Il Capitale - Libro I

Sezione II - La trasformazione del denaro in capitale

CAPITOLO 4
TRASFORMAZIONE DEL DENARO IN CAPITALE

1. LA FORMULA GENERALE DEL CAPITALE.

La circolazione delle merci è il punto di partenza del capitale. La produzione delle merci e la circolazione sviluppata delle merci, cioè il commercio, costituiscono i presupposti storici del suo nascere. Il commercio mondiale e il mercato mondiale aprono nel secolo XVI la storia moderna della vita del capitale.

Se facciamo astrazione dal contenuto materiale della circolazione delle merci, allo scambio dei vari valori d'uso, e consideriamo soltanto le forme economiche generate da questo processo, troviamo che suo ultimo prodotto è il denaro. Questo ultimo prodotto della circolazione delle merci è la prima forma fenomenica del capitale.

Dal punto di vista storico, il capitale si contrappone dappertutto alla proprietà fondiaria nella forma di denaro, come patrimonio in denaro, capitale mercantile e capitale usurario1. Tuttavia, non c'è bisogno dello sguardo retrospettivo alla storia dell'origine del capitale, per riconoscere che il denaro è la prima forma nella quale esso si presenta: la stessa storia si svolge ogni giorno sotto i nostri occhi.

Ogni nuovo capitale calca la scena, cioè il mercato - mercato delle merci, mercato del lavoro, mercato del denaro - in prima istanza come denaro, ancora e sempre: denaro che si dovrà trasformare in capitale attraverso processi determinati.

Denaro come denaro e denaro come capitale si distinguono in un primo momento soltanto attraverso la loro differente forma di circolazione.

La forma immediata della circolazione delle merci è M-D-M: trasformazione di merce in denaro e ritrasformazione di denaro in merce, vendere per comprare. Ma accanto a questa forma, ne troviamo una seconda, specificamente differente, la forma D-M-D: trasformazione di denaro in merce e ritrasformazione di merce in denaro, comprare per vendere. Il denaro che nel suo movimento descrive quest'ultimo ciclo, si trasforma in capitale, diventa capitale, ed è già capitale per sua destinazione.

Consideriamo un po' più da vicino il ciclo D-M-D. Come la circolazione semplice delle merci, esso contiene due fasi antitetiche l'una all'altra. Nella prima fase, D-M, compera, il denaro viene trasformato in merce. Nella seconda fase, M-D, vendita, la merce viene ritrasformata in denaro. Ma l'unità delle due fasi è il movimento complessivo che scambia denaro contro merce, e questa stessa merce, a sua volta, contro denaro; che compera merce per venderla, ossia, se si trascurano le differenze formali fra compera e vendita, compera merce con il denaro e denaro con la merce2. Il risultato nel quale si risolve tutto il processo è: scambio di denaro contro denaro, D-D. Se compero per 24.000 € duemila qli di cotone e rivendo i duemila qli di cotone per 26.400 €, in fin dei conti ho scambiato 24.000 € contro 26.400 €, denaro contro denaro.

Ora, è evidente, certo, che il processo di circolazione D-M-D sarebbe assurdo e senza sostanza se si volesse servirsene come d'una via indiretta per scambiare l'identico valore in denaro contro l'identico valore in denaro, dunque, per esempio, 24.000 € contro 24.000 €. Rimarrebbe più semplice e più sicuro, senza paragone, il metodo del tesaurizzatore, che tiene stretti i suoi 24.000 € e non li abbandona al pericolo della circolazione. D'altra parte, che il commerciante rivenda a 26.400 € il cotone comperato a 24.000 € o che sia costretto a liberarsene a 24.000 o anche a 12.000 €, in ogni circostanza il suo denaro ha descritto un movimento peculiare e originale, di tipo del tutto differente che nella circolazione semplice delle merci, differente per esempio da quello che ha luogo fra le mani del contadino che vende grano e con il denaro così reso liquido compera vestiti. Quel che importa è in primo luogo di caratterizzare le distinzioni di forma fra i cicli D-M-D e M-D-M: così si avrà anche la distinzione di contenuto che sta in agguato dietro quelle distinzioni di forma.

Esaminiamo in primo luogo quel che è comune ad entrambe le forme. Entrambi i cicli si suddividono nelle medesime fasi antitetiche: M-D, vendita, e D-M, compera. In ognuna delle due fasi stanno l'uno di contro all'altro i due medesimi elementi materiali, merce e denaro –e due personaggi nelle medesime maschere economiche caratteristiche, un compratore e un venditore. Ciascuno dei due cicli è l'unità delle medesime fasi antitetiche e, tutte e due le volte, questa unità è mediata dall'intervento di tre contraenti, uno dei quali non fa che vendere, l'altro non fa che comprare, mentre il terzo alternativamente compera e vende.

Ma quel che distingue a priori i due cicli M-D-M e D-M-D è l'ordine inverso delle identiche e antitetiche fasi dei ciclo. La circolazione semplice delle merci comincia con la vendita e finisce con la compera; la circolazione del denaro come capitale comincia con la compera e finisce con la vendita. Là è la merce a costituire il punto di partenza e il punto conclusivo del movimento; qui è il denaro. Nella prima forma la circolazione complessiva è mediata dal denaro, nella seconda, viceversa, dalla merce.

Nella circolazione M-D-M il denaro viene trasformato, alla fine, in merce che serve come valore d'uso. Dunque il denaro è definitivamente speso. Nella forma inversa, D-M-D, invece, il compratore spende denaro per incassare denaro come venditore. Alla compera della merce egli getta denaro nella circolazione, per tornare a sottrarlo a mezzo della vendita della stessa merce. Non lascia andare il denaro che con la perfida intenzione di tornarne in possesso. Il denaro viene quindi soltanto anticipato3.

Nella forma M-D-M la medesima moneta cambia di posto due volte. Il venditore la riceve dal compratore, e la dà via in pagamento ad un altro venditore. Il processo complessivo, che comincia con l'incasso di denaro in cambio di merce, si conclude con la consegna di denaro in cambio di merce. All'inverso nella forma D-M-D. Qui non è la medesima moneta a cambiare di posto due volte, ma la medesima merce. Il compratore la riceve dalle mani del venditore e la dà via in mano d'un altro compratore. Come nella circolazione semplice delle merci il duplice spostamento della stessa moneta opera il suo definitivo trapasso da una mano all'altra, così qui il duplice spostamento della medesima merce opera il riafflusso del denaro al suo primo punto di partenza.

Il riafflusso del denaro al suo punto di partenza non dipende dal fatto che la merce sia venduta più cara di quanto sia stata comprata. Questa circostanza ha effetto solo sulla grandezza della somma di denaro che riaffluisce. Il fenomeno del riafflusso come tale ha luogo appena la merce comperata è rivenduta, e così il ciclo D-M-D è descritto completamente. E questa è una distinzione tangibile fra la circolazione del denaro come capitale e la circolazione del denaro come puro e semplice denaro.

Il ciclo M-D-M è percorso completamente appena la vendita d'una merce porta denaro, che a sua volta viene sottratto dalla compera d'altra merce. Se tuttavia si ha riafflusso del denaro al suo punto di partenza, è soltanto mediante il rinnovamento, ossia la ripetizione dell'intero percorso. Se vendo 1 quintale di grano per 50 € e con questi 50 € compero vestiti, per me i 50 € sono spesi definitivamente. Non ho più niente a che fare con essi. Sono del commerciante di vestiti. Ma se io vendo un secondo quintale di grano, il denaro riaffluisce a me, però non in seguito alla prima transazione, ma soltanto in seguito alla ripetizione di essa. Appena io porto a termine la seconda transazione e faccio una nuova compera, esso si allontana di nuovo da me. Dunque nel ciclo M-D-M la spesa del denaro non ha niente a che vedere con il suo riafflusso; invece nel ciclo D-M-D il riafflusso del denaro è condizionato proprio dal modo col quale esso viene speso. Senza questo riafflusso l'operazione è fallita, ossia il processo è interrotto e non è ancora compiuto, perché manca la seconda fase di esso, la vendita che integra e conclude la compera.

Il ciclo M-D-M comincia da un estremo, che è una merce, e conclude con un estremo, che è un'altra merce, la quale esce dalla circolazione per finire nel consumo. Quindi il suo scopo finale è consumo, soddisfazione di bisogni, in una parola, valore d'uso. Il ciclo D-M-D comincia invece dall'estremo denaro e conclude ritornando allo stesso estremo. Il suo motivo propulsore e suo scopo determinante è quindi il valore stesso di scambio.

Nella circolazione semplice delle merci i due estremi hanno la stessa forma economica. Entrambi sono merce. E sono anche merci della stessa grandezza di valore. Ma sono valori d'uso qualitativamente differenti, per esempio, grano e vestiti. Lo scambio dei prodotti, la permuta dei differenti materiali nei quali il lavoro sociale si presenta, costituisce qui il contenuto del movimento. Altrimenti stanno le cose nel ciclo D-M-D. A prima vista esso sembra senza contenuto, perché tautologico. Entrambi gli estremi hanno la stessa forma economica. Entrambi sono denaro, quindi non sono valori d'uso qualitativamente distinti, poiché il denaro è per l'appunto la figura trasformata delle merci, nella quale i loro valori d'uso particolari sono estinti. Scambiare prima 24.000 € contro cotone e poi di nuovo lo stesso cotone contro 24.000 €, dunque scambiare per una via indiretta denaro contro denaro, la stessa cosa contro la stessa cosa, sembra una operazione tanto inutile quanto assurda4.

Una somma di denaro si può distinguere da un'altra somma di denaro, in genere, soltanto mediante la sua grandezza. Dunque il processo D-M-D non deve il suo contenuto a nessuna distinzione qualitativa dei suoi estremi, poiché essi sono entrambi denaro, ma lo deve solamente alla loro differenza quantitativa. In fin dei conti, vien sottratto alla circolazione più denaro di quanto ve ne sia stato gettato al momento iniziale. Il cotone comprato a cento Euro, per esempio, viene venduto una seconda volta a 24.000 + 2.400 €, ossia a 26.400 €. La forma completa di questo processo è quindi D-M-D', dove D' = D + ΔD, cioè è uguale alla somma di denaro originariamente anticipata, più un incremento. Chiamo plusvalore (surplus value) questo incremento, ossia questa eccedenza sul valore originario. Quindi nella circolazione il valore originariamente anticipato non solo si conserva, ma in essa altera anche la propria grandezza di valore, aggiunge un plusvalore, ossia si valorizza. E questo movimento lo trasforma in capitale.

Certo, è anche possibile che in M-D-M i due estremi, M M, per esempio grano e vestiti, siano grandezze di valore quantitativamente differenti.

