secondo capitale addizionale, produce un nuovo plusvalore di 960 €, e così via.

Qui prescindiamo dalla parte del plusvalore consumata dal capitalista. Né per il momento ci interessa se i capitali addizionali vengano aggiunti al capitale originario o se ne vengano separati per una valorizzazione autonoma; se li usi il medesimo capitalista che li ha accumulati o se egli li trasferisca ad altri. Soltanto, non dobbiamo dimenticare che, accanto ai capitali di nuova formazione, il capitale originario continua a riprodursi e a produrre plusvalore, e che altrettanto vale per ogni capitale accumulato in rapporto al capitale addizionale da esso prodotto.

Il capitale originario si è formato per mezzo dell’anticipo di 120.000 €. Come le ha avute il loro possessore? Con il lavoro suo e con quello dei suoi avi! ci rispondono unanimi i corifei dell’economia politica21c e di fatto la loro ipotesi sembra l’unica che s’accordi con le leggi della produzione delle merci.

In tutt’altro modo vanno le cose per il capitale addizionale di 24.000 €. Noi conosciamo con estrema precisione il suo processo di formazione: esso è plusvalore capitalizzato. Fin dall’origine esso non contiene neppure un solo atomo di valore che non derivi da lavoro altrui non retribuito. Tanto i mezzi di produzione ai quali viene incorporata la forza-lavoro addizionale, quanto i mezzi di sussistenza coi quali questa si mantiene, non sono altro che parti costitutive integranti del plusprodotto, cioè del tributo strappato anno per anno alla classe degli operai da parte della classe dei capitalisti. Quando poi, con una parte del tributo, questa classe compera dall’altra classe forza-lavoro addizionale, sia pure a prezzo pieno, cosicchè si ha scambio di equivalente con equivalente, si ha pur sempre l’antico procedimento del conquistatore che acquista merci dai vinti pagandole con il denaro loro, ad essi rubato.

Se il capitale addizionale impiega il suo stesso produttore, questi deve in primo luogo continuare a valorizzare il capitale originario e per giunta deve ricomprare il frutto del suo lavoro passato con più lavoro di quel che è costato. Considerando la cosa come transazione fra la classe dei capitalisti e la classe operaia, non cambia niente il fatto che col lavoro non retribuito degli operai fino allora occupati si occupino operai supplementari. Forse il capitalista trasformerà anche il capitale addizionale in una macchina che getterà sul lastrico il produttore del capitale addizionale e lo sostituirà con un paio di ragazzini. In tutti i casi la classe operaia ha creato, col proprio plus-lavoro di quell’anno, il capitale che nell’anno successivo occuperà lavoro supplementare22. Questo è quel che si chiama: generare capitale mediante capitale.

Presupposto dell’accumulazione del primo capitale addizionale di 24.000 € era una somma di valore di 120.000 € anticipata dal capitalista e a lui appartenente in virtù del suo «lavoro originario». Presupposto del secondo capitale addizionale di 4.800 € non è invece altro che la precedente accumulazione del primo, dei 24.000 €, dei quali esso costituisce il plusvalore capitalizzato. Adesso unica condizione per appropriarsi, nel presente, lavoro non retribuito vivente in misura sempre crescente sembra essere la proprietà di lavoro non retribuito passato. Quanto più il capitalista ha accumulato, tanto più egli può accumulare.

In quanto il plusvalore, del quale consiste il capitale addizionale n. 1, era risultato dell’acquisto della forza-lavoro per mezzo di una parte del capitale originario, acquisto che corrispondeva alle leggi dello scambio di merci, e, considerato giuridicamente, non presuppone da parte dell’operaio altro che la libera disponibilità delle proprie capacità, e da parte del possessore di denaro o di merci altro che la libera disponibilità dei valori che gli appartengono; in quanto il capitale addizionale n. 2 è semplicemente risultato del capitale addizionale n. 1, e quindi conseguenza di quel primo rapporto; e in quanto ogni singola transazione corrisponde costantemente alla legge dello scambio di merci, e il capitalista compra sempre la forza-lavoro e l’operaio sempre la vende, — e vogliamo supporre sempre al suo valore reale —, la legge dell’appropriazione poggiante sulla produzione e sulla circolazione delle merci ossia legge della proprietà privata si converte evidentemente nel proprio diretto opposto, per la sua propria, intima, inevitabile dialettica. Lo scambio di equivalenti che pareva essere l’operazione originaria si è rigirato in modo che ora si fanno scambi solo per l’apparenza in quanto, in primo luogo, la parte di capitale scambiata con forza-lavoro è essa stessa solo una parte del prodotto lavorativo altrui appropriato senza equivalente, e, in secondo luogo, essa non solo deve essere reintegrata dal suo produttore, l’operaio, ma deve essere reintegrata con un nuovo sovrappiù. Dunque, il rapporto dello scambio fra capitalista ed operaio diventa soltanto una parvenza pertinente al processo di circolazione, pura forma, estranea al contenuto vero e proprio, semplice mistificazione di esso. La compravendita costante della forza-lavoro è la forma. Il contenuto è che il capitalista torna sempre a permutare contro sempre maggiore quantità di lavoro altrui vivente una parte del lavoro altrui già oggettivato che egli si appropria incessantemente senza equivalente. Originariamente il diritto di proprietà ci si è presentato come fondato sul proprio lavoro. Per lo meno abbiamo dovuto tener per valida questa ipotesi, perché si trovano l’uno di fronte all’altro soltanto possessori di merci a pari diritti, e il mezzo per appropriarsi merce altrui è soltanto l’alienazione della propria merce, e questa si può produrre soltanto mediante lavoro. Adesso la proprietà si presenta, dalla parte del capitalista come il diritto di appropriarsi lavoro altrui non retribuito ossia il prodotto di esso, e dalla parte dell’operaio come impossibilità di appropriarsi il proprio prodotto. La separazione fra proprietà e lavoro diventa conseguenza necessaria di una legge che in apparenza partiva dalla loro identità23.

Dunque, per quanto il modo di appropriazione capitalistico sembri fare a pugni con le leggi primordiali della produzione delle merci, esso non deriva affatto dall’infrazione, ma, viceversa, dall’applicazione di queste leggi. Un rapido sguardo retrospettivo alla serie delle successive fasi del movimento che si conclude con l’accumulazione capitalistica, ci servirà a chiarire ciò ancora una volta.

In primo luogo abbiamo visto che la trasformazione originaria di una somma di valore in capitale si compie in tutto conformemente alle leggi dello scambio. Uno dei contraenti vende la sua forza-lavoro, l’altro la compera. Il primo riceve il valore della sua merce, con il che il suo valore d’uso — il lavoro — è alienato al secondo. Questi converte ora mezzi di produzione che già gli appartengono, con l’aiuto del lavoro che pure gli appartiene, in un nuovo prodotto, che gli appartiene anch’esso per diritto.

Il valore di questo prodotto include: in primo luogo il valore dei mezzi di produzione consumati. Il lavoro utile non può consumare questi mezzi di produzione senza trasferirne il valore nel nuovo prodotto; ma, per poter essere venduta, la forza-lavoro dev’essere in grado di fornire lavoro utile nel ramo d’industria dove dev’essere adoperata.

Inoltre, il valore del nuovo prodotto include: l’equivalente dèl valore della forza-lavoro ed un plusvalore. Ciò perché la forza- lavoro venduta per un periodo di tempo determinato, giorno, settimana, ecc., possiede meno valore di quanto ne crei il suo uso durante questo periodo. Ma all’operaio è stato pagato il valore di scambio della sua forza-lavoro, e con ciò egli ne ha alienato il valore d’uso, il che accade per ogni compravendita.

Che questa merce particolare, la forza-lavoro, abbia il valore d’uso peculiare di fornire lavoro, cioè di crear valore, ciò non può intaccare la legge generale della produzione delle merci. Se dunque la somma di valore anticipata nel salario non si ritrova puramente e semplicemente nel prodotto, ma la si trova aumentata di un plus valore, ciò non deriva da una soperchieria fatta al venditore, che ha infatti ricevuto il valore della sua merce, ma soltanto dal consumo di questa merce da parte del compratore.

La legge dello scambio porta con sè l’eguaglianza solamente dei valori di scambio delle merci che sono date via l’una per l’altra, e addirittura porta con sè fin da principio la differenza dei loro valori d’uso; non ha assolutamente nulla a che fare con il consumo di quelle merci, che ha inizio soltanto quando la transazione è stata conclusa e completata.

La trasformazione originaria del denaro in capitale si compie dunque in accordo esattissimo con le leggi economiche della produzione delle merci e con il diritto di proprietà che ne deriva. Ma ciò malgrado essa ha per risultato:

1. che il prodotto appartiene al capitalista e non all’operaio;

2. che il valore di questo prodotto include, oltre il valore del capitale anticipato, un plusvalore, che all’operaio è costato lavoro, ma al capitalista non è costato nulla, e che tuttavia diventa proprietà legittima del capitalista;

3. che l’operaio ha conservato la sua forza-lavoro e la può vendere di nuovo, se trova un compratore.

La riproduzione semplice è soltanto la ripetizione periodica di questa prima operazione; ogni volta si trasforma denaro in capitale, sempre di nuovo. Dunque la legge non viene infranta, anzi, al contrario, viene ad avere l’occasione di attuarsi durevolmente. «Più scambi successivi non fanno dell’ultimo altro che il rappresentante del primo» (Sismondi, Nouveaux Principes ecc., p. 70).

E tuttavia abbiamo visto che la riproduzione semplice è sufficiente per imprimere a questa prima operazione — in quanto veniva concepita come processo isolato — un carattere totalmente mutato.

«Fra coloro che si dividono il reddito nazionale, gli uni (gli operai) acquistano ogni anno con nuovo lavoro un nuovo diritto su di esso, gli altri (i capitalisti) hanno già acquisito un diritto permanente su di esso con un lavoro originario» (Sismondi, ivi, p. [110] 111). È noto che il regno del lavoro non è l’unico nel quale la primogenitura faccia miracoli.

E non cambia niente il fatto che la riproduzione semplice venga sostituita dalla riproduzione su scala allargata, dall’accumulazione. Con la prima il capitalista dà fondo all’intero plusvalore, con la seconda egli dà prova della sua virtù civica, consumandone soltanto una parte e trasformando il resto in denaro.

Il plusvalore è sua proprietà; non ha mai appartenuto ad altri. Se il capitalista lo anticipa per la produzione, fa anticipi dai suoi propri fondi, proprio come il primo giorno in cui si è presentato sul mercato. Che questa volta questi fondi derivino dal lavoro non retribuito dei suoi operai, qui non c’entra affatto. È vero che l’operaio B viene occupato servendosi del plusvalore che è stato prodotto dall’operaio A; ma, in primo luogo, A ha fornito questo plusvalore senza che gli sia stato decurtato neppure d’un centesimo il giusto prezzo della sua merce; e in secondo luogo tutto ciò in genere non riguarda affatto B. Quel che B chiede e ha diritto di chiedere è che il capitalista gli paghi il valore della sua forza-lavoro. «Entrambi guadagnavano ancora: l’operaio, perché gli venivano anticipati i frutti del suo lavoro (bisognerebbe dire: del lavoro non retribuito di altri operai) prima che fosse compiuto (bisognerebbe dire: prima che il suo avesse dato i suoi frutti); l’imprenditore (le maitre), perché il lavoro di questo operaio era di maggior valore del suo salario (cioè: ha generato un valore maggiore di quello del suo salario)» (Sismondi, ivi, p. 135).

