K. R. Popper

La società aperta e i suoi nemici

Hegel e Marx falsi profeti

Armando, Roma 1981
CAPITOLO VENTICINQUESIMO (pp.341-369)
LA STORIA HA UN SENSO?

1.

[...] Lo storicismo è una filosofia sociale e politica e morale (o, direi piuttosto, immorale) e, in quanto tale, ha esercitato una grande influenza fin dall'inizio della nostra civiltà. Non è quindi possibile commentarne la storia senza discutere i problemi fondamentali della società, della politica e della morale. Ma una discussione siffatta, lo si ammetta o no, deve sempre contenere un forte elemento personale. Ciò non significa che gran parte delle affermazioni contenute in questo libro si riducano a mera enunciazione di opinioni personali; nei pochi casi in cui espongo le mie personali proposte o decisioni di natura morale e politica, ho sempre messo in chiaro il carattere personale delle proposte o decisioni stesse. Significa piuttosto che la scelta dell'argomento è una questione di scelta personale in misura molto maggiore di quanto non avvenga, per esempio, in un trattato scientifico.

Per certi aspetti, tuttavia, questa differenza è solo una questione di grado. Neppure una, scienza è semplicemente un «insieme di fatti». Essa è, almeno, una raccolta, una scelta di fatti e, come tale, dipende dagli interessi di colui che fa la raccolta e la scelta, cioè dipende da un punto di vista. Nella scienza, questo punto di vista è di solito determinato da una teoria scientifica; cioè, noi scegliamo dall'infinita varietà di aspetti e difatti quei fatti e quegli aspetti che appaiono interessanti perché risultano in connessione con una più o meno preconcetta teoria scientifica. Una certa scuola di filosofi del metodo scientifico, partendo da considerazioni di questo genere, è giunta alla conclusione che la scienza si muove sempre entro un circolo, e «che siamo sempre nella condizione di rincorrere la nostra coda», come dice Eddington, dal momento che possiamo far uscire dal contesto della nostra esperienza fattuale soltanto quello che ci abbiamo preventivamente messo dentro, nella forma delle nostre teorie. Ma questo non è un argomento che regga.

Benché sia, in genere, senz'altro vero che scegliamo soltanto fatti che hanno relazione con qualche teoria preconcetta, non è affatto vero che scegliamo soltanto quei fatti che confermano la teoria e, per così dire, la ribadiscono; il metodo della scienza è piuttosto quello di ricercare fatti che possono confutare la teoria. Quella che chiamiamo verifica di una teoria consiste in questo: nel vedere se non si riesca a trovare in essa un punto debole. Ma benché i fatti siano raccolti in funzione della teoria e benché la confermino nella misura in cui la teoria regge a queste verifiche, essi sono ben più che una specie di vuota ripetizione di una teoria preconcetta. Essi confermano la teoria soltanto se sono i risultati di vani tentativi di smentirne le predizioni e quindi sono una valida testimonianza in favore di essa. Perciò io sostengo che appunto nella possibilità di smentirla o di dimostrarne falsità consiste la possibilità di verificarla, e quindi il carattere scientifico di una teoria; e il fatto che tutte le verifiche di una teoria siano tentativi di dimostrazione della falsità di predizioni formulate per mezzo di essa fornisce la chiave del metodo scientifico. Questa concezione del metodo scientifico è confermata dalla storia della scienza, la quale mostra che le teorie scientifiche sono spesso smentite dagli esperimenti e che la smentita delle teorie è effettivamente il veicolo del progresso scientifico. L'asserzione che la scienza si muova in circolo non può essere accettata.