Il contadino può rendere il suo grano al disopra del valore o comprare i vestiti al di sotto del loro valore. Può essere gabbato a sua volta dal commerciante di vestiti. Tuttavia tale differenza di valore rimane puramente accidentale per questa forma di circolazione, per sé presa: essa non perde addirittura sensi e senno, come invece fa il processo D-M-D, quando i due estremi, per esempio grano e vestiti, siano equivalenti: qui anzi la loro equivalenza è condizione del corso normale.

La ripetizione, ossia il rinnovamento della vendita allo scopo di comprare, trova, come questo stesso processo, la sua misura e il suo termine in uno scopo finale che sta fuori di essa, nel consumo, nella soddisfazione di determinati bisogni. Nella compera a scopo di vendita invece, principio e fine sono la medesima cosa: denaro, valore di scambio, e già per ciò il movimento è senza fine. Certo, D è divenuto D + ΔD , 24.000 € sono diventati 24.000 + 2.400 €. Ma, considerate da un punto di vista semplicemente qualitativo, 26.400 € sono la stessa cosa che 24.000 €; cioè, denaro.

E, considerate quantitativamente, 26.400 € sono una somma di valore limitata quanto 24.000 €. Se i 26.400 € fossero spesi come denaro, essi cesserebbero di rappresentare la loro parte. Cesserebbero di essere capitale. Sottratti alla circolazione, si pietrificano in un tesoro e non s'accrescono neppure d'un centesimo, anche se continuano a stare immagazzinate fino al giorno del giudizio universale. Dunque, una volta che si tratti di valorizzazione del valore, il bisogno che si ha di valorizzare 26.400 € è lo stesso di quello che si ha per 24.000 €, poiché 24.000 e 26.400 sono entrambi espressioni limitate del valore di scambio, e quindi hanno ambedue la stessa vocazione di avvicinarsi alla ricchezza assoluta espandendo la propria grandezza. Certo, per un momento il valore di 24.000 € inizialmente anticipato si distingue dal plusvalore di 2.400 € del quale s'accresce nella circolazione; ma questa distinzione torna subito a dileguarsi. Alla fine del processo, non si ha da una parte il valore originale di 24.000 € e dall'altra il plusvalore di 2.400 €. Il risultato è un solo valore di 26.400 € che si trova nella stessa e corrispondente forma, cioè pronto a cominciare il processo di valorizzazione, come i 24.000 € originari. Alla fine del movimento, risulta, ancora, denaro, e come nuovo inizio del movimento5.

Quindi la fine di ognuno dei singoli cicli nei quali si compie la compera per la vendita, costituisce di per se stessa l'inizio di un nuovo ciclo. La circolazione semplice delle merci - la vendita per la compera - serve di mezzo per un fine ultimo che sta fuori della sfera della circolazione, cioè per l'appropriazione di valori d'uso, per la soddisfazione di bisogni. Invece, la circolazione del denaro come capitale è fine a se stessa, poiché la valorizzazione del valore esiste soltanto entro tale movimento sempre rinnovato. Quindi il movimento del capitale è senza misura6.

Il possessore di denaro diventa capitalista nella sua qualità di veicolo consapevole di tale movimento. La sua persona, o piuttosto la sua tasca, è il punto di partenza e di ritorno del denaro. Il contenuto oggettivo di quella circolazione - la valorizzazione del valore - è il suo fine soggettivo, ed egli funziona come capitalista, ossia capitale personificato, dotato di volontà e di consapevolezza, solamente in quanto l'unico motivo propulsore delle sue operazioni è una crescente appropriazione della ricchezza astratta. Quindi il valore d'uso non dev’essere mai considerato fine immediato del capitalista7. E neppure il singolo guadagno: ma soltanto il moto incessante del guadagnare8. Questo impulso assoluto all'arricchimento, questa caccia appassionata al valore9 è comune al capitalista e al tesaurizzatore, ma il tesaurizzatore è soltanto il capitalista ammattito, mentre invece il capitalista è il tesaurizzatore razionale.

Quell'incessante accrescimento del valore, al quale tendono gli sforzi del tesaurizzatore quando cerca di salvare il denaro dalla circolazione10, viene raggiunto dal capitalista, più intelligente, che torna sempre di nuovo ad abbandonarlo alla circolazione10a.

Le forme autonome, le forme di denaro, assunte nella circolazione semplice dal valore delle merci, servono soltanto da mediazione allo scambio di merci, e scompaiono nel risultato finale del movimento. Invece nella circolazione D-M-D, l'una e l'altra, merce e denaro, funzionano soltanto come differenti modi di esistere del valore stesso: il denaro come suo modo di esistenza generale, la merce come suo modo di esistenza particolare, per così dire, solo in travestimento11. Il valore trapassa costantemente da una forma all'altra, senza perdersi in questo movimento, e si trasforma così in un soggetto automatico. Se si fissano le forme fenomeniche particolari assunte alternativamente nel ciclo della sua vita dal valore valorizzantesi, si hanno le dichiarazioni: capitale è denaro, capitale è merce12. Ma di fatto qui il valore diventa soggetto di un processo nel quale esso, nell’assumere forma di denaro e forma di merce, passando continuamente dall'una all’altra, altera anche la propria grandezza e, in qualità di plusvalore, si stacca da se stesso in quanto valore iniziale: valorizza se stesso. Perché il movimento durante il quale esso aggiunge plusvalore è il movimento suo proprio, il suo valorizzarsi, quindi la sua autovalorizzazione. Per il fatto d'esser valore, ha ricevuto la proprietà occulta di partorir valore. Scarica figli vivi o, per lo meno, depone uova d'oro.

Come soggetto prepotente di tale processo, nel quale ora assume ora dimette la forma di denaro e la forma di merce, ma in questo variare si conserva e si espande, il valore ha bisogno prima di tutto di una forma autonoma, per mezzo della quale venga constatata la sua identità con se stesso. E possiede questa forma solo nel denaro. Quindi il denaro costituisce il punto di partenza e il punto conclusivo d'ogni processo di valorizzazione. Era 24.000 €, ora è 26.400 €, e così via. Ma qui il denaro, per sé preso, conta solo come una forma del valore, poiché questo ha due forme. Senza l'assunzione della forma di merce il denaro non diventa capitale, quindi il denaro non si presenta qui in antagonismo con la merce, come nella tesaurizzazione. Il capitalista sa che tutte le merci, per quanto possano aver aspetto miserabile o per quanto possano aver cattivo odore, sono in fede e in verità denaro, sono giudei intimamente circoncisi e, per di più, mezzi taumaturgici per far del denaro più denaro.

Se nella circolazione semplice il valore delle merci nei confronti dei loro valore d'uso riceve tutt'al più la forma autonoma del denaro, qui esso si presenta improvvisamente come una sostanza dotata di proprio processo vitale e di moto proprio, per la quale merce e denaro sono entrambi pure e semplici forme. Ma c'è di più. Invece di rappresentare relazioni fra merci, il valore entra ora, per così dire, in relazione privata con se stesso. Si distingue, come valore originario, da se stesso come plusvalore, allo stesso modo che Dio Padre si distingue da se stesso come Dio Figlio, ed entrambi sono coetanei e costituiscono di fatto una sola persona, poiché solo mediante il plusvalore di 2.400 €, i 24.000 € anticipati diventano capitale, e appena sono diventati capitale, appena è generato il figlio e, mediante il figlio, il padre, la loro distinzione torna a scomparire, ed entrambi sono uno, 26.400 €.

Il valore diventa dunque valore in processo, denaro in processo e, come tale, capitale. Viene dalla circolazione, ritorna in essa, si conserva e si moltiplica in essa, ne ritorna ingrandito e torna a ripetere sempre di nuovo lo stesso ciclo13. D-D', denaro figliante denaro – money which begets money -; così suona la descrizione del capitale in bocca ai suoi primi interpreti, i mercantilisti.

Comprare per vendere, ossia, in modo più completo, comprare per vendere più caro, D-M-D', sembra invero forma propria solo di una specie di capitale, del capitale mercantile. Ma anche il capitale industriale è denaro che si trasforma in merce e, mediante la vendita della merce, si ritrasforma in più denaro. Gli atti che si svolgono, per esempio, fra la compera e la vendita, al di fuori della sfera di circolazione, non cambiano nulla a tale forma del movimento. Infine, nel capitale produttivo d'interesse la circolazione D-M-D' si presenta abbreviata, si presenta nel suo risultato, senza la mediazione, in stile, per cosi dire, lapidario, come D-D', denaro che equivale a più denaro, valore più grande di se stesso.

Di fatto, quindi, D-M-D', è la formula generale del capitale, come esso si presenta immediatamente nella sfera della circolazione.

2. CONTRADDIZIONI DELLA FORMULA GENERALE.

La forma di circolazione nella quale il denaro esce dal bozzolo e si svela come capitale contraddice a tutte le leggi che sono state spiegate in precedenza sulla natura della merce, del valore, del denaro e della circolazione stessa. Quel che distingue tale forma di circolazione dalla circolazione semplice delle merci è la serie successiva inversa dei due medesimi processi contrapposti, vendita e compera. Ma per quale incanto tale differenza, puramente formale, dovrebbe mutare la natura di questi processi?

E ancora. Questa inversione esiste soltanto per uno dei tre contraenti che commerciano l'uno con l'altro. Come capitalista, io compro merce da A e la rivendo a B, mentre, come semplice possessore di merci, vendo merce a B e poi compero merce da A. Per i contraenti A e B questa differenza non esiste. Essi si presentano solo come compratori o venditori di merci. Io stesso, di volta in volta, sto loro di fronte come semplice possessore di denaro o semplice possessore di merci, compratore o venditore, e in entrambe le serie mi contrappongo solo come compratore ad una persona, solo come venditore all'altra: all'una come mero denaro, all'altra come mera merce; a nessuna delle due come capitale, ossia come capitalista, ossia come rappresentante di qualcosa che sia più di denaro o merce o che possa produrre un altro effetto oltre quello prodotto dal denaro o dalla merce. Per me, compera di A e vendita di B costituiscono una serie. Ma il nesso fra questi due atti esiste solo per me. A non si cura affatto della mia transazione con B né B della mia transazione con A.

Se per esempio volessi spiegare il guadagno particolare che mi procuro con il rovesciamento della serie, essi mi dimostrerebbero che io mi sbaglio nella successione stessa e che la transazione nel suo complesso non è cominciata con una compera né è finita con una vendita, ma, viceversa, è cominciata con una vendita e si è conclusa con una compera. Di fatto, il mio primo atto, la compera, dal punto di vista di A era una vendita; il mio secondo atto, la vendita, dal punto di vista di B era una compera. Non soddisfatti di questo, A e B dichiareranno che tutta la serie era superflua e che era un trucco. A venderà la merce direttamente a B e B la comprerà direttamente da A. A questo modo tutta la transazione si restringe e raggrinzisce in un atto unilaterale della circolazione abituale delle merci: dal punto di vista di A, semplice vendita, dal punto di vista di B, semplice compera.