Certo, la cosa si presenta in maniera del tutto differente se consideriamo la produzione capitalistica nel flusso ininterrotto del suo rinnovarsi e se invece del capitalista singolo e dell’operaio singolo teniamo presente il complesso, la classe dei capitalisti e di fronte ad essa la classe degli operai. Ma con ciò applicheremmo una scala totalmente estranea alla produzione delle merci.

Nella produzione delle merci si stanno di fronte soltanto il venditore e il compratore, indipendenti l’uno dall’altro. Le loro relazioni reciproche terminano con il giorno della scadenza del contratto concluso fra di loro. Se l’affare si ripete, ciò avviene in seguito a un nuovo contratto, che non ha nulla a che fare col precedente, e nel quale lo stesso compratore e lo stesso venditore si ritrovano soltanto per caso.

Se dunque la produzione delle merci o un processo ad essa pertinente debbono venir giudicati secondo le loro proprie leggi economiche, noi dobbiamo considerare ogni atto di scambio per se stesso, al di fuori di ogni nesso con l’atto di scambio che lo ha preceduto e con quello che gli succede. E poiché compere e vendite vengono concluse soltanto fra individui singoli, è fuori posto cercarvi rapporti fra intere classi sociali.

Per quanto lunga possa essere la serie delle riproduzioni periodiche e delle precedenti accumulazioni attraversate dal capitale oggi in funzione, questo conserva sempre la sua verginità originaria. Finchè in ogni atto di scambio — preso singolarmente — vengono osservate le leggi dello scambio, il modo di appropriazione può subire un rovesciamento totale senza intaccare in nessun modo il diritto di proprietà corrispondente alla produzione delle merci. Questo stesso diritto è in vigore, come all’inizio, quando il prodotto appartiene al produttore, e quando questi, scambiando equivalente con equivalente, si può arricchire soltanto col proprio lavoro, così anche nel periodo capitalistico, nel quale la ricchezza sociale diventa, in misura sempre crescente, proprietà di coloro che sono in condizione di tornar sempre ad appropriarsi il lavoro non retribuito di altri.

Questo risultato diventa inevitabile appena la forza-lavoro è liberamente venduta come merce dall’operaio stesso. Ma è anche a partire da quel momento soltanto che la produzione delle merci si generalizza, diventando forma tipica della produzione; e solo a partire da quel momento ogni prodotto viene prodotto per la vendita fin da principio, e tutta la ricchezza prodotta passa per la circolazione. Solo dove il lavoro salariato costituisce il suo fondamento, la produzione delle merci s’impone con la forza alla società nel suo insieme; ed è anche solo a questo punto che essa dispiega tutte le sue potenze arcane. Dire che l’intervento del lavoro salariato falsifica la produzione delle merci è come dire che la produzione delle merci non si deve sviluppare se vuole rimanere genuina. Nella stessa misura in cui la produzione delle merci si sviluppa secondo le proprie leggi immanenti in produzione capitalistica, le sue leggi della proprietà si convertono in leggi dell’appropriazione capitalistica24.

Si è visto che anche nel caso della riproduzione semplice tutto il capitale anticipato, in qualunque maniera sia stato acquisito in origine, si trasforma in capitale accumulato o plusvalore capitalizzato. Ma nel flusso della produzione ogni capitale anticipato in origine diventa, in genere, una grandezza infinitesimale (magnitudo evanescens in senso matematico) a confronto del capitale accumulato direttamente, cioè del plusvalore ossia plusprodotto riconvertito in capitale, tanto che funzioni nella mano che l’ha accumulato che in mano altrui. Quindi l’economia politica presenta in genere il capitale come «ricchezza accumulata» (plusvalore trasformato o reddito) «che torna ad essere adoperata per la produzione di plusvalore»25, oppure presenta il capitalista come «possessore del plusprodotto»26. L’espressione che tutto il capitale presente è interesse accumulato o capitalizzato, è semplicemente un’altra forma dello stesso modo di considerare le cose, poiché l’interesse è un semplice frammento del plusvalore27.

2. ERRONEA CONCEZIONE DELLA RIPRODUZIONE SU SCALA ALLARGATA DA PARTE DELL’ECONOMIA POLITICA.

Prima di addentrarci in alcune definizioni più particolari della accumulazione ossia della riconversione del plusvalore in capitale, occorre eliminare un equivoco escogitato dall’economia classica.

Come le merci, che il capitalista compra con una parte del plusvalore per il proprio consumo, non gli servono affatto da mezzi di produzione e di valorizzazione, così neppure il lavoro comprato dal capitalista per soddisfare i suoi bisogni naturali e sociali è lavoro produttivo. Invece di trasformare il plusvalore in capitale con la compera di quelle merci e di quel lavoro, il capitalista, viceversa, lo consuma ossia lo spende come reddito. Di contro all’idea della vecchia nobiltà che, come giustamente dice Hegel, consiste «nel consumare quel che c’è», e si dispiega specialmente anche nel lusso dei servizi personali, ha avuto importanza decisiva per l’economia borghese annunciare come primo dovere del cittadino l’accumulazione del capitale, e predicare instancabilmente: non si può accumulare se ci si mangia tutto il reddito invece di spenderne una buona parte nell’arruolamento di operai produttivi supplementari che rendono più di quanto costano. Dall’altra parte, l’economia borghese doveva polemizzare contro il pregiudizio popolare che scambia la produzione capitalistica con la tesaurizzazione28 e quindi si immagina che la ricchezza accumulata sia ricchezza che venga sottratta alla distruzione nella sua forma naturale presente, che venga dunque sottratta al consumo oppure anche che venga salvata dalla circolazione. L’esclusione del denaro dalla circolazione sarebbe proprio il contrario della sua valorizzazione come capitale, e l’accumulazione di merci nel senso di tesaurizzarle sarebbe pura follia28a. L’accumulazione di merci in grandi masse è risultato di un ingorgo nella circolazione oppure della sovrapproduzione29. Del resto nella immaginazione popolare trapela da una parte la figura dei beni ammucchiati nel fondo di consumo dei ricchi, che si consumano lentamente, e dall’altra parte la formazione di scorte, fenomeno che fa parte di ogni modo di produzione e sul quale indugeremo un momento nell’analisi del processo di circolazione.

Dunque sin qui l’economia classica ha ragione quando sotto linea che momento caratteristico del processo di accumulazione è il consumo di plusprodotto da parte di lavoratori produttivi invece che da parte di lavoratori improduttivi. Ma proprio qui comincia anche il suo errore. A. Smith ha messo di moda il rappresentare l’accumulazione semplicemente come consumo del plusprodotto da parte di lavoratori produttivi, ossia di rappresentare la capitalizzazione del plusvalore come pura e semplice conversione di esso in forza-lavoro. Sentiamo per esempio il Ricardo: «Dev’essere inteso che tutti i prodotti di un paese vengono consumati; ma c’è la più grande differenza che si possa immaginare nel fatto che essi vengano consumati da chi riproduce un altro valore o da chi non ne riproduce. Quando diciamo che si risparmia il reddito e che lo si unisce al capitale, intendiamo dire che quella parte del reddito di cui si dice che è aggiunta al capitale viene consumata da lavoratori produttivi invece che da lavoratori improduttivi. Non vi è errore maggiore del presupposto che il capitale venga aumentato dalla mancanza di consumo»30. Non vi è errore maggiore di questo ripetuto dal Ricardo e da tutti i successori echeggiando A. Smith: «quella parte del reddito di cui si dice che è aggiunta al capitale viene consumata da lavoratori produttivi».

Secondo questa idea tutto il plusvalore che viene convertito in capitale diventerebbe capitale variabile. Invece questo plusvalore si divide, come il valore originariamente anticipato, in capitale costante e capitale variabile, in mezzi di produzione e in forza-lavoro. La forza-lavoro è la forma nella quale il capitale variabile esiste all’interno del processo di produzione. In questo processo il capitalista consuma la forza-lavoro stessa, e quest’ultima consuma mezzi di produzione per la sua stessa funzione che è il lavoro. Allo stesso tempo il denaro pagato nell’acquisto della forza-lavoro si trasforma in mezzi di sussistenza, che non vengono consumati dal «lavoro produttivo», ma dal «lavoratore produttivi». A. Smith arriva, con una analisi erronea da capo a fondo, al risultato assurdo che, se anche ogni capitale individuale si divide in una parte costitutiva variabile e in una costante, il capitale sociale si risolve in capitale esclusivamente variabile, ossia viene speso soltanto in pagamento di salari. Supponiamo per esempio che un fabbricante di stoffe converta in capitale 24.000 €. Spende una parte del denaro in acquisto di tessitori, un’altra parte in filato di lana, macchinario per la lavorazione della lana, ecc. Ma la gente dalla quale egli compera il filato e il macchinario torna a pagare a sua volta con una parte del denaro il lavoro ecc. fino a che tutti i 24.000 € sono spesi in pagamento di salari, ossia fino a che l’intero prodotto rappresentato dai 24.000 € è consumato da operai produttivi. Ecco qua: tutto il peso di tale argomentazione sta nel termine «ecc.» che ci manda da Ponzio a Pilato. Di fatto, A. Smith interrompe l’indagine proprio dove comincia a sorgere la difficoltà31.

Finchè si tien presente soltanto il capitale della produzione annua complessiva, il processo annuale di riproduzione è facile da comprendere. Ma tutte le parti costitutive della produzione annua debbono essere portate sul mercato delle merci e qui comincia la difficoltà. I movimenti dei capitali singoli e dei redditi personali s’incrociano, si mescolano, si perdono in uno spostamento generale nella circolazione cioè della ricchezza sociale — che confonde la vista e dà all’indagine compiti molto complicati da risolvere. Darò l’analisi del nesso reale nella terza sezione del libro secondo. — È grande merito dei fisiocratici di aver fatto per la prima volta, nel loro Tableau économique, il tentativo di dare un’immagine della produzione annua nella configurazione con la quale emerge dalla circolazione32.

Del resto è ovvio che l’economia politica non ha mancato di sfruttare la proposizione di A. Smith nell’interesse della classe dei capitalisti sostenendo che tutta la parte del prodotto netto trasformata in capitale viene consumata dalla classe degli operai.

3. DIVISIONE DEL PLUSVALORE IN CAPITALE E REDDITO. LA TEORIA DELL’ASTINENZA.

Nel capitolo precedente abbiamo considerato il plusvalore, e rispettivamente il plusprodotto, soltanto come fondo di consumo individuale del capitalista, e in questo capitolo l’abbiamo finora considerato soltanto come un fondo di accumulazione. Però esso non è né l’uno né l’altro, ma l’uno e l’altro allo stesso tempo. Una parte del plusvalore viene consumata dal capitalista come reddito33, un’altra viene adoperata come capitale, cioè accumulata.

Data la massa del plusvalore l’una di queste parti sarà tanto più grande quanto più piccola sarà l’altra. Sempre considerando eguali tutte le altre circostanze, la proporzione nella quale si compie tale divisione determina la grandezza dell’accumulazione. Ma chi compie questa divisione è il proprietario del plusvalore, il capitalista. Quindi essa è atto della volontà del capitalista. Si dice che egli risparmia quella parte del tributo da lui riscosso che egli accumula, per il fatto che non se la mangia, cioè per il fatto che egli esercita la sua funzione di capitalista, cioè la funzione di arricchirsi.

