Il mondo stregato

Sintesi del pensiero di Marx

Engels per primo ha scritto che il pensiero di Marx nasce dalla confluenza e dall’elaborazione creativa di tre diverse componenti culturali: la filosofia tedesca, l’economia classica inglese, il socialismo francese. Nonostante Marx sia giunto rapidamente - con l’Ideologia tedesca - a delineare un sistema di pensiero autonomo, nettamente differenziato e dotato di una notevole coerenza interna, l’influenza di queste componenti è agevolmente dimostrabile.

In tutta la sua opera, esplicitamente e implicitamente, Marx dialoga di continuo criticamente con Hegel e Feuerbach, Smith e Ricardo, Saint-Simon, Fourier e Proudhon. L’influenza della filosofia tedesca è, per ovvi motivi, primaria. Marx si forma in un ambiente accademico ancora impregnato di hegelismo, per quanto scisso tra le interpretazioni hegeliane di destra e di sinistra. Egli giunge ad Hegel attraverso la mediazione di Feuerbach. In questi, Marx reperisce due temi che, in una qualche misura, gli sono congeniali, nel senso che sistematizzano un’intuizione laica e antropocentrica che già fa parte della sua personale visione del mondo. Assumere l’uomo come radice di tutte le cose impone di chiedersi come mai nel corso della storia l’uomo abbia stentato a prendere coscienza del suo ruolo. La risposta di Feuerbach esercita originariamente su Marx un fascino sottile. E’ la stessa grandezza e potenza dell’uomo, attestata dalla cultura, ad aver fatto velo alla verità, inducendo l’umanità ad attribuirla ad un Essere Supremo, a spogliarsene proiettandola fuori di sé, ad alienarla. La critica della religione si pone dunque come preliminare rispetto al compito di restituire all’umanità la piena consapevolezza del suo significato naturale e del suo destino mondano.

Rapidamente Marx, i cui entusiasmi intellettuali sono sempre assoggettati ad un implacabile vaglio critico, scopre i limiti del pensiero di Feuerbach. La concezione feurbachiana dell’uomo concerne, infatti, un’astrazione: la natura o l’essenza umana, che viene estrapolata dalla storia e dalla società. Il superamento di questa astrazione, nonostante tutto idealistica, non può avvenire che in virtù del riconoscimento che gli uomini concreti, in carne e ossa, vivono la loro vita reale solo in società e in una società storicamente determinata.

L’essere nella e per la società, l’essere radicalmente sociale e radicato nella storicità si pone dunque, per Marx, come l’espressione primaria della natura umana. Ma ciò non significa che lo studio e l’analisi della società possa consentire di trascendere le astrazioni sull’uomo. Ogni organizzazione sociale, sia pure la più primitiva, è una realtà complessa, stratificata, dominata inesorabilmente dalle idee che gli uomini si fanno, o sono indotti a farsi, riguardo alla loro realtà e al tipo di società cui appartengono. Quello che una società pensa di se stessa, o quello che, al suo interno, pensano i singoli individui, non può essere trascurato, ma neppure sopravvalutato. I processi storici, quelli che danno ad una determinata società una forma, un’organizzazione, una struttura e, infine, una coscienza di sé, una coscienza sociale, pur essendo reali, non sono mai immediatamente visibili. Il radicamento storico della coscienza non si associa mai alla consapevolezza di tale radicamento.

Non per caso, dall’avvento e nel corso dello sviluppo storico, l’alienazione religiosa si è associata sempre ad un’alienazione politica. Marx arriva a questa convinzione partendo da vicino, sottoponendo ad un'analisi critica i diritti dell’uomo e del cittadino sanciti dalla Costituzione francese del 1793 e la filosofia del diritto di Hegel. La conclusione cui giunge, e che ha valore per tutte le società storiche, è che l’uomo vive una doppia vita: una come membro di una comunità i cui principi, pur diversi di epoca in epoca, sanciscono l’ordine di cose esistente come funzionale ai fini dell’interesse generale; un’altra come membro della società civile, definito da un determinato ruolo sociale, espresso dal lavoro che egli svolge - manuale o intellettuale - e dall’accesso che tale ruolo determina alla ricchezza materiale e sociale, ai beni prodotti attualmente e al patrimonio culturale prodotto dall’umanità nel corso del suo sviluppo storico.

La distinzione tra l’organizzazione politica dello Stato e la società civile, tra ciò che una società pensa di essere nei suoi ordinamenti giuridici, religiosi e filosofici, e ciò che di fatto essa è, e si può ricavare dalla vita reale dei suoi singoli membri, orienta Marx verso un approccio epistemologicamente rivoluzionario alla storia. Si tratta infatti di prescindere dalla consueta ricostruzione incentrata sugli eventi politici e militari, sui capi e sugli Stati, e di rivolgersi alla storia delle masse, delle società globali, degli uomini concreti nel loro tempo. Si tratta di aprire gli occhi sulla realtà di come gli uomini vivono e interrogarsi sulle ragioni per cui essi sembrano incapaci di affrancarsi definitivamente dalle alienazioni religiose e politiche. Quali processi reali, invisibili, li determinano, e li hanno sempre determinati, ad accettare una realtà sostanzialmente miserabile per i più e indegna della loro potenziale grandezza? C’è, nella struttura sociale, qualcosa di più profondo e determinante dell’alienazione religiosa e politica?

Marx trova la risposta nella società del suo tempo. La trova interessandosi di un evento storicamente minuscolo - una legge della Dieta Renana sui furti di legna secca -, la cui analisi pone in luce un significato che lo trascende: il rapporto reciproco tra l’appropriazione dei mezzi di produzione da parte di una classe, che ratifica questo "diritto" piegando alla sua logica particolare l’apparato dello Stato, e l’espropriazione di tali mezzi a danno di un’altra classe, che, separata da essi, si ritrova priva di mezzi di sussistenza e dunque libera sul mercato del lavoro.