Dunque, con l'inversione della successione non siamo usciti al di fuori della sfera della circolazione semplice delle merci; anzi, dobbiamo star a vedere se essa, per sua natura, permetta la valorizzazione dei valori che in essa affluiscono, e quindi la formazione di plusvalore.

Prendiamo il processo di circolazione in una forma sotto la quale esso si presenti come semplice scambio di merci. Questo caso si verifica sempre quando entrambi i possessori di merci comprano merci l'uno dall'altro e il bilancio dei loro reciproci crediti viene pareggiato il giorno dei pagamenti. Il denaro qui serve da moneta di conto, per esprimere i valori delle merci nei loro prezzi, ma non si contrappone come cosa alle merci stesse. Finché si tratta del valore d'uso, è chiaro che entrambi i permutanti possono guadagnare.

Entrambi alienano merci che per loro sono inutili come valori d'uso e ricevono merci delle quali hanno bisogno per loro uso. E questo vantaggio può non esser l'unico. A, che vende vino e compera granaglie, produce forse più vino di quanto il contadino coltivatore di grano B potrebbe produrre nello stesso tempo di lavoro, e il coltivatore di cereali B produce forse più cereali nello stesso tempo di lavoro di quanto il vignaiolo A potrebbe produrre. Quindi, per lo stesso valore di scambio, A riceve più grano e B più vino che se, non essendoci lo scambio, ognuno dei due fosse costretto a produrre vino e grano per se stesso. Dunque, riferendoci al valore d'uso si può dire che «lo scambio è una transazione nella quale entrambe le parti guadagnano»14.

Altrimenti stanno le cose per il valore di scambio. «Un uomo che ha molto vino e niente grano tratta con un uomo che ha molto grano e niente vino, e fra di loro viene scambiato frumento del valore di cinquanta contro un valore di cinquanta in vino. Questo scambio non è un aumento del valore di scambio né per l'uno né per l'altro; poiché già prima dello scambio ognuno di essi possedeva un valore eguale a quello ch'egli si è procurato mediante tale operazione»15. La cosa non cambia, se il denaro entra fra le merci come mezzo di circolazione e se gli atti della compera e della vendita si distaccano l'uno dall'altro in modo sensibile16. Il valore delle merci è rappresentato nei loro prezzi prima che esse entrino nella circolazione, quindi è presupposto e non risultato di questa17.

Da un punto di vista astratto, cioè senza tener conto di circostanze che non scaturiscano dalle leggi immanenti della circolazione semplice delle merci, oltre la sostituzione d'un valore d'uso con un altro, non avviene in essa circolazione altro che una metamorfosi, un semplice cambiamento di forma della merce. In mano allo stesso possessore di merci rimane lo stesso valore, cioè la stessa quantità di lavoro sociale oggettivato, nella forma, prima, della sua merce, poi del denaro nel quale si trasforma, infine della merce nella quale questo denaro si ritrasforma. Questo cambiamento di forma della merce non implica nessuna mutazione della grandezza di valore.

Ma il cambiamento subito in questo processo dal valore della merce stessa si limita a un cambiamento della sua forma di denaro. Questa forma ha esistenza prima come prezzo della merce offerta in vendita, poi come somma di denaro che però era già espressa nel prezzo, infine come prezzo d'una merce equivalente. Questo cambiamento di forma, in sé e per sé, non implica un'alterazione della grandezza di valore, come non l'implica il cambio d'un biglietto da 5 € in 5 monete da 1 €, 10 monete da cinquanta centesimi di Euro. Dunque, finché la circolazione della merce porta con sé soltanto un cambiamento di forma del suo valore, essa procura uno scambio di equivalenti, se il fenomeno avviene allo stato puro. Perfino l'economia volgare, per quanto poco sospetti che cos'è il valore, suppone quindi, tutte le volte che vuol considerare alla sua maniera il fenomeno allo stato puro, che domanda e offerta coincidano, cioè che la loro azione venga in generale a cessare. Se dunque entrambi i permutanti possono guadagnare riguardo al valore d'uso, non possono guadagnare entrambi sul valore di scambio. Anzi, qui vale il detto: «Dove vi è eguaglianza, non vi è lucro»18.

Certo, le merci possono esser vendute a prezzi che si allontanino dai loro valori, ma questo allontanamento appare come infrazione della legge dello scambio delle merci19. Nella sua forma pura, quest'ultimo è uno scambio di equivalenti, quindi non è un mezzo di arricchirsi di valore20.

Quindi, dietro ai tentativi di rappresentare la circolazione delle merci come fonte di plusvalore, sta in agguato per lo più un quid pro quo, una confusione fra valore d'uso e valore di scambio. Per esempio in Condillac: «È falso», dice egli, «che negli scambi si dia valore eguale per valore eguale; al contrario, ognuno dei contraenti dà sempre un valore minore per uno maggiore... Di fatto, se si scambiasse sempre valore eguale per valore eguale non ci sarebbe nessun guadagno da fare per nessuno dei contraenti. Ma tutti e due guadagnano, o dovrebbero guadagnare. Perché? È che il valore delle cose c'è solo in relazione ai nostri bisogni; quel che è di più per l'uno è di meno per l'altro, e viceversa... Non si presuppone che noi mettiamo in vendita le cose necessarie al nostro consumo, ma il nostro superfluo... Vogliamo dare una cosa che ci è inutile, per procurarcene una che è necessaria... Era ovvio giudicare che nello scambio si desse valore eguale per valore eguale, tutte le volte che ognuna delle cose che si scambiavano era stimata di valore eguale alla stessa quantità di denaro... Ma nel calcolo deve entrare anche un'altra considerazione: resta a vedere se noi scambiamo tutti e due un superfluo per qualcosa di necessario»21.

È evidente che il Condillac non solo mescola insieme valore d'uso e valore di scambio, ma inoltre, in maniera veramente infantile, attribuisce a una società a produzione di merci sviluppata una situazione nella quale il produttore produca egli stesso i propri mezzi di sussistenza e getti nella circolazione soltanto l'eccedente del proprio fabbisogno, il superfluo22. Eppure l'argomento del Condillac è spesso ripetuto negli economisti moderni, specialmente quando si tratta di rappresentare come produttivo di plusvalore il commercio, la forma sviluppata dello scambio di merci. Si trova, per esempio: «Il commercio aggiunge valore ai prodotti, poiché gli stessi prodotti quindi esso dev’essere considerato letteralmente (strictly) un atto di produzione»23.

Se vengono scambiate merci oppure denaro e merci, cioè, equivalenti, evidentemente nessuno estrae dalla circolazione più valore di quanto non ve ne immetta. Quindi non ha luogo nessuna formazione di plusvalore. Ma il processo della circolazione delle merci, nella sua forma pura, determina uno scambio di equivalenti. Tuttavia, nella realtà, le cose non si svolgono allo stato puro. Supponiamo quindi uno scambio di non equivalenti.

In ogni caso, sul mercato delle merci si trovano di contro solo possessore di merci e possessore di merci; il potere che queste persone esercitano l'una sull'altra è soltanto il potere delle loro merci. La differenza materiale delle merci è il motivo materiale dello scambio e rende i possessori di merci alternativamente dipendenti l'uno dall'altro, in quanto nessuno di essi tiene in propria mano l'oggetto del proprio bisogno e ognuno di essi ha in mano l'oggetto del bisogno dell'altro. Oltre questa differenza materiale dei loro valori d'uso, fra le merci c'è soltanto un'altra differenza, la differenza fra la loro forma naturale e la loro forma trasmutata, la differenza fra merce e denaro. E così i possessori di merci si distinguono solo come venditore, possessore di merce, e compratore, possessore di denaro.

Poniamo ora che, per un qualche inspiegabile privilegio, sia dato al venditore di rendere la merce al di sopra del suo valore, a 26.400 € se essa vale 24.000 €, cioè con un rialzo nominale di prezzo del 10 %. Dunque il venditore incassa un plusvalore di 2.400 €. Ma dopo esser stato venditore, diventa compratore. Ora l'incontra un terzo possessore di merci in qualità di venditore, che gode a sua volta il privilegio di vender la merce rincarata del 10 %. Il nostro personaggio ha guadagnato 2.400 come venditore, per perdere 2.400 come compratore24. Il risultato di tutto ciò si riduce in realtà al fatto che tutti i possessori di merci si rendono l'uno all'altro le loro merci al 10 % al di sopra del loro valore, il che è esattamente la stessa cosa che se vendessero le merci ai loro valori. Un rialzo di prezzo nominale e generale di questo tipo produce lo stesso effetto che se per esempio i valori delle merci fossero stimati in argento invece che in oro. I nomi in denaro, cioè i prezzi delle merci, gonfierebbero; ma i loro rapporti di valore rimarrebbero inalterati.

Supponiamo viceversa che sia privilegio del compratore comperare le merci al di sotto del loro valore. Qui non c'è neppure bisogno di ricordare che il compratore torna a diventare venditore.

Era venditore, prima di diventare compratore. Ha perduto già il 10% come venditore prima di guadagnare il 10 % come compratore25. Tutto rimane come prima.

La formazione di plusvalore, quindi la trasformazione di denaro in capitale, non può dunque essere spiegata né per il fatto che i venditori vendano le merci al di sopra del loro valore, né per il fatto che i compratori le comperino al di sotto del loro valore26.

Il problema non viene affatto semplificato introducendo di contrabbando relazioni estranee, cioè dicendo, per esempio, con le parole del colonnello Torrens: «La domanda effettiva consiste nella possibilità e nella inclinazione (!) del consumatore di dare in cambio di merci, sia per mezzo di permuta immediata, sia per mezzo di permuta mediata, una certa porzione di tutti gli ingredienti del capitale, maggiore di quanto costa la produzione delle merci stesse»27. Nella circolazione produttori e consumatori stanno l'uno di fronte all'altro soltanto come venditori e compratori. Affermare che il plusvalore, per il produttore, scaturisce dal fatto che i consumatori pagano la merce al di sopra del suo valore significa soltanto mascherare la semplice proposizione: il possessore di merci possiede come venditore il privilegio di vender troppo caro. Il venditore ha prodotto egli stesso la merce o ne rappresenta i produttori, ma anche il compratore ha prodotto egli stesso la merce rappresentata dal suo denaro, oppure rappresenta i produttori di essa. Quindi produttore sta di fronte a produttore. Quel che li distingue è che uno compra e l'altro vende.

