Il processo lavorativo è stato considerato in un primo tempo (vedi capitolo quinto) astrattamente, indipendentemente dalle sue forme storiche, come processo che si svolge fra uomo e natura. Vi si diceva: «Se si considera l’intero processo lavorativo dal punto di vista del suo risultato, mezzo di lavoro e oggetto di lavoro si presentano entrambi come mezzi di produzione, e il lavoro stesso si presenta come lavoro produttivo». E con la nota sette si completava: « Questa definizione del lavoro produttivo, come risulta dal punto di vista del processo lavorativo semplice, non è affatto sufficiente per il processo di produzione capitalistico ». Ora dobbiamo svolgere ulteriormente questo argomento.
Finchè il processo lavorativo è mero processo individuale, lo stesso lavoratore riunisce in sè tutte le funzioni che più tardi si separano. Nell’appropriazione individuale di oggetti dati in natura per gli scopi della sua vita, il lavoratore controlla se stesso. Più tardi, egli viene controllato. L’uomo singolo non può operare sulla natura senza mettere in attività i propri muscoli, sotto il controllo del proprio cervello. Come nell’organismo naturale mente e braccio sono connessi, così il processo lavorativo riunisce lavoro intellettuale e lavoro manuale. Più tardi, questi si scindono fino all’antagonismo e all’ostilità. Il prodotto si trasforma in genere da prodotto immediato del produttore individuale in prodotto sociale, prodotto comune di un lavoratore complessivo, cioè di un personale da lavoro combinato, le cui membra hanno una parte più grande o più piccola nel maneggio dell’oggetto del lavoro. Quindi col carattere cooperativo del processo lavorativo si amplia necessariamente il concetto del lavoro produttivo e del veicolo di esso, cioè del lavoratore produttivo. Ormai per lavorare produttivamente non è più necessario por mano personalmente al lavoro, è sufficiente essere organo del lavoratore complessivo e compiere una qualsiasi delle sue funzioni subordinate. La sopra citata definizione originaria del lavoro produttivo che è dedotta dalla natura della produzione materiale stessa, rimane sempre vera per il lavoratore complessivo, considerato nel suo complesso. Ma non vale più per ogni suo membro, singolarmente preso.
Ma dall’altra parte il concetto del lavoro produttivo si restringe. La produzione capitalistica non è soltanto produzione di merce, è essenzialmente produzione di plusvalore. L’operaio non produce per sè, ma per il capitale. Quindi non basta più che l’operaio produca in genere. Deve produrre plusvalore. È produttivo solo quell’operaio che produce plusvalore per il capitalista, ossia che serve all’autovalorizzazione del capitale. Se ci è permesso scegliere un esempio fuori della sfera della produzione materiale, un maestro di scuola è lavoratore produttivo se non si limita a lavorare le teste dei bambini, ma se si logora dal lavoro per arricchire l’imprenditore della scuola. Che questi abbia investito il suo denaro in una fabbrica d’istruzione invece che in una fabbrica di salsicce, non cambia nulla nella relazione. Il concetto di operaio produttivo non implica dunque affatto soltanto una relazione fra attività ed effetto utile, fra operaio e prodotto del lavoro, ma implica anche un rapporto di produzione specificamente sociale, di origine storica, che imprime all’operaio il marchio di mezzo diretto di valorizzazione del capitale. Dunque, esser operaio produttivo non è una fortuna ma una disgrazia. Nel quarto libro di quest’opera, che tratterà la storia della teoria, si vedrà più da vicino come l’economia politica classica abbia da sempre fatto della produzione di plusvalore la caratteristica decisiva dell’operaio produttivo. E quindi la sua definizione dell’operaio produttivo varia col variare della sua concezione della natura del plusvalore. Così i fisiocratici dichiarano che solo il lavoro agricolo è produttivo, perchè esso soltanto fornisce un plusvalore. Ma il fatto è che per i fisiocratici il plusvalore esiste esclusivamente nella forma di rendita fondiaria.