E’ l’intuizione della genesi storica del capitalismo, che orienta Marx verso lo studio febbrile dei classici dell’economia. Ma si tratta di uno studio che avviene sullo sfondo di un interesse persistente per la filosofia e per la storia, com’è attestato dai Manoscritti economico-filosofici del 1844 e da L’ideologia tedesca del 1845.

I Manoscritti sono un abbozzo della critica dell’economia politica borghese, che diventerà lo scopo principale dell’attività intellettuale di Marx. Tutte le categorie economiche classiche - lavoro, capitale, profitto, denaro, proprietà, ecc. - vengono rivisitate, al fine di metterne in luce le contraddizioni, vale a dire sia il loro carattere astratto - per cui, per esempio, la proprietà privata è assunta come un fatto che non abbisogna di spiegazione - sia la loro incapacità di dare un senso compiuto alla realtà sociale cui si riferiscono. Che cosa caratterizza infatti il mondo borghese nato con la rivoluzione industriale? La risposta di Marx è univoca: la contraddizione per cui la "messa in valore del mondo delle cose", lo sviluppo delle forze produttive, la produzione della ricchezza, coincide con la svalutazione, l’immiserimento, la degradazione del produttore. Il tema dell’alienazione, per cui il prodotto del lavoro diventa estraneo al lavoratore e si pone di fronte a lui come una potenza indipendente, è centrale nei Manoscritti, e rappresenta la matrice della teoria del valore che sarà sviluppata ne Il Capitale. Ma, proprio per il fatto che Marx ancora non è impegnato in una impresa "scientifica", esso rivela uno spessore filosofico e morale destinato a diventare sempre più implicito nelle opere della maturità. Lo sfruttamento del lavoratore nel regime capitalistico non fa che perpetuare nel presente una condizione di ingiustizia che c’è sempre stata dall’avvento della storia. Cos’è che lo rende intollerabile, nel senso che impedisce di rassegnarsi all’idea che in esso si esprima semplicemente la legge del più forte, la legge dell’egoismo costitutiva della natura umana? Cos’è che induce a pensare che esso, nonché stigmatizzato moralmente, debba essere superato praticamente? La risposta di Marx è semplice e essenziale.

Il mondo prodotto dall’uomo nel corso del suo sviluppo storico, il mondo prodotto dall’attività umana, dal lavoro, il mondo della cultura - materiale e spirituale -, colto nella sua ricchezza, come patrimonio dell’umanità tutta, oggettiva una grandezza che non può essere attribuita ad alcun individuo particolare, ed è dunque espressiva della natura umana, dell’essenza della specie. In quanto tale la ricchezza non potrà rimanere per sempre estraniata rispetto ai produttori: essa dovrà essere riconosciuta come proprietà comune e fruita da tutti. Ciò che rende possibile questa riappropriazione è il sistema capitalistico stesso che ha impresso alla produzione della ricchezza e alla sua circolazione un’accelerazione mai conosciuta nella storia. Esso "ha fornito al popolo la libertà politica, ha sciolto i vincoli della società civile, ha collegato i continenti, ha creato il commercio, amico degli uomini, e la pura morale e la piacevole cultura; ha dato al popolo, invece dei suoi rozzi bisogni, bisogni civili e i mezzi della loro soddisfazione." (MEF, pg. 213) La ricchezza del mondo prodotto dall’uomo è infatti, anzitutto, la ricchezza dei bisogni umani, che si sono rivelati nel corso della produzione, e che, essendosi oggettivati, non possono più essere rimossi. Da questa condizione, dell’uomo potenzialmente ricco ma di fatto espropriato della possibilità di fruire della ricchezza sociale, discende la necessità morale e l’inevitabilità storica - posto che l’uomo prenda coscienza di quella condizione - della "reale appropriazione dell’umana essenza da parte dell’uomo e per l’uomo", vale a dire del comunismo.

Nei Manoscritti si definisce dunque il fondamento del materialismo storico per cui il motore della storia è il lavoro, l’attività trasformatrice della natura da parte dell’uomo, che postula la cooperazione sociale. Non è una scoperta in senso proprio. Marx riconosce a riguardo il suo debito nei confronti di Hegel: "L’importante della fenomenologia hegeliana ... è che Hegel intende l’autoprodursi dell’uomo come un processo, l’oggettivarsi come un opporsi, come alienazione e soppressione di questa alienazione; che egli dunque coglie l’essenza del lavoro e concepisce l’uomo oggettivo, l’uomo verace perché uomo reale, come risultato del suo proprio lavoro" (MEF, pag. 263). Ma in Hegel il mondo oggettivo prodotto dall’uomo deve essere sormontato in nome del ricondursi dell’uomo a se stesso, in quanto soggetto spirituale, e, in virtù di questa consapevolezza, allo Spirito che lo trascende; in Marx, viceversa, quel mondo è l’essenza stessa dell’uomo oggettivata, resa dunque visibile e riconoscibile. Il problema, per quanto concerne l’uomo, è dunque appropriarsene e fruirne, il che implica non già un atto di autocoscienza bensì un cambiamento reale: la soppressione della proprietà privata, che esclude gran parte degli uomini dalla ricchezza sociale. In ciò, si realizza il passaggio dall’idealismo al materialismo storico. L’oggettivazione delle forze produttive umane nel mondo, la trasformazione della natura, la ricchezza della cultura materiale e spirituale è la seconda natura dell’uomo; quella nella quale solo egli può riconoscersi come ente naturale, sociale e universale.

