Samir Amin

Le fiabe del Capitale

Edizioni la meridiana, Bari 199

8. L’ECONOMIA PURA O LA STREGONERIA DEL MONDO CONTEMPORANEO

(Pp. 99-108)

Nelle università oggi si insegna una curiosa disciplina, denominata scienza economica o semplicemente «economica», come nel caso della fisica. Il suo campo sarebbe definito dalla vita economica delle società delle quali avrebbe l'ambizione di spiegare scientificamente la determinazione delle grandezze che le caratterizzano: prezzi, salari e redditi, tassi di interesse, di cambio, livello di disoccupazione, ecc.

Ma - fatto curioso - mentre la ricerca scientifica si applica a partire dalla realtà, l'economica si costruisce a partire da una posizione di principio che a questa volta le spalle. Questa posizione, definita «individualismo metodologico», immagina che la società possa essere ridotta alla somma degli individui che la compongono, ognuno dei quali - l'Homo Oeconomicus - definito a sua volta dalle leggi attraverso le quali si traduce la razionalità del suo comportamento. Non si capisce bene se, nello spirito di questa «scienza», l'elaborazione immaginaria, costruita a partire dall'interazione di queste componenti, debba produrre un immagine conforme alla realtà sociale, o se piuttosto proponga un modello normativo di ciò che dovrebbe essere la società ideale.

Chi negherebbe, infatti, l'ovvietà che gli individui costituiscono gli elementi di base di una qualsivoglia società? Ma per quale ragione quest'ovvietà dovrebbe farci credere che la società reale è il prodotto del confronto diretto dei comportamenti individuali, e non piuttosto una costruzione infinitamente più complessa nella quale si affrontano classi sociali, nazioni, Stati, grandi imprese, progetti di società, forze politiche e ideologiche, ecc.? Gli economisti non si interessano a queste evidenze, perché contrastano con la loro ambizione di costruire «un'economia pura» e di scoprire le sue leggi fondamentali, quelle cioè che risulterebbero dal solo confronto dei progetti e delle azioni degli individui che operano in un campo immaginario dell'economia spogliata da ogni altra dimensione sociale. Quest'economia pura può essere, forse, una costruzione dello spirito divertente, ma che rapporto ha con la realtà? Immaginiamo una medicina che vorrebbe «ricostruire» il funzionamento del corpo umano a partire dai soli elementi fondamentali con cui è costituita -le cellule - ignorando deliberatamente l'esistenza degli organi (il cuore, il fegato, ecc.)! Fortunatamente per la nostra salute fisica i medici non hanno fabbricato una «medicina pura» come nel caso dell'«economia pura». La probabilità che i modelli più complessi, espressione dell'interazione delle cellule, producano qualche cosa che assomigli a un corpo umano è la stessa di quella che una scimmia posta davanti ad una macchina da scrivere riproduca - per caso le opere complete di Shakespeare! Lo stesso vale per la probabilità di raggiungere un equilibrio generale, per di più ottimale, attraverso le virtù del confronto sul mercato di cinque miliardi di esseri umani.

La legittimazione di questa assurda posizione di partenza dà luogo a lungaggini filosofiche impressionanti. Von Hayek, il guru degli economisti neoliberali del nostro tempo, obbligato a costatare l'esistenza delle nazioni, degli Stati, delle classi sociali e di qualche altra realtà, si accontenta di vedervi vestigia «irrazionali»! Alla ricerca di spiegazioni razionali della società sostituisce dunque allegramente la costruzione di una realtà mitica.

L'essere umano è certamente un animale razionale, e i suoi comportamenti, anche i più curiosi, sono probabilmente spiegabili. A condizione però di situare le razionalità particolari che animano le sue azioni nel quadro appropriato che ne relativizza e precisa i meccanismi e la portata. In altri termini, la posizione olista che ragiona a partire da aggregati reali (le imprese, le classi, gli Stati, ecc.) è l'unica possibile attitudine scientifica di partenza. L'economia politica classica (e la qualifica di politica non è casuale) di Smith e Ricardo, quella di Marx e di Keynes, adottava naturalmente questa attitudine scientifica.

