Francis WheenMarx. Vita pubblica e privataMondadori, Milano 2001 |
1. Francis Wheen è un columnist britannico piuttosto noto che, come capita sempre più spesso ai giornalisti, ha il gusto delle biografie e degli studi storici. Si deve a lui una biografia di Marx pubblicata in lingua originale nel 1999 e in italiano, da Mondadori, nel 2000. L'impresa è notevole: primo, perché è in controtendenza rispetto alla cultura corrente che tende, quando non addirittura a rimuovere Marx dall'orizzonte culturale, a squalificarlo come un "cattivo maestro"; secondo perché, nonostante lo stile giornalistico, che talora indulge all'aneddoto e alla divagazione, si tratta di un lavoro adeguatamente documentato, che implica, tra l'altro, una lettura diretta e critica delle opere di Marx. Quest'ultimo punto merita di essere sottolineato. A pag. 257 Wheen scrive: "A un secolo esatto dalla pubblicazione del Capitale, il primo ministro britannico Harold Wilson si vantava di non averlo mai letto: "Sono arrivato solo alla seconda pagina, dove c'è una nota che prende una pagina intera. Ho pensato che due frasi di testo e una pagina di note fossero troppo". Wilson si era laureato con voti eccellenti in scienze politiche, filosofia ed economia, ma aveva intuito che questa professione di ignoranza gli avrebbe ingraziato le classi medie colte le quali, particolarmente in Gran Bretagna e America, vanno spesso orgogliose del proprio rifiuto di intrattenere qualsiasi rapporto con Marx. Da qui l'insensata argomentazione circolare tanto diffusa tra chi non è mai andato oltre la seconda pagina, stando alla quale non è il caso di leggere il Capitale perché "contiene solo sciocchezze", e ciò sarebbe dimostrato dal fatto che notoriamente "non vale la pena di leggerlo"." Le cose oggi, dopo la morte del comunismo, stanno più che mai così, se si tiene conto che gran parte degli uomini politici liberali manifesta implicitamente nei confronti di Marx, profeta del comunismo, un disprezzo o un'indifferenza totale. Le fortune e le sfortune di Marx vanno ricondotte a fattori molteplici: non da ultimo al fatto che la sua opera più corposa, il Capitale appunto, richiede (soprattutto per quanto riguarda il secondo e il terzo volume, redatti da Engels) uno sforzo di lettura fuori del comune, mentre quella più famosa, il Manifesto del partito comunista, è una sintesi straordinaria che, come tutte le sintesi, può affascinare o irritare, ma comunque non consente di capire che per suggestione intuitiva il pensiero e lo spirito di Marx. Conscio di questa difficoltà, Wheen ha scritto una biografia abbastanza dettagliata, che concede un inconsueto spazio all'analisi critica delle opere. L'approccio si può ritenere in qualche misura innovativo, dato che, nei testi sinora dedicati alla vita e alle opere di Marx (Franz Mehring, Vita di Marx, Roma, Editori Riuniti, 1969; Evgeniia Akimovna Stepanova, Karl Marx: breve saggio biografico, Mosca, Progress, 1982; David McLellan, Karl Marx. La sua vita e il suo pensiero, Milano, CDE, 1983; Nicolao Merker, Karl Marx: 1818-1883, Roma, Editori Riuniti, 1983; Fabio Giovannini, Vita di Karl Marx: i sentimenti e le lotte, Roma, Datanews, 1992), l'integrazione tra la personalità e l'opera di Marx è risultata piuttosto carente. Nonostante le intenzioni, purtroppo, tale carenza si risconta anche in Wheen. La personalità di Marx è tratteggiata con uno stile sostanzialmente giornalistico, mirato evidentemente a sottolineare al massimo grado le contraddizioni del personaggio: la sua foga e la volontà di primeggiare, la tendenza giovanile ai tafferugli che, in età matura, persiste sotto forma di incessante tendenza a polemizzare e ad entrare in conflitto anche con gli amici, la rivendicazione di un tenore di vita costantemente al di sopra dei suoi mezzi, il perbenismo e una sorprendente pruderie moralistica. Le citazioni che seguono, raccolte dalla dott.ssa Lisa Cecchi, documentano compiutamente quanto c'è di pittoresco nel libro: "Marx non era un grande oratore: aveva una pronuncia leggermente blesa e l'aspro accento renano spesso creava problemi di comprensione; tuttavia bastava la sua semplice presenza arruffata e grintosa a stimolare o a intimidire gli animi. Lo storico Karl Friedrich Köppen, un habitué del Doktorclub, veniva colto da una sorta di paralisi ogniqualvolta si trovava in compagnia di Marx. Scrive infatti poco dopo la partenza dell'amico da Berlino nel 1841: «Torno ad avere pensieri miei, idee che ho per così dire prodotto da me, mentre prima venivano da un'altra parte, cioè da Schützenstrasse [la via dove abitava Marx]. Adesso posso lavorare davvero e provo la piacevole sensazione di aggirarmi tra completi idioti senza sentirmi uno di loro...». Dopo aver letto un articolo di Bruno Bauer sui rapporti tra politica e cristianesimo, lo stesso Köppen disse a Marx: «Ho sottoposto questa idea a una sorta di esame poliziesco, le ho chiesto di mostrarmi il passaporto e ho constatato che anch'esso è stato emesso dalla Schützenstrasse. Come vedi, sei un indiscutibile magazzino di idee, anzi una vera fabbrica o, per usare un'espressione berlinese, sei un cervellone». Quando Marx cominciò a lavorare per la «Rheinische Zeitung», i colleghi ebbero modo di notare che la sua grande irrequietezza e irruenza si manifestavano anche in una forma di distrazione che suscitava tenerezza. Il giornalista Karl Heinzen amava osservare Marx seduto all'osteria a fissare con occhi miopi un giornale mentre sorseggiava il caffè del mattino, per poi «alzarsi improvvisamente per cercare su un altro tavolo dei giornali che non c'erano affatto»; lo vedeva «precipitarsi dal censore per protestare contro i tagli a un articolo, e andarsene poi in fretta e furia ficcandosi in tasca, invece dell’articolo incriminato, un giornale di qualcun altro o addirittura un fazzoletto da naso». Ugualmente attraente, per chi aveva stomaco robusto, era la passione di Marx per le bisbocce e i tafferugli. Così Heinzen descrive una serata alla fine della quale dovette riportarlo a casa dopo parecchie bottiglie di vino: Non appena ebbi varcato la soglia, egli richiuse la porta, nascose la chiave e cominciò a prendermi in giro dicendomi che ero suo prigioniero. Mi invitò quindi a seguirlo al piano di sopra, nel suo studio. Entrato nella stanza, mi sedetti sul canapè, per vedere cosa altro voleva combinare quel tipo stravagante. Ma nel frattempo egli aveva già dimenticato la mia presenza. Sedette a cavalcioni di una sedia, reclinò il capo sulla spalliera e cominciò a declamare, in una ininterrotta cantilena mezzo lamentosa e mezzo sfottitoria: «Povero sottotenente, povero sottotenente! Povero sottotenente, povero sottotenente!». Si riferiva a un sottotenente dell'esercito prussiano che egli aveva «corrotto» insegnandogli la filosofia hegeliana... Dopo aver continuato per un pezzo la lamentazione sul sottotenente, egli divenne preda di un accesso di rabbia, e improvvisamente si accorse che ero ancora nella stanza. Avanzò verso di me, mi fece capire che ero in suo potere e, con una malvagità che avrebbe voluto essere diabolica ma sapeva soltanto di una ragazzata, cominciò a infastidirmi minacciandomi e mettendomi le mani addosso. Feci ogni sforzo per non abbassarmi a fare altrettanto, poiché mi ripugnava difendermi nello stesso modo. Ma, poiché continuava, gli dissi con aria seria che avrei posto fine alle molestie con le maniere forti, se non la smetteva; non ottenendo alcun risultato, mi vidi costretto a fargli fare un volo da un capo all'altro della stanza. Quando si fu rialzato, gli dissi che ne avevo abbastanza di lui, e lo invitai ad aprirmi la porta di casa. Il suo viso assunse un'espressione di trionfo. «Vai pure a casa, - mi disse con aria di scherno, - uomo forzuto», sottolineando quelle parole con le smorfie più bizzarre. Sembrava che stesse cantando i versi del Faust: «Dentro c'è un prigioniero. ..»; o perlomeno il suo stato d'animo era analogo; ma la situazione era comica al massimo grado, per l'espressione fanfaronescamente mefistofelica che egli aveva assunto. Alla fine gli dissi che se non intendeva aprirmi la porta l'avrei fatto da solo a sue spese. Poiché ancora una volta egli rispose soltanto con una nuova serie di scherni e di smorfie, scesi da basso, aprii la porta con uno strattone, scardinando la serratura, e gli gridai dalla strada di chiudere bene, per non fare entrare i ladri. Muto per lo sbalordimento, vedendo che mi ero sottratto al suo laccio fatato, egli stava alla finestra e mi seguiva con i suoi occhietti, come un discolo bagnato. Il seguito fu sin troppo prevedibile: qualche anno più tardi, Marx accusò Heinzen di essere un rozzo filisteo («scialbo, ampolloso, vanaglorioso, borioso») e fu a sua volta accusato dal suo ex prigioniero di essere un «inaffidabile egoista»”. (pp. 37-39) “Dopo essersi inimicato sia il governo sia l'opposizione, ben presto Marx si scagliò anche contro i colleghi. Georg Jung, un noto avvocato di Colonia che collaborava alla «Rheinische Zeitung», lo definì «quel diavolo di un rivoluzionario», mentre