Prolungamento della giornata lavorativa oltre il punto fino al quale l’operaio avrebbe prodotto soltanto un equivalente del valore della sua forza-lavoro, e appropriazione di questo pluslavoro da parte del capitale: ecco la produzione del plusvalore assoluto. Essa costituisce il fondamento generale del sistema capitalistico e il punto di partenza della produzione del plusvalore relativo. In questa, la giornata lavorativa è divisa dal principio in due parti: lavoro necessario e pluslavoro. Per prolungare il pluslavoro, il lavoro necessario viene accorciato con metodi che servono a produrre in meno tempo l’equivalente del salario. Per la produzione del plusvalore assoluto si tratta soltanto della lunghezza della giornata lavorativa; la produzione del plusvalore relativo rivoluziona da cima a fondo i processi tecnici del lavoro e i raggruppamenti sociali.
Dunque la produzione del plusvalore relativo presuppone un modo di produzione specificamente capitalistico che a sua volta sorge e viene elaborato spontaneamente, coi suoi metodi, coi suoi mezzi e le sue condizioni, solo sulla base della sussunzione formale del lavoro sotto il capitale. Al posto della sussunzione formale del lavoro sotto il capitale subentra quella reale.
Sarà sufficiente fare un semplice cenno delle forme ibride nelle quali il pluslavoro non viene estorto al produttore mediante coazione diretta, né è ancora sopravvenuta la subordinazione formale del produttore stesso al capitale. Qui il capitale non si è ancora impadronito immediatamente del processo lavorativo. Accanto ai produttori indipendenti che esercitano il loro mestiere di artigiani o di agricoltori con l’antichissimo sistema tradizionale, si presenta l’usuraio oppure il mercante, il capitale usurario o il capitale mercantile, che li munge parassitariamente. Il predominio di questa forma di sfruttamento in una società esclude il modo di produzione capitalistico, al quale però può servire di transizione, come nel tardo Medioevo. Infine, come mostra l’esempio del lavoro domestico moderno, qua e là certe forme ibride vengono riprodotte sullo sfondo della grande industria, sia pure con fisionomia completamente alterata.
Se per la produzione del plusvalore assoluto è sufficiente la semplice sussunzione formale del lavoro sotto il capitale, se per esempio è sufficiente che artigiani i quali prima lavoravano per se stessi o anche come garzoni di un maestro artigiano, ora passino come operai salariati sotto il controllo diretto del capitalista, si è visto d’altra parte come i metodi per la produzione del plusvalore relativo siano insieme metodi per la produzione del plusvalore assoluto. Anzi, il prolungamento smisurato della giornata lavorativa si è presentato come produzione peculiarissima della grande industria. In genere, il modo di produzione specificamente capitalistico cessa di essere semplice mezzo per la produzione del plusvalore relativo appena si è impadronito di una intera branca di produzione, e ancor più appena si è impadronito di tutte le branche decisive della produzione. A questo punto diventa forma generale, socialmente dominante, del processo di produzione; continua ad operare ancora come metodo particolare per la produzione del plusvalore relativo, in primo luogo, solo in quanto si impadronisce di industrie fino a quel momento subordinate al capitale solo formalmente, cioè solo nel pro pagarsi; in secondo luogo, in quanto industrie che già l’hanno accettato, vengono continuamente rivoluzionate dal variare dei metodi di produzione.