Il materialismo storico è esposto compiutamente ne L’ideologia tedesca, scritta in collaborazione con Engels, che segna la rottura definitiva con l’idealismo. "Esattamente all’opposto della filosofia tedesca, che discende dal cielo sulla terra, qui si sale dalla terra al cielo" (LIT, pag. 13). La realtà terrena dell’uomo è quella di un essere sociale che in quanto tale, e non come individuo isolato, si rapporta al resto della natura in virtù di un’attività vitale consapevole, vale a dire del lavoro, che gli consente di soddisfare i suoi bisogni, di scoprirne di nuovi e di perpetuarsi riproduttivamente. La produzione e la riproduzione sociale della vita, che postula la cooperazione di un insieme di individui e la trasformazione della natura, è l’aspetto più caratteristico della specie umana. Essa implica un’organizzazione sociale, la divisione dei ruoli, la definizione di diritti e di doveri. Assumere la produzione come base o infrastruttura dell’organizzazione sociale significa che il modo di produzione specifico di ogni società determina la forma delle relazioni sociali, i rapporti che si stabiliscono tra i membri della società. Si tratta dunque di " spiegare il processo reale della produzione, e precisamente muovendo dalla produzione materiale della vita immediata, assumere come fondamento di tutta la storia la forma di relazioni che è connessa con quel modo di produzione e che da esso è generata, dunque la società civile nei suoi diversi stadi, e sia rappresentarla nella sua azione come Stato, sia spiegare partendo da essa tutte le varie creazioni teoriche e le forme della coscienza, religione, filosofia, morale, ecc. ecc; e seguire sulla base di queste il processo della sua origine, ciò che consente naturalmente anche di rappresentarne la cosa nella sua totalità (e quindi anche la reciproca influenza di questi lati diversi l’uno sull’altro)" (LIT, pp. 29-30).

L’ambizione dichiarata del materialismo storico è dunque quella di pervenire alla scienza della storia totale, vale a dire di giungere a spiegare, partendo dall’infrastruttura economica e tenendo conto dei nessi reciproci che essa intrattiene con la sovrastruttura - il diritto, la religione, la filosofia, l'arte, la scienza e le forme di coscienza, le visioni del mondo collettive e individuali -, sia una determinata formazione sociale sia il significato dello sviluppo storico nel suo complesso. In sé e per sé, il materialismo storico non comporta necessariamente il fatto che la storia abbia un senso. Esso è un metodo di analisi della realtà sociale, che non implica alcun giudizio di valore. E' evidente però che in Marx l'applicazione di questo metodo alle diverse fasi di sviluppo dei processi storici giunge a cogliere in essi un movimento dotato di senso. Ciò dipende, indubbiamente, dall’influenza hegeliana non meno che dai presupposti impliciti nel materialismo storico.

La trasformazione della natura ad opera dell’uomo, fin dalle origini, eccede il fine della sopravvivenza adattiva. Essa pone in luce una passione trasformativa che, soddisfatti i bisogni primari, ne fa affiorare progressivamente di nuovi e di più ricchi. Come non cogliere in questo movimento un senso? e quale altro senso esso restituisce se non che l’uomo tende alla felicità, e identifica, anche inconsapevolmente, la felicità con il massimo dispiegamento individuale e sociale delle sue potenzialità, delle sue forze produttive? "... (lo) sviluppo delle forze produttive ( in cui è già implicita l’esistenza empirica degli uomini sul piano della storia universale, invece che sul piano locale) è un presupposto pratico assolutamente necessario anche perché senza di esso si generalizzerebbe soltanto la miseria e quindi col bisogno ricomincerebbe anche il conflitto per il necessario e ritornerebbe per forza tutta la vecchia merda, e poi perché solo con questo sviluppo universale delle forze produttive possono aversi relazioni universali fra gli uomini." (LIT, pag. 23)

Metodo scientifico di analisi della storia totale, il materialismo storico comporta due possibili applicazioni metodologiche. Per un verso, esso consente di radiografare - per così dire - l’ anatomia di una società, identificando il suo modo di produzione, vale a dire sia i fattori che concorrono alla produzione sia i rapporti sociali che essi determinano. Per un altro, esso può essere rivolto allo studio totale di una formazione economico-sociale, vale a dire di una società storicamente determinata, al fine di spiegarne la struttura, i rapporti reciproci e interattivi tra infra- e sovrastruttura. Questa seconda impresa è ovviamente improba, e impegna un’intera vita intellettuale nell’analisi di una sola formazione economico-sociale. Se Marx avesse deciso di specializzarsi come storico, l’avrebbe di certo realizzata. Ma in lui, nella temperie che precede il ‘48, l’urgenza rivoluzionaria ha una spinta motivazionale ben maggiore rispetto a quella intellettuale. Non v’è da sorprendersi, pertanto, che ne L’ideologia tedesca egli adotti il primo metodo. Ciò gli consente di individuare quattro modi di produzione che si sono succeduti nel corso dello sviluppo storico: il modo di produzione tribale, quello schiavistico, quello feudale e quello borghese. Ognuno di questi modi di produzione è caratterizzato da una specifica forma di proprietà, da una specifica divisione del lavoro e da una specifica relazione interpersonale tra i membri. Su questa base determinata dallo sviluppo delle forze produttive, e in misura direttamente proporzionale alla divisione del lavoro tra lavoro manuale e lavoro mentale, si eleva la sovrastruttura ideologica: la religione, il diritto, la morale, la filosofia, ecc.