nel contempo andavano deluse anche le grandi speranze che i giovani radicali presenti nella redazione avevano nutrito in lui al momento della sua nomina a direttore, nell'ottobre 1842. Marx diede infatti il via alla nuova politica editoriale sotto forma di replica all'«Allgemeine Zeitung», che aveva accusato il giornale rivale di simpatie comuniste: La «Rheinische Zeitung», che non può concedere alle idee comuniste, nella loro forma odierna, neppure attualità teoretica, e quindi ancor meno può desiderare o anche solo ritenere possibile la loro realizzazione pratica, sottoporrà queste idee a una critica approfondita... Scritti come quelli di Leroux, Considérant e soprattutto la penetrante opera di Proudhon, non possono essere criticati con trovate superficiali del momento, ma solo dopo uno studio lungo, assiduo e molto approfondito. Senza dubbio aveva in mente da una parte il censore e dall'altra gli azionisti del giornale, capitalisti borghesi senza eccezione alcuna: eppure era più che convinto di quanto aveva scritto. A Marx non andavano affatto a genio gli atteggiamenti di alcuni colleghi, come per esempio l'alticcio Rutenberg, formalmente ancora in forza al giornale ma in realtà incaricato di inserire la punteggiatura, o come Moses Hess. Era ancor più irritato dal ridicolo comportamento dei Giovani hegeliani di Berlino, che ora si facevano chiamare i «Liberi» e, per essere coerenti con quel nome, criticavano tutto e tutti - lo Stato, la Chiesa, la famiglia - nella convinzione che il libertinismo ostentato fosse un dovere politico. Marx li considerava propagandisti di se stessi, frivoli e noiosi. «Lo scandalo e la sguaiatezza vanno sconfessati ad alta voce e decisamente in un'epoca che richiede caratteri seri, virili e saldi per la conquista delle sue nobili mete» ammoniva i suoi lettori. C'era naturalmente un elemento di ipocrisia in questo discorso: come potevano ben testimoniare i suoi compagni di bisboccia a Colonia, lui stesso non era né serio né sobrio in ogni circostanza e quella solenne disapprovazione delle plateali esibizioni suonava un po' strana in bocca a un uomo che solo pochi mesi prima aveva percorso schiamazzando le strade di Bonn a cavalcioni di un asino. Ma le nuove responsabilità di direttore lo avevano spinto a un'esclusiva concentrazione sugli interessi intellettuali: le burle giovanili non erano più accettabili”. (pp. 40-41) “L'esperimento di comunismo patriarcale [con i coniugi Ruge] durò circa due settimane, dopodiché i Marx trovarono un alloggio per conto proprio e traslocarono, pur rimanendo nella stessa strada. Ruge era un piccolo borghese puritano e molto formale, poco incline a tollerare l'impulsività e la disorganizzazione del suo co-redattore: «[Marx] non porta mai niente alla fine, lascia tutto a mezzo per tuffarsi ogni volta da capo in uno sterminato mare di libri ... Ha lavorato sin quasi a star male, senza andare a letto per tre o quattro notti di fila» si lamentava. Oltre a essere sconcertato da questi «folli metodi di lavoro», Ruge era scandalizzato dagli agi e dai piaceri di Marx, come scrisse alcuni mesi più tardi: «In occasione del compleanno, sua moglie gli ha regalato un frustino del valore di cento franchi, e il poveretto non sa cavalcare né possiede un cavallo. Tutto ciò che vede lo vuole "avere" - una carroza, abiti eleganti, un giardino, nuovi mobili dall'Esposizione, in pratica vorrebbe la luna». Un elenco di acquisti assai poco plausibile: Marx non era interessato al lusso o ai fronzoli e, se desiderava queste cose, era senza dubbio per via di Jenny, alla quale invece piacevano. Durante i primi mesi trascorsi a Parigi, per la prima e unica volta nella sua vita da sposata, Jenny poté permettersi di soddisfare i propri desideri in questo campo, dato che le entrate di Karl erano aumentate grazie a una donazione di mille talleri inviata da Colonia per iniziativa dei precedenti azionisti della «Rheinische Zeitung». Inoltre, Marx desiderava che la moglie si godesse un ultimo periodo di spensieratezza prima di essere relegata in casa dai doveri della maternità”. (pp. 56-57) “Si può facilmente capire perché il tentativo di vita in comune con i Ruge non avesse avuto successo: per quanto si beffasse della morale e dei costumi della classe media, nel profondo del cuore Marx era un patriarca borghese fatto e finito. Negli scambi epistolari o nel corso delle allegre bevute con gli amici maschi, nulla gli faceva più piacere di una barzelletta sconcia o di qualche pettegolezzo a sfondo sessuale, ma in presenza di signore era un perfetto cavaliere, tale da suscitare l'ammirazione di qualsiasi padre di famiglia vittoriano. «Come marito e padre di famiglia Marx, a dispetto del suo carattere altrimenti irrequieto e violento, è l'uomo più tenero e mansueto di questo mondo» riferì con sorpresa un confidente della polizia intorno al 1850. Il socialista tedesco Wilhelm Liebknecht, suo compagno di molte sortite nei pub, trovava commovente e piuttosto comica la pruderie di Marx: «Nelle discussioni politiche ed economiche non si peritava di esprimersi nel modo più rude, se non addirittura cinico, davanti ai bambini e alle donne si esprimeva con una delicatezza da far invidia a una governante inglese. Quando il colloquio scivolava verso un argomento scabroso, egli cominciava a dar segni di nervosismo, si dimenava a disagio sulla sedia e poteva arrossire come una fanciulla sedicenne»”. (p. 66) “Dopo essersi in tal modo inimicato i moderati, Marx attaccò briga con il socialista più noto della città, Andreas Gottschalk, il quale non solo era il presidente dell'appena costituita Associazione operaia di Colonia, ma era anche una figura di spicco nella comunità locale della Lega dei comunisti. È difficile spiegare o giustificare le ragioni della violenta animosità sorta tra i due uomini, anche se forse hanno a che vedere con la gelosia. Come aveva già fatto capire in altre circostanze, Marx non amava le istituzioni e le organizzazioni nelle quali non poteva imporsi, e Gottschalk, un medico molto amato in quanto esercitava la sua professione tra i poveri, aveva più seguaci dell'irascibile direttore di testata. La «Neue Rheinische Zeitung» vendeva cinquemila copie, una tiratura assai elevata per gli standard dell'epoca, ma l'Associazione operaia di Colonia, che appunto faceva capo a Gottschalk, aveva già raggiunto gli ottomila iscritti nel giro di poche settimane dalla fondazione. Marx accusò Gottschalk di essere un settario di sinistra e di aver messo in pericolo il «fronte unito» di borghesia e proletariato creando un gruppo di pressione esclusivamente operaio e, peggio ancora, chiedendo che venissero boicottate le elezioni del Parlamento di Berlino e di quello di Francoforte. Vista la prontezza di Marx nel farsi beffe dell'Assemblea nazionale come covo di azzeccagarbugli perdigiorno, si sarebbe tentati di pensare che le critiche mosse al buon medico fossero in realtà intrise di ipocrisia. Ancor più perversamente, Marx arrivò a lamentarsi del fatto che Gottschalk fosse disposto ad accettare una monarchia costituzionale limitata invece di puntare all'instaurazione immediata della repubblica. Eppure, lui stesso aveva dichiarato, in un editoriale del 7 giugno: «Non avanziamo la richiesta utopistica che sia proclamata a priori una repubblica tedesca una e indivisibile». Il povero Gottschalk si trovò così attaccato per essere al tempo stesso troppo timoroso e troppo zelante: non stupisce quindi che egli rassegnasse le dimissioni dalla Lega dei comunisti qualche settimana dopo il rumoroso arrivo di Marx a Colonia. Persino quando fu arrestato insieme all'amico Fritz Anneke con l'accusa di incitamento alla violenza, all'inizio di luglio, curiosamente la «Neue Rheinische Zeitung» si mostrò indifferente. «Ci mancano ancora notizie precise sui motivi e le modalità dell'arresto. Perciò ci riserviamo di dare il nostro giudizio» fu il commento di Marx in un breve editoriale del 4 luglio. «I lavoratori saranno abbastanza intelligenti da non lasciarsi indurre a un tumulto da nessuna provocazione.» Il numero del giorno successivo conteneva un resoconto più completo, incentrato sul trattamento riservato ad Anneke dai gendarmi che l'avevano arrestato; inoltre vi si accusava il pubblico ministero, il signor Hecker, di essere arrivato nella casa dove era stato compiuto l'arresto mezz'ora dopo la polizia, in modo da dar tempo a quest'ultima di picchiare il presunto colpevole e terrorizzare la moglie incinta. Notava sarcasticamente Marx: «Hecker dichiara che non ha ordinato brutalità. Come se il signor Hecker potesse ordinare brutalità!». Del malcapitato Gottschalk, invece, quasi non si faceva cenno”. (pp.117-118) “Marx era senza dubbio un tremendo esibizionista e un intellettuale dalle tendenze sadiche, ma era anche un eccellente maestro che insegnava ai giovani rifugiati lo spagnolo, il greco, il latino, la filosofia e l'economia politica: «Quell'uomo, di solito così impetuoso e impaziente, quando insegnava era di una pazienza straordinaria». A partire dal