Ma c'è un elemento di questa asserzione che resta vero; e cioè che tutte le descrizioni scientifiche di fatti sono estremamente selettive e dipendono sempre da teorie. Si può meglio illustrare la situazione indicata se ricorriamo alla similitudine del riflettore (quella che io di solito chiamo la «teoria-riflettore della scienza» in opposizione alla «teoria-ricettacolo della mente). Ciò che il riflettore rende visibile dipende dalla sua posizione, dal nostro modo di dirigerne il fascio luminoso, dalla sua intensità, dal suo calore, ecc.; anche se naturalmente, dipende pure in larghissima misura dalle cose che esso illumina. Analogamente, una descrizione scientifica dipende, in larga misura, dal nostro punto di vista, dai nostri interessi che sono di norma connessi con la teoria o ipotesi che intendiamo verificare; benché dipenda anche dai fatti descritti. Di fatto, la teoria o ipotesi può essere definita come la cristallizzazione di un punto di vista. Infatti, se cerchiamo di formulare il nostro punto di vista, questa formulazione sarà, di norma quella che talvolta si chiama un'ipotesi di lavoro; vale a dire, una presupposizione provvisoria la cui funzione è quella di aiutarci a selezionare e a ordinare i fatti. Ma dobbiamo mettere in chiaro che non ci può essere alcuna teoria o ipotesi che non sia, in questo senso, un'ipotesi di lavoro e che non resti tale. Infatti, nessuna teoria è conclusiva ed ogni teoria ci aiuta a selezionare e a ordinare i fatti. Questo carattere selettivo di ogni descrizione la rende in certo senso «relativa», ma solo nel senso che noi presenteremo non questa, ma un'altra descrizione se il nostro punto di vista fosse diverso. Esso può anche incidere sulla nostra fiducia nella verità della descrizione; ma non incide sulla questione della verità o falsità della descrizione; la verità non è “relativa" in questo senso.

Ogni descrizione risulta selettiva, per la semplice e ovvia ragione che infinita è la ricchezza e varietà dei possibili aspetti dei fatti del nostro mondo. Al fine di descrivere questa infinita ricchezza noi abbiamo a nostra disposizione soltanto un numero finito di serie finite di parole. Perciò possiamo descrivere quanto a lungo vogliamo: la nostra descrizione sarà sempre incompleta, una semplice selezione, e per giunta piccola, dei fatti che si presentano per la descrizione. Ciò mostra che non solo è impossibile evitare un punto di vista selettivo, ma anche che è assolutamente indesiderabile tentare di evitarlo, perché, se potessimo evitarlo, non otterremmo una descrizione più «obiettiva», ma soltanto un semplice cumulo di enunciati tra loro totalmente sconnessi. Ma, naturalmente, un punto di vista è inevitabile, e l'ingenuo tentativo di evitarlo può solo portare all'autoinganno e all'applicazione acritica di un punto di vista inconscio. Tutto ciò è vero, in misura ancora maggiore, nel senso della descrizione storica, con il suo «contenuto infinito», come lo chiama Schopenhauer. Così nella storia non meno che nella scienza noi non possiamo evitare un punto di vista e la convinzione di poterlo evitare ci porterebbe all'autoinganno e alla mancanza di rigore critico. Ciò non significa, naturalmente, che ci sia consentito di falsificare ogni cosa o di prendere alla leggera questioni di verità. Qualsiasi descrizione storica particolare difatti sarà semplicemente vera o falsa, per quanto difficile possa essere il decidere della sua verità o falsità.

Fino a questo punto la posizione della storia è analoga a quella delle scienze naturali, per esempio della fisica. Ma se confrontiamo la parte svolta da un «punto di vista» in storia con quella svolta da un «punto di vista» in fisica riscontriamo una grande differenza. In fisica come abbiamo osservato, il «punto di vista» è di solito costituito da una teoria fisica che può essere verificata mediante l'accertamento di nuovi fatti. In storia, la faccenda non è altrettanto semplice.

Consideriamo prima un po' più attentamente il ruolo delle teorie in una scienza naturale come la fisica. Qui le teorie hanno compiti diversi tra loro connessi. Esse aiutano a unificare la scienza e aiutano sia a spiegare che a predire gli eventi. A proposito di spiegazione e di predizione mi permetto di citare da una delle mie pubblicazioni: «Dare una spiegazione causale di un evento significa dedurre una asserzione (che sarà chiamata prognosi) che lo descrive, usando come premesse della deduzione una o più leggi universali insieme con alcune asserzioni singolari dette condizioni iniziali. Per esempio, possiamo dire di aver dato una spiegazione causale della rottura di un certo pezzo di filo se abbiamo trovato che il filo ha una resistenza alla trazione di mezzo Kg., ed è stato caricato con peso di 1 Kg. Se analizziamo questa spiegazione causale, troveremo che consta di due diverse componenti.