Da un certo punto di vista la differenza fra plusvalore assoluto e plusvalore relativo sembra, in genere, illusoria. Il plusvalore relativo è assoluto perchè comporta un prolungamento assoluto della giornata lavorativa al di là del tempo di lavoro necessario per l’esistenza dell’operaio stesso. Il plusvalore assoluto è relativo, perchè comporta uno sviluppo della produttività del lavoro che permette di limitare il tempo di lavoro necessario ad una parte della giornata lavorativa. Ma se si tiene presente il movimento del plusvalore, questa parvenza di identità scompare. Appena il modo di produzione capitalistico, una volta per tutte, si è insediato ed è divenuto modo di produzione generale, la differenza fra plusvalore assoluto e plusvalore relativo si fa sentire, appena si tratta di far salire il saggio del plusvalore in genere. A questo punto, presupponendo che la forza-lavoro venga pagata al suo valore, ci troviamo davanti alla alternativa: data la forza produttiva del lavoro e il suo grado normale di intensità, il saggio del plusvalore si può far salire soltanto mediante il prolungamento assoluto della giornata lavorativa; d’altra parte, dato il limite della giornata lavorativa, il saggio del plusvalore si può far salire soltanto mediante la variazione relativa della grandezza delle parti costitutive di essa, lavoro necessario e pluslavoro, il che presuppone, qualora il salario non debba scendere al di sotto del valore della forza-lavoro, una variazione della produttività o intensità del lavoro.
Se il lavoratore ha bisogno di tutto il suo tempo per produrre i mezzi di sussistenza necessari alla conservazione di se stesso e della sua specie, non gli rimane tempo per lavorare gratuitamente per terze persone. Senza un certo grado di produttività del lavoro, niente tempo disponibile di quel tipo per il lavoratore, senza questo tempo eccedente niente pluslavoro e quindi niente capitalisti, ma anche niente padroni di schiavi, niente baroni feudali: in una parola, niente classe dei grandi proprietari1.Così si può parlare di una base naturale del plusvalore, ma sola nel senso generalissimo che nessun ostacolo naturale assoluto può trattenere una persona dal rimuovere da sè e dal caricare su di un’altra il lavoro necessario per la propria esistenza; come per esempio non c’è nessun ostacolo naturale assoluto che trattenga l’uno dall’adoprar la carne dell’altro come nutrimento1a. A questa produttività naturale e spontanea del lavoro non si deve connettere nessuna idea mistica, come è accaduto talvolta. Solo da quando gli uomini si sono tirati fuori col lavoro dai loro primi stati animali, cioè solo da quando il loro lavoro stesso ha già raggiunto un certo grado di socialità, nascono rapporti nei quali il pluslavoro dell’uno diventa condizione di esistenza dell’altro. Agli inizi della civiltà le forze produttive acquisite del lavoro sono esigue; ma esigui sono anche i bisogni, che si sviluppano con lo svilupparsi dei mezzi per soddisfarli, e per mezzo di questi. Inoltre in quegli inizi la proporzione delle parti della società che vivono del lavoro altrui è minima, quasi invisibile, di fronte alla massa dei produttori diretti. Col progredire della forza produttiva sociale del lavoro questa proporzione cresce tanto in assoluto che relativamente2.
Il rapporto capitalistico nasce del resto su di un terreno economico che è il prodotto di un lungo processo di sviluppo.
La produttività esistente del lavoro che costituisce la base di partenza di quel rapporto capitalistico, non è dono della natura, ma di una storia che abbraccia migliaia di secoli.
Se prescindiamo dalla configurazione più o meno sviluppata della produzione sociale, la produttività del lavoro rimane legata a condizioni naturali che sono tutte riconducibili alla natura del l’uomo stesso, come la razza, ecc., e alla natura che lo circonda. Le condizioni naturali esterne si dividono dal punto di vista economico in due grandi classi: ricchezza naturale di mezzi di sussistenza, cioè fertilità del suolo, acque pescose, ecc., e ricchezza naturale di mezzi di lavoro, come cascate d’acqua sempre vive, fiumi navigabili, legname, metalli, carbone, ecc. Agli inizi della civiltà il primo di questi due tipi di ricchezza naturale è quello decisivo; in un grado di sviluppo più elevato, il secondo. Si confronti per esempio l’Inghilterra con l’India o, nel mondo antico, Atene e Corinto coi paesi rivieraschi del Mar Nero.
Quanto più basso il numero dei bisogni naturali da soddisfare assolutamente, quanto maggiore la fertilità naturale del suolo e quanto più favorevole il clima, tanto minore è il tempo di lavoro necessario per la conservazione e la riproduzione del produttore. E tanto maggiore può essere quindi l’eccedenza del suo lavoro per altri sul suo lavoro per se stesso.