novembre 1849 tenne un lungo ciclo di conferenze dal titolo «Che cos'è la proprietà borghese?», che attirò una folla straordinaria nella sala al piano superiore di Great Windmill Street. Ricorda Liebknecht: «Enunciava una proposizione nella forma più concisa possibile, e poi la spiegava ampliando il discorso. Nel far ciò evitava con la massima cura ogni espressione che non fosse comprensibile agli operai. Poi invitava gli ascoltatori a fargli delle domande. Se nessuno domandava, egli cominciava a interrogare, e lo faceva con tanta abilità pedagogica che non gli sfuggiva una sola lacuna, un solo fraintendimento ... si serviva anche di una lavagna nera, in realtà di legno, sulla quale scriveva le sue formule - tra cui anche quelle dell'inizio del Capitale, a noi tutti ben note»”. (p. 134) “Se Marx fosse stato lo spensierato bohémien descritto dai tanti rapporti polizieschi, se la sarebbe cavata abbastanza bene; invece apparteneva alla categoria delle persone perbene cadute in miseria, che fanno di tutto per salvare le apparenze e non hanno alcuna intenzione di rinunciare alle proprie abitudini borghesi. Tra il 1850 e il 1860, pur avendo a malapena di che sfamare i figli, continuò a tenere un segretario, il giovane filologo tedesco Wilhelm Pieper, benché Jenny Marx fosse ansiosa di svolgerne le mansioni.” (p. 154) “Nel 1857 Pieper [il factotum di Marx] annunciò che gli era stato offerto un posto come insegnante di tedesco in una scuola privata di Bognor, a quanto pare nella speranza che Marx insistesse per farlo restare a condizioni per lui più favorevoli, ma a lungo andare fu costretto a mettere le carte in tavola e Jenny ne prese tranquillamente il posto. «In realtà è venuto fuori che la sua "indispensabilità" esisteva soltanto nella sua immaginazione» scrisse Marx, dimenticando di aggiungere che lui stesso era caduto nel gioco. «Mia moglie presta il servizio di segretaria senza tutto il bother [chiacchiericcio] del nobile giovanetto... non ho in alcun modo bisogno di lui...». Dato che Jenny l'aveva già dimostrato in parecchie occasioni, quando per esempio il marito era ammalato o durante le scorribande di Pieper, perché Marx ci mise così tanto a rendersene conto? Per anni aveva covato una sorda irritazione nei confronti dell'inaffidabile factotum, definendolo in privato pagliaccio con un cervello di gallina e somaro. «Col misto di pigrizia e pignoleria, di melensaggine e di pedanteria, è in realtà sempre più duro a digerirsi. Inoltre, cosa molto frequente con tipi del genere, sotto la pretesa gaiezza, si nasconde una grande depressione, malumore, e la cattiva coscienza dell'ubriacone.» L'aver assunto Pieper era stata un'inutile stravaganza fin dall'inizio, ma il gioco si era protratto così a lungo perché Marx riteneva impensabile per una persona delle sue condizioni non avere un segretario privato, ovvero concedersi periodiche vacanze al mare, lezioni di piano per i bambini e tutti gli altri costosi annessi e connessi della rispettabilità. Anche con le tasche vuote, semplicemente si rifiutava di accettare una vita da «sottoproletario», per usare i suoi stessi termini. Quelli che ad altri esuli potevano sembrare lussi diventavano «bisogni assoluti», laddove necessità imprescindibili, come per esempio pagare il droghiere, erano considerati extra facoltativi. Questa inversione della scala di priorità traspare chiaramente in una lettera supplichevole inviata a Engels nel giugno 1854, mentre Jenny si stava riprendendo da una malattia e il suo medico curante, il dottor Freund, chiedeva il saldo delle parcelle in sospeso. «Così, sono dunque in un fix [pasticcio]... dato che avevo da pagare 12 sterline in casa, e l'importo totale era notevolmente ridotto a causa degli articoli saltati, e inoltre questa volta la farmacia da sola ha inghiottito una notevole somma» scrisse Marx per spiegare come mai i suoi rendiconti trimestrali fossero in rosso. L'effetto strappacuore dell'appello viene però irrimediabilmente contraddetto dalla frase successiva, nella quale Marx accenna al fatto che Jenny, insieme ai bambini e alla governante, si apprestava a trascorrere quindici giorni di vacanza in una villa di Edmonton, dopodiché «grazie all'aria della campagna, si rimetterà in forza abbastanza per poter andare a Treviri». Come forse Engels si sarà chiesto, se Marx aveva tante difficoltà a pagare il medico, dove avrebbe trovato il denaro per un viaggio in Germania? È una domanda che sicuramente si posero anche gli indispettiti creditori quando vennero a sapere che, in vista di quello stesso viaggio, Jenny si era rifatta l'intero guardaroba. Marx finse di non capire la loro indignazione e sostenne che la figlia di un barone tedesco ovviamente non poteva presentarsi a Treviri tutta malvestita. In realtà, Marx era terribilmente orgoglioso del fatto di aver sposato una donna elegante, come testimoniano i biglietti da visita che aveva fatto stampare per lei («Mme Jenny Marx, née Baronesse de Westphalen»), biglietti che peraltro lui stesso ogni tanto esibiva nella speranza di far colpo su commercianti e tory.” (pp. 156-157) “Va però detto che i tormenti di un londinese appartenente alla classe media non sono esattamente gli stessi che affliggono i veri indigenti. La prima cosa che Marx chiese a Engels una volta rientrato nella capitale britannica fu di inviargli alcune cassette di chiaretto e di vino del Reno, dato che «le mie ragazze sono costrette il 2 luglio a invitare a ballare altre ragazze; non avendo durante tutto questo anno invitato nessuno, non potevano rispondere agli inviti, e dunque sono sul punto to lose cast [di perdere ogni relazione]». Mentre un tempo aveva lottato per trovare qualche penny con cui comprare pane e giornali, adesso le sue necessità domestiche non erano dissimili da quelle di un normale abitante dei sobborghi ansioso di salvare le apparenze. Fu anche «estremamente contrariato» dalla notizia che il poeta Freiligrath, avendo perso il posto - fino a quel momento occupato - di direttore della filiale londinese di una banca svizzera, adesso viveva grazie al ricavato di una colletta organizzata dai suoi ammiratori in Gran Bretagna, America e Germania, un'iniziativa grazie alla quale poteva permettersi di ricevere ospiti con una certa larghezza. La soluzione a cui Marx fece ricorso per dissipare la «contrarietà» fu di mandare le figlie a trascorrere le vacanze estive a Bordeaux (naturalmente a spese di Engels) per poter lavorare alle bozze del Capitale senza interruzioni. Tutti i commenti di coloro che avevano avuto modo di dare un'occhiata a qualche brano dell'opera lo avevano indotto a credere che il giorno dopo la pubblicazione il suo nome sarebbe risuonato nell'intera Europa, procurandogli fama e onori. Come aveva detto Johann Georg Eccarius agli amici, «il Profeta in persona sta facendo pubblicare la quintessenza del suo sapere». Dopo settimane di lavoro, Marx terminò la revisione e la correzione delle bozze del primo libro del Capitale all'alba del 16 agosto e subito si precipitò a inviare un sentito ringraziamento al suo sostenitore: «Finito di correggere proprio ora l'ultimo foglio di stampa... Dunque questo volume è pronto. Debbo soltanto a te se questo è possibile! Senza il tuo sacrificio non avrei mai potuto compiere il mostruoso lavoro dei tre volumi. I embrace you, full of thanks [Ti abbraccio, pieno di gratitudine]. Salut, mio caro, caro amico!».” (pp. 256-257) “Seguendo l'esempio del padre, Eleanor cercava di calmare i nervi fumando una sigaretta dopo l'altra, un'abitudine abbastanza comune tra i letterati, ma in età vittoriana insolita e scandalosa per una ragazza beneducata e non ancora ventenne. Anche fra le rispettive malattie c'erano allarmanti coincidenze. La depressione di Tussy si manifestava con mal di testa, insonnia, accessi di bile e quasi tutti gli altri sintomi, tranne le eruzioni di foruncoli e ascessi, che Marx conosceva così bene. «Quello che né papà, né i medici, né nessun altro capisce è che quello che più di tutto mi fa soffrire è il rovello mentale» si lamentò Eleanor, singolare incomprensione da parte di un uomo che una volta aveva ammesso: «La mia malattia viene sempre dalla testa».” (p. 305) Genio e sregolatezza associate ad uno stile di vita per alcuni aspetti sorprendentemente borghese: è questa la formula che sinteticamente restituisce l'uomo tratteggiato da Wheen. Il quadro è abbastanza realistico, ma, in difetto di un'interpretazione atta a dare senso alle contraddizioni giunge ad evidenziare una sorta di dottor Jekill e mister Hyde. In realtà, la sregolatezza di Marx dipende in gran parte dalla sua precoce consapevolezza di disporre di doti intellettuali di gran lunga superiore alla media, dall'avere posto tali doti a servizio dell'umanità e dall'avere pagato prezzi oltremodo pesanti per tale scelta etica e politica. 