1. Noi supponiamo alcune ipotesi che hanno il carattere di leggi universali di natura; nel nostro caso qualcosa di questo genere: 'Un filo si rompe tutte le volte che viene caricato con un peso che supera il peso che definisce la resistenza alla trazione di quel filo'.

2. Noi supponiamo alcune asserzioni singolari (le condizioni iniziali) relative al particolare evento in questione; nel nostro caso, possiamo avere le due asserzioni: 'Il carico di rottura di questo filo è mezzo Kg.', e 'Il peso con cui è stato caricato questo filo è 1 Kg.'.

Abbiamo così due differenti tipi di asserzioni che sono entrambe ingredienti necessari di una spiegazione causale completa. Esse sono: 1) asserzioni universali: cioè ipotesi che hanno il carattere di leggi di natura e 2) asserzioni singolari, che valgono per l'evento specifico in questione e che chiamerò 'condizioni iniziali'. Ora dalle asserzioni universali, di cui al punto 1), deduciamo, con l'aiuto delle condizioni iniziali, di cui al punto 2), l'asserzione singolare: 3) 'Questo filo si romperà'. La conclusione di cui al punto 3) possiamo anche chiamarla una prognosi specifica. Le condizioni iniziali (o, più precisamente, la situazione da esse descritta) sono abitualmente dette la causa dell'evento in questione, e la prognosi (o meglio l'evento descritto dalla prognosi) è detta l'effetto: per esempio il fatto che un filo, che ha una resistenza alla trazione di mezzo Kg., sia stato caricato con un peso di 1 Kg. è la "causa' della rottura del filo.

Da questa analisi della spiegazione causale possiamo ricavare varie considerazioni. Una è che non possiamo mai parlare di causa ed effetto in modo assoluto, ma che un evento è causa di un altro evento, che ne è l'effetto, solo in relazione a qualche legge universale. Tuttavia, queste leggi universali sono molto spesso così ovvie (come nel nostro esempio) che di norma le accettiamo come vere invece di farne un uso cosciente. Un'altra è che l'impiego di una teoria al fine di predire qualche evento specifico non è altro che un particolare aspetto del suo impiego al fine di spiegare l'evento stesso. E poiché noi controlliamo una teoria mettendo a confronto gli eventi predetti con quelli effettivamente osservati, la nostra analisi mostra anche come le teorie possono essere controllate. Il fatto che si usi una teoria al fine di spiegazione o di predizione o di controllo dipende dal nostro interesse e dal genere di proposizioni che prendiamo come date o presupposte.

Così nel caso delle cosiddette scienze generalizzanti o teoriche (come la fisica, la biologia, la sociologia, ecc.) il nostro interesse è prevalentemente centrato sulle ipotesi o leggi universali. Noi vogliamo sapere se esse sono vere, e, poiché non possiamo mai essere direttamente certi della loro verità, adottiamo il metodo della eliminazione di quelle false. Il nostro interesse per gli eventi specifici, per esempio per esperimenti che sono descritti dalle condizioni iniziali e dalle prognosi, è piuttosto limitato; essi ci interessano soprattutto come mezzi in funzione di certi fini, mezzi grazie ai quali possiamo controllare le leggi universali, le quali ultime sono considerate come interessanti in se stesse e unificatrici della nostra conoscenza.

Nel caso delle scienze applicate, il nostro interesse è diverso. L'ingegnere che usa la fisica al fine di costruire un ponte ha prevalentemente interesse per una prognosi: se cioè un ponte di un certo genere descritto (dalle condizioni iniziali) sopporterà o meno un certo carico. Per lui, le leggi universali sono mezzi in funzione di un fine e accettate per vere.