In più, poiché l'essere umano è intelligente, egli sarà portato a determinare i suoi comportamenti in funzione di ciò che crede essere le reazioni degli altri. L'economia pura, dunque, non dovrebbe costruire il suo modello a partire dalle esigenze di una razionalità stupida e immediata (acquisto di più se i prezzi scendono) quanto piuttosto da una razionalità che media le anticipazioni delle reazioni altrui (mi astengo dall'acquisto se credo che il prezzo diminuirà ulteriormente...). Una costruzione che volesse integrare tutti questi «dati» individuali è possibile? È, per caso, giunta al cuore del problema? O, quantomeno, vi è prossima?

Come sappiamo, l'economia pura parte da considerazioni che si ispirano ai comportamenti di Robinson nella sua isola, che sceglie fra consumo immediato e consumo futuro. Ma le «robinsonate» non finiscono qui. Gli economisti immaginano dunque che la società mondiale sia costituita da cinque miliardi di Robinson. Il suo discorso è così inaugurato da un capitolo di apertura sconvolgente nel quale cinque miliardi di unità elementari vengono trattare come «puri consumatori», che beneficiano di «dotazioni iniziali» (panieri di beni), e che cercano di scambiare su un mercato concorrenziale perfetto ciò che avanza loro in cambio di ciò che ritengono manchi loro.

Questo stile è quello dei racconti di fiabe. La favola, come sappiamo, presta - generalmente ad animali - comportamenti plausibili e immagina questi per raggiungere i propri fini, che sono poi quelli di ricavare la «morale della storia». L'economica è interamente costruita su questo modello. A ognuna delle tappe del suo sviluppo viene introdotta l'ipotesi di comportamenti plausibili che si confanno a ciò cui vuole arrivare.

Il rompicapo che segue immediatamente l'opzione dell'individualismo metodologico è il seguente: come dimostrare che l'interazione dei comportamenti razionali degli individui, integranti per di più l'anticipazione, produce un equilibrio determinato, vale a dire solo e soltanto un sistema caratterizzabile (dai suoi prezzi, la ripartizione dei redditi, il tasso di disoccupazione, quello della sua crescita, ecc.)? Il ricorso allo strumento matematico evidentemente si impone in questo caso come necessario.

Ma, a giusto titolo, i matematici provano che tutto questo generalmente non si verifica. Un sistema di equazioni di questo tipo (si tratterebbe qui di centinaia di miliardi di equazioni) è a priori piuttosto incompatibile, ovvero non ammette soluzioni. Con molte più ipotesi addizionali vi è qualche possibilità di essere compatibili ma indeterminati (un'infinità di soluzioni) e con altre ipotesi ancora di essere determinati (un unica soluzione).

Gli economisti puri si impegnano dunque a conservare le ipotesi necessarie per raggiungere il loro fine. E in questo modo che decideranno se alcune curve aggregate sono concave, altre convesse, se i rendimenti sono costanti, crescenti o decrescenti a seconda dei bisogni. E per superare ognuna delle tappe della loro dimostrazione immagineranno la favola più conveniente.