Così già Diodoro osserva a proposito degli antichi egiziani: «Allevano i figlioli con sì piccola ed agevole spesa, che appena è quasi credibile; con ciò sia cosa che gli nutriscono con radici di giunchi ed altre radiche, le quali usano di cuocere sotto la cenere o le danno loro per cibo insieme con cavoli o di radiche parte cotte e parte arrostite al fuoco, e parte crude; ed usano il più del tempo della vita loro d’andare (perchè quivi l’aria è così temperata) scalzi, e nudi. E tutta la spesa che fanno i padri ne’ fanciulli per fino a tanto che non sono pervenuti in età, non passa venti dramme. E quindi nasce che l’Egitto avanza di numero di genti tutte le altre nazioni, e perciò da loro sono state fatte opere molte, e di molta magnificenza»3. Però le grandi costruzioni dell’antico Egitto sono dovute meno al volume della sua popolazione che al fatto che essa era disponibile in grandi proporzioni.
Come l’operaio individuale può fornire tanto più pluslavoro quanto minore è il suo tempo di lavoro necessario, così, quanto minore è la parte della popolazione operaia richiesta per la produzione dei mezzi di sussistenza necessari, tanto maggiore è la parte della popolazione operaia disponibile per altro lavoro.
Una volta presa come presupposto la produzione capitalistica, eguali rimanendo per ogni altro verso le circostanze, e data la lunghezza della giornata lavorativa, la grandezza del pluslavoro varierà con le condizioni naturali del lavoro, e in particolare anche con la fertilità del suolo. Però di qui non consegue affatto l’inverso, che il suolo più fertile sia il più adatto per lo sviluppo del modo di produzione capitalistico, il quale presuppone il dominio dell’uomo sulla natura. Una natura troppo prodiga «tiene l’uomo per mano come si tiene un bambino con le dande», e non fa dello sviluppo dell’uomo stesso una necessità naturale4. La madrepatria del capitale non è il clima tropicale con la sua vegetazione lussureggiante, ma la zona temperata. Non la fertilità assoluta del suolo ma la sua differenziazione, la molteplicità dei suoi prodotti naturali, è quel che costituisce la base naturale della divisione sociale del lavoro e che sprona l’uomo a moltiplicare i propri bisogni, le proprie capacità, i propri mezzi di lavoro e i propri modi di lavorare, con il variare delle circostanze naturali in mezzo alle quali egli dimora. Nella storia dell’industria la parte più decisiva è rappresentata dalla necessità di controllare socialmente una forza naturale, e quindi di economizzarla, appropriarsela per la prima volta o addomesticarla su larga scala, mediante opere della mano umana. Così la regolazione delle acque in Egitto5, Lombardia, Olanda, ecc. oppure in India, Persia, ecc., dove la irrigazione per mezzo di canali artificiali apporta al suolo non soltanto l’acqua indispensabile, ma anche, contemporaneamente, con i depositi di fango che l’acqua trascina con sè dalle montagne, il concime minerale. Il segreto della fioritura industriale della Spagna e della Sicilia sotto la dominazione araba fu la canalizzazione6.
Le condizioni naturali favorevoli forniscono sempre soltanto la possibilità, mai la realtà del pluslavoro e quindi del plusvalore e del plusprodotto. Le differenti condizioni naturali del lavoro fan sì che la stessa quantità di lavoro soddisfi differenti masse di bisogni in differenti paesi7, cioè che il tempo necessario di lavoro sia differente in circostanze altrimenti analoghe. Sul pluslavoro le differenti condizioni naturali di lavoro influiscono soltanto come limite naturale, cioè influiscono mediante la determinazione del punto in cui può cominciare il lavoro per altri. Questo limite naturale arretra nella stessa misura in cui avanza l’industria. Nel bel mezzo della società europea occidentale, dove l’operaio soltanto col pluslavoro si compera il permesso di lavorare per la propria esistenza, ci si immagina facilmente che fornire un plusprodotto sia una qualità innata del lavoro umano8. Ma si prenda per esempio l’abitante delle isole orientali dell’Arcipelago asiatico, dove il sago cresce selvatico nella foresta. « Quando gli indigeni, praticando un foro nell’albero, si sono convinti che il midollo è maturo, il tronco viene abbattuto, diviso in vari pezzi, il midollo viene staccato, mescolato con acqua e filtrato: ed è già farina di sago completamente utilizzabile. D’ordinario, un albero rende trecento libbre e può darne anche da cinque cento a seicento. Dunque in quelle isole si va nella foresta e ci si taglia il proprio pane, come da noi ci si taglia la legna da ardere»9.