Quindi, le scienze generalizzanti pure e applicate sono rispettivamente interessate a controllare ipotesi universali e a predire eventi specifici. Ma c'è anche. un altro interesse, quello di spiegare un evento specifico o particolare. Se vogliamo spiegare un evento del genere, per esempio un certo incidente stradale, di solito presupponiamo tacitamente un complesso di leggi universali piuttosto ovvie (come quella che un osso si spezza sotto una certa pressione, o che qualsiasi automobile che urti in un certo modo un corpo umano esercita una pressione sufficiente a spezzare un osso, ecc.) ed abbiamo prevalentemente interesse per le condizioni iniziali o per la causa che, unitamente a queste ovvie leggi universali, è in grado di spiegare l'evento in considerazione. Noi allora presupponiamo di solito, in via ipotetica, certe condizioni iniziali e cerchiamo di trovare qualche ulteriore conferma al fine di stabilire se queste condizioni iniziali, presupposte in via ipotetica, sono vere o meno; vale a dire, mettiamo alla prova queste ipotesi specifiche deducendo da esse (con l'aiuto di alcune altre e di solito altrettanto ovvie leggi universali), nuove predizioni che possono essere messe a confronto con fatti osservabili.

Molto raramente ci troviamo nelle condizioni di doverci preoccupare delle leggi universali implicate in una spiegazione siffatta. Ciò avviene soltanto quando osserviamo qualche genere nuovo o strano di evento, come ad esempio una reazione chimica imprevista. Se un evento di questo genere dà luogo alla formulazione e alla verifica di nuove ipotesi, esso allora è interessante soprattutto dal punto di vista di qualche scienza generalizzante. Ma, di norma, se abbiamo interesse per eventi specifici e per la loro spiegazione, accettiamo come vere tutte le numerose leggi universali di cui abbiamo bisogno.

Ora, le scienze che hanno questo interesse per eventi specifici e per la loro spiegazione possono, per opposizione alle scienze generalizzanti, essere chiamate scienze storiche.

Questa concezione della storia chiarisce perché tanti studiosi di storia e del suo metodo ribadiscono che il loro interesse verte sull'evento particolare e non sulle cosiddette leggi storiche universali. Dal nostro punto di vista, non ci possono essere leggi storiche. La generalizzazione appartiene senz'altro a una diversa linea di interesse, che si deve distinguere nettamente da quell'interesse per gli eventi specifici e per la loro spiegazione causale che è compito della storia. Coloro che hanno interesse per le leggi devono rivolgersi alle scienze generalizzanti (per esempio alla sociologia). Il nostro punto di vista chiarisce anche perché la storia è così spesso stata descritta come la totalità «degli eventi del passato quali effettivamente sono avvenuti». Questa definizione evidenzia molto bene l'interesse specifico dello studioso di storia, in opposizione a quello dello studioso di una scienza generalizzante, anche se contro di essa dovremo sollevare alcune obiezioni. E il nostro punto di vista spiega pure perché, nella storia, molto più che nelle scienze generalizzanti, ci troviamo di fronte a problemi del suo «soggetto infinito». Infatti, le teorie o leggi universali della scienza generalizzante introducono sia unità che un «punto di vista»; esse creano, per ogni scienza generalizzante, i suoi problemi e i suoi centri sia di interesse che di ricerca, di costruzione logica e di presentazione.

Ma in storia noi non disponiamo di siffatte teorie unificanti; o meglio, la molteplicità di leggi universali ovvie che usiamo è accettata per vera; esse sono praticamente prive di interesse e totalmente inadatte a mettere ordine nella materia trattata. Se per esempio, spieghiamo la prima divisione della Polonia nel 1772 osservando che essa non avrebbe potuto resistere alle forze unite della Russia, della Prussia e dell'Austria, in tal caso usiamo tacitamente qualche ovvia legge universale come questa: «Se di due eserciti che sono quasi ugualmente ben armati e guidati, uno ha una stragrande superiorità di uomini, l'altro non può mai vincere». (Il dire in questo caso «mai» oppure «quasi mai», non comporta, ai nostri fini, una grossa differenza). Una legge siffatta si potrebbe chiamarla una legge della sociologia della forza militare; ma essa è troppo ovvia per sollevare un serio problema per gli studiosi di sociologia o per richiamare la loro attenzione. Ovvero, se spieghiamo la decisione di Cesare di attraversare il Rubicone con la sua ambizione ed energia, allora utilizziamo alcune generalizzazioni psicologiche assolutamente ovvie che non richiamerebbero mai l'attenzione di uno psicologo. (In realtà, gran parte delle spiegazioni storiche fanno tacito uso, non tanto di ovvie leggi sociologiche e psicologiche, quanto piuttosto di quella che, nel Capitolo XIV, ho chiamato la logica della situazione; vale a dire che, oltre alle condizioni iniziali che descrivono fini, interessi personali ed altri fattori situazionali, come l'informazione a disposizione della persona interessata, le spiegazioni storiche tacitamente presuppongono, in via di prima approssimazione, l'ovvia legge generale che le persone sane agiscono, di norma,.più o meno razionalmente).