Solo in quanto è capitale personificato, il capitalista ha valore storico e possiede quel diritto storico all’esistenza che, come dice spiritosamente il Lichnowsky, non ha data (Parole pronunciate in tedesco storpiato dal principe Lichnowsky in un suo discorso all’Assemblea di Francoforte nel 1848.) E solo in quanto egli è capitale personificato, la sua propria necessità transitoria è insita nella necessità transitoria del modo di produzione capitalistico; ma i motivi che lo spingono non sono il valore d’uso o il godimento, bensì il valore di scambio e la moltiplicazione di quest’ultimo. Come fanatico della valorizzazione del valore egli costringe senza scrupoli l’umanità alla produzione per la produzione, spingendola quindi a uno sviluppo delle forze produttive sociali e alla creazione di condizioni materiali di produzione che sole possono costituire la base reale d’una forma superiore di società il cui principio fondamentale sia lo sviluppo pieno e libero di ogni individuo. Il capitalista è rispettabile solo come personificazione del capitale; in tale qualità condivide l’istinto assoluto per l’arricchimento proprio del tesaurizzatore. Ma ciò che in costui si presenta come mania individuale, nel capitalista è effetto del meccanismo sociale, all’interno del quale egli non è altro che una ruota dell’ingranaggio.

Oltre a ciò, lo sviluppo della produzione capitalistica rende necessario un aumento continuo del capitale investito in un’impresa industriale, e la concorrenza impone a ogni capitalista individuale le leggi immanenti del modo di produzione capitalistico come leggi coercitive esterne. Lo costringe ad espandere continuamente il suo capitale per mantenerlo, ed egli lo può espandere soltanto per mezzo dell’accumulazione progressiva.

Dunque, in quanto tutto il suo fare è soltanto funzione del capitale che in lui è dotato di volontà e di coscienza, il proprio consumo privato è considerato dal capitalista come furto ai danni dell’accumulazione del suo capitale, allo stesso modo che nella contabilità all’italiana le spese private figurano sulla pagina del dare del capitalista di contro al suo capitale. L’accumulazione è la conquista del mondo della ricchezza sociale. Essa estende, oltre la massa del materiale umano sfruttato, anche il dominio diretto e indiretto del capitalista34.

Ma il peccato originale fa sentire dappertutto i suoi effetti. Con lo sviluppo del modo di produzione capitalistico, dell’accumulazione e della ricchezza, il capitalista cessa di essere una pura e semplice incarnazione del capitale. Egli sente una «umana commozione» (Schiller nella ballata L’ostaggio) per il suo proprio Adamo e s’incivilisce al punto da schernire la mania entusiastica dell’ascesi come pregiudizio del tesaurizzatore all’antica. Mentre il capitalista classico bolla a fuoco il consumo individuale come peccato contro la propria funzione e come un «astenersi» dall’accumulazione, il capitalista modernizzato è in grado di concepire l’accumulazione come «rinuncia» del proprio istinto di godimento. «Due anime abitano, ahimè, nel suo petto, e l’una dall’altra si vuoi separare!» (GOETHE, Faust, I parte, 1112-1113.)

Agli inizi storici del modo di produzione capitalistico — ed ogni capitalista ultimo arrivato percorre individualmente questo stadio storico — predominano l’istinto d’arricchimento e l’avarizia come passioni assolute. Ma il progresso della produzione capitalistica non crea soltanto un mondo di godimenti, apre anche con la speculazione e col credito mille fonti di arricchimento improvviso. A un certo livello di sviluppo un grado convenzionale di sperpero, che è allo stesso tempo ostentazione della ricchezza e quindi mezzo di credito, diventa addirittura necessità di mestiere per il «disgraziato» capitalista. Il lusso rientra nelle spese di rappresentanza del capitale. Inoltre, il capitalista non si arricchisce come il tesaurizzatore in proporzione del suo lavoro personale e della sua frugalità personale, ma nella misura nella quale succhia forza-lavoro altrui e impone all’operaio la rinuncia a tutti i piaceri della vita. Dunque, benché la prodigalità del capitalista non abbia mai il carattere di buona fede che ha la prodigalità dello spensierato signore feudale, e benché anzi nello sfondo stiano sempre in agguato la più sudicia avarizia e il calcolo più pavido, tuttavia la sua prodigalità cresce col crescere della sua accumulazione, senza che l’una debba pregiudicare l’altra. Ma con il crescere dell’accumulazione nel seno sublime dell’individuo capitalista si accende un conflitto faustiano fra istinto d’accumulazione e istinto di godimento.

«L’industria di Manchester», è detto in uno scritto pubblicato nel 1795 dal dott. Aikin, «può essere suddivisa in quattro periodi. Nel primo i fabbricanti erano costretti a lavorare duramente per il loro sostentamento». Si arricchirono specialmente derubando i genitori che collocavano da loro i figli come apprentices (apprendisti) e in cambio dovevano sborsare un bel po’ di quattrini, mentre gli apprendisti morivano di fame. Dall’altra parte i profitti medi erano bassi e l’accumulazione esigeva grande economia. Vivevano da tesaurizzatori e ci mancava molto che consumassero per intero gli interessi del loro capitale. «Nel secondo periodo, quando ebbero cominciato a farsi dei piccoli patrimoni, lavoravano tuttavia duramente come prima», poiché lo sfruttamento diretto del lavoro costa lavoro, come sa qualunque guardiano di schiavi, «e continuarono a vivere nello stesso stile frugale di prima... Nel terzo periodo cominciò il lusso, e l’industria venne estesa mandando cavalieri (commis-voyageurs a cavallo) in cerca di ordinazioni in ogni città del reame che avesse un mercato. È verosimile che prima del 1690 non esistessero capitali da tre a quattro mila sterline, acquisiti nell’industria, o ne esistessero pochissimi. Tuttavia intorno a quel tempo o anche un po’ più tardi gli industriali avevano già accumulato denaro e cominciarono a costruire case di pietra invece di quelle di legno e di malta... Ancora nei primi decenni del secolo XVIII un fabbricante di Manchester che mettesse davanti ai suoi ospiti una pinta di vino estero si esponeva alle osservazioni e al crollar di testa di tutti i suoi vicini». Prima dell’avvento delle macchine il consumo serale dei fabbricanti nelle taverne dove si ritrovavano non ammontava mai a più di sei pence per un bicchiere di ponce e di un penny per un rotolo di tabacco. Solo nel 1758, e ciò fa epoca, si vide «una persona realmente impegnata negli affari con un equipaggio proprio»! «Il quarto periodo», l’ultimo terzo del secolo XVIII, «è quello del gran lusso e della prodigalità, sostenuti dall’estendersi dell’industria)35. Che cosa direbbe il buon dott. Aikin se dovesse risuscitare oggi a Manchester!

Accumulate, accumulate! Questa è la Legge e questo dicono i profeti! «L’industria fornisce il materiale che il risparmio accumula»36. Dunque, risparmiate, risparmiate, cioè riconvertite in capitale la maggior parte possibile del plusvalore o plusprodotto! Accumulazione per l’accumulazione, produzione per la produzione, in questa formula l’economia classica ha espresso la missione storica del periodo dei borghesi. Non si è illusa neppur un istante sulle doglie che accompagnano il parto della ricchezza37, ma a che lamentarsi di ciò che è necessità storica? È vero che per l’economia classica il proletario conta solo come macchina per la produzione di plusvalore, ma anche il capitalista conta per essa solo come macchina per la conversione di questo plusvalore in pluscapitale, ed essa ne prende molto sul serio la funzione storica. Per rendere il petto del capitalista fatato contro l’infausto conflitto fra istinto di godimento e istinto d’arricchimento, il Malthus, all’inizio del terzo decennio di questo secolo, ha difeso una divisione del lavoro che attribuisce al capitalista realmente impegnato nella produzione il mestiere dell’accumulazione e agli altri che partecipano al plusvalore, aristocrazia terriera, beneficiari dello Stato e della Chiesa, il mestiere della prodigalità. È importantissimo, egli dice, «tener separate la passione dello spendere e la passione dell’accumulazione (the passion for expenditure and the passion for accumulation)»38. I signori capitalisti, da molto tempo trasformati in vitaioli e uomini di mondo, si misero a strillare. Come, gridava un loro portavoce, un ricardiano, il signor Malthus predica alte rendite fondiarie, imposte elevate ecc, per imporre agli industriali un continuo costituito di consumatori improduttivi! Certo, la parola d’ordine suona produzione, produzione su scala sempre più ampliata, ma «da tale processo la produzione viene molto più frenata che fomentata. Né è del tutto giusto (nor is it quite fair) mantenere così in ozio un certo numero di persone, soltanto per pungolarne altre, dal cui carattere si possa dedurre (who are likely, from their character) che se riuscite a costringerle a funzionare, funzioneranno con successo»39. Quanto il nostro ricardiano trova ingiusto incitare all’accumulazione il capitalista industriale levandogli tutto il grasso dal brodo, altrettanto necessario gli sembra limitare l’operaio il più possibile al salario minimo, «per mantenerlo laborioso». E non fa un segreto, neppure per un istante, del fatto che l’arcano del fare plusvalore è l’appropriazione di lavoro non retribuito. «L’aumento della domanda da parte degli operai non significa altro se non che essi sono disposti a prender una minor parte del loro prodotto per se stessi e a cederne una parte maggiore ai loro padroni; e quando si dice che ciò produce, per la diminuzione del consumo (da parte degli operai), un glut (sovraccarico del mercato, sovrapproduzione), posso rispondere soltanto che glut è sinonimo di profitto elevato»40.

La dotta contesa sul come fosse da dividere fra capitalista industrioso e proprietario fondiario ozioso, nel modo più adatto a favorire l’accumulazione, il bottino spremuto all’operaio, ammutolì con la rivoluzione di luglio. Poco dopo il proletariato cittadino suonò la campana a martello a Lione, e il proletariato agricolo in Inghilterra fece spiccare il volo al «gallo rosso». Al di qua della Manica imperversava l’owenismo, al di là il sansimonismo e il fourierismo.