2. La genialità di Marx è precoce al punto che uno dei suoi amici giovanili, Moses Hess, divenuto poi un feroce nemico, rimane folgorato dall'incontro e scrive ad un amico: "La comparsa di questa persona ha avuto su di me, che pure mi muovo nello stesso campo d'interessi, un effetto straordinario. Abituati pure a fare la conoscenza con il massimo, forse l'unico filosofo nel vero senso della parola oggi vivente… Il dottor Marx, così si chiama il mio idolo, è giovanissimo (avrà al massimo 24 anni), ma darà il colpo di grazia alla religione e alla politica medievali. Egli unisce alla più profonda serietà filosofica l'arguzia più tagliente. Immagina Rousseau, Voltaire, Holbach, Lessing, Heine, Hegel uniti in una persona (e dico uniti, non messi insieme alla rinfusa), e avrai Karl Marx." (p. 35). Con rare eccezioni, un effetto simile Marx è destinato a produrlo in tutti coloro che lo conosceranno, anche nei nemici. Egli peraltro è assolutamente consapevole della sua superiorità intellettuale. Questa consapevolezza gioca un ruolo importante sia nella vita che nella stesura delle opere. Essa infatti orienta Marx a disprezzare tutti coloro che non sono alla sua altezza, tanto più se essi pretendono di misurarsi con lui o di sfidarlo. Marx ha una capacità critica corrosiva, che spesso indulge all'iperbole. Le sue polemiche con Proudhon prima e con Bakunin poi sono al vetriolo. Ciò non significa che egli sia presuntuoso o narcisista. Allorché, come accade con l'opera di Darwin, riconosce il timbro della genialità, Marx è in grado di apprezzarla e di tributare ad essa l'onore dovuto. La consapevolezza di essere un genio incide in maniera molteplice sull'opera di Marx. Per un verso essa lo orienta a nutrire una fiducia cieca nelle sue intuizioni. Il nucleo essenziale di queste intuizioni, che concerne il carattere transitorio del capitalismo, minato intrinsecamente dal suo essere in opposizione ai bisogni sociali, è un filo rosso che, dall'epoca dei Manoscritti economico-filosofici, non cederà mai il campo al dubbio che il sistema capitalistico possa durare indefinitamente. Tutta l'opera di Marx si basa su questa previsione, che è di ordine morale in quanto sottolinea l'ingiustizia sociale intrinseca al sistema capitalistico. Marx però non tollera l'idea che la rivoluzione debba fondarsi su ragioni sostanzialmente etiche. Da ciò nasce la necessità di dimostrare che essa ha un fondamento scientifico: in breve, che il capitalismo è destinato ad essere soppiantato dal comunismo in conseguenza delle sue irrimediabili contraddizioni, la più clamorosa delle quali è lo scarto tra l'esigenza di sviluppo illimitato della produzionee i vincoli opposti dall'iniqua distribuzione della ricchezza al consumo. Questa contraddizione è la matrice delle crisi cicliche del capitalismo che sono crisi di sovraproduzione. Il determinismo di Marx, nella misura in cui assegna alla storia un fine destinato inesorabilmente a realizzarsi, è criticabile, in sé e per sé e alla luce degli sviluppi del capitalismo che ha rivelato una flessibilità che nel capitale è negata. Ciò non significa che l'analisi di Marx del sistema capitalistico è fondamentalmente errata. Wheen, che non dichiara mai il proprio credo politico, su questo punto è molto più efficace di tanti critici di Marx anche famosi. Una citazione estesa è obbligatoria: "Un'obiezione più sofisticata, avanzata dal filosofo Karl Popper, sostiene che non si può affermare se Marx abbia scritto o no delle sciocchezze perché le "ferree leggi" dello sviluppo capitalistico da lui propugnate sarebbero soltanto profezie non condizionali a carattere storico, altrettanto vaghe e sfuggenti delle quartine di Nostradamus; pertanto, a differenza delle vere e proprie ipotesi scientifiche, non possono essere né dimostrate né falsificate, il cietrio fondamentale di controllo della filosofia popperiana. "Le usuali previsioni della scienza hanno carattere condizionale" sostiene infatti Popper. "Esse asseriscono che certi mutamenti (per esempio della temperatura dell'acqua in un bricco) saranno accompagnate da altri mutamenti (l'ebollizione dell'acqua)". In realtà sarebbe facile sottoporre le affermazioni economiche marxiane a un esperimento del genere semplicemente studiando ciò che è avvenuto in pratica nell'ultimo secolo. Secondo le sue predizioni, una volta raggiunta la maturità, il capitalismo avrebbe dato luogo a periodiche recessioni, accompagnate da una crescente dipendenza dalla tecnologia e dalla crescita di grandi società a carattere quasi monopolistico, pronte ad allunagre i loro viscidi tentacoli sul mondo intero alla ricerca di nuovi mercati da sfruttare. Se non fosse successo niente di tutto questo, saremmo costretti a convenire che il vecchio ragazzo aveva scritto solo fandonie. Ma il succedersi di periodi di boom economici e di fasi recessive che per tutto il XX secolo ha caratterizzato i paesi occidentali, nonché la penetrazione mondiale della Microsoft di bill gates sembrano indicare altrimenti. Può darsi, concedono i critici di Marx, ma non dimentichiamoci che egli sostenne anche la teoria del "progressivo immiserimento" del proletariato… L'economista Paul Samuelson ha dichiarato che si può tranquillamente ignorare l'intera opera di Marx in quanto l'impoverimento dei lavoratori "semplicemente non si è verificato", e poiché L'Economia di Samuelson è stato il testo universitario di cui si sono nutrite intere generazioni di universitari sia in Gran Bretagna sia in America, il suo punto di vista è divenuto una verità acquisita. Ma si tratta di un mito, che si fonda su di un'errata interpretazione della "legge generale dell'accumulazione capitalistica" contenuta nel XXIII capitolo del primo libro del Capitale. Scrive Marx:"Il pauperismo costituisce una condizione d'esistenza della produzione capitalistica e dello sviluppo della ricchezza. Esso rientra nei faux frais (spese accessorie) della produzione capitalistica, che però il capitale sa respigere in gran parte da sé addossandoli alla classe operaia e alla piccola classe media". Dal contesto tuttavia si evince che non si sta parlando della pauperizzazione dell'intero proletariato, bensì del "sedimento più basso" della società: disoccupati, reietti, malati, vedove e orfani. Sono loro i fauz frais che devono essere pagati dalla classe operaia e dalla piccola classe media". Qualcuno può forse sostenere che nel mondo odierno questa classe non esista più?.. Ciò che Marx previde fu il fatto che entro il sistema capitalistico vi sarebbe stata una diminuzione dei salari relativa, non assoluta. Si tratta di una verità palmare: a fronte di un aumento del plusvalore pari al venti per cento, saranno ben poche le imprese, ammesso che esistano, pronte a consegnare l'intero bottino alla forza-lavoro sotto forma di un aumento salariale del venti per cento. Pertanto il lavoro perde continuamente terreno rispetto al capitale… "Ne consegue che nella misura in cui si accumula, la situazione dell'operaio, qualunque sia la sua retribuzione, alta o bassa, deve peggiorare."" (pp. 256-258) A queste considerazioni già interessanti, che contestano la frettolosità delle esequie tributate a Marx dai sostenitori del capitalismo, se ne aggiungono altre di significato ancora più profondo. Ne Il mondo stregato ho sostenuto che la denuncia di Marx non riguardava solo la distribuzione del reddito, ma la condizione umana di alienazione intrinseca al sistema capitalistico, e tale da investire tutte le fasce sociali. Il mondo stregato dal capitalismo è un mondo caratterizzato da un grado rilevante di disumanità e di rozzezza psicologica e interpersonale. Wheen conferma questo aspetto, che è del massimo interesse: "La definizione che Marx dà della povertà, come del resto quella che ne dà Cristo, è di carattere spirituale oltre che economico. A che giova guadagnare il mondo intero se si perde l'anima?.. Come ammette Leszek Kolakowski, uno dei più influenti estensori di necrologi del marxismo, "in generale, bisogna osservare che il pauperismo fisico non costituiva, agli occhi di Marx, una premessa né per la sua analisi della disumanizzazione nel sistema del lavoro salariato, né per le previsioni riguardant l'inevitabie rovina del capitalismo". Proprio così. Tuttavia, più avanti lo stesso Kolakowski ignora tale avvertimento e va aggiunegre un altro pesso di formaggio nella vecchia trappola per topi di Karl Popper. "in quanto interpretazione dei fenomeni economici, la teoria del valore di Marx non adempie ai comuni requisiti delle teorie scientifiche, in particolare a quello della falsificabilità". Certo che no: non esistono infatti cartine di tornasole, microscopi elettronici o programmi informatici in grado di individuare la presenza di elementi poco tangibili come l'estraniazione o la degradazione morale". Se si tiene conto che Wheen non è di certo un marxista, né dichiarato né implicito, si può misurare maggiormente l'onestà intellettuale del suo libro. Che si tratti semplicemente di un lettore attento, e quindi sensibile alla genialità di Marx, si ricava anche dalla chiave di lettura che egli offre del Capitale. Non si tratta a suo avviso di un trattato di economia, che volendo Marx avrebbe potuto tranquillamente scrivere, né di un libro scientifico secondo