salvatore VECA > Buongiorno, signor Marx. E, prima di tutto, un grazie di cuore per aver alla fine accettato l'intervista. Confesso che è stato molto faticoso, e a un certo punto mi sembrava fosse proprio una mission impossible. In ogni caso, come mi ha chiesto, ho predisposto una decina di domande. Ma, se è d'accordo, mi piacerebbe cominciare con una sua battuta.
karl marx > Se lei è convinto che sia una buona idea, la mia battuta preferita resta: Je ne suis pas marxiste. Mi ci sono proprio affezionato, perché in fondo mi è servita in molte circostanze imbarazzanti. E di circostanze imbarazzanti, com'è noto, ne ho vissute più d'una nelle mie vite. Una delle ragioni del ritardo e del laborioso lavoro per arrivare alla sua intervista è appunto legata a circostanze francamente imbarazzanti. Mi creda, negli ultimi due anni ho cominciato a ricevere una richiesta quotidiana di interviste. Mi sono dovuto documentare e ho scoperto che il mio faccione è tornato in giro per il mondo. Uno spettro s'aggira per il mondo e ha il nome di Marx. Di Karl,
non di Groucho, per intenderci. Ma sulla faccenda degli spettri dovremo tornarci; ho studiato a fondo la scaletta che mi ha mandato. Il punto è che era un bel po' di decenni che non mi capitava qualcosa del genere. Fra anni settanta e anni ottanta del Novecento i critici critici avevano decretato la mia damnatio memoriae. Ero diventato il cane morto, io che ero stato per la maggior parte dei futuri censori una specie di san Karl. Non parliamo poi della manciata di anni che ci dividono dall'implosione dell'impero sovietico e dal crollo murario berlinese. Devo confessare che la cosa all'inizio mi aveva molto irritato. Poi mi son detto: non ti curar di lor, ma guarda e passa, e ho continuato a scavare nel guazzabuglio del presente. A scavare come la vecchia cara talpa, per ridisegnare la mappa delle contraddizioni e delle faglie sismiche del sistema del capitale ormai globale e senza frontiere, in cui si radicavano e si radicano la teoria e la pratica delle transizioni e dei passaggi a un altro mondo possibile. Certo, so bene che c'erano i lacchè del capitale globale, del Gesamtkapital, che naturalmente parlavano di fine della storia. 0 quelli che si inventavano il conflitto tra le civiltà, roba che puzza lontano un miglio di oppio dei popoli da ventunesimo secolo. Possibile che nessuno, dico praticamente nessuno, si rendesse conto che proprio in quel passaggio affondano le loro radici la grande crisi economica e lo tsunami finanziario che, come un'onda lunga, avrebbero investito i modi di produzione e le relazioni sociali di produzione, inasprendo le contraddizioni e generando un impressionante aumento della sofferenza e dell'infelicità sociale. Un'infelicità sociale semplicemente intollerabile. E adesso arrivano con le interviste. Fioccano, le interviste. Se non sapessi bene che la tragedia si ripete in farsa, sarei anche troppo flattè. Dopo tutto, anch'io ho una certa autostima. Per questo, e mi scusi anche con i lettori, c'abbiamo messo tanto a fissare la data per la nostra intervista.
sv > Le avevo chiesto solo una battuta, Herr Marx, e lei è già entrato con passione eloquente nella scaletta delle domande, scompaginandola un po'. Ma andiamo con ordine. Ancora una domanda secca: qual è la massima, fra le tante, che raccomanderebbe ancora oggi, nell'avvio ingarbugliato del ventunesimo secolo?
M > Non ho problemi a rispondere e sarò conciso. Infelicità è vivere nella necessità, ma non è necessario vivere nella necessità. Questo ci ha insegnato uno dei miei eroi classici, Epicuro. Solo un'avvertenza, in proposito. Non ho mai inteso questa superba massima in senso morale e tanto meno moralistico. L'ho sempre considerata come un invito perentorio al realismo, all'analisi concreta della situazione storico-sociale determinata e concreta. E così, continuo a pensare, dovrebbe essere considerata da qualsiasi essere umano, chiunque sia o ovunque gli accada di avere una vita da vivere con tanti altri.
sv > Veniamo allora al concreto e alle situazioni storiche determinate. Anche rimanendo d'accordo con la sua battuta iniziale, resta il fatto che la sua icona è stata santificata, mummificata e onorata nel Novecento da regimi politici autocratici, totalitari e dispotici e che, oggi, la democrazia politica è per lo più l'unica forma di governo presentabile sulla scena mondiale. Come si usa dire, con tutti i suoi guai e i suoi difetti, la democrazia resta la peggiore forma di governo, salvo tutte le altre. Che cos'ha da dire in proposito?