Poniamo che uno di questi taglia pane dell’Asia orientale abbia bisogno di dodici ore lavorative alla settimana per soddisfare tutti i suoi bisogni. Quel che il favore della natura gli dà direttamente, è molto tempo libero. Per fargli adoprare questo tempo libero in maniera produttiva per sè, è necessaria tutta una serie di circostanze storiche, per farglielo spendere in pluslavoro per persone estranee, è necessaria una costrizione esterna. Se venisse introdotta la produzione capitalistica, quel brav’uomo dovrebbe forse lavorare sei giorni alla settimana, per appropriare a se stesso il prodotto di una sola giornata lavorativa. Il favore della natura non spiega perchè ora egli lavori sei giorni alla settimana ossia perchè fornisca cinque giornate di pluslavoro: esso spiega soltanto perchè il suo tempo di lavoro necessario è limitato a una giornata lavorativa alla settimana. Ma in nessun caso il suo plusprodotto deriverebbe da una occulta qualità innata del lavoro umano.
Come le forze produttive del lavoro storicamente sviluppate, cioè sociali, così anche le forze produttive naturali del lavoro si presentano come forze produttive del capitale al quale il lavoro viene incorporato.
Il Ricardo non si preoccupa mai dell’origine del plusvalore. Lo considera come cosa inerente al modo di produzione capitalistico che ai suoi occhi è la forma naturale della produzione sociale. Dove parla della produttività del lavoro, egli non cerca nel lavoro la causa della esistenza del plusvalore, ma soltanto la causa che determina la grandezza del plusvalore. Invece la sua scuola ha proclamato ad alta voce che la forza produttiva del lavoro è la causa originaria del profitto (leggasi: del plusvalore). In ogni caso, è un progresso nei confronti dei mercantilisti che per parte loro deducono dallo scambio, cioè dalla vendita dei prodotti al di sopra del loro valore, l’eccedenza del prezzo dei prodotti stessi sui loro costi di produzione. Tuttavia neppure la scuola del Ricardo aveva risolto il problema, ma l’aveva soltanto aggirato. In realtà era giusto l’istinto di questi economisti borghesi, i quali sentivano che era molto pericoloso approfondire troppo lo scottante problema dell’origine del plusvalore. Ma che cosa dovremmo dire quando, mezzo secolo dopo il Ricardo, il signor John Stuart Mill constata solennemente la propria superiorità sui mercantilisti ripetendo malamente gli sciocchi sotterfugi dei primi volgarizzatori del Ricardo?
Il Mill dice: «La causa del profitto è che il lavoro produce più di quanto è richiesto per il suo sostentamento». Fin qui è sempre soltanto la vecchia canzone, ma il Mill vuole aggiungere anche qual cosa di suo: «Ossia, per variare la forma del teorema: la ragione per cui il capitale fornisce un profitto è che nutrimento, vestiti, materie prime e mezzi di lavoro durano più a lungo del tempo richiesto per produrli». Qui il Mill scambia la durata del tempo di lavoro con la durata dei prodotti dei tempo di lavoro. Secondo quest’opinione un fornaio, i cui prodotti durano solo un giorno, non potrebbe mai trarre dai suoi salariati lo stesso profitto che trae un costruttore di macchine, i cui prodotti durano vent’anni e più. Certo, se i nidi degli uccelli non resistessero per un tempo più lungo di quello richiesto per la loro costruzione, gli uccelli dovrebbero fare a meno dei nidi.