la maldestra vulgata ortodossa, bensì di un'opera il cui intento ultimo è affrancare le coscienze dal ricatto delle apparenze, in conseguenza del quale la realtà storica viene percepita come una realtà naturale, e che per raggiungere tale intento utilizza uno stile singolare nel quale i sillogismi, i paradossi, i voli metafisici, le ipotesi, le spiegazioni sono sottese e circonfuse da un velo d'ironia. Scrive Wheen: "Per rendere onore alla folle logica del capitalismo, Marx dissemina il testo, talvolta lo inonda addirittura, di ironia, un'ironia che è sfuggita a quasi tutti i lettori per oltre un secolo." (p. 265). L'osservazione va completata solo aggiungendo che, laddove viene meno l'ironia, è l'indignazione a prevalere: una sacra indignazione per uno stato di cose che Marx ritiene del tutto irrispettoso in rapporto alla dignità dell'uomo, che egli ritiene un valore assoluto. L'onestà intellettuale di Wheen si può ricavare facilmente dalle seguenti citazioni, raccolte dalla dott.ssa Lisa Cecchi, che riguardano le opere principali di Marx: La questione ebraica “Marx era forse un ebreo antisemita? Sebbene non abbia mai negato le proprie origini ebraiche, non le ha mai neppure sottolineate differenza di sua figlia Eleanor, che una volta informò orgogliosamente gli operai dell'East End londinese di essere «una giudea»). Le lettere che scrisse a Engels negli ultimi anni della sua vita pullulai di violenti insulti antisemiti: il socialista tedesco Ferdinand Lassalle, sua frequente vittima, viene variamente descritto come Yid, Wily Ephraim, Itzig e negro ebreo. «Adesso vedo con perfetta chiarezza che egli, come dimostrano anche la conformazione della sua testa e la chioma, discende dai negri che si unirono all'esodo di Mosè dall’Egitto, a meno che poi sua madre o la sua nonna paterna non si sia incrociata con un negro» scrisse Marx nel 1862 a proposito di un argomento per lui sempre interessante, gli antenati di Lassalle. «Ora, questa mescolanza di giudaismo e germanesimo con un fondo negro debbono dare un bizzarro prodotto. La molesta insistenza del garzoncello è pure di marca negra.» Anche alcuni brani della Questione ebraica sono egualmente pesanti se letti fuori contesto, come avviene di solito. Qual è il fondamento mondano del giudaismo? Il bisogno pratico, l'egoismo. Qual è il culto mondano dell'ebreo? Il traffico. Qual è il suo Dio mondano? Il denaro. Noi riconosciamo dunque nel giudaismo un universale elemento attuale antisociale, il quale, attraverso lo sviluppo storico cui gli ebrei per questo lato cattivo hanno collaborato con zelo, venne sospinto fino al suo presente vertice, un vertice sul quale deve necessariamente dissolversi. L'emancipazione degli ebrei nel suo significato ultimo è l'emancipazione dell'umanità dal giudaismo. I critici che vedono in queste parole un'anticipazione dell'hitleriano Mein Kampf trascurano un punto essenziale, e cioè il fatto che, malgrado l'infelice frasario e i rozzi stereotipi, il saggio voleva essere una difesa degli ebrei. Era nato infatti come replica a Bruno Bauer, il quale aveva sostenuto che non andavano concessi pieni diritti civili e libertà agli ebrei, a meno che non si sottoponessero al battesimo, diventando in tal modo cristiani. Benché Bauer ostentasse il proprio ateismo, o forse proprio per questo, egli riteneva che la religione cristiana rappresentasse, rispetto all'ebraismo, uno stadio più avanzato della civiltà, e quindi fosse di un passo più avanti nel percorso verso la gioiosa fase di liberazione che sarebbe inevitabilmente seguita alla distruzione di tutte le religioni: un po' come il becchino che, fra i candidati a diventare suoi prossimi clienti, concede all'ubriacone malfermo sulle gambe qualche chance in più che alla locale reginetta di bellezza”. (pp. 50-51) Per la critica della filosofia del diritto di Hegel: "Posizioni analoghe emergono anche nell'altra opera di grande respiro su cui iniziò a lavorare nell'estate del 1843, poco dopo la luna di miele: Per la critica della filosofia del diritto di Hegel. Introduzione (opera completata a Parigi qualche mese dopo e pubblicata nella primavera del 1844). Benché il titolo possa suonare familiare solo agli iniziati, in realtà il saggio divenne tanto famoso quanto ignoto ai più rimase lo scritto sull'ebraismo. Ancor oggi, molte persone che pure non hanno mai letto una riga di Marx amano citare l'aforisma ivi contenuto sulla religione come oppio dei popoli. Ed è effettivamente una delle sue metafore più efficaci, probabilmente ispirata da quella «guerra dell'oppio» che, tra il 1839 e il 1842, vide schierate - l'una contro l'altra armate - Inghilterra e Cina. Ma quanti ripetono pappagallescamente le parole marxiane le hanno davvero capite? Grazie a coloro che, in Unione Sovietica, si sono autoproclamati interpreti ufficiali del marxismo e si sono impadroniti dell'aforisma marxiano per giustificare le persecuzioni dei credenti, di solito alla frase si attribuisce il significato che la religione è una droga somministrata dai malvagi governanti per mantenere le masse in uno stato letargico, in una sorta di quiescenza confusionale. L'affermazione di Marx era però più sottile e aveva un carattere più generale. Benché egli insistesse sul fatto che «la critica della religione è il presupposto di ogni critica», nondimeno capiva gli impulsi di tipo religioso: i poveri e gli infelici, che non si aspettano alcuna gioia su questa terra, possono ben scegliere di consolarsi con la promessa di una vita migliore nell'aldilà; e siccome lo Stato non ascolta le loro grida e le loro suppliche, perché non appellarsi a un'autorità ancora più potente, la quale ha promesso che nessuna preghiera resterà inascoltata? La religione era dunque vista non solo come sostegno e giustificazione dell'oppressione, ma anche come possibile conforto: «La miseria religiosa è insieme l'espressione della miseria reale e la protesta contro la miseria reale. La religione è il sospiro della creatura oppressa, il sentimento di un mondo senza cuore così come è lo spirito di una condizione senza spirito. E l'oppio dei popoli». Molto eloquente, senza dubbio. In altri punti del saggio, tuttavia, questa facilità verbale scivola di tanto in tanto nel gusto fine a se stesso di giocare con le parole o, per essere franchi, con la volontà di mettersi in mostra a tutti i costi. Ecco la parte su Martin Lutero e la Riforma: Egli ha spezzato la fede nell'autorità, restaurando l'autorità della fede. Egli ha trasformato i preti in laici, trasformando i laici in preti. Egli ha liberato l'uomo dalla religiosità esteriore, facendo della religiosità l'interiorità dell'uomo. Egli ha emancipato il corpo dalle catene, ponendo in catene il cuore. E quella sulla differenza tra Francia e Germania: In Francia è sufficiente che uno sia qualcosa perché voglia essere tutto. In Germania non si può essere qualcosa se non si rinuncia a tutto. In Francia l'emancipazione parziale è il fondamento di quella universale. In Germania l'emancipazione universale è conditio sine qua non di ogni emancipazione parziale. Dopo alcuni paragrafi di simili fuochi d'artificio, nasce il sospetto che la brillante esposizione sia diventata il fine, non più soltanto un mezzo. Limitarsi a sottolineare gli eccessi stilistici di Marx, tuttavia, significa non cogliere un aspetto molto importante della sua personalità: infatti i suoi vizi erano anche le sue virtù, manifestazioni di una mente dedita a paradossi e inversioni, antitesi e chiasmi. Talvolta questo zelo dialettico produceva vuota retorica, ma in genere portava a sorprendenti intuizioni. Marx non dava mai nulla per scontato, rivoltava tutto da cima a fondo, assetto sociale compreso”. (pp. 52-53) Manoscritti economico-filosofici del 1844 "Le opere di Marx sono state spesso bollate come «rozzamente dogmatiche», generalmente da persone che danno l’impressione di non averle mai lette. Per questi critici estemporanei, tra cui l’attuale primo ministro inglese Tony Blair, sarebbe un utile esercizio studiare i Manoscritti del ’44, che rivelano il lavoro di una mente instancabilmente curiosa, sottile e nient’affatto dogmatica”. (p. 61) “Per Marx, invece, il lavoro alienato non è l'eterno e inevitabile problema della coscienza umana, bensì il risultato di una forma specifica di organizzazione economica e sociale. Per esempio, una madre non è automaticamente estraniata dal proprio bambino nel momento in cui lo dà alla luce, anche se il parto è senza dubbio un esempio di ciò che Hegel chiama «estraneazione»; tuttavia, essa si sentirebbe alienata se, dopo ogni parto, il neonato urlante le fosse immediatamente sottratto da qualche moderno Erode. Questa è, più o meno, l'esperienza quotidiana cui sono sottoposti i lavoratori, costretti a produrre senza sosta ciò che non possono tenere per sé: non c'è da meravigliarsi del fatto che si sentano meno che umani. Come osserva Marx con un suo tipico paradosso: «Il risultato è che l'uomo (il lavoratore) si sente libero ormai soltanto nelle sue funzioni bestiali, nel mangiare, nel