M > Mi creda, lei si riferisce a due questioni distinte. La prima riguarda le rivoluzioni contadine del Novecento. Io avevo tratteggiato un grande disegno. Naturalmente qualche dettaglio restava da definire e da ritoccare. I leader rivoluzionari del ventesimo secolo hanno sbagliato i tempi e hanno avuto troppa fretta. Hanno trascurato i dettagli. E der Teufel, si sa, è nei dettagli. La pazienza è la prima virtù del rivoluzionario. Lenin era ossessionato dalla Germania, che tardava tragicamente all'appuntamento. Il presidente Mao guidava un'immensa armata contadina, benedetta da Thomas Miintzer, il decapitato di Mtihlhausen. Hanno sbagliato i tempi, le ripeto. D'altra parte, sa quanto ho dovuto sudare per rispondere a Vera Zasulich che mi chiedeva se c'erano scorciatoie russe per la rivoluzione? Così sono venuti fuori regimi oppressivi e crudeli, capitalismi di stato, strani impasti tra forme di dispotismo asiatico e piani quinquennali. La faccenda della democrazia politica è una questione distinta. Contrariamente a quello che si pensa o si vuol far credere, è proprio nell'analisi della democrazia politica, delle sue contraddizioni e del suo nesso inscindibile con il modo di produzione capitalistico che la mia visione non fa una grinza.
Quand'ero giovane, nel libretto su La questione ebraica, avevo parlato della eguale cittadinanza come comunità illusoria. Eguali libertà e diritti nel cielo del citoyen e diseguaglianze e sfruttamento sulla terra del bourgeois. La questione sociale nasce, all'origine, nello spazio generato da questa contraddizione. E oggi? Oggi c'è regressione. Anche dalla comunità illusoria ti fanno fuori. Questa è una faccenda che, malgré tout, ha colto con acutezza il predicatore eloquente Jacques Derrida. Quando mi ha dato del "clandestino". Per essere precisi, san Jacques parla del mio spettro. Anzi, dei miei spettri per voi. Evocando il mio grande Shakespeare, il predicatore francese ripete come un mantra il "Time out of Joint" di Amleto. Marx, dice più o meno san Jacques, resta da noi un immigrato, un immigrato glorioso, sacro, maledetto, ma ancora clandestino, come fu per tutta la sua vita. Appartiene a un tempo di disgiunzione, a quel "Time out of Joint" con cui si inaugura faticosamente, dolorosamente, tragicamente, un nuovo pensiero delle frontiere, una nuova esperienza della casa, dell'essere a casa propria e dell'economia. Tra terra e cielo. Non bisognerebbe affrettarsi a colpire l'immigrato clandestino con un divieto di soggiorno o, il che è lo stesso, ad addomesticarlo. A neutralizzarlo per naturalizzazione. Ad assimilarlo, perché smettiamo di avere paura di lui. Egli non è della famiglia, ma non bisognerebbe riportarlo, una volta ancora, pure lui, alla frontiera. Ha ragione san Jacques: ecco perché lo spettro si aggira, questa volta non più in Europa, ma qua e là, per il mondo. E son tutti lì, di nuovo, a chiedergli interviste.
sv > Le confesso che trovo affascinante la predica di Derrida, anche se terribilmente confusa. Ma ci avvicina all'oggi, alle grandi questioni delle migrazioni, delle cittadelle del benessere assediate dai dannati della terra. Ci ricorda i tratti radicalmente inaccettabili dell'ingiustizia della terra. Ai tempi della questione sociale globale. Lei non crede che tutto ciò debba generare qualcosa come un senso di oltraggio morale? Non pensa che affondi qui le sue radici un senso d'ingiustizia planetaria?