Era suonata l’ora dell’economia volgare Proprio un anno prima di scoprire a Manchester che il profitto (compreso l’interesse) del capitale è il prodotto dell’«ultima dodicesima ora lavorativa» non retribuita, Nassau W. Senior aveva annunciato al mondo un’altra scoperta. «Io», diceva solennemente, «sostituisco la parola capitale, considerato come strumento della produzione, con la parola astinenza»41. Esempio insuperato, questo, delle «scoperte» dell’economia volgare! Una categoria economica viene sostituita con una frase da sicofante: Voilà tout. «Quando il selvaggio», ci ammaestra il Senior, «fabbrica degli archi, egli esercita un’industria, ma non pratica l’astinenza». Questo ci spiega come e perché in stadi passati della società si fabbricavano mezzi di lavoro «senza l’astinenza» del capitalista. «Quanto più la società progredisce, tanto maggiore astinenza si richiede»42, la si richiede cioè a coloro che esercitano l’industria di appropriarsi l’industria degli altri e il suo prodotto. Tutte le condizioni del processo lavorativo si trasformano d’ora in poi in altrettante pratiche ascetiche del capitalista. Il grano non viene soltanto mangiato, ma anche seminato: astinenza del capitalista! Si dà al vino il tempo che ci vuole perché la fermentazione sia completa: astinenza del capitalista!43 Il capitalista deruba il proprio Adamo quando «presta (!) gli strumenti di produzione all’operaio», in altre parole quando valorizza gli strumenti stessi come capitale incorporando loro la forza-lavoro, invece di mangiare macchine a vapore, cotone, ferrovie, concimi, cavalli da tiro ecc., oppure, come si immagina infantilmente l’economista volgare, invece di scialacquare «il loro valore» in lussi e altri mezzi di consumo44. Rimane un segreto finora ostinatamente custodito dall’economia volgare come possa la classe dei capitalisti compiere una simile impresa. Basta: se il mondo vive ancora, è soltanto per l’automortificazione di questo moderno penitente di Visnù che è il capitalista. Non solo l’accumulazione di un capitale, ma anche la semplice «conservazione di un capitale esige una costante tensione dell’energia per resistere alla tentazione di mangiarlo»45. Dunque un semplice senso di umanità impone evidentemente di redimere il capitalista dal martirio e dalla tentazione, proprio come i padroni di schiavi della Georgia sono stati di recente liberati, con l’abolizione della schiavitù, dal penoso dilemma se sperperare tutto in champagne il plusprodotto spremuto a suon di frustate agli schiavi negri, oppure se riconvertirlo anche parzialmente in più negri e più terra.

Nelle formazioni economiche sociali più differenti si ha non soltanto riproduzione semplice, ma anche riproduzione su scala allargata, sia pure in misura differente: si produce di più e si consuma di più, in progressione, e dunque si trasforma in mezzi di produzione anche una maggior quantità di prodotto. Però questo processo non si presenta come accumulazione di capitale e quindi neppure come funzione del capitalista finchè i mezzi di produzione dell’operaio e quindi anche il suo prodotto e i suoi mezzi di sussistenza non si trovano contrapposti all’operaio in forma di capitale46, Richard Jones, successore di Malthus alla cattedra di economia politica al College per le Indie Orientali di Haileybury e da poco scomparso, discute bene questo punto soffermandosi su due grandi fatti. poiché la parte più numerosa del popolo indiano è data da contadini a conduzione diretta, il loro prodotto, i loro mezzi di lavoro e di sussistenza non esistono mai «nella forma («in the shape») di un capitale risparmiato sul reddito altrui («saved from revenue») e che quindi abbia percorso precedentemente un processo di accumulazione («a previous process of accumulation»)47. D’altra parte, nelle province dove la dominazione inglese ha meno dissolto il vecchio sistema, gli operai non agricoli vengono impiegati direttamente dai grandi, ai quali affluisce come tributo o rendita fondiaria una porzione del plus prodotto della campagna. Parte di questo prodotto viene consumata dai grandi nella sua forma naturale, un’altra parte viene trasformata per essi in mezzi di lusso e in altri mezzi di consumo dagli operai, mentre il resto costituisce il salario degli operai che sono proprietari dei loro strumenti di lavoro. Produzione e riproduzione su scala allargata fanno qui il loro cammino senza nessun intervento di quello strano santo, di quel cavaliere dalla triste figura che è il capitalista «astinente».

4. CIRCOSTANZE CHE DETERMINANO IL VOLUME DELL’ACCUMULAZIONE INDIPENDENTEMENTE DALLA DIVISIONE PROPORZIONALE DEL PLUSVALORE IN CAPITALE E REDDITO: GRADO DI SFRUTTAMENTO DELLA FORZA-LAVORO; FORZA PRODUTTIVA DEL LAVORO; DIFFERENZA CRESCENTE FRA CAPITALE IMPIEGATO E CAPITALE CONSUMATO; ENTITÀ DEL CAPITALE ANTICIPATO.

Se presupponiamo come data la proporzione nella quale il plusvalore si scinde in capitale e reddito, la grandezza del capitale accumulato dipende evidentemente dalla grandezza assoluta del plusvalore. Supponiamo che l’80% venga capitalizzato e il 20% venga mangiato: il capitale accumulato ammonterà a 28.800 € o a 14.000 €, a seconda che il plusvalore complessivo ammontava a 36.000 o a 18.000 €. Quindi tutte le circostanze che determinano la massa del plusvalore cooperano anche a determinare la grandezza dell’accumulazione. Qui le riassumiamo ancora una volta, ma solo in quanto offrono punti di vista in riferimento all’accumulazione.

Si sa che il saggio del plusvalore dipende in prima istanza dal grado di sfruttamento della forza lavoro. L’economia politica tiene in tanto conto questo fatto da identificare talvolta l’accelerazione dell’accumulazione mediante l’aumento della forza produttiva del lavoro con l’accelerazione mediante l’aumento dello sfruttamento dell’operaio48. Nelle sezioni sulla produzione del plusvalore abbiamo presupposto costantemente che il salario lavorativo fosse lo meno eguale al valore della forza-lavoro. Tuttavia la riduzione dei salari al di sotto del valore della forza-lavoro ha una parte troppo importante nel movimento pratico perché non ci tratteniamo un momento su di essa. Questa riduzione trasforma di fatto, entro certi limiti, il fondo necessario di consumo dell’operaio in un fondo d’accumulazione di capitale.

«I salari», dice J. St. Mill, «non hanno forza produttiva; sono il prezzo d’una forza produttiva; i salari non contribuiscono alla produzione delle merci assieme al lavoro, più che non contribuisca il prezzo delle macchine stesse. Se si potesse avere lavoro senza acquistarlo, i salari sarebbero superflui»49. Ma se gli operai potessero vivere d’aria, non si potrebbero neanche comprare a nessun prezzo. La gratuità degli operai è dunque un limite in senso matematico, sempre irraggiungibile, benché sempre più approssimabile. È tendenza costante del capitale di abbassare gli operai fino a questo punto nichilistico. Uno scrittore del secolo XVIII, che ho spesso citato, l’autore dell’Essay on Trade and Commerce, quando dichiara compito storico vitale dell’Inghilterra l’abbassamento dei salari inglesi al livello francese e olandese 50, non fa che rilevare l’intimo segreto della psiche del capitale inglese. Egli dice ingenuamente fra l’altro: «Ma se i nostri poveri (termine tecnico per operai) vogliono vivere lussuosamente... il loro lavoro deve essere naturalmente caro... Si consideri soltanto la orripilante massa di superfluità» («heap of superfluities»), «consumata dai nostri operai manifatturieri: ecco acquavite, gin, tè, zucchero, frutta estera, birra forte, telerie stampate, tabacco, da fiuto e da fumo ecc.»51. E cita lo scritto di un fabbricante del Northamptonshire che si lagna, guardando in tralice verso il cielo:

«In Francia il lavoro è più a buon mercato di tutt’un terzo che in Inghilterra, poiché i poveri francesi lavorano duramente e si trattano duramente quanto al mangiare e al vestire; il loro consumo principale sono pane, frutta, erbaggi, radici e pesce secco, poiché mangiano carne molto di rado e, se il grano è caro, mangiano pochissimo pane»52. «Al che si aggiunge ancora», continua l’autore del nostro Saggio, «che le loro bevande consistono d’acqua o di simili liquori poco forti, cosicchè la loro spesa quotidiana è sbalorditivamente esigua... Certo è difficile introdurre tale stato di cose, ma esso non è cosa irraggiungibile, come dimostra patentemente la sua esistenza tanto in Francia che in Olanda»53. Vent’anni dopo un ciarlatano americano, lo yankee baronificato Benjamin Thompson (alias conte Rumford) seguì la stessa linea di filantropia con gran compiacimento al cospetto di Dio e degli uomini. I suoi Saggi sono un libro di cucina con ricette di tutti i tipi per sostituire ai cibi normali degli operai, che costavano cari, surrogati di ogni genere. Una delle ricette meglio riuscite di questo strano «filosofo» è la seguente: «Per cinque libbre di farina d’orzo a i penny e mezzo, computandovi l’orzo al presente altissimo prezzo di questo paese, cioè 5 scellini e 6 dinari per bushel, pence 7 e mezzo. Per cinque libbre di grano d’India, a 1 penny e mezzo la libbra, pence 6 e mezzo; 4 aringhe secche, 3 pence; aceto, 1 penny; sale, 1 penny; pepe ed erbe, 2 pence. Questa somma di pence 20 e 3/4 divisa per 64, che è il numero delle porzioni di minestra, porta a un po’ meno di un terzo di penny per ogni porzione. Ma al prezzo medio dell’orzo e del grano d’India, come si vende nella Gran Bretagna, sono persuaso che questa minestra non possa valere più di un farthing per porzione»54. Col progresso della produzione capitalistica l’adulterazione delle merci ha reso superflui gli ideali del Thompson.55.

Alla fine del secolo XVIII e durante i primi decenni del secolo XIX i fittavoli e i landlords inglesi imposero il salario minimo assoluto, pagando ai giornalieri agricoli meno del minimo nella forma del salario, e il resto nella forma di sussidio parrocchiale. Un esempio dello spirito pagliaccesco con cui procedevano i Dogberry (Capo delle guardie in Molto rumore per nulla di Shakespeare; qui sinonimo di impiegato subordinato sciocco ed eccessivamente zelante.) inglesi stabilendo «legalmente» la tariffa dei salari: «Quando gli squires (Signori del luogo, scudieri ) stabilirono i salari per Speenhamland nel 1795, avevano fatto il loro pasto meridiano, ma pensavano evidentemente che i loro operai non ne avessero bisogno... Deliberarono che il salario settimanale doveva essere di tre scellini a testa, mentre la pagnotta di pane di 8 libbre e 11 once costava uno scellino, e che doveva salire gradualmente fino a che la pagnotta costasse uno scellino e 5 pence. Appena la pagnotta fosse salita al di sopra di questo prezzo, il salario doveva diminuire proporzionalmente, fino a che il prezzo della pagnotta avesse raggiunto i due scellini: a questo punto il nutrimento d’un operaio sarebbe stato minore di un quinto di quello del momento iniziale»56. Davanti al comitato d’inchiesta della House of Lords del 1814 viene interrogato un certo A. Bennett, grande fittavolo, autorità cittadina, amministratore della casa dei poveri e regolatore dei salari: «Si osserva una qualche proporzione fra il valore del lavoro giornaliero e il sussidio parrocchiale dato agli operai?» Risposta: «Sì. L’introito settimanale di ogni famiglia viene completato a partire dal salario nominale fino alla pagnotta di pane da un gallone (8 libbre e 11 once) e a 3 pence a testa... Noi presupponiamo che la pagnotta da un gallone sia sufficiente per il mantenimento d’ogni persona della famiglia per una settimana; i 3 pence sono per i vestiti; e se la parrocchia preferisce fornire direttamente i vestiti, i 3 pence vengano detratti. Questa prassi regna non solo in tutta la parte occidentale del Wiltshire, ma, credo, in tutto il paese»57. «Così», esclama uno scrittore borghese di quel periodo, «i fittavoli hanno degradato per anni e anni una classe rispettabile di loro compatriotti, costringendoli a ricorrere alla casa di lavoro... Il fittavolo ha aumentato i propri guadagni impedendo da parte dell’operaio anche l’accumulazione del fondo di consumo più indispensabile»58. Che parte abbia oggi nella formazione del plusvalore e quindi del fondo d’accumulazione del capitale il furto diretto sul fondo di consumo necessario dell’operaio, ce l’ha mostrato ad esempio il cosiddetto lavoro a domicilio (vedi cap. XV, n. 8, c). Altri dati nel corso di questa sezione.