Il modello Arrow-Debreu, il gioiello di cui si pavoneggia l'economia pura, dimostra bene che -dando per scontate tutte le ipotesi massimali precedenti - esiste almeno un equilibrio generale, ma... nell'ipotesi di una concorrenza perfetta. Ora, questo presuppone l'esistenza di questo famoso banditore d'asta, centralizzatore di tutte le offerte e le domande. Curiosamente, dunque, questo modello dimostra che un pianificatore centrale, che conosca perfettamente i comportamenti dei suoi cinque miliardi di amministrati, potrebbe prendere le decisioni che produrrebbero l'equilibrio cercato! Il modello non dimostra che il mercato libero, così come esiste nella realtà, lo raggiungerebbe. Che l'economia pura dei liberali più estremisti sia così costretta a concludere che il Big Brother sia la soluzione ai suoi problemi, è certamente qualcosa di estremamente divertente! Evidentemente, non esistendo il banditore d'asta, il sistema si modifica ad ogni istante secondo i risultati prodotti dalle azioni effettive degli individui che si confrontano sui mercati. L'equilibrio - se mai lo si raggiungesse - sarà quindi il prodotto tanto del progresso - ciò che è casuale - quanto dai caratteri definibili a partire dalla razionalità degli attori. Questo equilibrio probabilmente non esisterà mai. D'altra parte, il teorema di Sonnenschein stabilisce che è impossibile dedurre dai comportamenti massimizzatori le forme delle curve di offerta e di domanda. Ma il fatto che sia stato dimostrata da parte di studiosi matematici seri l'impasse in cui sembra essersi rinchiusa l'economia pura non importa certo ai suoi teorici. Il problema infatti non è questo, come vedremo.

In più, l'equilibrio generale che potrebbe essere raggiunto miracolosamente dal confronto delle offerte e delle domande sul mercato non è caratterizzabile; esso non ci dirà nulla né sul livello di impiego, né sul tasso di crescita del prodotto. E vero però che la disoccupazione non è un soggetto che interessa l'economia pura che, semplicemente, suppone che sia sempre volontaria W!). Poiché questa supposizione-definizione è palesemente falsa, gli economisti convenzionali giustapporranno al loro discorso assurdo sull'equilibrio realizzato dal solo funzionamento dei mercati (il carattere autoregolatore del mercato), insulsaggini sulla disoccupazione che attribuiranno d'ufficio - pregiudizio reazionario banale - al fatto che i salari sarebbero «troppo elevati». Così facendo essi ignorano con una certa superbia non soltanto che la domanda dipende in larga parte dai salari, ma anche che, nella logica propria del loro sistema, una modificazione dei salari trasforma tutti i dati del sistema dell'equilibrio generale.

A questo segue la pretesa che l'equilibrio generale così ottenuto realizzerebbe l'«optimum sociale». Questa affermazione costituisce la seconda grande proposizione dell'economia pura.

Ma la «dimostrazione» si fonda in questo caso su una definizione dell'ottimo priva di senso: questa sarebbe la qualità di un equilibrio del quale non è possibile modificare alcun parametro senza che si deteriori la situazione di almeno un individuo. In altri termini, un equilibrio che condannerebbe quattro miliardi di individui a vegetare resterebbe ottimale anche se una modificazione qualunque generasse un solo individuo, per esempio il miliardario più ricco fra i cinque miliardi di abitanti del pianeta!

Questo magnifico edificio dell'economia pura immaginata a partire dalla fine del XIX secolo -in risposta evidentemente all'analisi di Marx - ignorava per principio la moneta, questo velo dietro il quale si nasconde l'economia reale. Poiché comunque quest'ultima esiste, bisognava introdurla all'interno della costruzione. La più stupida teoria quantitativa era il solo modo per farlo. Sulla sua scia, decretando che la moneta era una merce come le altre, il monetarismo - ultimo grido dell'economia pura - si sentiva autorizzato ad aggiungere alle equazioni dell'offerta e della domanda di ognuno dei cinque miliardi di individui, quelle riguardanti la loro domanda di moneta. Quanto all'offerta, essa viene supposta come un dato esogeno di cui la banca centrale può fissare il montante. Un'analisi scientifica elementare dell'emissione monetaria prova che la moneta non è una merce come un'altra perché la sua offerta è determinata dalla domanda, la quale dipende in parte dai tassi di interesse associati ai crediti e in parte dal livello dell'attività. D'altra parte, le banche centrali di cui si auspica una gestione neutra e indipendente (da chi?), in quanto avrebbero questo potere magico di fissare l'offerta di moneta - non lo fanno perché non possono farlo, ma agiscono solamente parzialmente e indirettamente sulla domanda di moneta, non sulla sua offerta, scegliendo i tassi di interesse. Ma così si ignora che questa scelta reagisce a sua volta sui livello dell'attività (attraverso gli investimenti, i consumi differiti, ecc.) e dunque su tutti i dati dell'equilibrio. Rifiutando ogni analisi olista, vale a dire ignorando la distinzione utile da fare in questo caso fra la logica finanziaria (quella dei capitali che le sono associati) e la logica dell'investimento produttivo (le strategie dei capitali che vi si sviluppoano), l'economia pura monetarista si guarda bene dal cercare le ragioni reali per le quali i tassi di interesse sono ciò che sono.