m > Sono sempre parsimonioso e guardingo in faccende che riguardano i nostri sentimenti morali. I sentimenti intrisi di buonismo sono spesso solo l'omaggio che il vizio rende alla virtù. Se proprio ci tiene, il massimo che posso concederle l'ho scritto in una lettera a Siegfried Meyer del 30 aprile 1867, l'anno in cui è uscito il primo volume del Capitale: se si vuole essere un bue, naturalmente si può voltar la schiena ai tormenti dell'umanità e badare solo alla propria pelle. Punto e basta.
sv > Grazie della concessione che sembra esserle costata parecchio. Ci torneremo su, in ogni caso, perché c'è qualcosa di singolare nel suo rifiuto di un qualsiasi impegno etico nel suo modo di vedere la società e il suo cambiamento. Ma veniamo alla faccenda dei tempi della storia, che ha tirato in ballo a proposito dei Leviatani socialisti del ventesimo secolo. Può chiarire meglio il suo pensiero?
M > La questione dei tempi della storia è importantissima. Molto più della pappa dei nostri sentimenti morali. Il materialista storico è uno che ha il dovere intellettuale e scientifico di scrutare i segni dei tempi, con un fiuto particolare per la loro stratificazione ed eterogeneità. Altro che la presunta mancanza di immaginazione del materialista storico, di cui mi ha accusato il critico critico Karl R. Popper. Il critico critico, un professore che insegnava Metodo scientifico dalla cattedra della London School, continuando a ripetere con convinzione che la sua fosse una materia evanescente, anzi inesistente, sostiene che la miseria del materialista storico, la miseria dello storicismo, coincide con la mancanza di immaginazione. Lo storicista, dice il critico critico, non è capace di immaginare un cambiamento nelle condizioni del cambiamento. Bene. Rimando la critica al mittente. Quando ho enunciato la legge della caduta tendenziale del saggio di profitto, ho indicato un po' pedantemente e, in ogni caso, scrupolosamente, un gran numero di controtendenze. Un materialista storico prende sul serio la storia. I fatti concreti, i fatti irriducibili e ostinati. Dopo tutto, questo è l'unico punto in cui ho criticato il grande maestro Hegel. Ora, la cosa si fa seria, indipendentemente dalle critiche del critico critico che lasciano il tempo che trovano, quando la teoria deve misurarsi con la prassi. La mia battuta preferitale ne suis pas marxiste, in questo caso, ci suggerisce semplicemente che la prassi è sottodeterminata rispetto alla teoria.
sv > Le spiace spiegarsi meglio?
m > Voglio dire, in parole povere, che la teoria, il grande disegno, ti orienta nel definire le cose da fare, ma che l'ultima parola - come nella ricerca scientifica — ce l'ha il mondo con cui ti misuri, ce l'ha la realtà in cui ti muovi, ce l'ha la situazione in cui ti metti alla prova, con tutta la sua complessità che non è riducibile direttamente ai tuoi teoremi. Questo vale soprattutto per i tempi storici che, lo ripeto, non sono lineari, ma tortuosi, stratificati. Vi sono tempi in cui ti può accadere che le mort saisit le vif. Un conto è il grande disegno, un conto sono le circostanze storiche determinate. Certo, se i "marxisti", invece che analizzare scientificamente il mondo e le circostanze, impegnano le loro risorse intellettuali per analizzare teologicamente le mie scritture, la frittata è fatta. E più chiaro così?
sv > Credo sia sufficientemente chiaro, data la sua forma mentis classico-tedesca. Resta però una grande questione aperta. Mentre i suoi devoti si sono indaffarati con l'ermeneutica delle sacre scritture di san Karl e hanno lasciato solo i resti di una langue de bois, buono al massimo per un po' di manovre ideologiche di corto respiro, non può negare che i teorici laburisti o socialdemocratici, i riformatori sociali, i filosofi e le filosofe della giustizia sociale e dei diritti si sono impegnati alacremente sul fronte della riduzione delle ineguaglianze e delle iniquità, della minimizzazione della sofferenza socialmente evitabile. Gli assetti e le istituzioni fondamentali degli stati sociali, soprattutto in Europa nella seconda metà del Novecento, hanno fatto molto per ridurre l'infelicità non necessaria del suo eroe Epicuro e per sanare, almeno in parte, il deficit della democrazia politica generalizzando l'eguale dignità di cittadinanza. Come valuta tutto ciò?