bere, nel generare, tuffai più nell'aver una casa, nella cura corporale ecc., e che nelle sue funzioni umane si sente solo più una bestia». Qual era l'alternativa? All'epoca in cui scrisse i Manoscritti del '44, Marx aveva già sviluppato non solo un formidabile talento nell'individuare le carenze strutturali della società - l'umidità crescente, i legni marci, le travi che non riuscivano a sostenere il peso sovrastante -, ma anche la capacità di spiegare perché ci fosse urgente bisogno del maglio demolitore”. (p. 65) L'Ideologia tedesca "Il libro inizia con una delle classiche generalizzazioni di Marx tese a catturare l'attenzione: «Finora gli uomini si sono sempre fatti idee false intorno a se stessi, intorno a ciò che essi sono o devono essere». Segue un altro dei suoi trucchi preferiti, la parabola provocatoria: Una volta un valentuomo si immaginò che gli uomini annegassero nell’acqua perché ossessionati dal pensiero della gravità. Se si fossero tolti di mente questa idea, dimostrando per esempio che era un'idea superstiziosa, un'idea religiosa, si sarebbero liberati dal pericolo di annegare. Per tutta la vita costui combatté l'illusione della gravità, delle cui dannose conseguenze ogni statistica gli offriva nuove e abbondanti prove. Questo valentuomo era il tipo del nuovo filosofo rivoluzionario tedesco. A parere di Marx, siffatti pensatori erano assai simili a pecore «che si credono lupi» e che «altro non fanno che tener dietro, con i loro belati filosofici, alle idee dei borghesi tedeschi». Una di queste pecore era lo stesso Feuerbach, la cui concezione del mondo sensibile era limitata «da una parte alla semplice intuizione di esso, e dall'altra alla pura sensazione». Non riusciva perciò a vedere come anche gli oggetti naturali più semplici siano in realtà un prodotto delle circostanze storiche. Per esempio, «è noto che il ciliegio, come quasi tutti gli alberi da frutta, è stato trapiantato nella nostra zona pochi secoli or sono grazie al commercio, e perciò soltanto grazie a questa azione di una determinata società in un determinato tempo esso fu offerto alla "certezza sensibile" di Feuerbach». Per questi, invece, il ciliegio era semplicemente dato, uno dei tanti doni altruistici della natura. Curiosamente, benché il libro fosse stato concepito come una resa dei conti con Feuerbach, a lui erano riservati soltanto un paio di brevi capitoli; anche Bruno Bauer - San Bruno - veniva liquidato con altrettanta rapidità. Trecento pagine del tutto illeggibili erano invece dedicate alle spericolate idee di Max Stirner, un Giovane hegeliano anarchico secondo cui un egoismo esasperato e l'indulgere alle proprie passioni avrebbero liberato gli individui dalla loro immaginaria oppressione. Benché il credo esistenzialista di Stirner meritasse di ricevere una qualche punizione, un rapido affondo sarebbe stato di gran lunga più efficace della sarcastica verbosità di Marx, la quale, peraltro, aveva molti aspetti in comune con l'autocompiaciuto egoismo propugnato dallo stesso Stirner. Nonostante le lungaggini, L'ideologia tedesca rappresenta un resoconto assai rivelatore di quanto il ventisettenne Marx aveva appreso nel corso delle sue incursioni in campo filosofico e politico. Dopo aver ripudiato Dio, Hegel e Feuerbach in rapida successione, era ormai pronto a rivelare l'abbozzo della nuova teoria pratica, ovvero pratica teorica, da lui elaborata insieme a Engels, altrimenti nota come «materialismo storico»: «I presupposti da cui muoviamo non sono arbitrari, non sono dogmi; sono presupposti reali, dai quali si può astrarre solo nell'immaginazione. Essi sono gli individui reali, la loro azione e le loro condizioni materiali di vita ... Questi presupposti sono dunque constatabili per via puramente empirica». Mentre Feuerbach aveva sostenuto che l'uomo è ciò che mangia, Marx ed Engels affermavano con forza che l'uomo è ciò che produce e come lo produce”. (pp. 82-83) Manifesto del Partito Comunista "Liebknecht non giocò mai più a scacchi con Marx, ma la sua descrizione della tecnica marxiana - «cercava di sopperire alla mancanza di abilità con la foga, l'impeto dell'attacco e la sorpresa» - può ben essere applicata anche al Manifesto del partito comunista. Re, regine, alfieri e cavalli prima o poi sarebbero stati costretti a capitolare di fronte alla tenace determinazione degli sfidanti. Analogamente alla «nuova mossa» di cui Marx andava tanto fiero, il Manifesto era un'arma con cui prendersi la rivincita contro avversari compiaciuti della propria superiorità, un'arma forgiata durante notti insonni trascorse a covare rabbia. I suoi detrattori odierni, parimenti autocompiaciuti, sono pertanto fuori strada: qualsiasi testo scritto negli anni Quaranta dell'Ottocento conterrà comunque dei brani che oggi possono sembrare sa po' strani o datati (lo stesso potrebbe dirsi di tanti manifesti elettorali di partito o articoli di fondo pubblicati solo uno o due anni fa). Il Manifesto non fu mai concepito come un testo sacro dotato di validità eterna, anche se generazioni di discepoli talvolta l'hanno trattato cerne tale. Lo stesso primo paragrafo, con i riferimenti a Metternich Guizot e lo zar, sottolinea il fatto che si tratta di un bene deperibile scritto in un momento specifico con uno scopo altrettanto specifico, senza badare alla posterità”. (p.106) Rivendicazioni del partito comunista in Germania "Ciò di cui aveva bisogno la rivoluzione tedesca, argomentava Marx, non era un reggimento di poeti e professori che brandivano baionette di seconda mano, bensì un'incessante opera dì agitazione e propaganda. Non appena Engels lo raggiunse a Parigi, il 21 marzo, stesero insieme un volantino intitolato Rivendicazioni del partito comunista in Germania, rapidamente ristampato dai giornali democratici di Berlino, Treviri e Dusseldorf. Un critico odierno ha affermato che questo programma in diciassette punti era «studiato per intimidire la borghesia», ma in realtà era ben lungi dall'avere uno scopo del genere: dal momento che la Germania non aveva un proletariato degno di questo nome, Marx si rendeva conto che la prima fase della sua campagna doveva puntare a una rivoluzione di stampo borghese. Dal suo punto di vista, le «rivendicazioni» erano dunque sorprendentemente moderate, e infatti comprendevano solo quattro dei dieci punti previsti dal Manifesto del partito comunista: imposte progressive sul reddito, istruzione gratuita, proprietà statale di tutti i mezzi di trasporto e creazione di una banca di Stato. Per meglio sottolineare le proprie intenzioni, Marx aggiunse che la banca di Stato avrebbe sostituito le monete di metallo con cartamoneta, riducendo in tal modo il prezzo del mezzo generale di scambio e liberando oro e argento da utilizzare nel commercio estero. Scrisse infatti: «Questa misura è infine necessaria per legare alla rivoluzione gli interessi della borghesia conservatrice». Ma vi erano anche altre importanti concessioni. Mentre il Manifesto aveva propugnato «l'abolizione del diritto di eredità» (il che non aveva peraltro impedito allo stesso Marx di accettare i seimila franchi lasciatigli dal padre), le Rivendicazioni si limitavano a proporre una limitazione del diritto di successione»; inoltre, laddove il Manifesto aveva proposto la nazionalizzazione di tutte le terre, qui la medesima misura veniva auspicata solo per «le terre dei principi e le altre proprietà terriere feudali». Marx arrivò persino a corteggiare i contadini e i piccoli affittuari, che peraltro in cuor suo disprezzava, offrendo loro contratti ipotecari garantiti dallo Stato («le ipoteche sui fondi contadini sono dichiarate proprietà di stato»), assistenza legale gratuita e deunitiva abolizione di tutte le decime e gli oneri feudali. Per constatare la moderazione di queste Rivendicazioni del partito comunista, basta osservare che molte di esse - tra cui il suffragio universale, la remunerazione dei rappresentanti del popolo e la trasformazione della Germana in «repubblica una e indivisibile» - sono state accettate in seguito da governi le cui credenziali capitalistiche sono fuori discussione”. (p. 111) Grundrisse "I Grundrisse, come vengono solitamente chiamati, sono un'opera frammentaria, talvolta incoerente, descritta dallo stesso Marx come un vero e proprio guazzabuglio. Costituiscono tuttavia l'anello mancante tra i Manoscritti economico-filosofici del 1844 e il primo libro del evitale (1867) e, come tali, dissipano quantomeno la diffusa convinzione secondo cui esisterebbe una «rottura radicale» tra il pensiero del giovane Marx e quello del Marx maturo. Il vino invecchia e migliora stando in bottiglia, ma sempre vino rimane. Nel testo compaiono lunghe sezioni dedicate all'alienazione, alla dialettica e al significato del denaro, che riprendono il discorso dal punto in cui era stato interrotto nei Manoscritti) la differenza che più colpisce sta nel fatto che qui filosofia ed economia sono fuse insieme, mentre in precedenza erano trattate in successione. (Per usare le parole di Lassalle, il loro autore era «Hegel