Bisogna dunque chiedersi come un esercizio così assurdo e sterile come quello rappresentato dall'economia pura possa essere oggetto dell'interesse di individui che sono muniti di un'intelligenza normale. Se avessimo voluto provare che nel campo del pensiero sociale le ideologie, i pregiudizi, gli interessi, la ricerca disperata di mezzi che ne legittimino la difesa, possano annichilire lo spirito critico scientifico, non avremmo dovuto fare di meglio che inventare l'economia pura.

L'economia pura si pretende scienza, allo stesso titolo della fisica. Essa non lo è perché vuole negare ciò che separa scientificamente la scienza sociale dalle scienze della natura. Essa vuole ignorare che la società si produce da sola, che non è fabbricata da forze esteriori. Ma, nonostante questa dichiarazione di principio, si infligge la sua stessa smentita introducendo il concetto di anticipazione per il quale l'individuo, che essa vorrebbe trattare come una realtà oggettiva, è esso stesso soggetto attivo della sua storia.

L'economia pura è una para-scienza, che sta alla scienza sociale come la parapsicologia sta alla psicologia. E d'un tratto, come ogni parascienza, essa è in grado di provare tutto e il suo contrario. «Dimmi ciò che vuoi e fabbricherò un modello che lo giustifica». Vogliamo alzare il tasso di interesse dal 6,32 % all'8,45 % o abbassarlo al 4,26 % o mantenere il suo livello attuale, si costruiranno le giustificazioni ad hoc in forma di modelli. In questo sta la sua forza: è uno strumento al servizio del capitale dominante, il paravento dietro il quale quest'ultimo può nascondere i suoi obiettivi reali. Oggi questi sono l'aggravamento della disoccupazione, la disuguaglianza crescente nella distribuzione ecc. Poiché questi obiettivi non possono essere ammessi, diventa utile «dimostrare» che costituiscono i mezzi di una transizione che conduce allo sviluppo, al pieno impiego, ecc. Come dire, domani si fa credito...

Non essendo scientifica, l'economica può mobilitare al suo servizio matematici amatori come la parapsicologia fa con alcuni psicologi. Poiché non conta che ciò che prova sia giusto -l'importante è che giustifichi la tesi che si vuole imporre - quanto piuttosto che la dimostrazione sia irreprensibile o meno. Dovrebbe certamente apparire estremamente curioso che questa «scienza» arruoli tanti matematici mediocri che nessun laboratorio di fisica vorrebbe. Ci sono certamente delle eccezioni, come Debreu. Ma in questo caso si determina una fuga in avanti. Dall'economia pura classica si passa alla teoria dei giochi che analizza il confronto delle strategie, incluse le anticipazioni degli attori. L'interesse di questa teoria per la ricerca non è certamente trascurabile, e in più può fare progredire lo strumento matematico stesso. E nondimeno, sono colpito dal fatto che ogni progresso nella teoria dei giochi allontana dalla realtà sociale. La fuga in avanti nei matematici del caos è della stessa natura. Nei due casi il fatto sociale è solo un pretesto. L'arricchimento delle teorie matematiche è il vero scopo, un obiettivo non soltanto legittimo ma anche essenziale per il progresso ulteriore della conoscenza in numerosi campi. Altri matematici - come Bernard Guerrieri o Giorgio Israel - proprio perché non sono degli amatori, hanno svolto l'opera indispensabile di mostrare l'assurdità e l'incoerenza dell'economia pura.