M > Déja vu o, se preferisce, minestre riscaldate. Il grande bluff democratico e socialdemocratico: l'ipocrita storiella dell'eguaglianza delle opportunità. 0 l'equità sociale, alla Rawls e compagnia. Nell'Ottocento ho già criticato, e con rispetto, il classico John Stuart Mill. Come ho dovuto fare, un po' più severamente e duramente, con Proudhon e la sua virtù della Justice. Allora, mi creda, meglio il grande Friedrich von Hayeck, il sottile Bob Nozick, lo zelante Milton Friedman, i bad boys di Chicago e i liberisti duri e puri. Loro, almeno, fanno il lavoro sporco dei lacchè del capitale e non concedono un'unghia al buonismo democratico, liberal o socialdemocratico. Il tuo linguaggio sia: sì, sì, no, no, il resto è del demonio. Trovo francamente incredibile il prestigio intellettuale di cui ha goduto una brava persona come il professor John Rawls. Lasciamo stare gli aspetti tecnici della sua cosiddetta teoria della giustizia come equità. Per non parlare della riesumazione, un po' tetra a dire il vero, del vecchio armamentario del contratto sociale. Sono cose che interessano solo gli accademici. Andiamo al sodo: l'equità sociale è un puro e semplice miraggio, se accetti le condizioni del modo di produzione capitalistico e le istituzioni politiche della democrazia pluralistica che le sono coerenti e funzionali. Come diceva il mio fratellino Friedrich, la giustizia è una specie di flogisto sociale in una chimica dopo Lavoisier. Al massimo, un po' di redistribuzione per chi sta peggio nella gerarchia del vantaggio e dello svantaggio sociale. E tutto in nome dell'eguaglianza democratica! Dell'eguale dignità di cittadinanza! Ancora liberté, egalité, fraternité! II modo di produzione capitalistico è una straordinaria macchina di produzione e riproduzione di ineguaglianze. E di contraddizioni. Lei prima ha citato l'esperienza degli stati sociali europei nella seconda metà del Novecento. Ma consideriamo le condizioni entro cui quell'effimera esperienza, che oggi è duramente sotto pressione proprio nello spazio sociale europeo, è stata resa possibile: sfruttamento interno di ampie frazioni di popolazione e, soprattutto, sfruttamento esterno di popoli nell'arena globale. In un mondo diviso fra potenze imperiali ostili. Viene da dire: neanche la pallida e farisaica socialdemocrazia può sopravvivere a lungo in un solo paese. E così è stato. Né, aggiungo, sarebbe potuto essere diversamente. I capitali non si fermano alle frontiere. I capitali hanno vocazione mondiale. E gli stati politici, con i loro ideali sbandierati nelle solenni Costituzioni, sono animali troppo vulnerabili, rispetto al potere sociale del Capitale ubiquo. L'avevo detto, o no, che lo stato è il comitato d'affari della borghesia? Anche la borghesia si trasforma, naturalmente. Tutto è in persistente trasformazione. E i comitati d'affari si danno un tocco cosmopolitico, ai tempi del capitalismo globale. Tutto qui. Altro che equità sociale ed eguaglianza democratica! Queste leggende metropolitane lasciamole agli imbonitori e alle anime belle, per favore. E torniamo a fissare lo sguardo sulla durezza e sulla brutalità del mondo. Uno sguardo scientifico, voglio dire, che non si ritrae dalla durezza e dalla brutalità del mondo e, in tal modo, ne mette a fuoco i punti di rottura e ne saggia l'esposizione al rischio della trasformazione.
sv > Devo riconoscere, signor Marx, che la sua leggendaria grinta non è stata neppure sfiorata dall'ombra di un dubbio, da una seppur debole perplessità, considerando una storia piuttosto complicata che in ogni caso, volente o nolente, la chiama in causa e la coinvolge in prima persona. Dalle sue parole sembra che lei sia fermamente convinto di disporre di un accesso garantito alla verità sul mondo economico, politico e sociale. Suppongo, a questo punto, che lei veda nei processi di mondializzazione e nella crisi globale una conferma della bontà della sua visione. E così?