Che il possessore di merci, sotto il nome di produttore, venda la merce al di sopra del suo valore e sotto il nome di consumatore la paghi troppo cara, non ci fa fare neanche un passo avanti28.

Quindi i sostenitori coerenti della illusione che il plusvalore scaturisca da un supplemento nominale di prezzo, ossia dal privilegio del venditore di vendere la merce troppo cara, suppongono una classe che compri soltanto senza vendere, che quindi anche consumi senza produrre. L'esistenza di tale classe è ancora inspiegabile dal punto di vista al quale finora siamo arrivati, quello della circolazione semplice.

Ma facciamo una anticipazione. Il denaro col quale tale classe compra costantemente deve affluirle costantemente da parte degli stessi possessori di merci, senza scambio, gratuitamente, a qualsiasi titolo di diritto o di forza. Vendere le merci al di sopra del valore a questa classe significa soltanto riprendersi in parte, per inganno, denaro dato via per niente29. Così le città dell'Asia Minore pagavano il loro tributo annuo in denaro all'antica Roma. Con questo denaro, Roma comperava merci da esse, e le comprava a prezzo troppo caro. Gli uomini dell'Asia Minore gabbavano i Romani, sottraendo abilmente dalle loro borse, per la via del commercio, una parte del tributo.

Eppure gli abitanti dell'Asia Minore rimanevano gabbati loro. E prima e poi, le loro merci venivano pagate loro col proprio denaro. Questo non è un metodo di arricchimento o di formazione di plusvalore.

Teniamoci dunque entro i limiti dello scambio di merci, dove i venditori sono compratori e i compratori sono venditori. Il nostro imbarazzo deriva forse dal fatto che noi abbiamo concepito le persone solo come categorie personificate, e non individualmente.

Può darsi che il possessore di merci A sia tanto furbo da abbindolare i suo colleghi B o C e che, nonostante la loro buona volontà, questi non riescano a render pan per focaccia. A vende vino per il valore di 40 € a B ed ottiene in cambio grano per il valore di 50 €; A ha trasformato i suoi 40 € in 50 €, ha fatto più denaro da meno denaro, e ha trasformato la sua merce in capitale. Guardiamo le cose più da vicino.

Prima dello scambio avevamo per 40 € di vino in mano di A e per 50 €di grano in mano di B: valore complessivo di 90 €. Dopo lo scambio, abbiamo lo stesso valore complessivo di novanta Euro. Il valore circolante non s'è ingrandito neppure di un atomo: quella che è cambiata è la distribuzione del valore circolante fra A e B. Si presenta da una parte come plusvalore quel che dall'altra è minusvalore, si presenta come un più da una parte quel che è un meno dall'altra. Sarebbe accaduto lo stesso cambiamento se A avesse rubato senz'altro a B dieci Euro, senza mascherare la cosa nella forma dello scambio. È evidente che la somma dei valori circolanti non può essere aumentata da nessun cambiamento nella loro distribuzione, così come un giudeo non aumenta la massa dei metalli nobili in un paese vendendo per una ghinea un farthing della Regina Anna. L'insieme della classe dei capitalisti di un paese non può sfruttare se stessa30.

Dunque, ci si può rigirare come si vuole; il risultato è sempre lo stesso. Se si scambiano equivalenti, non nasce nessun plusvalore; se si scambiano non-equivalenti, neppure in tal caso nasce plusvalore31.

La circolazione, ossia lo scambio delle merci, non crea nessun valore32.

Quindi si capisce perché nella nostra analisi della forma fondamentale del capitale, che è la forma nella quale il capitale determina l'organizzazione economica della società moderna, non si sia tenuto conto alcuno, in un primo momento, delle forme popolari e per così dire antidiluviane del capitale, capitale mercantile e capitale usurario.

Nel capitale mercantile propriamente detto, la forma D-M-D', comperare per vendere più caro, si presenta allo stato più puro.

D'altra parte, tutto intero il suo movimento si svolge all'interno della sfera della circolazione. Ma poiché è impossibile spiegare la trasformazione di denaro in capitale, cioè la formazione di plusvalore, con la circolazione stessa, il capitale mercantile appare cosa impossibile non appena si scambiano equivalenti33; quindi esso appare deducibile soltanto dalla doppia soverchieria, ai danni dei produttori di merci che comprano e vendono, da parte del mercante che si insinua parassitariamente fra di essi. In questo senso il Franklin dice: «La guerra è rapina, il commercio è imbroglio»34. Se la valorizzazione del capitale mercantile non va spiegata soltanto con l'inganno puro e semplice dei produttori di merci, occorre una lunga serie di articolazioni intermedie che manca ancora del tutto qui, dove la circolazione delle merci e i suoi momenti semplici costituiscono il nostro unico presupposto.

Quel che vale per il capitale mercantile vale a maggior ragione per il capitale usurario. Nel capitale mercantile gli estremi,- il denaro gettato sul mercato e il denaro aumentato sottratto al mercato – sono per lo meno connessi dalla mediazione della compera e della vendita, dal movimento della circolazione. Nel capitale usurario la forma D-M-D' è abbreviata e ridotta agli estremi immediati D-D', denaro che si scambia con più denaro; forma incompatibile con la natura del denaro e quindi inspiegabile dal punto di vista dello scambio di merci.

Quindi Aristotele dice: «La crematistica essendo duplice, l'una commerciale l'altra economica, questa necessaria e lodevole, quella fondata sulla circolazione e giustamente biasimata (poiché non è naturale, ma fondata sull'inganno reciproco), a buon diritto si detesta l'usura poiché quivi il denaro stesso è la fonte del guadagno e non viene adoprato al fine per cui fu inventato. Poiché il denaro nacque per lo scambio di merci, ma l'usura fa del denaro più denaro, onde da questa proprietà ha anche avuto il suo nome» ([parola greca]: interesse e nato). «Poiché i figli sono simili ai loro genitori. E l'usura è denaro uscito dal denaro, cosicché fra tutti i modi di guadagno questo è il più contro natura35.

Nel caso della nostra indagine incontreremo, come forma derivata, oltre il capitale mercantile, il capitale produttivo d'interesse; e vedremo allo stesso tempo perché essi appaiono storicamente prima della forma fondamentale moderna del capitale.

S'è visto che il plusvalore non può sorgere dalla circolazione, e che quindi nella sua formazione non può non accadere alle spalle della circolazione qualcosa che è invisibile nella circolazione stessa36.

Ma il plusvalore può scaturire da qualcosa d'altro che dalla circolazione?

La circolazione è la somma di tutte le relazioni di scambio dei possessori di merci. Al di fuori di esse, il possessore di merce sta in relazione ormai soltanto con la propria merce. Per quel che riguarda il valore della merce, il rapporto è limitato al fatto che questa contiene una quantità del lavoro del possessore, misurata secondo determinate leggi sociali. Tale quantità di lavoro si esprime nella grandezza di valore della sua merce, e, poiché la grandezza di valore s'esprime in moneta di conto, in un prezzo, per esempio, di 10 Euro. Ma il suo lavoro non si rappresenta nel valore della merce e in un eccedente sul valore proprio di questa, non si rappresenta cioè in un prezzo di 10 che sia simultaneamente un prezzo di 11, non si rappresenta in un valore che sia più grande di se stesso. Il possessore di merci può col suo lavoro creare valori ma non valori che si valorizzino. Egli può alzare il valore d'una merce, aggiungendo al valore esistente nuovo valore mediante nuovo lavoro, per esempio facendo, con il cuoio, degli stivali. La medesima materia ha ora più valore, perché contiene una maggiore quantità di lavoro. Quindi lo stivale ha più valore del cuoio, ma il valore del cuoio è rimasto quel che era. Non si è valorizzato, non si è aggiunto un plusvalore durante la fabbricazione degli stivali. Dunque è impossibile che il produttore di merci, al di fuori della sfera della circolazione e senza entrare in contatto con altri possessori di merci, valorizzi valori e trasformi quindi denaro o merce in capitale.

Dunque è impossibile che dalla circolazione scaturisca capitale; ed è altrettanto impossibile che esso non scaturisca dalla circolazione. Deve necessariamente scaturire in essa, ed insieme non in essa.

Dunque, si ha un duplice risultato.

La trasformazione del denaro in capitale deve essere spiegata sulla base di leggi immanenti allo scambio di merci, cosicché come punto di partenza valga lo scambio di equivalenti37. Il nostro possessore di denaro, che ancora esiste soltanto come bruco di capitalista, deve comperare le merci al loro valore, le deve vendere al loro valore, eppure alla fine del processo deve trarne più valore di quanto ve ne abbia immesso. Il suo evolversi in farfalla deve avvenire entro la sfera della circolazione e non deve avvenire entro la sfera della circolazione. Queste sono le condizioni del problema. Hic Rhodus, hic salta!

3. COMPERA E VENDITA DELLA FORZA-LAVORO.

Il cambiamento di valore del denaro che si deve trasformare in capitale non può avvenire in questo stesso denaro, poiché esso, come mezzo di acquisto e come mezzo di pagamento, non fa che realizzare il prezzo della merce che compera o paga, mentre, permanendo nella sua propria forma, s'irrigidisce in pietrificazione di grandezza di valore immutabile38. Il cambiamento non può neppure scaturire dal secondo atto della circolazione, la rivendita della merce, poiché questo atto fa ritornare la merce soltanto dalla forma naturale alla forma di denaro. Dunque il cambiamento deve verificarsi nella merce che viene comprata nel primo atto, D-M, ma non nel valore di essa, poiché vengono scambiati equivalenti, cioè la merce vien pagata al suo valore. Il cambiamento può derivare dunque soltanto dal valore d'uso della merce come tale, cioè dal suo consumo. Per estrarre valore dal consumo d'una merce, il nostro possessore di denaro dovrebbe esser tanto fortunato da scoprire, all'interno della sfera della circolazione, cioè sul mercato, una merce il cui valore d'uso stesso possedesse la peculiare qualità d'esser fonte di valore; tale dunque che il suo consumo reale fosse, esso stesso, oggettivazione di lavoro, e quindi creazione di valore. E il possessore di denaro trova sul mercato tale merce specifica: è la capacità di lavoro, ossia la forza-lavoro.

Per forza-lavoro o capacità di lavoro intendiamo l'insieme delle attitudini fisiche e intellettuali che esistono nella corporeità, ossia nella personalità vivente d'un uomo, e che egli mette in movimento ogni volta che produce valori d'uso di qualsiasi genere.