Una volta stabilita questa verità fondamentale, il Mill stabilisce la propria superiorità sui mercantilisti: «Vediamo dunque che il profitto nasce non dall’incidente dello scambio, ma dalla forza produttiva del lavoro; il profitto complessivo di un paese è sempre determinato dalla forza produttiva del lavoro, tanto che si verifichi uno scambio o meno. Se non ci fosse nessuna divisione delle occupazioni, non ci sarebbe né compera né vendita, ma il profitto ci sarebbe pur sempre». Qui dunque lo scambio, la compera e la vendita, che sono le condizioni generali della produzione capitalistica, diventano un puro e semplice incidente, e c’è pur sempre profitto, senza compera né vendita della forza-lavoro!
Inoltre: «Se il complesso degli operai di un paese produce il venti per cento oltre la somma dei loro salari, i profitti saranno del venti per cento, qualunque sia la situazione dei prezzi delle merci. » Ciò è, da una parte, una tautologia proprio ben riuscita, poiché, se gli operai producono per i loro capitalisti un plusvalore del venti per cento, i profitti staranno al salario complessivo degli operai come venti a cento. Dall’altra parte, è assolutamente falso che i profitti saranno « del venti per cento». Debbono essere sempre minori, perchè i profitti vengono calcolati sulla somma totale del capitale anticipato. Per esempio abbia il capitalista anticipato cinquecento sterline, delle quali quattrocento in mezzi di produzione, cento in salario; sia il saggio del plusvalore, secondo l’ipotesi, del venti per cento, il saggio del profitto sarà nel rapporto di venti a cinquecento, cioè del quattro e non del venti per cento.
Segue uno splendido saggio del come il Mill tratti le differenti forme storiche della produzione sociale: «Presuppongo dappertutto lo stato di cose attuale che, con poche eccezioni, regna dappertutto* cioè presuppongo che il capitalista faccia tutti gli anticipi, compresa la rimunerazione dell’operaio». Strana illusione ottica, veder dappertutto uno stato di cose che fino a questo momento regna solo in via eccezionale in alcune parti dell’orbe terracqueo. Ma andiamo avanti. Il Mill è tanto generoso da concedere: «non è una necessità assoluta che sia così». Al contrario. «L’operaio potrebbe aspettare anche il pagamento dell’intero ammontare del suo salario fino a che il lavoro è completamente finito, se avesse i mezzi necessari per il suo sostentamento durante l’intervallo. Ma in questo caso egli sarebbe fino a un certo punto un capitalista, che investirebbe capitale nell’impresa, e fornirebbe una parte dei fondi necessari per farla andare avanti». Il Mill avrebbe anche potuto dire, alla stessa maniera, che l’operaio il quale anticipa a se stesso non soltanto i mezzi di sussistenza, ma anche i mezzi di lavoro, è in realtà il salariato di se stesso. O anche che il contadino americano è lo schiavo di se stesso, il quale sgobba solo per se stesso invece che per un padrone estraneo.
Dopo averci spiegato con tanta chiarezza che la produzione capitalistica, anche se non esistesse, tuttavia esisterebbe sempre, il Mill è ora abbastanza conseguente da dimostrarci che la produzione capitalistica non esiste neppure quando esiste: « E perfino nel caso precedente (quando il capitalista anticipa al salariato tutti i suoi mezzi di sussistenza) l’operaio può essere considerato sotto la stessa prospettiva (cioè come capitalista). Poichè, cedendo l’operaio il suo lavoro ai di sotto del prezzo di mercato (!), egli può essere considerato come se anticipasse la differenza (?) al suo imprenditore ecc.»9a . Nella realtà effettuale l’operaio anticipa gratuitamente al capitalista il proprio lavoro durante una settimana, ecc., per ricevere alla fine della settimana, ecc., il prezzo di mercato del suo lavoro; e questo, secondo il Mill, fa di lui un capitalista! Nella piattezza della pianura anche i mucchi di terra sembrano colline; si misuri la piattezza della nostra odierna borghesia con il calibro dei suoi «grandi intelletti».