Dietro queste eccezioni si profila l'armata dei fabbricanti di modelli, spesso docenti bisognosi delle università (in particolare americane) la cui carriera dipende dal numero di pubblicazioni che, in generale, non dicono nulla e non vogliono dire nulla. All'interno della classe dirigente, l'economia pura lusinga le inclinazioni naturali degli ingegneri e dei tecnocrati che pensano spesso sinceramente - che il loro potere sia illimitato e che le loro decisioni producano la realtà sociale.

Il parallelo con la magia e la stregoneria si impone. Anche lo stregone presenta le sue conclusioni rivestite da una fraseologia apparentemente «scientifica». Per essere convincente, deve dire un certo numero di cose sensate e plausibili, ma per arrivare a conclusioni che non ne conseguono. Il grande stregone, intelligente, sapeva ciò che il Re si aspettava da lui, e lo produceva. L'economia pura svolge funzioni analoghe nella nostra società alienata nell'economicismo; e le svolge con mezzi analoghi: l'esoterismo della lingua (quello della matematica, a uso e consumo dei non matematici) è il principale di questi.

Milton Friedman è il grande stregone della nostra epoca. Egli ha compreso ciò che si voleva ascoltare: che i salari sono sempre troppo elevati (anche nel Bangladesh), che i profitti sono sempre insufficienti per invogliare i ricchi a investire... Da qui il suo successo, nonostante il suo spirito confusionario (ha detto tutto e il contrario di tutto, a seconda delle circostanze e degli interlocutori) e la sua disonestà intellettuale riconosciuta. Sono anche queste le qualità del grande stregone, che il Premio Nobel inevitabilmente sancisce.

E, come nella stregoneria, lo spirito delle sette occupa il campo. I piccoli stregoni si raggruppano dietro guru che organizzano la promozione dei loro allievi. Vedo in questo caso un parallelo indicativo di quest'aspetto dell'air du temps tra la proliferazione delle sette economiciste e quelle organizzate nella parascienza-parapsicologia.

Il grande uomo politico utilizza per i propri fini l'economista «puro», come il grande Re sceglieva lo stregone per lui più conveniente. 1 piccoli uominí politici invece credono all'economia pura e, se sono ancora più mediocri, aderiscono a una di queste sette, come spesso credono anche alla parapsicologia.

La più mediocre sociologia funzionalista o versione volgare del marxismo ci dice di più sulla società reale e la sua economia che lo stock di tutti i modelli dell'economia pura. Ma se le teorie sociali devono essere sempre sottomesse al vaglio della critica, se è sempre necessario essere attenti a ciò che è nuovo nella società reale e alle revisioni della teoria che ciò implica, se questo dibattito deve sempre restare aperto, libero, senza pregiudizi, ciò che mi sembra certo è che la via aperta dall'economia pura è un vicolo cieco; e precisamente perché questa teoria si vuole totalmente astorica, non vuole riconoscere nessuna dimensione della realtà sociale del passato e del presente, nulla che riguardi le sue evoluzioni future possibili. Essa non riconosce che «l'individuo», e in questo senso è il prodotto «puro» dell'ideologia borghese nella sua formulazione più rozza e volgare. E per questa ragione che la sua favola preferita è quella di Robinson nella sua isola: l'essere umano situato fuori dallo spazio e dal tempo. Essa si pone agli antipodi dello spirito scientifico. Non è certamente attraverso le determinazioni sul gioco degli individui che riusciremo a rispondere alla domanda su come la società si riproduce e produce essa stessa il suo cambiamento.