Tuttavia, affinché il possessore di denaro incontri sul mercato la forza-lavoro come merce debbono essere soddisfatte diverse condizioni. In sé e per sé, lo scambio delle merci non include altri rapporti di dipendenza fuori di quelli derivanti dalla sua propria natura. Se si parte da questo presupposto, la forza-lavoro come merce può apparire sul mercato soltanto in quanto e perché viene offerta o venduta come merce dal proprio possessore, dalla persona della quale essa è la forza-lavoro. Affinché il possessore della forza-lavoro la venda come merce, egli deve poterne disporre, quindi essere libero proprietario della propria capacità di lavoro, della propria persona39.

Egli si incontra sul mercato con il possessore di denaro e i due entrano in rapporto reciproco come possessori di merci, di pari diritti, distinti solo per essere l'uno compratore, l'altro venditore, persone dunque giuridicamente eguali. La continuazione di questo rapporto esige che il proprietario della forza-lavoro la venda sempre e soltanto per un tempo determinato; poiché se la vende in blocco, una volta per tutte, vende se stesso, si trasforma da libero in schiavo, da possessore di merce in merce. Il proprietario di forza-lavoro, quale persona, deve riferirsi costantemente alla propria forza-lavoro come a sua proprietà, quindi come a sua propria merce; e può farlo solo in quanto la mette a disposizione del compratore ossia gliela lascia per il consumo, sempre e soltanto, transitoriamente, per un periodo determinato di tempo, e dunque, mediante l'alienazione di essa, non rinuncia alla sua proprietà su di essa40.

La seconda condizione essenziale, affinché il possessore del denaro trovi la forza-lavoro sul mercato come merce, è che il possessore di questa non abbia la possibilità di vendere merci nelle quali si sia oggettivato il suo lavoro, ma anzi, sia costretto a mettere in vendita, come merce, la sua stessa forza-lavoro, che esiste soltanto nella sua corporeità vivente.

Affinché qualcuno venda merci distinte dalla propria forza-lavoro, deve, com'è ovvio, possedere mezzi di produzione, per esempio materie prime, strumenti di lavoro, ecc. Non può fare stivali senza cuoio. Inoltre, ha bisogno di mezzi di sussistenza. Nessuno, neppure un musicista avvenirista, può campare dei prodotti avvenire, quindi neppure di valori d'uso la cui produzione è ancora incompleta; l'uomo è costretto ancora a consumare, giorno per giorno, prima di produrre e mentre produce, come il primo giorno della sua comparsa sulla scena della terra. Se i prodotti vengono prodotti come merci, debbono essere venduti dopo essere stati prodotti e possono soddisfare i bisogni del produttore soltanto dopo la vendita. Al tempo della produzione s'aggiunge il tempo necessario per la vendita.

Dunque, per trasformare il denaro in capitale il possessore di denaro deve trovare sul mercato delle merci il lavoratore libero; libero nel duplice senso che disponga della propria forza lavorativa come propria merce, nella sua qualità di libera persona, e che, d'altra parte, non abbia da vendere altre merci, che sia privo ed esente, libero di tutte le cose necessarie per la realizzazione della sua forza-lavoro.

Per il possessore di denaro, che trova il mercato del lavoro come sezione particolare del mercato delle merci, non ha alcun interesse il problema del perché quel libero lavoratore gli si presenti nella sfera della circolazione. E per il momento non ha interesse neppure per noi.

Noi teniamo fermo, sul piano teorico, al dato di fatto, come fa il possessore di denaro sul piano pratico. Una cosa è evidente, però. La natura non produce da una parte possessori di denaro o di merci e dall'altra puri e semplici possessori della propria forza lavorativa.

Questo rapporto non è un rapporto risultante dalla storia naturale e neppure un rapporto sociale che sia comune a tutti i periodi della storia. Esso stesso è evidentemente il risultato d'uno svolgimento storico precedente, il prodotto di molti rivolgimenti economici, del tramonto di tutta una serie di formazioni più antiche della produzione sociale.

Anche le categorie economiche che abbiamo già considerato, portano le tracce della loro storia. Nell'esistenza del prodotto come merce, sono racchiuse determinate condizioni storiche. Per divenire merce, il prodotto non dev’essere prodotto come mezzo immediato di sussistenza per colui che lo produce. Se avessimo indagato per vedere in quali circostanze tutti, o anche soltanto la maggior parte dei prodotti, assumono la forma di merce, avremmo trovato che ciò avviene soltanto sulla base di un modo di produzione assolutamente specifico, cioè del modo di produzione capitalistico. Ma tale ricerca era estranea all'analisi della merce. La produzione delle merci e la circolazione delle merci possono aver luogo anche se la massa, di gran lunga preponderante, dei prodotti destinati al fabbisogno del produttore, non si trasforma in merce, e dunque anche se ci manca ancor molto a che il processo sociale della produzione sia dominato in tutta la sua estensione e in tutta la sua profondità dal valore di scambio. La rappresentazione del prodotto come merce esige una divisione del lavoro entro la società, tanto sviluppata che la separazione fra valore d'uso e valore di scambio, che nel commercio di permuta diretta comincia soltanto, sia già compiuta. Tale grado di sviluppo è però comune a formazioni sociali economiche storicamente diversissime l'una dall'altra.

Oppure consideriamo il denaro; esso presuppone un certo livello dello scambio di merci. Le forme particolari del denaro, puro e semplice equivalente della merce, o mezzo di circolazione, o mezzo di pagamento, o tesoro e moneta mondiale, indicano di volta in volta, a seconda della diversa estensione e della relativa preponderanza dell'una o dell'altra funzione, gradi diversissimi del processo sociale di produzione. Eppure, a norma dell'esperienza, una circolazione delle merci relativamente poco sviluppata è sufficiente per la produzione di tutte quelle forme. Ma per il capitale la cosa è differente. Le sue condizioni storiche d'esistenza non sono affatto date di per se stesse con la circolazione delle merci e del denaro. Esso nasce soltanto dove il possessore di mezzi di produzione e di sussistenza trova sul mercato il libero lavoratore come venditore della sua forza-lavoro e questa sola condizione storica comprende tutta una storia universale.

Quindi il capitale annuncia fin da principio un'epoca del processo sociale di produzione41.

Ormai dobbiamo considerare più da vicino quella merce peculiare che è la forza-lavoro. Essa ha un valore, come tutte le altre merci42.

Come viene determinato ?

Il valore della forza-lavoro, come quello di ogni altra merce, è determinato dal tempo di lavoro necessario alla produzione e, quindi anche alla riproduzione, di questo articolo specifico. In quanto valore, anche la forza-lavoro rappresenta soltanto una quantità determinata di lavoro sociale medio oggettivato in essa. La forza-lavoro esiste soltanto come attitudine naturale dell'individuo vivente. Quindi la produzione di essa presuppone l'esistenza dell'individuo. Data l'esistenza dell'individuo, la produzione della forza-lavoro consiste nella riproduzione, ossia nella conservazione di esso. Per la propria conservazione l'individuo vivente ha bisogno di una certa somma di mezzi di sussistenza. Dunque il tempo di lavoro necessario per la produzione della forza-lavoro si risolve nel tempo di lavoro necessario per la produzione di quei mezzi di sussistenza; ossia: il valore della forza-lavoro è il valore dei mezzi di sussistenza necessari per la, conservazione del possessore della forza-lavoro. Però, la forza-lavoro si realizza soltanto per mezzo della sua estrinsecazione, si attua soltanto nel lavoro. Ma nell'attuazione della forza-lavoro, nel lavoro, si ha dispendio di una certa quantità di muscoli, nervi, cervello, ecc. umani, la quale deve a sua volta esser reintegrata. Questo aumento d'uscita esige un aumento d'entrata43.

Se il proprietario di forza-lavoro ha lavorato oggi, deve esser in grado di ripetere domani lo stesso processo, nelle stesse condizioni di forza e salute. La somma dei mezzi di sussistenza deve dunque essere sufficiente a conservare l'individuo che lavora nella sua normale vita, come individuo che lavora. I bisogni naturali, come nutrimento, vestiario, riscaldamento, alloggio ecc., sono differenti di volta in volta a seconda delle peculiarità climatiche e delle altre peculiarità naturali dei vari paesi.

D'altra parte, il volume dei cosiddetti bisogni necessari, come pure il modo di soddisfarli, è anch'esso un prodotto della storia, dipende quindi in gran parte dal grado d'incivilimento di un paese e, fra l'altro, anche ed essenzialmente dalle condizioni, quindi anche dalle abitudini e dalle esigenze fra le quali e con le quali si è formata la classe dei liberi lavoratori44. Dunque la determinazione del valore della forza-lavoro, al contrario che per le altre merci, contiene un elemento storico e morale. Ma per un determinato paese, in un determinato periodo, il volume medio dei mezzi di sussistenza necessari, è dato.

Il proprietario della forza-lavoro è mortale. Dunque, se la sua presenza sul mercato dev'essere continuativa, come presuppone la trasformazione continuativa del denaro in capitale, il venditore della forza-lavoro si deve perpetuare, «come si perpetua ogni individuo vivente, con la procreazione»45. Le forze-lavoro sottratte al mercato dalla morte e dal logoramento debbono esser continuamente reintegrate per lo meno con lo stesso numero di forze-lavoro nuove.

Dunque, la somma dei mezzi di sussistenza necessari alla produzione della forza-lavoro include i mezzi di sussistenza delle forze di ricambio, cioè dei figli dei lavoratori, in modo che questa razza di peculiari possessori di merci si perpetui sul mercato46.

Per modificare la natura umana generale in modo da farle raggiungere abilità e destrezza in un dato ramo di lavoro, da farla diventare forza-lavoro sviluppata e specifica, c'è bisogno d'una certa preparazione o educazione, che costa a sua volta una somma maggiore o minore di equivalenti di merci. Le spese di formazione della forza-lavoro differiscono a seconda ch'essa ha carattere più o meno complesso. Queste spese di istruzione, infinitesime per la forza-lavoro ordinaria, entrano dunque nella cerchia dei valori spesi per la produzione della forza-lavoro.

Il valore della forza-lavoro si risolve nel valore d'una certa somma di mezzi di sussistenza. Quindi varia col valore di quei mezzi di sussistenza, cioè con la grandezza del tempo-lavoro richiesto dalla loro produzione.