3.

E' quindi evidente che quelle leggi universali che la spiegazione storica utilizza non forniscono alcun principio selettivo e unificante, alcun «punto di vista» per la storia. In un senso estremamente limitato un punto di vista siffatto si può ottenere restringendo la storia alla storia di qualcosa; ne sono esempio la storia della politica di potenza, o delle relazioni economiche, o della tecnologia o della matematica. Ma, di regola, abbiamo bisogno di altri principi selettivi, di altri punti di vista che siano nello stesso tempo centri di interesse. Alcuni di questi sono forniti da idee preconcette che in qualche modo assomigliano a leggi universali, come ad esempio l'idea che ciò che conta per la storia è il carattere dei «grandi uomini» o il «carattere nazionale» o le idee morali o le condizioni economiche, ecc. Ora, è importante rilevare che molte «teorie storiche» (sarebbe meglio definirle «quasiteorie») sono per il loro carattere, molto diverse dalle scientifiche. Infatti nella storia (comprese le scienze naturali storiche come la geologia storica) i fatti a nostra disposizione sono spesso estremamente limitati e non possono essere ripetuti o riprodotti a volontà. Essi inoltre sono stati raccolti in conformità con un punto di vista preconcetto; le cosiddette «fonti» della storia registrano solo quei fatti che sono sembrati sufficientemente interessanti da registrare, sicché le fonti contengono, di solito, soltanto fatti che quadrano con una teoria preconcetta. E dal momento che altri fatti non sono disponibili, non sarà, di norma, possibile controllare quella teoria o qualsivoglia altra teoria successiva. A siffatte teorie storiche incontrollabili si può legittimamente muovere l'accusa di essere circolari nel senso in cui questa accusa è stata ingiustamente rivolta alle teorie scientifiche. Io chiamo siffatte teorie storiche, in opposizione alle teorie scientifiche, interpretazioni generali».

Le interpretazioni sono importanti perché rappresentano un punto di vista. Ma abbiamo visto che un punto di vista è sempre inevitabile e che, in storia, si può solo raramente ottenere una teoria che possa essere controllata e che quindi abbia carattere scientifico. Perciò non dobbiamo pensare che un'interpretazione generale possa essere confermata dal fatto che risulta in accordo anche con tutte le testimonianze di cui disponiamo; infatti, dobbiamo tener presente sia la sua circolarità sia il fatto che ci sarà sempre un certo numero di altre (e forse incompatibili) interpretazioni che concordano con le stesse testimonianze e che raramente possiamo ottenere nuovi dati che abbiano la stessa funzione che hanno gli esperimenti decisivi in fisica. Gli storici spesso non vedono che qualche altra interpretazione quadra con i fatti come quadra la loro, ma se consideriamo che anche nel campo della fisica, con la sua più ricca abbondanza di fatti, nuovi esperimenti decisivi risultano spesso necessari perché quelli vecchi appaiono tutti in armonia con due teorie fra loro concorrenti e incompatibili (ricordiamo per esempio l'esperimento dell'eclissi necessario per decidere fra le teorie della gravitazione di Newton e di Einstein), allora abbandoneremo l'ingenua credenza che ogni determinato insieme di testimonianze storiche possa, essere sempre interpretato in un modo soltanto.