Qual è l’interesse di questa semplificazione estrema della storia dell’umanità? Essa, per Marx, consente di individuare una dinamica altrimenti invisibile che, con una periodicità variabile, dà luogo ad una rivoluzione della struttura sociale e di spiegarla. "Tutte le collisioni della storia hanno la loro origine nella contraddizione tra le forze produttive e la forma di relazioni" (LIT, pag. 32). Lo sviluppo delle forze produttive pone pressoché di continuo in tensione i rapporti di produzione, ma, al di là di un certo limite, tale per cui questi rapporti ostacolano quello sviluppo, essi sono destinati ad essere sostituiti da nuovi rapporti di produzione. Così è avvenuto nel passaggio dalle società antiche al feudalesimo, così nel passaggio dalla società feudale alla società borghese. Questa stessa società, in quanto fondata sulla proprietà privata, vale a dire su rapporti di produzione orientati solo alla produzione del profitto, è destinata inevitabilmente, nella previsione di Marx, ad andare incontro ad una crisi catastrofica in quanto lo sviluppo delle forze produttive che essa ha messo in movimento è destinata a risultare incompatibile con la proprietà privata.

La scoperta della legge evolutiva della storia trasforma il materialismo storico in materialismo dialettico. E, col materialismo dialettico, la dinamica intrinseca che percorre la storia appare finalizzata alla felicità umana, di tutti gli uomini: "Nella storia fino ad oggi trascorsa è certo un fatto empirico che i singoli individui, con l’allargarsi dell’attività sul piano storico universale, sono stati sempre asserviti a un potere a loro estraneo..., a un potere che è diventato sempre più smisurato e che in ultima istanza si rivela come mercato mondiale. Ma è altrettanto empiricamente dimostrato che col rovesciamento dello stato attuale della società attraverso la rivoluzione comunista... e l’abolizione della proprietà privata che con essa si identifica, questo potere... verrà liquidato, e allora verrà attuata la liberazione di ogni singolo individuo nella stessa misura in cui la storia si trasforma completamente in storia universale. Che la ricchezza spirituale dell’individuo dipenda interamente dalla ricchezza delle sue relazioni reali, è chiaro... Soltanto attraverso quel passo i singoli individui vengono liberati dai vari limiti nazionali e locali, posti in relazione con la produzione (anche spirituale) di tutto il mondo e messi in condizione di acquistare la capacità di godere di questa produzione universale di tutta la terra (creazioni degli uomini)." (LIT, pp. 27-28)

Delineata la concezione dialettica della storia, si tratta, perché essa non rimanga una mera interpretazione filosofica, di applicarla alla realtà. Ciò significa, per Marx, criticare sistematicamente l’ordine di cose esistente, la società borghese, al fine di comprovarne la sua transitorietà; di individuare gli agenti sociali la cui condizione alienata postula che essi, in nome dell’umanità, si assumano il compito di lottare per cambiare rivoluzionariamente la società; e, fornita loro l’indispensabile "arma della critica", partecipare attivamente alla preparazione della rivoluzione. Il Manifesto del Partito comunista, scritto nel 1848, è la sintesi teorica e programmatica di queste diverse esigenze.

L’evoluzione storica, attraverso la lotta di classi, è esitata nell’avvento della borghesia e del suo modo specifico di produzione, incentrato sulla proprietà privata dei mezzi di produzione e sull’uso del lavoro vivo, del lavoro operaio, al fine di trarre da esso un valore che viene dunque espropriato, alienato e incorporato nel capitale, fino a diventare suo valore intrinseco. Il merito storico della borghesia è di aver "dimostrato che cosa possa compiere l’attività dell’uomo" (MPC, pag. 58), di aver dissolto tutti i vincoli feudali che ostacolavano lo sviluppo delle forze produttive e di aver organizzato la produzione, avvalendosi dei progressi della scienza e della tecnica e razionalizzando l’uso delle risorse disponibili, in maniera tale da avviare la mondializzazione del mercato. Per la sua stessa natura, il capitale deve tendere di continuo verso un’espansione illimitata, e con ciò produce una ricchezza vieppiù crescente, che rivela agli uomini la ricchezza dei loro bisogni. Ma questa ricchezza rivelata, non può essere collettivamente fruita. Il fine del capitale non è l’uomo che produce valore bensì il valore stesso in sé e per sé, il profitto. "Nella società borghese il lavoro vivo è soltanto un mezzo per moltiplicare il lavoro accumulato" (MPC, pag. 81).

Nonostante il carattere progressivo e espansivo del capitale, che sembra aperto al futuro, "nella società borghese il passato domina sul presente" (MPC, pag. 81), la proprietà privata dei mezzi di produzione ostacola l’appropriazione della ricchezza da parte dei produttori. Perciò lo sviluppo delle forze produttive messe in moto dal capitale va incontro periodicamente a crisi che la storia non ha mai conosciuto: crisi di sovraproduzione, dovute al fatto che "la società possiede troppa civiltà, troppi mezzi di sussistenza, troppa industria, troppo commercio." (MPC, pag. 64) Troppa ricchezza, insomma, in rapporto all’uso sociale che se ne può fare entro i rapporti borghesi di proprietà. E’ questa contraddizione, di una ricchezza prodotta dall’uomo e che gli si rivolge contro, a contenere in sé le ragioni del suo superamento: "Il capitale è un prodotto collettivo e può essere messo in moto solo mediante un’attività comune di molti membri, anzi in ultima istanza solo mediante l’attività comune di tutti i membri della società. Dunque, il capitale non è una potenza personale; è una potenza sociale. Dunque, se il capitale viene trasformato in proprietà collettiva, appartenente a tutti i membri della società, non c’è trasformazione di proprietà personale in proprietà sociale. Si trasforma soltanto il carattere sociale della proprietà. La proprietà perde il suo carattere di classe" (MPC, pp. 80-81). Il comunismo, che la classe operaia, in quanto maggioritaria e sfruttata, è chiamata a realizzare, è null’altro che la riappropriazione sociale di una ricchezza che è già di per sé sociale, poiché è la ricchezza prodotta dall’umanità nel corso di tutto il suo sviluppo storico.