Una parte dei mezzi di sussistenza, per esempio, cibarie, mezzi di riscaldamento, ecc. sono consumati, e debbono essere sostituiti, di giorno in giorno. Altri mezzi di sussistenza, come vestiario, mobili, ecc. si logorano in periodi più lunghi, quindi debbono essere sostituiti in periodi più lunghi. Merci d'un certo genere debbono essere comprate oppure pagate giornalmente, altre settimanalmente, trimestralmente ecc. Ma in qualsiasi maniera si possa distribuire la somma di quelle spese, per esempio, nel corso d'un anno, essa dovrà esser coperta con l'introito medio, giorno per giorno. Se la massa delle merci richieste giornalmente per la produzione della forza-lavoro fosse eguale ad A, quella delle merci richieste settimanalmente fosse eguale a B, quella delle merci richieste trimestralmente fosse eguale a C ecc., la media giornaliera di quelle merci sarebbe eguale a [(365A+ 52B +4C+ecc.) : 365] Posto che in questa massa di merci necessaria per la giornata media Siano incorporate sei ore di lavoro sociale, nella forza-lavoro si oggettiva giornalmente una mezza giornata di lavoro sociale medio; cioè: per la produzione giornaliera della forza-lavoro si richiede una mezza giornata lavorativa. Tale quantità di lavoro richiesta per la sua produzione giornaliera costituisce il valore giornaliero della forza-lavoro, ossia il valore della forza-lavoro giornalmente riprodotta. E così, se una mezza giornata di lavoro sociale medio si rappresenta in una massa aurea di 36 €, il prezzo corrispondente al valore giornaliero della forza-lavoro è di 36 €. Se il possessore della forza-lavoro l'offre in vendita per 36 € al giorno, il suo prezzo di vendita è uguale al suo valore, e il possessore del denaro, smanioso di trasformare in capitale i suoi 36 €, paga, secondo il nostro presupposto, questo valore.

L'ultimo limite, o limite minimo, del valore della forza-lavoro è costituito dal valore di una massa di merci senza la fornitura giornaliera delle quali il detentore della forza-lavoro, l'uomo, non può rinnovare il suo processo vitale; dunque, dal valore dei mezzi di sussistenza fisiologicamente indispensabili. Se il prezzo della forza-lavoro scende a questo minimo, scende al disotto del suo valore, perché a questo modo la forza-lavoro si può conservare e sviluppare solo in forma ristretta e ridotta. Ma il valore di ogni merce è determinato dal tempo-lavoro necessario per fornirla di bontà normale.

È un sentimentalismo troppo a buon mercato il trovare brutale queste determinazioni del valore della forza-lavoro, la quale deriva dalla natura stessa della cosa, e gemere per esempio col Rossi: «Concepire la capacità di lavoro (puissance de travail) facendo astrazione dai mezzi di sussistenza del lavoro durante il processo di produzione, è concepire un'illusione (etre de raison). Chi dice lavoro, chi dice capacità di lavoro, dice allo stesso tempo lavoratore e mezzi di sussistenza, lavoratore e salario»47. Chi dice capacità di lavoro non dice lavoro, come chi dice capacità di digerire non dice digestione. Per quest'ultimo processo è ben noto che è necessario qualcosa di più di un buono stomaco. Chi dice capacità di lavoro non astrae dai mezzi di sostentamento necessari alla sussistenza di tale capacità. Anzi, nel valore di essa si esprime proprio il valore di quei mezzi. Quando non è venduta, quella capacità non serve niente al lavoratore, anzi in tal caso questi sentirà come crudele necessità di natura il fatto che la sua capacità di lavoro ha richiesto, per esser prodotta, una certa quantità di mezzi di sussistenza e continua a richiederla, per essere riprodotta. Allora scopre col Sismondi: «La capacità di lavoro, se non è venduta, non è niente»48.

La natura peculiare di questa merce specifica, la forza-lavoro, ha per conseguenza che, quando è concluso il contratto fra compratore e venditore, il suo valore d'uso non è ancor passato realmente nelle mani del compratore. Il suo valore era determinato, come quello di ogni altra merce, prima ch'essa entrasse in circolazione, poiché per produrla era stata spesa una determinata quantità di lavoro sociale, ma il suo valore d'uso consiste soltanto nella successiva estrinsecazione della sua forza. L'alienazione della forza-lavoro e il suo reale estrinsecarsi, cioè la sua esistenza come valore d'uso, sono dunque fatti distaccati nel tempo. Ma per le merci per le quali l'alienazione formale del valore d'uso mediante la vendita è distaccata nel tempo dalla consegna reale al compratore, il denaro di questo ultimo funziona per lo più come mezzo di pagamento49. In tutti i paesi dove domina il modo di produzione capitalistico la forza-lavoro viene pagata soltanto dopo che ha già funzionato durante il periodo fisso stabilito nel contratto: per esempio alla fine di ogni settimana.

Dunque il lavoratore anticipa dappertutto al capitalista il valore d'uso della forza-lavoro; la lascia consumare dal compratore prima che gliene sia stato pagato il prezzo: dunque il lavoratore fa credito dappertutto al capitalista. Che questo far credito non sia vuota fantasia non ce lo mostra soltanto l'occasionale perdita del salario, del quale l'operaio ha fatto credito, quando il capitalista fa bancarotta50, ma anche una serie di effetti più duraturi51. Però, che il denaro funzioni come mezzo di acquisto o come mezzo di pagamento, non cambia in nulla la natura dello scambio delle merci per sé preso. Il prezzo della forza-lavoro è stabilito per contratto, benché venga realizzato solo in un secondo tempo, come il canone d'affitto di una casa. La forza-lavoro è venduta benché venga pagata soltanto in un secondo tempo. Tuttavia, per una comprensione netta del rapporto, è utile presupporre per un momento che il possessore della forza-lavoro ne riceva subito il prezzo stabilito per contratto, ogni volta che la vende.

Conosciamo ora il modo di determinare il valore che viene pagato dal possessore del denaro al possessore di quella merce peculiare che è la forza-lavoro. Il valore d'uso che il possessore del denaro riceve, per parte sua, nello scambio, si mostra soltanto nel consumo reale, nel processo di consumo della forza-lavoro. Il possessore del denaro compera sul mercato tutte le cose necessarie a questo processo, come materie prime ecc., e le paga al loro prezzo intero. Il processo di consumo dalla forza-lavoro è allo stesso tempo processo di produzione di merce e di plusvalore. Il consumo della forza-lavoro, come il consumo di ogni altra merce, si compie fuori del mercato ossia della sfera della circolazione. Quindi, assieme al possessore di denaro e al possessore di forza-lavoro, lasciamo questa sfera rumorosa che sta alla superficie ed è accessibile a tutti gli sguardi, per seguire l'uno e l'altro nel segreto laboratorio della produzione sulla cui soglia sta scritto: No admittance except on business. Qui si vedrà non solo come produce il capitale, ma anche come lo si produce, il capitale.

Finalmente ci si dovrà svelare l'arcano della fattura del plusvalore.

La sfera della circolazione, ossia dello scambio di merci, entro i cui limiti si muovono la compera e la vendita della forza-lavoro, era in realtà un vero Eden dei diritti innati dell'uomo. Quivi regnano soltanto Libertà, Eguaglianza, Proprietà e Bentham.

Libertà! Poiché compratore e venditore d'una merce, per esempio della forza-lavoro, sono determinati solo dalla loro libera volontà. Stipulano il loro contratto come libere persone,giuridicamente pari. Il contratto è il risultato finale nel quale le loro volontà si danno una espressione giuridica comune.

Eguaglianza! Poiché essi entrano in rapporto reciproco soltanto come possessori di merci, e scambiano equivalente per equivalente.

Proprietà! Poiché ognuno dispone soltanto del proprio.

Bentham! Poiché ognuno dei due ha a che fare solo con se stesso. L'unico potere che li mette l'uno accanto all'altro e che li mette in rapporto è quello del proprio utile, del loro vantaggio particolare, dei loro interessi privati. E appunto perché così ognuno si muove solo per sé e nessuno si muove per l'altro, tutti portano a compimento, per una armonia prestabilita delle cose, o sotto gli auspici d'una provvidenza onniscaltra, solo l'opera del loro reciproco vantaggio, dell’utile comune, dell'interesse generale.

Nel separarci da questa sfera della circolazione semplice, ossia dello scambio di merci, donde il liberoscambista vulgaris prende a prestito concezioni, concetti e norme per il suo giudizio sulla società del capitale e del lavoro salariato, la fisionomia delle nostre dramatis personae sembra già cambiarsi in qualche cosa. L'antico possessore del denaro va avanti come capitalista, il possessore di forza-lavoro lo segue come suo lavoratore; l'uno sorridente con aria d'importanza e tutto affaccendato, l'altro timido, restio, come qualcuno che abbia portato al mercato la propria pelle e non abbia ormai da aspettarsi altro che la...conciatura.

NOTE

1 Il contrasto fra il potere della proprietà fondiaria, il quale poggia su rapporti personali di servitù e di signoria, e il potere impersonale del denaro è espresso con chiarezza nei due proverbi francesi: «Nulle terre sans seigneur». «L'argent n'a pas de maitre»

2 «Avec de l'argent on achète des marchandises, et avec des marchandises on achète de l'argent» (MERCIER DE LA RIVIERE, L'ordre naturel et essentiel des sociétés politiques cit., p. 543).

3 «Quando una cosa è comprata per essere rivenduta la somma impiegata vien chiamata denaro anticipato; quando non è comprata per esser venduta, si può dire che è denaro speso» (JAMES STEUART, Works ecc., editi dal generale Sir James Steuart suo figlio, Londra 1805, vol. 1,p. 274).

4 «On n'échange pas de l'argent contre de l'argent», grida Mercier de la Rivière ai mercantilisti (op. cit., p. 486). In un'opera che tratta ex professo del «commercio» e della «speculazione», si legge: «Ogni commercio consiste nello scambio di cose di generi differenti; e il vantaggio» (per il commerciante ?) «sorge da questa differenza. Scambiare una libbra di pane per una libbra di pane… non sarebbe seguito da nessun vantaggio... Quindi il commercio viene contrapposto con vantaggio al giuoco d'azzardo, che consiste in un mero scambio di denaro con denaro» (Th. Corbet, An Inquiry into the Causes and Modes of the Wealth of Individuals; or the Prin-ciples of Trade and Speculation explained, Londra, 1841, p. 5). Benché il Corbet non veda che D-D, scambiar denaro con denaro, è la forma caratteristica di circolazione, non solo del capitale commerciale, ma di ogni capitale, egli ammette per lo meno che questa forma è comune a un genere di commercio, alla speculazione e al giuoco d'azzardo, ma poi arriva il Mac Culloch e trova che comprare per vendere è speculare. Che quindi cade la differenza fra speculazione e commercio. «Ogni transazione nella quale un individuo compri un prodotto allo scopo di rivenderlo è, di fatto, una speculazione» (MAC CULLOCH, A Dictionary practical ecc. Of Commerce, Londra 1847 p. 1009). Incomparabilmente più ingenuo il Pinto, il Pindaro della Borsa di Amsterdam: «Le commerce est un jeu (questa frase è presa a prestito da Locke), et ce n'est pas avec des gueux qu'on peut gagner. Se si vincesse a lungo e in tutto con tutti bisognerebbe restituire, d’amore e d'accordo, le parti maggiori di profitto, per ricominciare il giuoco» (PINTO, Traité de la Circulation et du Crédit, Amsterdam, 1771, p. 231).