Benché in tutti i rami d’industria la parte del capitale costante che consiste di mezzi di lavoro debba essere sufficiente per un certo numero di operai determinato dalla grandezza dello stabilimento, tuttavia non c’è affatto bisogno che quella parte cresca sempre nella stessa proporzione della quantità di lavoro impiegata. In uno stabilimento cento operai forniscono, supponiamo, con un lavoro di otto ore giornaliere, 800 ore lavorative. Se il capitalista vuole aumentare questa somma di metà, egli può impiegare cinquanta nuovi operai; ma in questo caso egli deve anche anticipare un nuovo capitale, non solo per i salari, ma anche per mezzi di lavoro. Però il capitalista può anche far lavorare i cento operai di prima dodici ore al giorno invece di otto: e allora bastano i mezzi di lavoro già esistenti, che in questo caso si logorano più rapidamente, ma non altro. Così lavoro aggiuntivo generato con una più elevata tensione della energia lavorativa può aumentare, senz’aumento proporzionale della parte costante del capitale, il plusprodotto e il plusvalore, cioè la sostanza dell’accumulazione.

Nell’industria estrattiva, per esempio nelle miniere, le materie prime non costituiscono alcuna parte costitutiva dell’anticipo di capitale. L’oggetto del lavoro non è qui prodotto di lavoro precedente, ma è donato gratuitamente dalla natura. Così per il minerale metallifero, i vari minerali, il carbon fossile, le pietre ecc. Qui il capitale costante consiste quasi esclusivamente di mezzi di lavoro che possono tollerare benissimo un aumento della quantità di lavoro (per es. turni di operai diurni e notturni). Poste come eguali tutte le altre circostanze, la massa e il valore del prodotto saliranno però in proporzione diretta del lavoro adoperato. Come il primo giorno della produzione, i creatori originari del prodotto e quindi anche i creatori degli elementi materiali del capitale, uomo e natura, qui vanno di pari passo. Grazie alla elasticità della forza-lavoro il campo dell’accumulazione si è ampliato senza essere preceduto da un ingrandimento del capitale costante.

Nell’agricoltura non si può estendere la terra coltivata senza anticipare un’aggiunta di sementi e di concimi. Ma una volta fatto questo anticipo, anche la semplice lavorazione meccanica del terreno compie un’azione miracolosa sulla quantità e sulla massa del prodotto. Così una maggior quantità di lavoro, fornita dal numero di operai che si era avuto fino allora, aumenta la fertilità senza richiedere un nuovo anticipo di mezzi di lavoro. È ancora l’azione diretta dell’uomo sulla natura che diviene fonte immediata di un aumento di accumulazione senza intervento di un nuovo capitale.

Infine nell’industria in senso proprio ogni spesa aggiuntiva in lavoro presuppone una corrispondente spesa aggiuntiva in materie prime, ma non presuppone necessariamente anche una spesa aggiuntiva in mezzi di lavoro. E poiché l’industria estrattiva e l’agricoltura forniscono all’industria di fabbrica le materie prime dell’industria stessa e quella dei suoi mezzi di lavoro, torna a suo vantaggio anche quel supplemento di prodotti generato dalle altre due senza anticipo aggiuntivo di capitale.

Risultato generale: il capitale, incorporandosi i due creatori originari della ricchezza, forza-lavoro e terra, acquista una forza d’espansione che gli permette di estendere gli elementi della, propria accumulazione al di là dei limiti apparentemente posti dalla sua propria grandezza, posti cioè dal valore e dalla massa dei mezzi di produzione già prodotti, nei quali il capitale ha la sua esistenza.

Un altro fattore importante nell’accumulazione del capitale è il grado di produttività del lavoro sociale.

Con il crescere della forza produttiva del lavoro cresce la massa dei prodotti nella quale si presenta un dato valore e quindi anche un plusvalore di grandezza data. Quando il saggio del plusvalore rimane eguale e anche quando esso cade, purchè la sua caduta sia più lenta dell’aumento della forza produttiva del lavoro, la massa del plusprodotto cresce. Quindi, eguale rimanendo la divisione del plusprodotto in reddito e in capitale addizionale, il consumo del capitalista può crescere senza che il fondo d’accumulazione diminuisca. La grandezza proporzionale del fondo d’accumulazione può crescere anche a spese del fondo di consumo, mentre la riduzione a più buon mercato delle merci mette a disposizione del capitalista altrettanti mezzi di godimento di prima o anche di più. Ma, come si è visto, la riduzione a più buon mercato dell’operaio e dunque l’aumento del saggio del plusvalore vanno di pari passo con l’aumento della produttività del lavoro, anche quando aumenta il salario reale. Quest’ultimo non sale mai proporzionalmente alla produttività del lavoro. Dunque lo stesso valore in capitale variabile mette in movimento più forza-lavoro e quindi più lavoro. Lo stesso valore in capitale costante si presenta in più mezzi di produzione, cioè in più mezzi di lavoro, in più materiale da lavoro e materie ausiliarie, produce dunque tanto un maggior numero di creatori di prodotti che un maggior numero di creatori di valore, o assorbitori di lavoro. Quindi, eguale rimanendo e anche diminuendo il valore del capitale addizionale, ha luogo un’accumulazione accelerata. Non solo la scala della riproduzione si allarga materialmente, ma la produzione del plusvalore cresce più rapidamente del valore del capitale addizionale.

Lo sviluppo della forza produttiva del lavoro si ripercuote anche sul capitale originario ossia sul capitale che già si trova nel processo di produzione. Una parte del capitale costante in funzione consiste in mezzi di lavoro, come macchinario ecc., che vengono consumati e quindi riprodotti o sostituiti con nuovi esemplari dello stesso tipo soltanto in periodi di una certa lunghezza. Ma ogni anno una parte di questi mezzi di lavoro decade o raggiunge il termine della sua funzione produttiva: quindi una parte dei mezzi di lavoro si trova, anno per anno, nello stadio della riproduzione periodica o della sua sostituzione con nuovi esemplari dello stesso tipo. Se la forza produttiva del lavoro si è ampliata al luogo d’origine di questi mezzi di lavoro — ed essa si sviluppa continuamente nel corso ininterrotto della scienza e della tecnica —, alle vecchie macchine subentrano macchine, strumenti, apparecchi ecc. più efficienti e, considerato il volume dei loro servizi, più a buon mercato. Il vecchio capitale viene riprodotto in una forma più produttiva, fatta astrazione dai continui cambiamenti di dettaglio dei mezzi di lavoro esistenti. L’altra parte del capitale costante, materie prime e materiali ausiliari, viene rinnovata continuamente durante l’anno; quella che proviene dall’agricoltura, per lo più annualmente. Dunque qui ogni introduzione di metodi migliori ecc. opera quasi contemporaneamente sul capitale addizionale e sul capitale già funzionante. Ogni progresso della chimica moltiplica non solo il numero delle materie utili e le applicazioni pratiche di quelle già conosciute estendendo quindi, mentre cresce il capitale, anche le sue sfere d’investimento; ma insegna contemporaneamente a rilanciare nel ciclo del processo di riproduzione gli escrementi del processo di produzione e di consumo, e crea quindi nuova materia di capitale senza precedente esborso di capitale. Scienza e tecnica costituiscono quindi una potenza dell’espansione del capitale indipendente dalla grandezza data del capitale in funzione, allo stesso modo dell’aumento dello sfruttamento della ricchezza naturale mediante il semplice elevamento della tensione della forza-lavoro. Questa potenza si ripercuote contemporaneamente su quella parte del capitale originario che è entrata nel suo stadio di rinnovamento. Nella sua nuova forma il capitale s’incorpora gratis il progresso sociale compiuto mentre agiva la sua vecchia forma. Certo, questo sviluppo della forza produttiva è anche accompagnato da un deprezzamento parziale dei capitali in funzione. Quando questo deprezzamento si fa sentire acutamente per via della concorrenza, il peso principale ne cade sull’operaio, poiché il capitalista cerca un indennizzo aumentando lo sfruttamento di quest’ultimo.

Il lavoro trasferisce nel prodotto il valore dei mezzi di produzione da esso consumati. D’altra parte il valore e la massa dei mezzi di produzione messi in movimento da una quantità data di lavoro crescono in proporzione del crescere della produttività del lavoro.

Dunque, anche se la stessa quantità di lavoro aggiunge ai suoi prodotti sempre e soltanto la stessa somma di nuovo valore, tuttavia il vecchio valore capitale ch’essa contemporaneamente trasferisce in essi, cresce col crescere della produttività del lavoro.

Supponiamo per esempio che un filatore inglese e uno cinese lavorino per lo stesso numero di ore e con la stessa intensità: l’uno e l’altro produrranno in una settimana valori eguali. Nonostante questa eguaglianza rimane una differenza enorme fra il valore del prodotto settimanale dell’inglese, che lavora con un potente apparecchio automatico, e quello del cinese, che ha solo un filatoio a ruota. Nello stesso tempo in cui il cinese fila una libbra di cotone, l’inglese ne fila alcune centinaia. E il valore del suo prodotto è tumido di una somma di vecchi valori maggiore di parecchie centinaia di volte; e in quel prodotto i vecchi valori sono conservati in forma nuova e utilizzabile e possono così tornare a funzionare come capitale. «Nel 1782», c’insegna F. Engels, «tutto il raccolto di lana dei tre anni prece denti giaceva (in Inghilterra) ancora non lavorato per mancanza di operai; ed avrebbe dovuto continuare a rimanere lì se non fosse venuto in aiuto il macchinario di nuova invenzione, che lo filò»59.

Naturalmente, il lavoro oggettivato in forma di macchinario non fece balzare immediatamente dal suolo neppure un uomo, ma per mise a un esiguo numero di operai, con l’aggiunta di relativamente poco lavoro vivente, di consumare produttivamente la lana e di aggiungerle nuovo valore non solo, ma anche di conservare il vecchio valore della lana nella forma di filato ecc. Così le macchine fornivano insieme i mezzi e l’incitamento ad una riproduzione allargata di lana. È dote naturale del lavoro vivente conservare il vecchio valore nel mentre ne crea uno nuovo. Quindi il lavoro, col crescere dell’efficienza, del volume e del valore dei suoi mezzi di produzione, e cioè con l’accumulazione che accompagna lo sviluppo della sua forza produttiva, conserva e perpetua, in sempre nuove forme, un valore capitale sempre crescente60. Questa forza naturale del lavoro si presenta come forza di autoconservazione del capitale al quale essa è incorporata, proprio allo stesso modo che le forze produttive sociali del lavoro si presentano come qualità del capitale e come la costante appropriazione del pluslavoro da parte del capitalista si presenta come autovalorizzazione costante del capitale. Tutte le forze del lavoro si proiettano come forze del capitale, come tutte le forme di valore della merce si presentano come forme del denaro.