Col Manifesto del Partito comunista, si conclude il cosiddetto periodo giovanile del pensiero di Marx. Il passaggio al periodo maturo, pressoché interamente dedicato alla stesura di opere di critica economica, viene di solito ricondotto alla ambizione di Marx di pervenire a una formalizzazione scientifica della sua teoria.

Ciò sarebbe attestato sia dalla mole impressionante della documentazione storica, sociale e economica che egli accumula e che finisce con l'interferire progressivamente con la stesura delle opere (i "Grundrisse" e "Il Capitale" rimangono, infatti, incompiuti); sia da un cambiamento di stile che interviene nel corso degli anni. Fino alla stesura del primo libro de Il Capitale, Marx si attiene ad uno stile analitico ma spesso si abbandona liberamente ad excursus, riflessioni, commenti di grande interesse; dal 1867 in poi, quello stile diventa assolutamente prevalente, e assume una configurazione logico-matematica, scarna e quasi totalmente vincolata ai contenuti specialistici. C’è del vero in questo assunto, ma non è tutta la verità. Che Marx abbia ossessivamente perseguito l’intento di dimostrare che il sistema capitalistico conteneva in sé le ragioni del suo superamento e che si sia affannato a definire queste ragioni in termini di leggi deterministiche, è inconfutabile, anche se quelle leggi, ponendo i presupposti di un cambiamento strutturale della società e della civiltà, non possono prescindere, per la loro realizzazione, dall'azione umana. Ma non si può non tener conto del fatto che tutte le opere economiche del Marx "scientifico" (Introduzione alla critica dell’economia politica, Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica, per la critica dell’economia politica, Il Capitale. Critica dell’economia politica) si propongono come fine esplicito la critica di una scienza già esistente, l’economia borghese, o, più precisamente, la demistificazione delle categorie adottate da essa come scientifiche.

L’impegno di Marx in questo lavoro di smascheramento, rivolto a far trasparire dietro il velo ideologico di quelle categorie i processi reali che le sottendono e le loro contraddizioni, insolubili all’interno del sistema capitalistico, è direttamente proprozionale alla potenza mistificante delle categorie stesse e al potere stregante della realtà sociale che le ha prodotte. Ma qual è il referente di questo potere se non la coscienza umana, la coscienza individuale e sociale? E quel potere infine è efficace in sé e per sé o non fonda la sua efficacia anche su una debolezza intrinseca alla coscienza umana, riconducibile alla difficoltà di leggere la realtà sociale come prodotto di processi storici? L'ossessione scientifica di Marx assume il suo pieno significato se e solo se si considera che essa affonda le sue radici nel dubbio, rimosso fideisticamente (e inconsapevolmente), che l'ideologia borghese nel suo complesso possa risultare più potente delle crisi ricorrenti che il modo di produzione capitalistico produce ed è destinato a produrre. A posteriori, è difficile non cogliere la fondatezza di questo dubbio, peraltro mai esplicitato.

L’impegno di Marx in questo lavoro di smascheramento, rivolto a far trasparire dietro il velo ideologico di quelle categorie i processi reali che le sottendono e le loro contraddizioni, insolubili all’interno del sistema capitalistico, è direttamente proprozionale alla potenza mistificante delle categorie stesse e al potere stregante della realtà sociale che le ha prodotte. Ma qual è il referente di questo potere se non la coscienza umana, la coscienza individuale e sociale? E quel potere infine è efficace in sé e per sé o non fonda la sua efficacia anche su una debolezza intrinseca alla coscienza umana, riconducibile alla difficoltà di leggere la realtà sociale come prodotto di processi storici? L'ossessione scientifica di Marx assume il suo pieno significato se e solo se si considera che essa affonda le sue radici nel dubbio, rimosso fideisticamente (e inconsapevolmente), che l'ideologia borghese nel suo complesso possa risultare più potente delle crisi ricorrenti che il modo di produzione capitalistico produce ed è destinato a produrre. A posteriori, è difficile non cogliere la fondatezza di questo dubbio, peraltro mai esplicitato.

L’impegno di Marx in questo lavoro di smascheramento, rivolto a far trasparire dietro il velo ideologico di quelle categorie i processi reali che le sottendono e le loro contraddizioni, insolubili all’interno del sistema capitalistico, è direttamente proprozionale alla potenza mistificante delle categorie stesse e al potere stregante della realtà sociale che le ha prodotte. Ma qual è il referente di questo potere se non la coscienza umana, la coscienza individuale e sociale? E quel potere infine è efficace in sé e per sé o non fonda la sua efficacia anche su una debolezza intrinseca alla coscienza umana, riconducibile alla difficoltà di leggere la realtà sociale come prodotto di processi storici? L'ossessione scientifica di Marx assume il suo pieno significato se e solo se si considera che essa affonda le sue radici nel dubbio, rimosso fideisticamente (e inconsapevolmente), che l'ideologia borghese nel suo complesso possa risultare più potente delle crisi ricorrenti che il modo di produzione capitalistico produce ed è destinato a produrre. A posteriori, è difficile non cogliere la fondatezza di questo dubbio, peraltro mai esplicitato.