5 «Il capitale si divide.., nel capitale iniziale e nel guadagno, l'incremento del capitale.., benché la prassi stessa tornI a riunire subito questo guadagno al capitale e lo rimetta in corso con questo» (F. ENGELS, Umrisse zu einer Kritik der NationaIökonomie in Deutsch-Französische Fahrbücher, editi da A. Ruge e K. Marx, Parigi, 1844, p. 99).

6 Aristotele contrappone l'economica alla crematistica. Egli parte dall'economica. In quanto essa è arte del guadagno, si limita a procurare i beni necessari alla vita, e utili per la casa o per lo Stato. «La vera ricchezza (cit. in greco non riportata N.d.R.) consiste di tali valori d'uso, perché la misura di questa specie di proprietà sufficiente alla prosperità non è illimitata. Vi è un altro modo di acquistare ricchezza, che chiamano di preferenza e a ragione, crematistica, per la quale si è ingenerata l'opinione che nessun limite vi sia alla proprietà e alla ricchezza. Il commercio (cit. in greco non riportata N.d.R.) significa letteralmente commercio al dettaglio e Aristotele sceglie questa forma, perché in essa prevale il valore d'uso) non appartiene per natura alla crematistica, poiché quivi lo scambio mira solo a ciò che è necessario per essi stessi (compratore e venditore)». Quindi, continua a spiegare Aristotele, la forma originale del piccolo commercio era il commercio di permuta, ma col suo estendersi sorge, di necessità, il denaro. Con l'invenzione del denaro il commercio di permuta dovette svilupparsi di necessità in (cit. in greco non riportata N.d.R.) piccolo commercio di merci, e questo, in contraddizione con la sua tendenza originaria, si elaborò fino a diventare crematistica, arte di far denaro. La crematistica poi si distingue dall'economica perché «per essa la fonte della ricchezza è la circolazione (cit. in greco non riportata N.d.R.). E sembra che la crematistica faccia perno tutta sul denaro, poiché il denaro è principio e fine di questa specie di scambio (cit. in greco non riportata N.d.R.). Quindi anche la ricchezza alla quale tende la crematistica è illimitata. Infatti, ogni arte per la quale il proprio scopo non è mezzo, ma fine ultimo, è illimitata nella sua tendenza, poiché cerca di avvicinarsi ad esso sempre più; mentre le arti che perseguono mezzi ad un fine, non sono illimitate, poiché il fine stesso pone loro i limiti: per la crematistica non c'è nessun limite al fine, ma il suo fine consiste nell'arricchimento assoluto. La economica ha un limite, la crematistica no; ... la prima ha per fine qualcosa di differente dal denaro, la seconda, l'accrescimento del denaro stesso... La confusione fra queste due forme, che s'intrecciano l'una con l'altra, ha indotto alcuni a considerare fine ultimo dell'economica la conservazione e l'aumento del denaro all'infinito» (ARISTOTELE, De Rrepublica ed. Bekker, libro 1, cap. 8, 9. passim [ trad. V. Costanzi ] ).

7 «Le merci» (qui nel senso di valori d'uso) «non sono lo scopo determinante del capitalista commerciante; il suo scopo finale è il denaro» (TH. CHALMERS 0n Pol. Econ. ecc., 2. ed., Glasgow 1832, pp. 165, 166).

8 «Il mercante non conta quasi per niente il lucro fatto, ma mira sempre al futuro» (A. GENOVESI Lezioni di Economia Civile (1765), edizione degli economisti italiani a cura del

Custodi, parte moderna, vol. VIII, p. 139)

9 «L'inestinguibile passione per il guadagno, l’auri sacra fames guiderà sempre i capitalisti» (MAC CULLOCH, The Principles of Pol. Econ. Londra, 1830, p. 179). Questo giudizio non impedisce naturalmente allo stesso Mac Culloch e consorti, quando si trovano in impacci teorici, come per esempio quando trattano della sovrapproduzione, di trasformare lo stesso capitalista in un buon cittadino per il quale si tratta soltanto del valore d'uso e che sviluppa addirittura una fame da lupo, di stivali, cappelli, uova, cotonate ed altri familiarissimi generi di valori d'uso.

10 (Parola greca) …… (salvare) è una delle espressioni caratteristiche dei greci per la tesaurizzazione. Anche in inglese to save significa insieme salvare e risparmiare.

10a «Questo infinito che le cose non hanno in progresso, hanno in giro» (GALIANI, Op. cit. p. 156).

11 «Ce n'est pas la matière qui fait le capital, mais la vaIeur de ces matières» ( J. B. SAY, Traité d'Economie Politique, 3. ed., Parigi, 1817, voi. II, p. 429).

12 «Currency (!) employed in producing artieles… is capital» (MAC LEOD, The Theory and Praetice of Banking, Londra, 1855, vol. I, cap. 1 [p. 155]). «Capital ìs commodities» (JAMES MILL, Elements of Pol. Econ., Londra, 1821, p. 74).

13 «Capital... valeur permanente, multipliante» (SISMONDI, Nouveaux Principes d’Econ. Polit. [Parigi, 1819], voi. 1, p. 89).

14 «Lo scambio è una transazione ammirevole, nella quale i due contraenti guadagnano... sempre (!)» (DESTUTT DE TRACY, Traité de la Volonté et de ses effets, Paris, 1826, p. 68).

Questo stesso libro è apparso più tardi come Traité d'Ec.Pol.

15 MERCIER DE LA RIVIÈRE, op. cit., p. 544.

16 «Che uno di questi due valori sia denaro o che entrambi siano merci usuali; nulla di più indifferente, per sé preso» (MERCER DE LA RIVIERE, ivi, p. 543).

17 «Non sono i contraenti a decidere sul valore; questo è deciso prima del contratto» (LE TROSNE, op. cit., p. 906).

18 «Dove è egualità, non è lucro» (GALIANI, Della Moneta, in Custodi, Parte Moderna, vol. IV, p. 244).

19 «Lo scambio diventa vantaggioso per una delle parti, quando qualcosa di estraneo diminuisce o ingrandisce il prezzo; allora l'eguaglianza è lesa, ma la lesione procede da questa causa, e non dallo scambio» (LE TROSNE, op. cit., p. 904).

20 «Lo scambio è per sua natura un contratto d'eguaglianza, che si compie fra un valore ed un valore eguale. Non è dunque un mezzo di arricchirsi, poiché si dà tanto quanto si riceve» (LE TROSNE, ivi, p. 903).

21 CONDILLAC, Le commerce etle gouvernement (1776), ediz. Daire e Molinari nelle Mélanges d'économie politique, Parigi, 1847, p. 267, 29l.

22 È giusta quindi la risposta del Le Trosne al suo amico Condillac: «Dans une... société formée il n'y a pas de surabondant en aztcun gente» (LE TROSNE, op. cit., p. 907). Allo stesso tempo lo canzona, glossando : «Se entrambi i permutanti ricevono altrettanto di più per altrettanto di meno, ricevono entrambi altrettanto» (LE TROSNE, op. cit., p. 904). Proprio perchè il Condillac non ha ancora la minima idea della natura del valore di scambio, è il garante adatto pei concetti infantili del prof. Wilhelm Roscher. Vedi le sue Grundlagen der Nationalökonomie, 3. ed., 1858.

23 S. P. Nuwman, Elements of Pol. Ec., Andover e New York, 1835, p. 175

24 «L'aumento del valore nominale del prodotto… non arricchisce i venditori... poiché quel ch'essi guadagnano come venditori, è precisamente quel ch'essi spendono come compratori» ([GRAY J.], The Essential Principles of the Wealth of Nations, Londra, 1797, p. 66).

25 «Se si è costretti a dare per 18 lire una quantità di produzione che ne valeva 24, quando si impiegherà questo stesso denaro per comprare, si avrà egualmente per 18 lire quel che si pagava 24 lire» (LE TROSNE, op. cit., p. 897).

26 «Ogni venditore può dunque arrivare a rincarare abitualmente le sue mercanzie soltanto adattandosi anche a pagare abitualmente più care le mercanzie degli altri venditori; e, per la stessa ragione, ogni consumatore può arrivare a pagare abitualmente meno caro quello che compera, soltanto adattandosi anche a una analoga diminuzione sui prezzi delle cose che vende» (MERCIER DE LA RIVIÈRE, op. cit., p. 555).

27 R. TORRENS, An Essay Oh the Production of Wealth, Londra, 1821, p. 349.

28 «L'idea che i profitti siano pagati dai consumatori è, certo, proprio assurda. Chi sono i consumatori?» (G. RAMSAY, An Essay Oh the Distribation of Wealth, Edìmburgo, 1836, p. 83).

29 «Se a qualcuno manca la domanda, il Signor Malthus gli raccomanderà di pagare qualcun altro perché si prenda le sue merci?», domanda un ricardiano, tutto scandalizzato, al Malthus, il quale, come il suo scolaro, il prete Chalmers, glorifica economicamente la classe dei puri e semplici compratori ossia consumatori. Si veda: An Inquiry into those principles respecting the Nature of Demand and the Necessity of Consumptions, lately advocated by Mr. Malthus ecc., Londra, 1821, p. 55.

30 Il Destutt de Tracy, benchè membro delI'Institut, o forse proprio per questo, era d'opinione opposta. Dice che i capitalisti industriali fanno i loro profitti a questo modo: «Vendendo tutto quello che producono più caro di quel che non sia loro costato produrlo. E a chi vendono ? In primo luogo : gli uni agli altri» (op. cit., p. 239).

31 «Lo scambio fra due valori eguali non aumenta né diminuisce la massa dei valori esistenti nella società. Lo scambio fra due valori diseguali… non cambia neppure esso nulla nella somma dei valori sociali, benché aggiunga al patrimonio dell'uno quel che toglie al patrimonio dell'altro» (J. B. SAY, op. cit., t. II, pp. 433, 444). Il Say, indifferente, com'è ovvio, alle conseguenze di questa proposizione, l'ha presa in prestito, quasi alla lettera, dai fisiocrati. L'esempio che segue serva a mostrare in che modo egli abbia sfruttato i loro scritti, che alla sua epoca erano scomparsi dalla circolazione, per aumentare il suo proprio «valore». La proposizione più «celebre» di Monsieur Say: «On n'achète des produits qu'avee des produits», ivi, voi. Il, p. 441, suona, nell'originale fisiocratico: «Les produtions ne se paient qu'avec des productions» (LF. TROSNE, De l'intérêt sociaI, p. 899).