Col crescere del capitale cresce la differenza fra capitale impiegato e capitale consumato. In altre parole: col crescere del capitale cresce la massa di valore e la massa materiale dei mezzi di lavoro come locali, macchine, tubature di drenaggio, bestiame da lavoro, apparecchi di ogni tipo, che funzionano in tutto il loro volume per periodi più o meno lunghi in processi di produzione che si ripetono costantemente, oppure servono a ottenere determinati effetti utili, mentre si logorano solo a poco a poco e perdono quindi il loro valore solo poco per volta e quindi lo trasferiscono solo poco per volta nel prodotto. Nella proporzione nella quale questi mezzi di produzione servono come creatori di prodotti senza aggiungere valore al prodotto, cioè nella proporzione in cui vengono usati interamente ma consumati solo parzialmente, essi forniscono, come abbiamo accennato prima, lo stesso servizio gratuito che forniscono le forze naturali, come acqua, vapore, luce, elettricità ecc. Questo servizio gratuito del lavoro trascorso, quando viene preso e animato dal lavoro vivente, s’accumula insieme coll’allargarsi della scala d’accumulazione.

poiché il lavoro trascorso si traveste sempre in capitale, cioè poiché il passivo del lavoro di A, B, C ecc. si traveste sempre nell’attivo del non-lavoratore X, borghesi ed economisti politici sono pieni di elogi per i meriti del lavoro trascorso, il quale, secondo il genio scozzese MacCulloch deve addirittura incassare un proprio compenso (interesse, profitto, ecc.)61. Dunque, l’importanza sempre crescente del lavoro trascorso che collabora, in forma di mezzi di produzione, nel vivente processo lavorativo, viene attribuita alla figura di esso estraniata all’operaio, del quale esso costituisce il lavoro trascorso e non pagato: viene attribuita alla figura di capitale di esso. Tanto gli agenti pratici della produzione capitalistica che i loro azzeccagarbugli ideologici sono incapaci di pensare il mezzo di produzione distaccato dalla maschera sociale antagonistica che oggi gli aderisce, allo stesso modo che un padrone di schiavi non è capace di pensare l’9peraio stesso distaccato dalla sua caratteristica di schiavo.

Dato il grado di sfruttamento della forza-lavoro, la massa del plusvalore è determinata dal numero degli operai che vengono sfruttati in un medesimo momento e questo numero corrisponde, benché in proporzione variabile, alla grandezza del capitale. Dunque, quanto più il capitale cresce a mezzo di successive accumulazioni, tanto più cresce anche la somma di valore che si scinde in fondo di consumo e in fondo di accumulazione. Quindi il capitalista può vivere più largamente ed esercitare allo stesso tempo una maggiore «astinenza». E, infine, tutte le molle della produzione si muovono con tanto maggiore energia, quanto più la scala di produzione si allarga insieme colla massa del capitale anticipato.

5. IL COSIDDETTO FONDO DI LAVORO.

Nel corso della nostra ricerca è risultato che il capitale non è una grandezza fissa, ma una parte elastica della ricchezza sociale, costantemente fluttuante col variare della divisione del plusvalore in reddito e capitale addizionale. Si è visto inoltre che anche quando la grandezza del capitale in funzione è data, la forza-lavoro, la scienza e la terra (per terra vanno intesi in economia tutti gli oggetti di lavoro presenti in natura senza intervento dell’uomo) incorporate in esso, ne costituiscono potenze elastiche, che gli consentono, entro certi limiti, un campo d’azione indipendente dalla sua propria grandezza. Qui si era fatta astrazione da tutti i rapporti del processo di circolazione che hanno per effetto gradi d’azione molto differenti di una stessa massa di capitale. poiché noi presupponiamo sempre come dati i limiti della produzione capitalistica, cioè presupponiamo come data una configurazione puramente naturale e spontanea del processo di produzione sociale, abbiamo fatto astrazione anche da ogni combinazione più razionale che potesse essere effettuata immediatamente e sistematicamente coi mezzi di produzione e con la forza-lavoro esistenti. Da sempre ’economia classica ha prediletto concepire il capitale sociale come una grandezza fissa dal grado di efficacia fisso. Ma questo pregiudizio è stato consolidato in dogma dall’arcifilisteo Geremia Bentham, questo oracolo del senso comune borghese del secolo XIX, arido pedante e chiacchierone banale62. Bentham è fra i filosofi quel che Martin Tupper è fra i poeti: l’uno e l’altro solo l’Inghilterra poteva fabbricarli63. Col suo dogma diventano del tutto incomprensibili i fenomeni più comuni del processo di produzione, come per esempio le improvvise espansioni e contrazioni e perfino l’accumulazione64. Questo dogma è stato utilizzato a scopi apologetici tanto dallo stesso Bentham quanto dal Malthus, da James Mill, dal MacCulloch ecc. E in particolare è stato usato per rappresentare come grandezza fissa una parte del capitale, il capitale variabile, ossia quello convertibile in forza-lavoro. L’esistenza materiale del capitale variabile, cioè la massa dei mezzi di sussistenza che esso rappresenta per l’operaio, ossia il cosiddetto fondo di lavoro, venne favoleggiato come una parte speciale della ricchezza sociale, recinta da catene naturali e impenetrabile. Per mettere in movimento quella parte della ricchezza sociale che deve funzionare come capitale costante ossia, espresso in termini materiali, come mezzi di produzione, è necessaria una massa determinata di lavoro vivente. Questa massa è data tecnologicamente. Ma non è dato né il numero degli operai necessari per rendere liquida questa massa di lavoro, perché ciò cambia con il cambiare del grado di sfruttamento della forza-lavoro individuale, né è dato il prezzo di questa forza-lavoro, ma soltanto il suo limite minimo che per giunta è molto elastico. A base di questo dogma stanno i fatti seguenti: da una parte, l’operaio non ha diritto di dir la sua nella divisione della ricchezza sociale in mezzi di godimento di coloro che non lavorano e in mezzi di produzione; dall’altra parte, l’operaio può ampliare il cosiddetto «fondo di lavoro» a spese del «reddito» del ricco soltanto in casi d’eccezione favorevoli65.

A quale insulsa tautologia conduca tradurre arbitrariamente il limite capitalistico del fondo di lavoro in limite naturale sociale del fondo stesso, ce lo mostrerà, fra gli altri, il professor Fawcett: «Il capitale circolante66 di un paese», egli dice, «è il suo fondo di lavoro. Dunque, per calcolare il salario medio in denaro che riceve ogni operaio, dobbiamo semplicemente dividere questo capitale per il numero della popolazione operaia»67. Cioè dunque: prima calcoliamo la somma complessiva dei salari individuali realmente pagati, poi affermiamo che questa addizione costituisce la somma in valore del «fondo di lavoro» elargito da Dio e dalla natura. Infine, dividiamo la somma così ottenuta per il numero delle teste degli operai, per scoprire a nostra volta quanto può spettare ad ogni operaio in media.

È un procedimento straordinariamente astuto, che però non impedisce al signor Fawcett di dire nello stesso momento: «La ricchezza complessiva accumulata ogni anno in Inghilterra viene divisa in due parti. Una parte viene adoperata in Inghilterra per mantenere la nostra industria. Un’altra parte viene esportata in altri paesi... La parte adoperata nella nostra industria non costituisce una porzione importante della ricchezza accumulata annualmente in questo paese»68.

La parte maggiore del plusprodotto che ogni anno s’accresce, sottratta senza equivalente all’operaio inglese, non viene dunque trasformata in capitale in Inghilterra, ma in paesi stranieri. Ma con il capitale addizionale così esportato viene pure esportata anche una parte del «fondo di lavoro» inventato da Dio e da Bentham69.

Note

21 «Accumulazione di capitale: l’impiego di parte del reddito come capitale» (MALTHUS, Definitions in Political Economy, ed. Cazenove, p. 11). «Trasformazione di reddito in capitale» (MALTHUS, Principles of Political Economy, 2. ed., Londra, 1836, p. 320).

21a Qui si fa astrazione dal commercio di esportazione, per mezzo del quale una nazione può convertire articoli di lusso in mezzi di produzione o di sussistenza e viceversa. Per concepire l’oggetto dell’indagine nella sua purezza, libero da circo costanze secondarie perturbatrici, qui dobbiamo considerare tutto il mondo del commercio come una nazione e dobbiamo presupporre che la produzione capitalistica si sia stabilita dappertutto e si sia impadronita di tutti i rami dell’industria.

21b L’analisi sismondiana dell’accumulazione ha il gran difetto che il Sismondi si accontenta troppo della frase «conversione di reddito in capitale» senza approfondire le condizioni materiali di quest’operazione.

21c «Il lavoro originario al quale il suo capitale è andato debitore della propria nascita» (SISMONDI, Nouveaux Principes ecc., ed. Parigi, voi. I, p. 109).

22 «Il lavoro crea il capitale prima che il capitale impieghi il lavoro» («Labour creates capital, before capital employs labour»). E. G. WAKEFIELD, England and America, Londra, 1833, vol II, p. 110.

23 Il fatto che il capitalista sia proprietario del prodotto del lavoro altrui «è rigorosa conseguenza della legge dell’appropriazione, il cui principio fondamentale era viceversa che ogni lavoratore avesse titolo di proprietà sul prodotto del proprio lavoro» (CHERBULIEZ, Riche ou Pauvre, Parigi, 1841, p. 58, dove però questo rovesciamento dialettico non viene svolto correttamente).

24 Si ammiri la furberia del Proudhon che vuole abolire la proprietà capitalistica facendo valere di contro ad essa.., le eterne leggi della proprietà della produzione delle merci!

25 «Il capitale è ricchezza accumulata, impiegata con il fine del profitto» (MALTHUS, Principles ecc.). «Il capitale... consiste di ricchezza economiazata sul reddito e impiegata per ottenere un profitto» (R. JONES, An Introductory Lecture on Political Economy, Londra, 1833, p. 16).

26 «I possessori di plusprodotto (surplus produce) ossia capitale» (The Source and Remedy of the National Difficulties. A Letter to Lord John Russel, Londra, 1821).

27 «Il capitale, con l’interesse composto di ogni parte del capitale economizzato, s’impossessa talmente di tutto che l’intera ricchezza del mondo dalla quale deriva un reddito è diventata da molto tempo interesse di capitale» (London Economist, 19 luglio 1859).

28 «Nessun cultore di economia politica d’oggi può intendere per risparmio la mera tesaurizzazione; e, a prescindere da questo procedimento abbreviato e insufficiente, non ci si può immaginare altro uso di questa espressione, in riferimento alla ricchezza nazionale, oltre quello che deve derivare dalla differente applicazione di ciò che è risparmiato, fondato su una reale distinzione fra i differenti tipi di lavoro che ne vengono mantenuti» (MALTHUS, Principle: ecc., pp. 38, 39).

28a Così in Balzac, che ha studiato tutte le sfumature dell’avarizia, il vecchio usuraio Gobseck è già rimbambito quando comincia a farsi un tesoro ammucchiando merci.

29 «Accumulazione di capitali... cessazione degli scambi... sovrapproduzione» (Th. CORBET, An Inquiry into the Causes and Modes of the Wealth of Individuals, p. 14).

30 RICARDO, Principles ecc., p. 163, nota.

31 Nonostante la sua Logica il signor J. St. Mill non coglie mai il punto debole neppure di tale erronea analisi dei suoi predecessori la quale invoca la propria correzione perfino entro i limiti dell’orizzonte borghese, dal semplice punto di vista specialistico. Egli ricopia dappertutto con dogmatismo da scolaretto la confusione mentale dei suoi maestri. Così qui: «A lungo andare il capitale stesso si risolve completamente in salari, e quando esso viene reintegrato con la vendita dei prodotti, ritorna a risolversi in salari».