1 «La stessa esistenza dei padroni-capitalisti come classe distinta dipende dalla produttività del lavoro » (RAMSAY, An Essay on the Distribution ecc., p. 206). « Se il lavoro di ogni uomo fosse sufficiente solo ad assicurargli il suo nutrimento, non ci potrebbe essere proprietà » (RAVENSTONE, Thoughts on the Funding System ecc., p. 14).
1a Secondo recenti calcoli, nelle sole parti della terra già esplorate vivono per lo meno ancora, quattro milioni di cannibali.
2 «Fra gli indiani selvaggi d’America, quasi tutto è del lavoratore. Novantanove parti su cento sono da mettere sul conto del lavoro. In Inghilterra l’operaio non ha forse neppure i due terzi » (The Advantages of the East India Trade ecc., pp. 72, 73).
3 DIODORO SICULO , Storia universale, tomo I, Roma 1793, p.97 (Libro I, parte I, cap. 80)
4 «La prima (la ricchezza naturale), nobilissima e vantaggiosa com’è, toglie al popolo ogni preoccupazione, lo rende orgoglioso e dedito a ogni eccesso, mentre la seconda impone vigilanza, sapere, arti e politica » (England’s Treasure by Foreign Trade, or the Balance of our Foreign Trade is the rule of our Treasure. Written by Thomas Mun, of London, merchant, and now published for the common good by his son John Mun. Londra, 1669, pp. 181, 182). « Inoltre, non posso concepire maggiore maledizione per un popolo nel suo complesso che l’esser gettato su un pezzo di terra dove i prodotti per la sussistenza e per il nutrimento fossero in gran misura spontanei e il clima richiedesse o permettesse poca cura per il vestiario e per l’abitazione...; ci può essere un estremo dall’altra parte. Un terreno incapace di produrre, quando è lavorato, è cattivo quanto un terreno che produce in abbondanza senza lavoro» (An Inquiry into the Present High Prices ecc., Londra, 1767, p. 10).
5 La necessità di calcolare i periodi delle piene del Nilo ha creato la astronomia egiziana e con questa il dominio della casta sacerdotale come direttrice dell’agricoltura. «Il solstizio è il momento dell’anno nel quale il Nilo comincia a crescere, e quello che gli egiziani hanno dovuto osservare con la maggior attenzione... Era questo anno tropico quello che essi dovevano stabilire, per avere una direttiva nelle loro operazioni agricole. Quindi dovettero cercare nel cielo un segno visibile del suo ritorno » (CUVIER, Discours sur les révolutions de la surface du globe, ed. Hoefer, Parigi, 1863, p. 141).
6 Una delle basi materiali del potere dello Stato sui piccoli organismi produttivi, non connessi fra loro, era in India la regolamentazione dell’afflusso delle acque. I dominatori maomettani dell’India avevano capito ciò meglio dei loro successori inglesi. Ricorderemo soltanto la carestia del 1866 che costò la Vita a più di un milione di indù nel distretto di Orissa, governatorato del Bengala
7 «Non ci sono due paesi che forniscano, con la stessa abbondanza e con la stessa quantità di lavoro, lo stesso numero di cose necessarie alla vita. I bisogni degli uomini crescono con il rigore del clima nel quale vivono e diminuiscono con la sua mitezza; di conseguenza la proporzione dell’industria che gli abitanti dei diversi paesi sono obbligati per necessità a mettere in atto, non può essere la stessa; e il grado di variazione non può esser accertato altro che mediante i gradi del caldo e del freddo. Dal che si può trarre questa conclusione generale: che la quantità di lavoro richiesta per un certo numero di persone è massima nei climi freddi, minima nei climi caldi; poichè nei primi gli uomini non solo hanno bisogno di più vestiti, ma anche la terra ha bisogno di maggiore coltivazione che negli ultimi » (An Essay on the Governing Causes of the Natural Rate of Interest, Londra, 1750, p. 59). L’autore di questo scritto anonimo che ha fatto epoca è J. Massie. Lo Hume ne ha tratto la sua teoria dell’interesse.