L'economia borghese, definita giustamente da Marx volgare, a fortiori la sua espressione estrema - l'economia pura che si proclama senza alcuna ragione plausibile «neoclassica» - è interamente costruita attorno a una preoccupazione esclusiva, quella di provare che il «mercato» si impone come una legge di natura, che non solo produce un «equilibrio generale», ma anche il migliore degli equilibri possibili, che garantisce il pieno impiego nella libertà, «l'optimum sociale». Questa preoccupazione altro non è che l'espressione di un bisogno ideologico fondamentale, quello di legittimare il capitalismo definito in questo modo come un sinonimo di Ragione, la quale, conformemente all'ideologia borghese, è a sua volta ridotta alla razionalità della ricerca individuale del profitto di mercato. Su questi dubbi fondamenti, il capitalismo può proclamarsi «eterno», rappresentare la «fine della storia». Ora, non soltanto l'economica non è mai riuscita a provare le sue proposizioni fondamentali con un minimo di rigore scientifico, ma anzi è stato dimostrato che il suo metodo non lo permette. Ma questo cosa importa! Tanto il suo obiettivo reale non è altro che legittimare la libera azione del capitale.

In contrasto con questo discorso non scientifico, l'economia politica di Marx e il materialismo storico che ne è la cornice di riferimento, liberato dal pregiudizio della giustificazione di questo mondo capitalista reale (che non è un sinonimo di razionale), pone le vere domande: come le lotte di classe determinano in ogni momento gli «equilibri» che caratterizzano il sistema in questo momento. La lotta di classe fondamentale che oppone il lavoro al capitale, ma anche i conflitti all'interno della classe dominante che oppone mutuanti finanziari ed investitori produttivi, imprenditori e proprietari, oligopoli fra di loro, ecc., come gli interventi dello Stato guidati dalla logica politica e sociale del blocco storico dominante (le alleanze di classi egemoniche e i compromessi sociali) determinano insieme le condizioni di un equilibrio possibile, in particolare fra il settore I (la produzione dei mezzi di produzione) e il settore II (la produzione di beni di consumo), o tra questi due settori e il settore III (che permette l'assorbimento del surplus), i livelli di impiego (che non è definito a priori «pieno»), le strutture dei prezzi relativi e delle rendite, i tassi di interesse, le pressioni sul rialzo o il ribasso del livello generale dei prezzi, i vantaggi comparativi apparenti che guidano la competitività sui mercati mondiali. Nessuna ipotesi per la quale il sistema tenderebbe all'equilibrio generale viene avanzata a priori. Le lotte di classe non perturbano un equilibrio - o un non equilibrio - realmente esistente, sempre provvisorio. In definitiva, l'economia politica marxista è realista, mentre l'economia pura non lo è in alcun modo, e fa astrazione dalla realtà (le classi, lo Stato, il sistema mondo) che elimina dal suo discorso, diventando così una favola mitica.

L'economia pura non occupa generalmente un posto di primo piano nella storia del pensiero sociale. Al contrario, solitamente, è relegata in qualche asilo del mondo accademico, mentre il mondo della vita sociale e politica l'ignora del tutto e si accontenta di tanto in tanto, secondo le necessità, di appropriarsi di una o di un'altra delle sue «conclusioni» o «tesi». Affinché quest'utopia reazionaria sia portata agli onori della cronaca, come ai nostri giorni, è necessario che si verifichino contemporaneamente condizioni eccezionali, che tutti gli equilibri sociali siano stati sconvolti a vantaggio di una dominio unilaterale del capitale. Ciò non può che essere provvisorio, non fosse altro perché, contrariamente a ciò che pretende l'utopia reazionaria in questione (che si riassume in una frase: la massima libertà d'impresa, senza freni e senza limiti assicura di per sé il progresso più straordinario possibile!), questo dominio unilaterale non produce altro che una crisi profonda della società. L'economia pura appare allora come un eccellente mezzo per gestire questa crisi prolungando lo squi­librio sociale a beneficio del capitale (oggi il suo segmento finanziario mondializzato), ma certamente non di uscirne. Se la società uscirà da questa crisi, sarà grazie a nuovi equilibri -che la lotta di classe produrrà -, nell'ambito dei quali classi, nazioni, Stati, imprese, ecc. -vale a dire tutte queste realtà che l'economia pura ignora - riprenderanno il loro posto. Allora, non sentiremo più parlare dell'economia pura, che sarà ricacciata nei suoi asili accademici.