32 Nella rappresentazione del processo di riproduzione e quindi anche dell’accumulazione, A. Smith non solo non ha fatto, per parecchi lati, nessun progresso, ma anzi ha compiuto dei netti regressi in confronto dei suoi predecessori, specialmente dei fisiocratici. All’illusione ricordata nel testo è connesso il dogma, anche questo lasciato da lui in eredità all’economia politica, veramente fantastico, che il prezzo delle merci è composto di salario, profitto (interesse) e rendita fondiaria, quindi soltanto di salario e plusvalore. Partendo da questa base lo Storch per lo meno confessa ingenuamente: «È impossibile risolvere il prezzo necessario nei suoi elementi più semplici» (STORCH, Cours d’Économie ecc., ed. Pietroburgo, 1815, vol II, p. 140, nota). Bella scienza economica questa che dichiara cosa impossibile risolvere il prezzo delle merci nei suoi elementi più semplici! Maggiori particolari sull’argomento si troveranno nella terza sezione del libro secondo e nella settima sezione del libro terzo.

33 Il lettore osserverà che la parola revenue [reddito] qui è usata in duplice senso: in primo luogo per designare il plusvalore come frutto che scaturisce periodicamente dal capitale; in secondo luogo per designare la parte di questo frutto che viene periodicamente consumata dal capitalista o che viene aggiunta al suo fondo di consumo. Conservo questo duplice significato perché è in armonia con l’uso degli economisti francesi e inglesi.

34 Lutero rende benissimo la brama di dominio come elemento dell’istinto dell’arricchimento in quella antiquata se pur sempre rinnovata forma del capitalista che è l’usuraio. «I pagani han potuto calcolare per ragione che un usuraio è un quadruplice ladro ed assassino. Ma noi cristiani li teniamo in tanto onore, che quasi li adoriamo per il loro denaro... Chi succhia, rapina e ruba il nutrimento ad un altro, commette (per quanto sta in lui) un assassinio altrettanto grave di quello che lo fa morir di fame e lo manda in rovina. Ma questo è quel che fa un usuraio, e tutto il tempo se ne sta sicuro sulla sua seggiola, mentre sarebbe più giusto che pendesse dalla forca e fosse divorato da tanti corvi quanti formi ha rubato, se poi ci fosse in lui tanta carne che tanti corvi potessero prendersi un pezzetto e dividersela. Intanto s’impiccano i ladruncoli... I ladruncoli giacciono in ceppi, legati, i ladroni si pavoneggiano, d’oro e di seta vestiti... E anche non c’è maggior nemico degli uomini in terra (dopo il diavolo) d’un avaro e usuraio, poiché egli vuole esser Dio su tutti gli uomini. Turchi, gente di guerra, tiranni sono anch’essi uomini malvagi ma debbon lasciar vivere la gente e riconoscono che sono malvagi e nemici, e possono, anzi debbono bene a volte aver pietà di qualcuno. Ma un usuraio, epa d’avarizia, questi vuole che tutto il mondo gli rovini in fame, sete, lutto e miseria per quanto sta in lui, affinchè egli possa aver tutto da solo, ed ognuno riceva da lui come da un Dio, e sia in eterno suo servo; vuol portare grandi abiti, catena d’oro, anelli, pulirsi il muso, farsi considerare e celebrare come un uomo caro e pio... L’usura è un gran mostro immane, come un lupo mannaro che tutto devasta, più di un Caco, d’un Gerione, d’un Anteo. E pur si adorna e vuol esser pio, che non si veda dove vanno a finire i buoi che egli trascina a ritroso nella sua tana. Ma Ercole deve udire il grido dei buoi e dei prigionieri e deve cercare Caco anche fra gli scogli e dirupi e far tornar liberi i buoi dal malvagio. poiché Caco vuol dire un malvagio, che è un pio usuraio, ruba, rapina, divora tutto, e tuttavia non vuol aver fatto nulla, e nessuno deve scoprire come i buoi sono stati trascinati a ritroso nella sua tana, devono dar l’apparenza e le impronte come se ne fossero stati fatti uscire. Così pure l’usuraio vuole imbrogliare il mondo, come s’egli gli giovasse e gli desse buoi, mentre li trae a sè solo e li divora... E se si arrotano e si decapitano i rapinatori, gli assassini e i briganti, quanto più si dovrebbero arrotare e svenare tutti gli usurai... cacciarli, maledirli e decapi tarli» (LUTERO, Ai parroci ecc.).

35 Dott. AIKIN, Description of the Country from 30 te 40 miles round Manchester, Londra, 1795, pp. [181] 182 sgg. [188]

36 A. SMITH, Wealth of Nations, libro II, cap. III, tp 3671.

37 Perfino J. B. Say dice: «I risparmi dei ricchi si fanno a spese dei poveri». «Il proletario romano viveva quasi unicamente a spese della società... Si potrebbe quasi dire che la società moderna vive a spese del proletario, della parte che essa detrae dalla ricompensa del suo lavoro» (SISMONDI, Études ecc., vol. I, p. 24).

38 MALTHUS, Principles ecc., pp. 319, 320.

39 An Inquiry into those Principles respecting the Nature of Demand ecc., p. 67.

40 Ivi, p. 59.

41 SENIOR, Principes fondamentaux de I’Économie Politique, trad. Arrivabene, Parigi, 1836, p. 309. Questa però sembrò un po’ troppo grossa ai seguaci della vecchia scuola classica, «Il signor Senior sostituisce all’espressione lavoro e capitale l’espressione lavoro e astinenza... L’astinenza è soltanto una negazione. Non è l’astinenza, ma l’uso del capitale adoperato in maniera produttiva a costituire la fonte del profitto» (John CAZENOVE, Note alle Definitions di MALTHUS, p. 130, nota). Invece il signor John St. Mill da un lato fa estratti dalla teoria del profitto del Ricardo, e dall’altro si annette la «remuneration of abstinence» del Senior. Quanto gli è ignota la «contraddizione» hegeliana, fonte di ogni dialettica, tanto si trova a suo agio in contraddizioni banalissime.

Aggiunta alla seconda edizione. L’economista volgare non ha mai fatto la semplice riflessione che ogni azione umana può essere concepita come «astinenza» dal suo opposto. Mangiare è astinenza dal digiuno, camminare astinenza dallo stare, lavorare è astinenza dall’oziare, oziare astinenza dal lavoro, ecc. Questi signori farebbero bene a meditare una volta il detto di Spinoza: Determinatio est negatio.

42 SENIOR, ivi, p. 342.

43 «Nessuno.., seminerà per esempio il suo grano lasciandolo un anno nel terreno, o lascerà il suo vino per anni in una cantina, invece di consumare subito queste cose o i loro equivalenti.., se non s’aspetta di riceverne un valore addizionale ecc.» (SCROFE, Political Economy, ed. da A. Potter, New-York, 1841, p. 133).

44 «La privazione che il capitalista si impone prestando all’operaio (questo del prestare è un eufemismo usato per identificare, secondo la provata ricetta dell’economia volgare, l’operaio salariato, sfruttato dal capitalista industriale, con il capitalista industriale stesso che prende a chiodo da capitalisti che prestan denaro) i suoi mezzi di produzione, invece di consacrarne il valore al proprio uso personale, trasformandolo in oggetti utili o di piacere» (G. DE MOLINARI, Ètudes économiques, p. 36).

45 «La conservation d’un capita! exige... un effort... constant pour r é s i s t e r à la tentation de le consomer» (COURCELLE-SENEUIL, Traité théorique et pratique des Entreprises Industrielles, p. 20).

46 «Le classi particolari del reddito che contribuiscono più abbondantemente al progresso del capitale nazionale cambiano nei differenti gradi del loro sviluppo e quindi sono del tutto differenti nelle differenti nazioni che occupano posizioni differenti in tale sviluppo... I profitti.., sono una fonte poco importante di accumulazione in confronto ai salari e alle rendite negli stadi passati della società... Quando si è avuto realmente un aumento considerevole nelle forze del lavoro nazionale, i profitti acquistano un’importanza comparativamente maggiore come fonte d’accumulazione» (RICHARD JONES, Textbook ecc., pp. 16, 21).

47 Ivi, p. 36 sgg. (Alla quarta edizione. Deve trattarsi di una svista, il passo non è stato ritrovato. F. E.).

48 «Ricardo dice: “ In stadi differenti della società l’accumulazione del capitale ossia dei mezzi per impiegare il lavoro (cioè sfruttano) è più o meno rapida e deve dipendere in ogni caso dalle forze produttive del lavoro. Le forze produttive del lavoro sono in generale più grandi dove si ha sovrabbondanza di terreno fertile”. Se in questa proposizione le forze produttive del lavoro significano la piccolezza della quota parte di ogni prodotto che va a coloro il cui lavoro manuale lo produce, la proposizione è tautologica, perché la parte restante è il fondo dal quale, se il proprietario vuole (“ if the owner pleases “), si può accumulare capitale. Ma questo per lo più non è il caso là dove si ha il terreno più fertile» (Observations on Certain Verbal Disputes ecc., p. 74).

49 J. St. MILL, Essay on some unsettled Questions of Political Economy, Londra, 1844, pp. 90, 91

50 An Essay on Trade and Commerce, Londra, 1770, p. 44. Analogamente il Times del dicembre 1866 e del gennaio 1867 riportava effusioni del cuore di proprietari di miniere inglesi, dove si illustrava lo stato felice degli operai minatori belgi che non chiedevano nulla di più e non ricevevano nulla più di quanto fosse strettamente necessario per vivere per i loro «masters». Molto sopportano gli operai belgi, ma figurare nel Times come operai modello! Ai primi di febbraio 1867 la risposta fu data dallo sciopero degli operai minatori belgi (presso Marchienne) represso a fucilate.

51 lvi, pp. 44, 46.

52 Il fabbricante del Northamptonshire commette una pia fraus scusabile con l’impulso del suo cuore. Pretende di paragonare la vita degli operai manifatturieri inglesi con quella dei francesi, ma, come confessa egli stesso più avanti impappinato, con le parole che abbiamo or ora citato egli descrive operai agricoli francesi!

53 Ivi, pp. 70, 71. Nota alla terza edizione. Oggi siamo un bel pezzo più avanti grazie alla concorrenza del mercato mondiale, sorta da allora. Il membro del parlamento Stapleton dichiara ai suoi elettori: «Se la Cina diventa un grande paese industriale, non vedo come la popolazione operaia europea possa sostenere la lotta senza scendere al livello dei suoi concorrenti» (Times, 3 settembre 1873). Il fine auspicato dal capitale inglese non è più il salario continentale, ma il salario cinese.