Ma ciò non significa, naturalmente, che tutte le interpretazioni hanno lo stesso valore. In primo luogo, ci sono sempre interpretazioni che non sono realmente in armonia con le testimonianze esistenti, in secondo luogo, ce ne sono alcune che hanno bisogno di un certo numero di ipotesi ausiliarie più o meno plausibili per evitare il rischio di essere smentite dalle testimonianze; infine, ce ne sono alcune che non riescono a integrare in un tutto un certo numero di fatti che un'altra interpretazione riesce invece a integrare e quindi a «spiegare». Si possono quindi registrare considerevoli progressi anche nel campo dell'interpretazione storica. Inoltre, ci possono essere stadi intermedi di vario genere fra «punti di vista» più o meno universali e quelle ipotesi storiche o singolari che abbiamo ricordato più sopra, le quali nella spiegazione degli eventi storici svolgono il ruolo di condizioni iniziali ipotetiche piuttosto che di leggi universali. Piuttosto spesso queste possono essere verificate abbastanza bene, e quindi sono paragonabili alle teorie scientifiche. Ma alcune di queste ipotesi specifiche hanno stretta somiglianza con quelle quasiteorie universali che ho chiamato interpretazioni e possono quindi essere classificate, con queste, come «interpretazioni specifiche».

Infatti, la prova a sostegno di una siffatta interpretazione specifica ha spesso appunto l stesso carattere circolare della prova a sostegno di qualche «punto di vista» universale. Per esempio, la nostra unica fonte può darci, a proposito di certi eventi, precisamente quella informazione che quadra con la sua propria interpretazione specifica. La maggior parte delle interpretazioni specifiche di questi fatti che noi possiamo tentare saranno quindi circolari nel senso che quadrano necessariamente con quella interpretazione che è stata usata nella selezione originaria dei fatti. Se, tuttavia, noi possiamo dare a tale materiale un'interpretazione che si differenzi radicalmente da quella adottata dalla nostra fonte (e così certamente avviene, per esempio, nella nostra interpretazione dell'opera di Platone), allora il carattere della nostra interpretazione può forse presentare una certa rassomiglianza con quello di un'ipotesi scientifica. Ma, in sostanza, è necessario tener presente che è un argomento molto dubbio a sostegno di una certa interpretazione il fatto che essa possa essere facilmente applicata e che spieghi tutto quello che conosciamo, infatti, solo se possiamo trovare dei controesempi possiamo verificare una teoria. (Questo punto è quasi sempre trascurato dagli ammiratori delle varie «filosofie rivelatrici», specialmente dagli psicanalisti, dai socioanalisti e dagli storioanalisti; essi sono spesso sedotti dalla facilità con cui le loro teorie possono essere applicate in ogni campo).

Ho detto prima che certe interpretazioni possono essere incompatibili; ma esse tali non sono finché le consideriamo semplicemente come cristallizzazioni di punti di vista. Per esempio, l'interpretazione secondo la quale l'uomo progredisce continuamente (verso la società aperta o verso qualche altro fine) è incompatibile con l'interpretazione secondo la quale egli continuamente retrocede o regredisce. Ma il «punto di vista» di chi guarda alla storia umana come a una storia di progresso non è necessariamente incompatibile con quello di chi guarda ad essa come a una storia di regresso, in altri termini noi possiamo scrivere una storia del progresso umano verso la libertà (che contenga, per esempio, la storia della lotta contro la schiavitù) e un'altra storia del regresso e dell'oppressione umana (che contenga, per esempio, cose come la pressione della razza bianca sulla razza di colore); e queste due storie non risultano necessariamente in conflitto; piuttosto, possono essere complementari, come possono esserlo due vedute dello stesso paesaggio visto da due punti diversi. Questa considerazione è di considerevole importanza. Infatti, poiché ogni generazione ha le sue difficoltà e i suoi problemi e, quindi, i propri interessi e il proprio punto di vista, ne segue che ogni generazione ha il diritto di guardare alla storia e di reinterpretarla a modo proprio, cioè in un modo che risulta complementare rispetto a quello delle generazioni precedenti.