Lette in questa ottica, le opere economiche della maturità, i "Grundrisse" e il Capitale, appaiono un’impresa intellettuale geniale, ma pressoché disperata, che un uomo da solo si impegna a realizzare contro il potere stregante di un sistema socio-economico che, prodotto dallo sviluppo storico, rischia di sottrarsi al controllo umano e di trasformare il denaro in un feticcio alle cui onnivore esigenze di autoaccrescimento tutto va sacrificato: i bisogni sociali, la solidarietà, lo sviluppo degli individui, i valori morali, gli equilibri ecologici. Il Marx economista è in realtà uno scienziato sociale che tenta, vita natural durante, di smascherare le essenze invisibili, i processi reali che sottendono e determinano la fenomenologia e la struttura sociale, vale a dire il modo in cui il mondo appare alla coscienza umana e le relazioni che si stabiliscono tra i membri della società, nell'intento di dimostrare che la ricchezza, in quanto prodotta dall'uomo va riappropriata dall'uomo poiché, reificandosi come una potenza indipendente e opposta ad esso, si trasforma in un mostro animato che si sviluppa sulla faccia del pianeta come un cancro.

I "Grundrisse" e Il Capitale rappresentano nel contempo il tentativo di definire la logica intrinseca del capitalismo e di analizzare il suo sviluppo storico sul piano della contemporaneità sino al punto di prevederne gli esiti. La metodologia di ricerca di Marx, complessa per il sovrapporsi pressoché continuo di una modalità analitica e di una dialettica, non agevola il compito di sintetizzare in poche righe testi che constano di migliaia di pagine. Marx muove dalle apparenze della realtà sociale - il valore, la merce, il profitto - che l'economia borghese assume come categorie dotate di oggettività, e le sottopone ad un lavoro di demistificazione che infine le riconduce ai rapporti reali che si danno in un sistema nel quale i capitalisti detengono la proprietà dei mezzi di produzione, vale a dire del lavoro accumulato dalle precedenti generazioni, e gli operai, espropriati da quei mezzi, devono vendere come merce la loro forza-lavoro. Tale forza, incorporata sotto forma di lavoro vivo al lavoro accumulato nei mezzi di produzione, si trasforma in merce, in un valore di scambio che, convertito in denaro attraverso il commercio, risulta maggiore del denaro investito dai capitalisti nell'acquisto dei mezzi di produzione (macchinari, materie prime, semilavorati) e della forza-lavoro. Qual è l'origine di questo profitto? Secondo l'economia borghese, il profitto è il compenso dovuto al capitalista per il rischio che egli corre nell'investire il denaro e il valore della merce, che gli appartiene, è una qualità oggettiva ad essa intrinseca.

Secondo Marx, la merce, così intesa, è un feticcio perché il suo valore di scambio, nella componente che eccede il suo costo reale, è di fatto null’altro che il lavoro vivo incorporato in essa nel corso del processo di produzione. E’ il lavoro non pagato dal capitalista all’operaio che viene alienato e, per magia, si separa da esso e diviene valore della merce, proprietà privata del capitalista. L’alienazione del plus-valore avviene in virtù del fatto che l’operaio, separato dai suoi mezzi di produzione tradizionali che gli consentivano di produrre beni di uso e beni da scambiare immediatamente, si ritrova libero sul mercato del lavoro. Egli può offrire solo la sua forza-lavoro a chi possiede i mezzi di produzione, che sono il prodotto di lavoro morto, accumulato. Attraverso i mezzi di produzione, il lavoro vivo, il lavoro eccedente rispetto al salario, viene incorporato nella merce, diventa valore di scambio. Il capitale monetario, originariamente mercantile, si trasforma così in capitale produttivo: valore che si autovalorizza appropriandosi di lavoro altrui. La merce, nella quale è stato incorporato il plusvalore, si converte nuovamente, in virtù del commercio, in denaro, e il ciclo produttivo può ripetersi in una spirale praticamente infinita. Questa spirale che, originariamente, riguarda un solo settore produttivo - quello della manifattura - coinvolge progressivamente tutti i settori della produzione e li sussume nel modo di produzione capitalistico.

E' nella natura del capitale tendere a massimizzare il profitto. Ma, dato che la forza-lavoro non può essere sfruttata più di tanto, esso deve necessariamente tentare di aumentare di continuo le forze produttive, attraverso un'organizzazione sempre più razionale della produzione e l'adozione di nuove tecniche messe a punto dal progresso scientifico. In questa tensione verso uno sviluppo illimitato delle forze produttive, da cui ricava un crescente plusvalore relativo (quello assoluto essendo dato dallo sfruttamento della forza-lavoro), Marx riconosce la specificità propria del modo di produzione capitalistico rispetto a tutti quelli che lo hanno preceduto. Tale specificità è comprovata dal fatto che la ricchezza prodotta dal capitalismo nel volgere di pochi decenni è di gran lunga superiore a quella prodotta dall'umanità in tutto il suo passato.

A quella tensione vanno ricondotte l'espansione e la diversificazione della produzione, la concorrenza tra capitalisti orientata a produrre merce al più basso costo possibile, l'estensione del capitalismo su scala mondiale, l'abbattimento dei limiti nazionali e l'universalizzazione degli scambi, il miglioramento della rete di comunicazione e di trasporti, la nascita e lo sviluppo del sistema del credito, la concentrazione e la centralizzazione dei capitali, che comporta la possibilità di investimenti su scala sempre più ampia, la nascita delle società per azioni, ecc. Tutti fenomeni - questi - nei quali Marx legge il prodursi di condizioni oggettive sulla cui base sarebbe possibile ipotizzare lo sviluppo di una società umana affrancata dalla miseria e dalla pena di vivere. Nella sua straordinaria vitalità, che dà luogo allo scambio e al mercato universale e avvia a compimento la trasformazione della natura a favore dei bisogni umani, il capitalismo rivela dunque il senso di tutte le passate epoche storiche, rivela l’uomo a se stesso nella ricchezza dei suoi bisogni e delle sue capacità. Ma questa rivelazione, nella quale consiste il significato storico del capitalismo, non può realizzarsi compiutamente all'interno del modo di produzione suo proprio.