54 BENJAMIN THOMPSON, Essays, political, economical and Philosophical ecc., tre volumi, Londra, 1796-1802, vol. I, p. 294 [trad. it. riportata nel testo: Saggi politici, economici e filosofici del Conte di Rumford che hanno servito di base allo Stabilimento di Monaco per i poveri, in due volumi, Prato, 1819, vol. I, p. 328]. Sir F.M. Eden raccomanda caldamente ai preposti alle workhouses nel suo The State of the Poor, or an History of the Labouring Classes in England ecc, la zuppa dei mendicanti del Rumford; e ammonisce corrucciato gli operai inglesi che e fra gli scozzesi ci sono molte famiglie che vivono per mesi e mesi, invece che di grano, segala e carne, di semola di avena e farina d’orzo, mescolate solo con sale ed acqua, e vivono, per giunta, molto bene («and that very confortably too»), (ivi, voi. I, libro I!, cap. Il, p. 503). «Suggerimenti» analoghi nel secolo XIX: «Gli operai agricoli inglesi», è detto per esempio, «non vogliono mangiare misture di granaglie inferiori. In Scozia, dove l’educazione è migliore, questo pregiudizio probabilmente è sconosciuto» (CHARLES H. PARRY M. D., The Question of the Necessity of the existing Corn-laws considered, Londra, 1816, p. 69). Tuttavia questo stesso Parry si lamenta che oggi (1815) l’operaio inglese sia molto decaduto in confronto al tempo dell’Eden (1797).

55 Dalle relazioni dell’ultima commissione parlamentare d’inchiesta sulla adulterazione dei mezzi di sussistenza si vede che perfino l’adulterazione di medicinali non è un’eccezione, ma è la regola in Inghilterra. Per esempio l’analisi di 34 campioni di oppio, acquistati in altrettante farmacie di Londra, ha fatto risultare che 31 erano adulterati con semi di papavero, farina di grano, gomma, argilla, sabbia, ecc. Molti campioni non contenevano nemmeno un atomo di morfina.

56 G. B. NEWNHAM (barrister at law [avvocato] A Review of the Evidence before the Committees of the tuo Houses of Parliament on the Corn-laws, Londra, 181-5, p. 20, nota.

57 Ivi, pp. 19, 20.

58 C H. PARRY, The Question of the Necessity of the existing Corn-laws considered, pp. 77, 69. A loro volta i signori proprietari fondiari non si «indennizzarono» soltanto della guerra antigiacobina da loro condotta in nome dell’ Inghilterra, ma si arricchirono enormemente. «Le loro rendite si raddoppiarono, triplicarono, quadruplicarono e in casi eccezionali si sestuplicarono in 18 anni» (ivi, pp. 100, 101).

59 F. ENGELS, Die Lage der arbeitenden Klasse in England, p. 20.

60 L’economia classica non ha mai capito bene questo importante momento della riproduzione a causa della sua difettosa analisi del processo di lavoro e di valorizzazione, come si può vedere per esempio nel Ricardo. Egli dice per esempio: qualunque sia il variare della forza produttiva, «un milione di uomini produce nelle fabbriche sempre lo stesso valore». Questo è giusto, quando l’estensione e il grado d’intensità del loro lavoro sono dati. Ma ciò non impedisce, e il Ricardo trascura il fatto in certe sue deduzioni, che «un milione di uomini trasformino in prodotto, variando la forza produttiva del loro lavoro, masse diversissime di mezzi di produzione, e che quindi conservino nel loro prodotto masse di valore diversissime, e che quindi i valori in prodotti da loro forniti siano molto diversi. Notiamo di sfuggita che il Ricardo ha tentato invano di chiarire al Say con quell’esempio la differenza fra valore d’uso (ch’egli qui chiama wealth, ricchezza materiale) e valore di scambio. Il Say risponde: «Quanto alla difficoltà accennata dal Ricardo quando dice che con procedimenti migliori un milione di uomini può produrre ricchezze due o tre volte maggiori di quelle di prima senza produrre maggior valore, tale difficoltà scompare se si considera, come si deve, la produzione come uno scambio nel quale si danno i servizi produttivi del proprio lavoro, della propria terra e dei propri capitali per ricevere prodotti. Con questi servizi produttivi otteniamo tutti i prodotti che ci sono al mondo... Dunque... siamo tanto più ricchi e tanto maggior valore hanno i nostri servizi produttivi, quanto maggiore è la quantità di cose utili che essi procurano in quello scambio che à chiamato produzione» (J. B. Say, Lettres è M. Malthus, Parigi, 1820, pp. 168, 169). La difficoltà — essa esiste per lui, non per il Ricardo — che il Say deve spiegare, è la seguente: perché non aumenta il valore degli oggetti d’uso quando cresce la loro quantità in seguito all’aumento della forza produttiva del lavoro? Risposta: la difficoltà viene risolta chiamando cortesemente valore di scambio il valore d’uso. Il valore di scambio è una cosa che in una maniera o nell’altra è connessa con lo scambio. Si chiami dunque la produzione uno scambio di lavoro e di mezzi di produzione con il prodotto, ed è chiaro come la luce del sole che si ottiene tanto più valore di scambio quanto più valore d’uso ci è fornito dalla produzione. In altre parole: quanto più valori d’uso, per esempio calze, fornisce una giornata lavorativa al fabbricante di calze, tanto più egli è ricco di calze. All’improvviso però viene in mente al Say che con la «maggior quantità» delle calze il loro «prezzo» (che naturalmente non ha nulla a che fare con il valore di scambio) cade, «perché la concorrenza li (i produttori) costringe a cedere i prodotti per quel che costano loro». Ma allora di dove viene il profitto, se il capitalista vende le merci al prezzo che costano a lui? Ma, never mind [non importa]. Il Say dichiara che in seguito all’aumento della produttività ognuno riceve adesso in sostituzione dello stesso equivalente due paia di calze invece di uno come prima. Il risultato al quale egli arriva è proprio la proposizione del Ricardo che egli voleva confutare. Dopo questo grandioso sforzo di pensiero, egli apostrofa trionfalmente il Malthus con queste parole: «Ecco, signore, la dottrina ben fondata senza la quale, Io dichiaro, è impossibile risolvere le questioni più difficili dell’economia politica e particolarmente, come avviene che una nazione possa diventare più ricca quando i suoi prodotti diminuiscono di valore, benché la ricchezza rappresenti valore» (ivi, p. 170). Un economista inglese osserva a proposito di bravure analoghe nelle Lettres del Say: «Questi modi affettati di chiacchierare (“those affected ways of taiking”) costituiscono in generale quel che il signor Say ama chiamare la sua dottrina e quella che egli raccomanda al Malthus d’insegnare a Hertford, come già, secondo il Say, avveniva “in parecchie parti d’Europa”. Egli dice: “Se trovate un carattere paradossale in tutte queste affermazioni, considerate le cose che esse esprimono, ed io oso credere che vi sembreranno semplicissime e molto ragionevoli”. Senza dubbio, e in conseguenza dello stesso processo sembreranno tutto quel che si vuole, solo non sembreranno originali o importanti» (An Inquiry into those Principles respecting the Nature of Demand ecc., p. 110).

61 Il MacCulloch aveva preso il brevetto per «wages of labour parts» [ salario di lavoro trascorso] molto prima che il Senior prendesse il suo per «wages abstinences» [salario dell’astinenza].

62 Cfr. fra l’altro: J. BENTHAM, Théorie des Peines et des Récompenses, trad. Et. Dumont, 3. ed., Parigi, 1826, vol. II, libro IV, cap. II.

63 Geremia Bentham è un fenomeno puramente inglese. In nessun tempo e in nessun paese, senza eccettuare neppure il nostro filosofo Christian Wolf, si è mal così pavoneggiato e compiaciuto di sè il luogo comune più trito. Il principio dell’utile non è stato un’invenzione del Bentham, il quale non ha fatto che riprodurre senza nessuno spirito quel che Helvétius ed altri francesi del secolo XVIII avevano detto con spirito. Per esempio se si vuol sapere che cos’è utile a un cane, bisogna studiare a fondo la natura canina. Ma questa natura stessa non si può dedurre dal «principio dell’utile». Applicato all’uomo, se si vuole giudicare ogni atto, movimento, rapporto ecc, dell’uomo secondo il principio dell’utile, si tratta in primo luogo della natura umana in generale e poi della natura umana storicamente modificata, epoca per epoca. Bentham non ci perde molto tempo. Egli suppone, con la più ingenua banalità, che l’uomo normale sia il filisteo moderno e in ispecie il filisteo inglese. Quel che è utile a questo curioso uomo normale e al suo mondo è utile in sè e per sè. Su questa norma egli giudica poi passato, presente e futuro. Per esempio la religione cristiana è «utile» perché riprova religiosamente quegli stessi misfatti che il codice penale condanna giuridicamente. La critica d’arte è «dannosa», perché disturba la gente per bene quando si gode Martin Tupper. Di simile robaccia quel brav’uomo, che aveva per divisa «nulla dies sine linea», ha riempito montagne di libri. Se avessi il coraggio del mio amico H. Heine, chiamerei il signor Geremia un genio della stupidità borghese.

64 «Gli economisti politici sono troppo inclini a trattare una data quantità di capitale e un dato numero di operai come strumenti di produzione di forza uniforme, operanti con una certa intensità uniforme... Coloro che affermano che le merci sono gli unici agenti della produzione, dimostrano che la produzione non può, in genere, essere ampliata, poiché per tale ampliamento dovrebbero prima essere aumentati mezzi di sussistenza, materie prime e strumenti, il che in realtà equivale a dire che un accrescimento della produzione non si può avere senza previo suo accrescimento, ossia che ogni accrescimento è impossibile» (S. BAILEY Money and its Vicissitudes, pp. 58, 70). Il Bailey critica il dogma principalmente dal punto di vista del processo di circolazione.

65 J. St. Mill dice nei suoi Principles of Political Economy [libroII, cap. 1, par. 3]:

«Oggi il prodotto del lavoro viene distribuito in rapporto inverso del lavoro; la massima parte a quelli che non lavorano mai, la seconda per grandezza a quelli il cui lavoro è quasi soltanto nominale, e così, su scala discendente, il compenso va sempre più impiccolendosi mano mano che il lavoro diventa più duro e più spiacevole, fino al lavoro fisico più duro e più estenuante, che non può contare con sicurezza neppure di ottenere la soddisfazione dei bisogni più elementari della vita». Ad evitare malintesi osservo, che, se pure uomini come J. St. Mill sono degni di biasimo per la contraddizione fra i loro vecchi dogmi economici e le loro tendenze moderne, sarebbe estrema ingiustizia metterli in un sol fascio con il gregge degli apologeti dell’economia volgare.

66 H. FAWCETT, professore di economia politica a Cambridge, The Economie Position of the British Labourer, Londra, 1865, p. 120.

67 Ricordo qui al lettore che le categorie capitale variabile e capitale costante sono io il primo ad usarle. L’economia politica mescola alla rinfusa, da A. Smith in poi, le definizioni contenute in quelle categorie con le differenze formali di capitale fisso e capitale circolante che derivano dal processo di circolazione. Maggiori particolari nel libro secondo, seconda sezione.

68 FAWCETT, The Economie Position ecc., pp. 123, 122.

69 Si potrebbe dire che ogni anno si esporta dall’Inghilterra non solo capitale, ma anche operai, nella forma dell’emigrazione. Però nel testo non si parla affatto del peculio degli emigrati che in gran parte non sono operai. Una gran porzione è data da figli di fittavoli. Il capitale addizionale inglese spedito annualmente all’estero per esser messo a interesse sta all’accumulazione annuale in un rapporto incomparabilmente maggiore del rapporto fra l’emigrazione annuale e l’aumento annuo della popolazione.