8 «Ogni lavoro deve (sembra che la cosa faccia parte dei droits et devoirs du citoyen) lasciare un eccedente» (PROUDHON, Philosophie de la Misère, Parigi, 1846 p. 73).
9 F. SCHOUW, Die Erde, die Pflanze und der Mensch, 2. ed., Lipsia, 1854, p. 148.
9a J. S. MILL, Principles of Political Economy, Londra, 1868, pp. 252-253 passim [Libro I, cap. XV, par. 5]. (I passi sopra Citati sono tradotti secondo la traduzione francese del Capitale. F. E.). [La presente traduzione ha tenuto conto tanto del testo inglese com’è citato nella traduzione Moore-Aveling, quanto del testo citato nella traduzione Roy e del testo tradotto nell’edizione tedesca. N.d.T.].
* In questo punto, come Marx indica in una lettera del 20 novembre 1878 a N. F. Danielson, il traduttore russo del Capitale, si deve inserire la frase «dove gli operai e i capitalisti sono classi separate». La citazione era incompleta. Marx continua: Le due proposizioni seguenti cioè “Strana illusione ottica, vedere dappertutto uno stato di cose che fino a questo momento regna solo in via eccezionale in alcune parti dell’orbe terracqueo! Ma andiamo avanti” devono essere cancellate e la proposizione che segue dev’essere letta così: “Il signor Mill è tanto generoso da credere che non sia una necessità assoluta che sia così, anche nei sistema economico nei quale gli operai e i capitalisti sono classi separate”»
Che l’osservazione da cancellare non valga per la frase in questione del Mill, non le toglie naturalmente il suo significato generale. (Red. IMEL.)
Aggiunta del traduttore. Nell’edizione del Capitale delle Opere di K. Marx e F. Engels a cura dell’Institut für Marxismus-Leninismus beim ZK der Sed, vol. 23, Berlino, 1962, questa nota è presentata come segue:
Nella sua lettera a N. F. Danielson del 28 novembre 1878 Marx proponeva la seguente formulazione di questo capoverso: Segue un brillante saggio di come il Mill tratta le differenti forme storiche della produzione sociale. Egli dice: “ Presuppongo dappertutto lo stato presente delle cose, che regna dappertutto, a meno di poche eccezioni, dove operai e capitalisti si contrappongono gli uni agli altri come classi; vale a dire che il capitalista fa tutti gli anticipi, compreso il pagamento dell’operaio”. Il signor Mill è tanto generoso da credere che non sia una necessità assoluta che le cose stiano così — perfino nel sistema economico nei quale operai e capitalisti si contrappongono come classi ».
Cfr. anche la traduzione inglese Moore-Aveling a cura di Dona Torr, Londra, 1946, p. 812.
K. Marx e F. Engels a cura dell’Institut für Marxismus-Leninismus beim ZK der Sed, voi. 23, Berlino, 1962, questa nota è presentata come segue:
Nella sua lettera a N. F. Danielson del 28 novembre 1878 Marx proponeva la seguente formulazione di questo capoverso: Segue un brillante saggio di come il Mill tratta le differenti forme storiche della produzione sociale. Egli dice: “ Presuppongo dappertutto lo stato presente delle cose, che regna dappertutto, a meno di poche eccezioni, dove operai e capitalisti si contrappongono gli uni agli altri come classi; vale a dire che il capitalista fa tutti gli anticipi, compreso il pagamento dell’operaio”. Il signor Mill è tanto generoso da credere che non sia una necessità assoluta che le cose stiano così — perfino nel sistema economico nei quale operai e capitalisti si contrappongono come classi ».
Cfr. anche la traduzione inglese Moore-Aveling a cura di Dona Torr, Londra, 1946, p. 812.