Il limite intrinseco al capitalismo è colto da Marx nel fatto che il fine del suo sviluppo non è l’uomo, l’uomo ricco e universale del quale esso pone le premesse, bensì il profitto. Scopo univoco e cieco del capitale è l’autovalorizzazione senza limite, l’univoca trasformazione dei valori d’uso in valori di scambio. Che questo fine risulti adeguato a soddisfare i bisogni sociali - vale a dire il bisogno di felicità collettiva - è casuale. Ciclicamente, nelle fasi di espansione del capitalismo, e mai spontaneamente ma sempre per effetto delle lotte operaie, si può realizzare una convergenza tra sviluppo economico e bisogni sociali. Ma le fasi di espansione esitano inesorabilmente in quelle di recessione, nel corso delle quali gli uomini vanno sacrificati alla logica del capitale. Una volta avviato, e nella misura in cui, per la sua stessa dinamica intrinseca espansiva, la sua riproduzione assume una configurazione mondiale, il capitalismo diventa una macchina dotata di leggi sue proprie, di leggi coercitive esterne alla volontà degli uomini, compresi i capitalisti. Diventa insomma una macchina priva di potere autoregolativo, ma la cui efficienza e la cui promessa di felicità universale irretiscono tutte le coscienze.

Negli appunti lasciati da Marx per il terzo libro de Il capitale, pubblicato da Engels, dedicati al processo complessivo della produzione capitalistica, il procedere dell'analisi del sistema mondiale fa apparire a più riprese il fantasma di una potenza selvaggia, incoercibile, che vampirizza il mondo e - nonostante la ricchezza che produce - lo svuota di senso; una potenza "stregante", che aliena la coscienza umana e la induce a vedere e a leggere il mondo in un modo deformato e capovolto; una potenza che dissocia tutti i vincoli sociali, morali, culturali che ad essa si oppongono e li mercifica. E’ il tema già presente nei Manoscritti economico-filosofici, anche se, all’epoca, l’orizzonte di Marx era molto più limitato. Questa visione tragica del capitalismo è resa meno pessimistica solo dalla convinzione di Marx che le contraddizioni intrinseche al sistema capitalistico - la sottomissione della ricchezza sociale al profitto, all’autovalorizzazione, alla speculazione anziché alla valorizzazione dell’uomo e ai bisogni sociali - contengono in sé le ragioni del loro superamento. Quali sono queste ragioni? Marx le ha indagate tutta la vita, senza mai giungere ad elaborare una teoria definitiva della crisi del sistema capitalistico. Cionondimeno, la lettura de Il Capitale è estremamente significativa.

Nel libro primo, la crisi del capitalismo è ricondotta univocamente alla pauperizzazione crescente della classe operaia. Nel libro terzo, laddove Marx estende il suo orizzonte di analisi al capitalismo mondiale, questo aspetto, pur senza essere rinnegato, e reso più flessibile dal riferimento alla povertà relativa, rimane sullo sfondo. Lo sviluppo vorticoso delle forze produttive comporta di necessità un’organizzazione del sistema che viene ad essere dominato dal bisogno di denaro, dunque dal sistema creditizio. Questa trasformazione fa comparire nella storia e accresce smisuratamente il peso del capitale produttivo di interesse, il denaro che genera denaro, e, con esso, un mostruoso feticcio che può determinare speculazioni e corruzioni d’ogni genere, e la cui logica, ossessivamente rivolta all’autovalorizzazione, prescinde pressoché completamente dai bisogni sociali. E’ l’estraneità dei fini del capitale autovalorizzantesi ai fini dell’uomo, che pure esso a concorso a rendere realizzabili, il momento dialettico che permette di prevedere un suo necessario superamento.

Tale superamento può e deve avvenire, per effetto dell'azione consapevole dei lavoratori, nel nome del comunismo. Per Marx, il comunismo è anzitutto riappropriazione da parte della società della ricchezza sociale prodotta nel corso dello sviluppo storico e l'instaurazione di un controllo sociale consapevole su di essa e sulla sua ulteriore crescita al fine di porla al servizio dei bisogni sociali, vale a dire dello sviluppo di libere e universali individualità. Momento politico rivoluzionario, che conclude la 'preistoria' dell'umanità, il comunismo è nondimeno un momento culturale rivoluzionario. Esso infatti postula la consapevolezza individuale e collettiva dell'essere l'uomo un ente sociale, prodotto dalla natura e dalla storia che egli stesso ha prodotto; l'abbandono dunque di ogni illusione di trascendenza in nome dell'accettazione di un destino radicalmente mondano e di una compiuta assunzione di responsabilità esistenziale, il cui peso è alleviato dal riconoscersi parte di una totalità sociale nell'interazione con la quale egli raggiunge il suo pieno sviluppo come individuo ricco e universale. Promossa dalle condizioni oggettive, dalla ricchezza sociale posta sotto il controllo e a servizio dell'uomo, il comunismo non può realizzarsi per effetto di quelle condizioni. E' l'uomo che le usa e ne fruisce a trasformarle soggettivamente in ricchezza umana, in coscienza compiuta e irreversibile di appartenenza alla totalità sociale e di consapevole partecipazione individuale alla storia. In quanto umanizzazione della natura e naturalizzazione dell'uomo, dunque, il comunismo è umanesimo, la soluzione dell'enigma di una storia che, colta in superficie, può apparire ancora oggi un'immane tragedia senza senso.