32 «Lo scambio non conferisce nessun valore ai prodotti» (F. WAYLAND, The Elements of PoL Ec., Boston, 1843, p. 168).

33 «Il commercio sarebbe impossibile sotto la legge degli equivalenti invariabili» (G. OPDYKE, A Treatise on Polit. Economy, New York, 1851, p. 66-69). «La differenza fra valore

reale e valore di scambio si fonda su questo fatto: il valore di una cosa è differente dal cosiddetto equivalente dato per essa nel commercio; cioè: questo equivalente, non è un equivalente» (F. ENGELS, op. cit., p. 95, 96).

34 BENJAMIN FRANKLIN, Works, vol. II, ed. Sparks, in Positions to be examined concerning National Wealth.

35 ARISTOTELE, op. cit., [trad. Costanzi], libro I, cap. 9.

36 «Non si ottiene profitto con lo scambio, nelle condizioni abituali del mercato. Se non fosse esistito prima, il profitto non ci potrebbe essere neppure dopo la transazione» (RAMSAY, op. cit., p. 184).

37 Dalla discussione che abbiamo offerto il lettore capisce che ciò significa soltanto: la formazione del capitale deve essere possibile anche se il prezzo delle merci è eguale al valore delle merci. Non può essere spiegata con la differenza fra i prezzi e i valori delle merci. Se i prezzi differiscono realmente dai valori, occorre ridurre i prezzi ai valori, cioè fare astrazione da questa circostanza come casuale, se si vuole avere davanti a sé puro il fenomeno della formazione del capitale sulla base dello scambio di merci, e se non si vuole essere confusi nell'osservarlo da circostanze secondarie perturbatrici ed estranee al vero e proprio andamento del fenomeno. Si sa del resto che tale riduzione non è affatto un puro e semplice procedimento scientifico. Le oscillazioni continue dei prezzi di mercato, i loro rialzi e i loro ribassi, si compensano, si eliminano reciprocamente e si riducono a prezzo medio, che è la loro regola interna. Ed essa costituisce la stella polare per esempio del mercante o dell'industriale in ogni impresa che abbracci un periodo di tempo d'una certa durata. Dunque essi sanno che, considerato nel suo insieme un periodo di una certa durata, le merci vengono vendute non sopra e non sotto il loro prezzo medio, ma proprio al loro prezzo medio. E se il pensiero disinteressato fosse semmai il loro interesse, il mercante e l'industriale si dovrebbero porre il problema della formazione del capitale a questo modo: data la regolazione dei prezzi mediante i! prezzo medio, cioè, in ultima istanza, mediante il valore della merce, come può nascere capitale ? Dico «in ultima istanza», perché i prezzi medi non coincidono direttamente con le grandezze di valore delle merci, come credono A. Smith, il Ricardo, ecc.

38 «Nella forma di denaro… il capitale non produce profitto» (RICARDO, Princ. of Pol. Econ., p. 267).

39 Nei dizionari enciclopedici d'antichità classica, si può leggere l'assurdità che nel mondo antico il capitale era pienamente sviluppato, «con l'eccezione che mancavano il lavoratore libero e il sistema del credito». Anche il Mommsen, nella su, Storia romana, si caccia in un quid pro quo dopo l'altro.

40 Quindi varie legislazioni stabiliscono un massimo di durata del contratto di lavoro. Tutti i codici dei popoli presso i quali il lavoro è libero regolano le condizioni di denuncia del contratto di lavoro. In vari paesi, per esempio al Messico (prima della guerra civile americana, anche nei territori strappati al Messico; e, di fatto, anche nelle province danubiane, fino alla rivoluzione di Kusa), la schiavitù è nascosta sotto la forma del peonaggio. Non solo il lavoratore singolo, ma anche la sua famiglia diventano di fatto proprietà di altre persone e delle loro famiglie, a mezzo di anticipi da ripagarsi in lavoro, che si accavallano di generazione in generazione. Juarez aveva abolito il peonaggio. Il cosiddetto imperatore Massimiliano lo reintrodusse con un decreto che venne esattamente definito nella Camera dei rappresentanti di Washington come decreto per la reintroduzione della schiavitù nel Messico «Delle mie particolari abilità fisiche e intellettuali, e delle mie particolari possibilità di attività io posso… alienare ad un altro un uso limitato nel tempo, poiché esse, dopo questa limitazione, conservano un rapporto esteriore con la mia totalità e universalità. Con l'alienazione di tutto il mio tempo concreto in virtù del lavoro e della totalità della mia produzione, io renderei proprietà di un altro ciò che c'è di sostanziale in essi, la mia attività e realtà universali, la mia personalità» (HEGEL, Philosophie des Rechts, Berlino, 1840, § 67, p. 104).

41 Dunque, quel che dà il carattere all'epoca capitalistica è il fatto che la forza-lavoro assume anche per lo stesso lavoratore la forma d'una merce che gli appartiene, mentre il suo lavoro assume la forma di lavoro salariato. D'altra parte la forma di merci dei prodotti del lavoro acquista validità generale solo da questo momento in poi.

42 «Il valore (value or worth) d'un uomo è, come per tutte le altre cose, il suo prezzo; vale a dire, quanto si dà per usare la sua forza» (TH. HOBBES, Leviathan in Works, ed. Molesworth, Londra, 1839-1844, vol. III, p. 76).

43 Quindi il villicus dell'antica Roma, che era l'amministratore a capo degli schiavi agricoli, riceveva «una razione più scarsa di costoro, perché aveva un lavoro più lieve di quelli» (TH.

MOMMSEN, Röm. Geschichte, 1856, p. 810).

44 Cfr. Overpopulation and its Remedy, Londra, 1846, di W. TH. THORNTON.

45 Petty

46 «Il suo prezzo naturale» (del lavoro)... «consiste in una quantità di cose necessarie e di comodi della vita che sono necessari, data la natura del clima e gli usi del paese, per mantenere il lavoratore e per rendergli possibile di allevare una famiglia, tale da poter conservare sul mercato una offerta non diminuita di lavoro» (R. TORRENS, An Essay on the external Corn Trade, Londra, 1815, p. 62). Il termine «lavoro» sta qui, erroneamente, per «forza-lavoro».

47 Rossi, Cours d'Econ. Polit., Bruxelles, 1842, p. 370.

48 SISMONDI, Nouv. Princ. ecc., t. I, p. 113.

49 «Ogni lavoro è pagato quando è finito» (An Inquiry into those Principles, spectingre the Nature of Demand ecc., p. 104). «Il credito commerciale è cominciato necessariamente nel momento in cui l'operaio, primo artefice della produzione, ha potuto, per mezzo delle sue economie, aspettare il salario del suo lavoro fino alla fine della settimana, della quindicina, del mese, del trimestre, ecc.» (CH. GANILH, Des Systèmes d'Econ. Polit., 2. ed., Parigi, 1821, vol. II, p. 150).

50 «L'operaio presta la sua industriosità», ma, aggiunge astutamente lo Storch, «non rischia niente» altro che «di perdere il suo salario; ... l'operaio non trasmette niente di materiale» (STORCH, Cours d'Econ. Polit., Pietroburgo, 1815, vol. II, pp. 36, 37).

51 Un esempio. A Londra ci sono due specie di fornai, quelli «full priced», che vendono il pane al suo pieno valore, e gli «undersellers», che lo vendono al di sotto di questo valore. La seconda classe costituisce più dei tre quarti del numero totale dei fornai (p. XXXII del report del commissario governativo H. S. TREMENHEERE sulle Grievances complained of by the journeymen bakers ecc., Londra, 1862). Questi undersellers vendono, quasi senza eccezione, pane adulterato mediante l'aggiunta di allume, sapone, potassa, calce, farina di pietre del Derbyshire e di altri simili ingredienti piacevoli, nutrienti e salubri (v. il libro azzurro sopra citato, ed anche la relazione del Committee of 1855 on the Adulteration of Bread, e del dott. HASSALL, Adulteration Detected, 2. ed., Londra, 1801). Sir John Gordon dichiarò davanti al comitato del 1855: «in conseguenza di tali adulterazioni, i poveri che vivono di due libbre di pane al giorno non ricevono ora, in realtà, neppure la quarta parte di sostanza nutritiva, astrazion fatta dagli effetti dannosi sulla loro salute». Il Tremenheere (ivi, p. XLVIII), a ragione del fatto che «una grandissima parte della classe operaia», benché bene informata delle adulterazioni, accetta tuttavia allume, farina di pietra, ecc. adduce che per essi è «questione di necessità prendere il pane come si preferisce darglielo, dal loro fornaio o dal rivendugliolo». Siccome vengono pagati solo alla fine della settimana lavorativa, possono «pagare solo alla fine della settimana il pane consumato dalle loro famiglie durante la settimana»; e, aggiunge il Tremenheere citando dichiarazioni testimoniali, «è notorio che il pane composto di tali misture viene fatto espressamente per questa specie di clienti» (It is notorious that bread composed of those mixtures, is made expressly for sale in this manner). «In molti distretti agricoli inglesi» (ma ancor più in quelli scozzesi) «il salario viene pagato quindicinalmente e perfino mensilmente. Con intervalli così lunghi fra i pagamenti il lavoratore agricolo è costretto a comprare le sue derrate a credito... Ha da pagare prezzi più alti ed è di fatto vincolato alla bottega che gli fa credito. Per es.. a Horningsham in Wilts, dove il pagamento è mensile, la stessa farina che altrove pagherebbe uno scellino e dieci pence gli costa due scellini e quattro pence a stone (Sixth report on Public ttealth by The Medical Offieer of the Privy Couned ecc, 1864, p. 264). «Gli stampatori a mano di cotonate di Paisly e di Kilmarnock» (Scozia occidentale) «costrinsero con uno sciopero, nel 1853, a ridurre la scadenza dei pagamenti da un mese a quindici giorni» (Reports of the Inspectors of Factories, 31st Oct. 1853, p. 34). Si può considerare un ulteriore gentile sviluppo del credito dato dall'operaio al capitalista quel metodo, di molti possessori inglesi di miniere, che consiste nel pagare l'operaio solo alla fine del mese, mentre nel frattempo egli riceve dal capitalista anticipi, spesso in merci, ch'egli deve pagare al di sopra del prezzo di mercato (truck system). «È uso generale fra gli imprenditori di miniere di carbone pagare una volta al mese e dare anticipi ai loro operai alla fine di ogni settimana intermedia. Questo anticipo vien dato nei negozio» (cioè nel tommy shop, ossia nella rivendita appartenente all'imprenditore stesso). «L'uomo lo prende da una parte del negozio e lo spende dall'altra parte» (Children's Emplovment Commission, III report, 1864, p. 38, n. 192).