M > Hic Rhodus, hic salta! Non ho alcun dubbio che il capitalismo mondiale, senza frontiere, generi la questione sociale del ventunesimo secolo. Così come non c'è dubbio alcuno che la crisi e le crisi cicliche che inaugurano un'età di transizioni inedite sono innescate dall'intreccio contraddittorio fra D-D e D-M-D. D-D indica il processo di accelerata finanziarizzazione dell'economia per cui si dà il caso feticistico e spettrale di denaro che genera denaro in una circolazione allargata. Ma, come scrivevo un bel po' di tempo fa in una lettera a Kugelmann, da qualche parte deve pure aver luogo il processo di produzione di sovrappiù o, meglio, di plusvalore nell'economia reale. Prima abbiamo parlato della necessità di misurarsi con la dimensione complessa della temporalità storica. Ora dobbiamo chiamare in causa la dimensione mutata della spazialità. Ci si guardi intorno, sulla scena del gran teatro del mondo. Si guardi alla grande Asia manchesteriana. Lotta di classe in Cina, in India, in Bangladesh. Si guardi alla nuova America latina. Si guardi con attenzione, alla geografia e alle metamorfosi dell'Africa. Si guardi al Pacifico. Enormi masse di salariati. Enormi masse di servi in forme di produzione che precedono la forma di produzione capitalistica. Enormi masse di schiavi. E di schiave, visto che ora mi sembra si debba dire così. Ed è giusto dire così. Enormi eserciti industriali di riserva. Altro che le moltitudini evanescenti di cui chiacchieravano alla francese in Imperium Michael Hardt e Toni Negri. La talpa scava, amico mio. Scava alla grande. Ovunque. Altro che mancanza d'immaginazione dello storicista! Enormi masse d'umanità oppressa brulicano in ogni angolo del pianeta. E preparano il salto dalla preistoria alla storia finalmente umana. Dal regno della necessità al regno della libertà. Questo, e non altro, è l'esito liberatorio del gigantesco processo di unificazione capitalistica del pianeta. Vorrei aggiungere solo un commento alla faccenda della mia grinta. Non amo il tocco psicologico quando si discute di scienza, di teoria e di prassi. La grinta possiamo lasciarla tranquillamente ai poeti, ai romanzieri e ai drammaturghi. Per me è solo una questione di metodo. E di dannatissimo studio. Tutto qui.
sv > La ringrazio della franchezza. Certo, non può non colpire il fatto che nella sua risposta a proposito della globalizzazione lei non abbia dedicato neanche un cenno al ruolo della politica, delle istituzioni transnazionali o internazionali. Molti del resto hanno criticato la sua visione economica e sociale per l'assenza di qualsiasi teoria dello stato e delle istituzioni. Lei, come risponde a questa obiezione?
m > Se si riferisce alla questione dei rapporti fra economia e politica o fra economia e istituzioni, la risposta all'obiezione è semplice e diretta. È falso che io non abbia elaborato una teoria dello stato e delle istituzioni. Uno può sempre dire che non è d'accordo con me. E questo è possibile, perché l'ideologia borghese ha una forza e una durevole persistenza nella testa dei pensatori che non adottano il metodo dell'analisi materialistica di come stanno le cose, nel mondo sociale. (Dopo tutto, nel manoscritto che con Friedrich lasciammo alla critica roditrice dei topi, proprio l'ideologia è il grande tema sottoposto ad analisi.) Ma è solo ridicolo mettersi a raccontare la storiella dell'assenza di una teoria dello stato e delle istituzioni nella mia visione. Ho spiegato a più riprese, adottando un'immagine architettonica, che l'Aufbau su cui si costruiscono le macchine dello stato, del potere politico e delle sue istituzioni coincide con le relazioni sociali di produzione connesse a un certo grado di sviluppo delle forze produttive. La mia teoria dello stato e delle istituzioni dice che sia lo stato sia le istituzioni dipendono dalla (e sono coerenti con la) struttura su cui sono storicamente edificate. Chiaro? Dato che lei è italiano, posso ricordarle che, fra gli altri, il buon professor Bobbio mi accusò dell'assenza di una teoria dello stato. San Norberto, di cui ricordo sempre alcune belle espressioni di stima nei confronti del mio pensiero, in realtà si riferiva ad altro. San Norberto era impegnato in una querelle ideologica con alcuni devoti zelanti che avevano messo il mio faccione sulle bandiere dei cosiddetti regimi di socialismo reale. D'altra parte, vorrei rigirare ai miei
critici la domanda: potete seriamente pensare che il potere di governo su una determinata società non dipenda dai poteri sociali da cui, a sua volta, dipende la riproduzione sociale ed economica di quella determinata società? Mi creda, cianciare di autonomia della politica vuol dire creare specchietti per le allodole. Favole da re nudo. Come ben sa il sagace bambino che lo vede e lo dice agli altri, affetti da ipocrisia cognitiva. Ha mai sentito parlare del "senato virtuale" che si affianca con potere supremo e latente sui palazzi vistosi e patenti della democrazia americana? E una felice espressione di quel geniaccio anarcoide e libertario che è Noam Chomsky. E, ancora una volta, dato che lei è italiano, non le sembra che l'identificazione dello stato e del potere di governo con un qualche comitato d'affari di una qualche borghesia abbia di questi tempi una sua naturale appropriatezza? Se è così, si ricordi che è sempre stato così. La statura degli attori in scena può naturalmente mutare e, come si diceva, la tragedia si ripete spesso e volentieri in farsa. Ma questa è un'altra storia.