fattosi economista, Ricardo diventato socialista».) In altri punti, l'analisi della forza-lavoro e del plusvalore anticipano l’esposizione di queste teorie che verrà fatta nel Capitale.” (p. 195) Per la critica dell'economia politica "Gli stessi problemi teorici con cui si era scontrato in precedenza si fecero improvvisamente limpidi e tonificanti come un bicchiere di gin. Si prenda per esempio la questione delle rendite agricole, ovvero la «porcheria della rendita fondiaria», come lui stesso preferiva chiamarla. «Da lungo tempo avevo misgivings [dubbi] sulla piena giustezza della teoria ricardiana e finalmente ho trovato l'inganno.» Ricardo aveva semplicemente confuso il valore con il prezzo di costo: nell'Inghilterra vittoriana i prezzi dei prodotti agricoli erano più alti del loro effettivo valore (cioè del tempo di lavoro in essi incorporato), con la conseguenza che il proprietario terriero intascava la differenza sotto forma di utili più elevati. Nel socialismo, invece, questo surplus sarebbe stato redistribuito a beneficio dei lavoratori e quindi, anche se il prezzo di mercato fosse rimasto lo stesso, il valore dei beni - il loro «carattere sociale» - sarebbe mutato drasticamente. Marx era così compiaciuto di questo passo in avanti che talora si lasciava sopraffare dall'ottimismo: così avvenne, per esempio, alla fine del 1862, quando gli scrisse un medico di Hannover, Ludwig Kugelmann, per sapere se ci sarebbe stato un seguito a Per la critica dell'economia politica. «Mi ha fatto molto piacere vedere dalla Sua lettera che Lei e i Suoi amici prendono interesse così vivo alla mia "Critica dell’economia politica"» gli rispose Marx immediatamente. «La seconda parte è ora finalmente pronta, cioè fino alla sua trascrizione in bella copia e all'ultima rilettura per la stampa.» Concludeva con un invito: «Mi farà piacere se, all'occasione, Lei mi scriverà sulla situazione in patria». Fu questo l'inizio di un'amichevole corrispondenza che durò oltre dieci anni, finché Marx decise di punto in bianco che non voleva aver più nulla a che fare con quel «pedante filisteo». Ovviamente, il manoscritto era ben lungi dall'essere completato: era ancora necessario parecchio lavoro di falegnameria prima che fosse pronto per la «lucidatura finale». Nondimeno, rappresentava la grezza intelaiatura su cui venne edificato il grande capolavoro barocco destinato a vedere la luce nel 1867. Venne anche abbandonato il goffo titolo provvisorio che l'aveva contraddistinto fino a quel momento: Per la critica dell'economia critica. Volume secondo. Poiché, in base a una strana logica, per Marx i libri voluminosi meritavano un titolo breve, il libro, come rivelò per la prima volta nella stessa lettera a Kugelmann, «compare come opera a sé sotto il titolo Il Capitale».” (pp. 222-223) Il Capitale "Se Marx avesse voluto redigere un vero e proprio trattato di economia classica invece di un'opera d'arte, lo avrebbe fatto. In realtà sono due conferenze tenute nel giugno 1865, e più tardi pubblicare con il titolo di Salario, prezzo, profitto, a fornirci un lucido e concise sommario delle conclusioni a cui era giunto: Poiché i valori di scambio delle merci non sono che funzioni sociali di queste e non hanno niente a che fare con le loro proprietà naturali, dobbiamo innanzi tutto chiederci: qual è la sostanza sociale comune a tutte le merci? È il lavoro. Per produrre una merce bisogna impiegarvi o incorporarvi una quantità determinata di lavoro, e non dico soltanto di lavoro, ma di lavoro sociale. L'uomo che produce un oggetto per il suo proprio uso immediato, per consumarlo egli stesso, produce un prodotto, ma non una merce ... Una merce ha un valore perché è una cristallizzazione di lavoro sociale ... Preso in se stesso il prezzo non è altro che la espressione monetaria del valore ... Ciò che l'operaio vende non è direttamente il suo lavoro, ma la sua forza-lavoro, che egli mette temporaneamente a disposizione del capitalista... Supponiamo ora che la produzione della quantità media di effetti correnti necessari alla vita di un operaio richieda sei ore di lavoro medio. Supponiamo inoltre che sei ore di lavoro medio siano incorporate in una quantità d'oro uguale a tre scellini. In questo caso tre scellini sarebbero il prezzo o l'espressione monetaria del valore giornaliero della forza-lavoro di quell'uomo... Pagando il valore giornaliero o settimanale della forza-lavoro del filatore, il capitalista ha acquistato il diritto di usare questa forza-lavoro per tutto il giorno o per tutta la settimana. Perciò, egli lo farà lavorare, supponiamo, dodici ore al giorno... Il capitalista dunque, anticipando tre scellini, otterrà un valore di sei scellini, perché, anticipando un valore in cui sono cristallizzate sei ore di lavoro, egli ottiene, invece, un valore in cui sono cristallizzate dodici ore di lavoro. Se ripete questo processo quotidianamente, il capitalista anticipa ogni giorno tre scellini e ne intasca sei, di cui una metà sarà nuovamente impiegata per pagare nuovi salari, e l'altra metà formerà il plusvalore, per il quale il capitalista non paga nessun equivalente. È su questa forma di scambio tra capitale e lavoro che la produzione capitalistica o il sistema del salario è fondato, e che deve condurre a riprodurre continuamente l'operaio come operaio e il capitalista come capitalista. Quali che siano i meriti di questa analisi economica, resta comunque il fatto che è comprensibile anche da parte di qualsiasi bambino intelligente: nessuna traccia di metafore elaborate o considerazioni metafisiche, niente digressioni che rischiano di confondere le idee, niente ampollosità filosofiche o infiorettature letterarie. Perché allora Il Capitale, che grosso modo si occupa degli stessi argomenti, è invece così diverso nello stile? Forse Marx aveva perso all'improvviso la capacità di parlare in modo semplice e chiaro? Evidentemente no, anche perché nello stesso periodo in cui tenne queste conferenze stava completando il primo libro del Capitale. Una possibile spiegazione è rintracciabile in una delle poche analogie che si concesse in Salario, prezzo, profitto, e precisamente laddove spiega la propria teoria secondo la quale i profitti derivano dalla vendita delle merci al loro valore «reale» e non, come si potrebbe credere, dall'aggiunta di un sovrapprezzo. Scrive infatti Marx: «Ciò sembra un paradosso e in contraddizione con l'esperienza quotidiana. È anche un paradosso che la terra gira intorno al sole e che l'acqua è costituita da due gas molto infiammabili. Le verità scientifiche sono sempre paradossi quando vengono misurate alla stregua dell'esperienza quotidiana, la quale afferra solo l'apparenza ingannevole delle cose».” (pp. 260-261) “Le assurdità rintracciabili nel Capitale, di cui si sono prontamente impossessati coloro che desiderano far passare Marx per uno scrittore perlomeno stravagante, riflettono in realtà la follia insita nell'argomento, non nell'autore. Si tratta di una constatazione ovvia fin quasi dalle prime pagine, quando Marx si immerge in una sfrenata e via via sempre più surreale meditazione sul rapporto di valore tra un abito e venti braccia di tela.” (p. 264) “Come giustamente osserva Wilson, le astrazioni teoriche marxiane - il balletto delle merci, i contorcimenti della logica - rispondono soprattutto a uno scopo ironico, di contrapposizione alla miseria e al sudiciume creati dall'operare delle leggi capitalistiche. «Le formule apparentemente impersonali che Marx espone con tanta scientifica precisione si risolvono (come egli stesso ci ricorda di quando in quando) nel semplice significato del soldo sottratto alla tasca dell'operaio, del sudore spremuto dal suo corpo, delle semplici gioie negate alla sua anima» prosegue Wilson. «Nel competere coi professoroni di scienze economiche, Marx ha scritto qualcosa che si avvicina a una parodia.» Alla fine, però, anche Wilson non riesce a seguirne la trama e, solo poche pagine dopo aver innalzato Marx al pantheon dei geni satirici insieme a Swift, protesta per «la crudezza del movente psicologico che forma il substrato della visione del mondo di Marx» e si lamenta perché la teoria esposta nel Capitale «al pari della dialettica, è semplicemente una creazione del metafisico che in Marx non si è mai piegato all'economista». Si tratta di lamentele che non hanno neppure il pregio dell'originalità. Già alcuni critici tedeschi della prima edizione del Capitale, infatti, avevano accusato Marx di «sofisticheria hegeliana», un crimine del quale egli stesso si dichiarò felicemente colpevole. Come ricordò infatti nel poscritto alla seconda edizione tedesca, pubblicata nel 1873, lui stesso aveva criticato «il lato mistificatore della dialettica hegeliana» quasi trent'anni prima, «quando ancora era la moda del giorno». Prosegue Marx: «Ma proprio mentre elaboravo il primo volume del Capitale i molesti, presuntuosi e mediocri epigoni che ora dominano nella Germania colta si compiacevano di trattare Hegel... come un "cane morto". Perciò mi sono professato apertamente