Postilla (2009)

Un articolo su Il Sole 24 ore del 4 gennaio, firmato da Harold James, docente presso la Princeton University, portava come titolo (ironico): Oddio, Marx sta di nuovo bene.

James parte da un dato di fatto: il rinnovato interesse di studiosi, di politici e di economisti non tutti marxisti per il pensiero del filosofo tedesco. Tale interesse ha un motivo di fondo: “ora è universalmente accettato che il capitalismo fondamentalmente è andato in pezzi, con il sistema finanziario al cuore del problema. La descrizione di Marx del feticismo delle derrate - la conversione di beni in asset negoziabili, scorporati persino dal processo di creazione della loro utilità - appare assolutamente fondamentale per il complesso processo di cartolarizzazione, nel quale i valori sembrano essere nascosti da oscure transazioni.”

In pratica, Marx, dopo aver posto in luce il sistema di sfruttamento intrinseco alla produzione dei beni, ha visto, con un anticipo di un secolo e mezzo, nel nascente capitalismo finanziario il cancro che avrebbe portato il sistema al collasso in virtù di crescenti squilibri socio-economici e di ripetuti crolli del sistema del credito (bancario).

La previsione di Marx si è realizzata paradossalmente dopo un periodo di euforia (I selvaggi anni Novanta di Stiglitz) nel corso dei quali il sistema capitalistico sembrava trionfante e si autoproclamava ormai immune da crisi cicliche.

Si può certo sostenere che il sistema capitalistico ha ancora numerose risorse, per cui, dopo un periodo più o meno lungo di recessione, si riavvierà.

Qual è però il problema per cui questa previsione si può ritenere ottimistica? James lo ammette onestamente: “le banche non stanno più finanziando il credito per molte transazioni necessarie nelle operazioni base dell’economia.” Sia questo dovuto alla necessità delle banche di risanare i buchi prodotti dalla crisi o ad una sfiducia radicale nei confronti della possibilità di recuperare i prestiti (ad altre banche, alle industrie o ai privati), la tendenza a trattenere la liquidità e a non farla circolare è un dato di fatto. Dato che il credito privato (amministrato dalle banche) è la molla fondamentale del sistema capitalistico, è evidente che un suo eventuale blocco equivale ad una campana a morte per il sistema stesso.

Quali alternative si danno? James ne vede una all’orizzonte che lo fa rabbrividire: la possibilità di un intervento pesantemente dirigista dello Stato sia sul piano della nazionalizzazione di alcune banche (com’è già avvenuto) sia sul piano di una pressione sulle banche private affinché aumentino l’ammontare del credito. In questo James legge il fantasma di una programmazione dell’economia, che rappresenterebbe l’anticamera del Socialismo se non addirittura del Comunismo.

La soluzione che egli propone è semplice: aspettare che i decision maker, vale a dire gli imprenditori, giungano a produrre nuove idee atte a riavviare il sistema in una forma molto più funzionale rispetto a quella eventualmente affidata ad una versione centralizzata di pianificazione finanziaria. Aspettare, dunque, che risorgano gli imprenditori schumpeteriani. La possibilità che, nell’attesa, la società potrebbe andare incontro ad uno stato di sofferenza estrema o di convulsione non lo sfiora neppure.

Il titolo rivela, per questa via, il suo significato paradossale. E’ vero, e tutti lo sanno anche se nessuno ha il coraggio di dirlo: Marx non è affatto morto, anzi sta bene più che mai. Il problema è che, nonostante i dati storici gli diano ragione, occorre continuare a far finta che sia morto, perché una sua eventuale rinascita, in un contesto affrancato dall’incubo del sovietismo, potrebbe rivelare che il sistema capitalistico, avendo esaurito le sue risorse, non ha più contro di esso alcuna difesa immunitaria se non la pervicace intenzione di mantenere l’umanità nella sua preistoria.

En passant, riporto le dieci misure proposte da Marx per avviare la fuoriuscita dal sistema capitalistico e porre le premesse per l’edificazione del Comunismo:

“1. Espropriazione della proprietà fondiaria ed impiego della rendita fondiaria per le spese dello Stato.

2. Imposta fortemente progressiva.

3. Abolizione del diritto di successione.

4. Confisca della proprietà di tutti gli emigrati e ribelli.

5. Accentramento del credito in mano dello Stato mediante una banca nazionale con capitale dello Stato e monopolio esclusivo.

6. Accentramento di tutti i mezzi di trasporto in mano allo Stato.

7. Moltiplicazione delle fabbriche nazionali, degli strumenti di produzione, dissodamento e miglioramento dei terreni secondo un piano collettivo.

8. Eguale obbligo di lavoro per tutti, costituzione di eserciti industriali, specialmente per l'agricoltura.

9. Unificazione dell'esercizio dell'agricoltura e della industria, misure atte ad eliminare gradualmente l'antagonismo fra città e campagna.

10. Istruzione pubblica e gratuita di tutti i fanciulli. Eliminazione del lavoro dei fanciulli nelle fabbriche nella sua forma attuale. Combinazione dell'istruzione con la produzione materiale e così via.”

E’ evidente che, a distanza di un secolo e mezzo, queste misure vanno riformulate e adattate agli sviluppi storici. Ma il problema è un altro. Quelle misure Marx le riteneva possibili da realizzare da parte di uno Stato “proletario”, che, all’epoca, significava espressivo della maggioranza della popolazione. Oggi uno Stato proletario è inconcepibile. Come realizzare uno Stato che agisca in funzione dei bisogni sociali e non dei capitalisti o della casta dei politici è il nodo vitale della democrazia, se essa non vuole finire con il sistema economico che l’ha generata, utilizzata e, infine, tradita.