sv > E la sua storia, signor Marx? Lei sa che si è molto discusso del giovane Marx e del Marx maturo, del Marx dei Manoscritti economico-filosofici del 1844 e del Marx dei Grundrisse e di Das Kapital del 1867. Dal punto di vista della scienza e del pensiero, naturalmente. Non della psicologia a buon mercato.
m > Guardi che la faccenda è molto semplice. Lo so bene che si sono versati fiumi d'inchiostro teologico sulle differenze che il mio pensiero ha assunto nelle distinte fasi di una ricerca che è durata tutta la mia vita e cui ho dedicato tutta la mia vita. Pensi a quel povero Althusser, e alla faccenda un po' barocca della coupure. Non ci sono enigmi, in proposito. È chiaro che quando scrivevo i Manoscritti ero semplicemente più giovane, molto più giovane di quando mi sono buttato a corpo morto nella stesura del Capitale. Tutto qui. Il resto sono chiacchiere confuse e fuorvianti. In realtà, c'è un filo robusto e tenace che tiene assieme l'idea di umanità e di essenza generica al centro dei Manoscritti, l'idea di estraneazione e di mutilazione dell'essere umano nel mondo della Political Economy, che avevo cominciato a studiare furiosamente in quegli anni, e il regno della libertà e il sogno di una cosa e il libero sviluppo di ciascuno come condizione del libero sviluppo di tutti, che sono il culmine della mia ricerca sulla logica del modo di produzione capitalistico, incentrata sulla teoria del valore lavoro, dello sfruttamento e dell'estrazione di plusvalore. In parte almeno, ha ragione Jon Elster che ha scritto un librone che si chiama Making Sense of Marx (con un titolo così, è naturale che me lo sia letto con una certa curiosità). Una società migliore resta una società che consente a tutti gli esseri umani di fare ciò che solo gli esseri umani possono fare: creare, inventare, immaginare altri mondi possibili. Ma il dottor Elster ha un tono un po' troppo leibniziano, per i miei gusti. Il punto decisivo è che tutta la mia ricerca scientifica, il programma della critica dell'economia politica, ha teso a dimostrare quali condizioni economiche e sociali debbano essere soddisfatte perché il possibile irrompa nel presente in virtù delle sue contraddi-
zioni. Questo, devo riconoscerlo, me l'ha insegnato il maestro Hegel. Aveva solo sbagliato l'incipit della sua narrazione, lui. Aveva esordito con un prologo in cielo. L'ho rimesso con i piedi per terra. Il terreno per procedere me l'avevano dissodato Adam Smith e, soprattutto, David Ricardo. Li ho sottoposti a una critica sistematica. Il resto l'ha fatto lo studio della storia e della grande transizione al modo di produzione capitalistico. Così, mi viene da dire: la superba massima di Epicuro poteva finalmente guidarci realisticamente nei tortuosi percorsi della liberazione semplicemente umana. Quod demonstrandum erat.
sv > Posso chiederle, mister Marx, quanto hanno contato nella sua vita, dedicata alla ricerca, Jenny, e la sua famiglia, i suoi figli, il mondo dei suoi affetti?
M > No comment. Il Moro è uno all'antica, e di queste cose private non parla sulle gazzette.