scolaro di quel grande pensatore, e ho perfino civettato qua e là, nel capitolo sulla teoria del valore, col modo di esprimersi che gli era peculiare». Questi amoreggiamenti dialettici che tanto offesero Edmund Wilson sono in realtà inscindibili dall'ironia che pure egli tanto apprezzava: entrambe le tecniche scompigliano la realtà apparente per mettere a nudo la verità che vi è nascosta. Sempre nel 1873, Marx scrisse: «I vociferatori sbrodoloni dell'economia volgare tedesca mi sgridano per lo stile e l'esposizione del mio lavoro. Nessuno giudicherà più severamente di me le manchevolezze letterarie del Capitale». Del resto, i critici di altri paesi, anche se ostili alle teorie che vi erano propugnate, ne riconobbero tuttavia i meriti stilistici. Commentò la «Saturday Review», una rivista londinese: «Nonostante le opinioni dell'autore siano a nostro avviso perniciose, non ci sono dubbi sulla plausibilità della sua logica e il vigore della sua esposizione, che conferisce un certo fascino particolare anche alle questioni economiche più aride». Dal canto suo la «Contemporary Review», pur sprezzante nei confronti dell'economia tedesca per motivi patriottici («non abbiamo l'impressione che Karl Marx abbia molto da insegnarci»), si complimentava con l'autore per non aver dimenticato «l'interesse umano, quell'interesse che scaturisce dal profondo e che sottostà alla scienza». Marx si sentì particolarmente gratificato da un annuncio comparso sulla «S.-P. Viedomosti» (Gazzetta di San Pietroburgo), che dopo aver lodato la «straordinaria vivacità della sua prosa, aggiungeva: «Da questo punto di vista l’autore non assomiglia… neppur da lontano alla maggioranza dei dotti tedeschi i quali… scrivono i loro libri in una lingua così ottenebrata e arida da farne scoppiare la testa ai comuni mortali».” (pp. 266-268) Il secondo indirizzo sulla guerra franco-prussiana "Se si rimane seduti sulla riva del fiume abbastanza a lungo, prima o poi si vedono passare i cadaveri dei propri nemici trascinati dalla corrente. Quasi vent'anni prima, Marx aveva reagito all'insediamento di quella nullità che portava il nome di Napoleone con Il diciotto brumaio di Luigi Bonaparte; adesso aveva il piacere di scriverne il necrologio. Il 9 settembre l'Internazionale diffuse il Secondo indirizzo sulla guerra, che iniziava con la compiaciuta affermazione: «Non ci siamo ingannati circa la vitalità del Secondo impero». Purtroppo però, continuava Marx, «non abbiamo nemmeno avuto torto nel nostro timore che la guerra tedesca "perdesse il suo carattere strettamente difensivo e degenerasse in una guerra contro il popolo francese"». Chiunque abbia presente il primo comunicato noterà che allora egli aveva negato una possibilità del genere e aveva anzi insistito sul fatto che l'eroica classe operaia tedesca l'avrebbe impedita. Nondimeno la campagna puramente «difensiva» si era conclusa con la capitolazione di Sedan e, davanti ai tedeschi che chiedevano l'annessione dell'Alsazia e della Lorena, Marx si era dunque affrettato a riscrivere la storia per evitare brutte figure. In ogni caso, non si dovrebbe essere troppo duri con il vecchio Marx: quel suo precedente tributo di fiducia nei confronti dell'autocontrollo teutonico era stato determinato dal prevalere della speranza sui dati dell'esperienza e in ogni caso, a parte questa notevole eccezione, i suoi vaticini erano stati sorprendentemente precisi. Che cosà sarebbe accaduto se la fortuna delle armi e l'arroganza del successe avessero condotto la Prussia a smembrare la Francia? Nel Secondo indirizzo Marx ammoniva che alla Germania rimanevano aperte sole due vie: «O dovrà diventare, a ogni rischio, strumento dichiarato dell’espansionismo russo o, dopo una breve tregua, si dovrà preparare di nuovo per una nuova guerra "difensiva", non una di quelle guerra "localizzate" di nuovo conio, bensì una guerra di razze, una guerra contro le razze alleate degli slavi e dei latini». Ancor più preveggente si dimostra una lettera inviata all'organizzatore dell'Internazionale in terra americana, Friedrich Adolph Sorge: «Quegli asini dei prussiani non si accorgono che l'attuale guerra conduce alla guerra tra Germania e Russia con la stessa necessità con cui la guerra del 1866 conduceva alla guerra tra Prussia e Francia... Inoltre questa guerra n. 2 farà anche da levatrice all'inevitabile rivoluzione sociale in Russia». Marx non visse tanto a lungo da vedere i drammatici eventi del 1917, ma di certo non ne sarebbe stato colto di sorpresa. A volte sembra che il suo sguardo arrivasse ancor più lontano: Se i confini devono essere determinati da interessi militari, le pretese non avranno mai termine, perché ogni linea militare è necessariamente difettosa e può venir migliorata con l'annessione di un territorio più avanzato; e oltre a ciò non potrebbe mai essere stabilita in un modo giusto e definitivo perché verrebbe sempre imposta dal vincitore al vinto, e quindi porterebbe sempre in sé il germe di nuove guerre. Quanti citano gli occasionali errori di giudizio di Marx come prova della sua miopia storica dovrebbero anche dirci se vi fu un altro pensatore vittoriano che seppe prevedere con tanta acutezza l'ascesa di Adolf Hitler.” (pp. 278-279) La guerra civile in Francia "La guerra civile in Francia si dimostrò una delle opere più esaltanti di Marx, dai toni decisamente troppo forti per i compassati sindacalisti inglesi Benjamin Lucraft e George Odger, i quali infatti rassegnarono le proprie dimissioni dal Consiglio generale non appena venne approvato il testo, con la motivazione che l'Internazionale non aveva il compito di immischiarsi nella politica. (Da quel momento in poi i due porteranno avanti le loro modeste ambizioni nell'ambito del buon vecchio partito liberale, che a quanto pare era visto come apolitico.) Le tremila copie delle prime due edizioni dell’opuscolo andarono esaurite nel giro di due settimane e furono seguite in breve tempo dalla versione tedesca e da quella francese. Forse il risultato più clamoroso raggiunto da Marx fu quello di aver fatto dimenticare alle fazioni rivali della sinistra le loro dispute interne, come del resto affermò la figlia Jenny: «La traduzione francese della Guerra civile esercita un'ottima influenza tra i profughi poiché accontenta nella stessa misura tutte le parti: blanquisti, proudhoniani e comunisti». L'opuscolo ebbe anche delle ricadute molto positive sulla notorietà di Karl Marx e della sua Associazione. I sostenitori dello statu quo non riescono mai a credere che la gente comune abbia la capacità o la voglia di metterlo in questione e pertanto ogni atto di disobbedienza civile o di aperta sfida è inevitabilmente seguito dalla caccia alla mano nascosta che dietro le quinte ne avrebbe tirato le fila, sia che si tratti di un unico «grande vecchio», sia di «un gruppo compatto di persone politicamente motivate».” (pp. 284-285) 3. Come risulta dai passi citati, l'analisi delle opere di Marx si può ritenere l'aspetto in assoluto più interessante del libro. La biografia - sia per quanto riguarda la vita pubblica che quella intellettuale e politica -, per quanto dettagliata e documentata, non aggiunge nulla di nuovo a quanto già non fosse noto. La personalità di Marx, eccezion fatta per l'estrema coerenza ideologica che si è mantenuta dalle intuizioni giovanili sino alla fine della vita, è un nodo di contraddizioni. Amante della famiglia, Marx ha sottoposta moglie e figlie ad una vita durissima, perennemente sul filo della precarietà e del disonore debitorio. Ossessivamente scrupoloso nel lavoro intellettuale, egli ha sempre preteso, in ultima analisi, di vivere di rendita, trovando nell'amico Engels un complice prezioso. Generoso e altruista, egli è stato implacabile con i nemici, i peggiori tra i quali sono state persone dapprima ingenuamente idealizzate. Sensibilissimo e autenticamente appassionato all'uomo, non si è astenuto dal privilegiare tattiche politiche incentrate sul cinismo e dall'avallare il principio per cui il fine giustifica i mezzi. Conscio del suo valore intellettuale, non ha mai gradito le critiche, se non quelle benevoli di Engels, e spesso ha avuto la tendenza ad imporre le sue idee. Date queste contraddizioni, la biografia di Marx può evocare ammirazione o rigetto. Wheen non fa nulla per celare quelle. Difende però animatamente Marx da una critica ricorrente e infamante, secondo la quale egli avrebbe strumentalizzato la classe operaia per perseguire ostinatamente il sogno di una rivoluzione che gli desse semplicemente ragione. Se Marx ha peccato in qualcosa è stato piuttosto nell'attribuire al proletariato una coscienza di classe netta e immune da ogni tentazione di compromesso. Ha idealizzato insomma piuttosto che strumentalizzato la classe operaia, e si è posto per tutta la vita al suo servizio, pagando, sul piano privato e pubblico, prezzi che pochi sarebbero stati disposti a pagare. Non fu un santo (né pretese mai di esserlo), bensì un eroe intellettuale. Il libro di Wheen, controcorrente, ha il pregio di sottolinearlo. |