Dopo tutto, noi studiamo la storia perché abbiamo interesse per essa e forse perché desideriamo imparare qualcosa intorno ai nostri stessi problemi. Ma la storia non può servire a nessuno di questi due fini se, sotto l'influenza di una irrealizzabile idea di obiettività, esitiamo a presentare i problemi storici dal nostro punto di vista. D'altra parte, non dobbiamo pensare che il nostro punto di vista, se consapevolmente e criticamente applicato al problema debba essere inferiore a quello di uno scrittore che ingenuamente creda di non interpretare ma di avere raggiunto un livello di obiettività tale che gli permette di presentare “gli eventi del passato come effettivamente sono avvenuti". (Questa è la ragione per cui credo che anche certi commenti dichiaratamente personali come quelli che si trovano in questo libro sono giustificati, perché sono in armonia con il metodo storico). L'importante è essere consapevoli del proprio punto di vista e critici; cioè evitare, nella misura del possibile, pregiudizi inconsci e quindi acritici nella presentazione dei fatti. Per ogni altro rispetto, l'interpretazione deve parlare da sé; e ,i suoi pregi saranno da una parte la sua fecondità, cioè la capacità di chiarire i fatti della storia, e dall'altra il suo interesse attuale, cioè la capacità di chiarire i problemi del giorno.

Insomma, non ci può essere nessuna storia del «passato come è effettivamente avvenuto»; ci possono essere soltanto interpretazioni storiche e nessuna di esse conclusiva; ogni generazione ha diritto di elaborare la propria. Anzi, non ha solo il diritto di elaborare la sua propria interpretazione, ma ha anche il dovere di farlo, perché ci sono in realtà pressanti esigenze alle quali bisogna dare risposta. Noi vogliamo sapere come le nostre difficoltà presenti sono connesse con il passato e vogliamo vedere la linea lungo la quale possiamo progredire verso la soluzione di quelli che sentiamo che sono, e decidiamo che siano, i nostri propri compiti fondamentali. E' questo bisogno che, se non è soddisfatto con mezzi razionali e corretti, dà luogo a interpretazioni storicistiche. Sotto la sua pressione lo storicista sostituisce all'interrogativo razionale: «Quali dobbiamo considerare come i nostri più urgenti problemi, come sono sorti e lungo quali linee possiamo procedere per risolverli?» l'irrazionale e apparentemente fattuale interrogativo: “Per quale via stiamo procedendo? Qual è, in sostanza, la parte che la storia ci ha destinato di rappresentare?".

Ma, è giusto che io neghi allo storicista il diritto di interpretare la storia a suo modo? Non ho proclamato or ora che ognuno ha tale diritto? Rispondo a questa domanda precisando che le interpretazioni storicistiche sono di un genere particolare. Quelle interpretazioni che si presentano come necessarie e giustificate e l'usa o l'altra delle quali finiamo con l'adottare, possono essere paragonate, come ho detto a un riflettore. Noi lo dirigiamo sul nostro passato e speriamo, grazie al suo fascio di luce di illuminare il presente. Al contrario, l'interpretazione storicistica può essere paragonata a un riflettore che dirigiamo su noi stessi. In conseguenza di ciò diventa difficile, se non impossibile, vedere alcunché dell'ambiente che ci circonda e le nostre azioni ne restano paralizzate. Per esplicitare questa metafora dirò che lo storicista non ammette che siamo noi a selezionare e ordinare i fatti della storia, ma crede che la «storia stessa» e la «storia del genere umano» determini, per effetto delle leggi ad essa immanenti, noi stessi, il nostro futuro e anche il nostro punto di vista. Invece di riconoscere che l'interpretazione storica deve rispondere a un bisogno che scaturisca dalle decisioni e dai problemi pratici di fronte ai quali veniamo a trovarci, lo storicista crede che nel nostro desiderio di interpretazione storica si esprime la profonda intuizione che, contemplando la storia, possiamo scoprire il segreto, l'essenza del destino umano. Lo storicismo è impegnato a scoprire il cammino sul quale il genere umano è destinato a marciare; è impegnato a scoprire la chiave della storia (come lo chiama J. Macmurray) o il senso della storia.

4.

Ma esiste una chiave siffatta? Esiste un senso della storia?

Non voglio qui affrontare il problema del significato di «senso»; do' per scontato che la maggior parte della gente sappia con sufficiente chiarezza che cosa intende dire quando parla del «senso della storia» o del «senso della vita». E in questo senso, nel senso in cui si pone la domanda del significato della storia, io rispondo: La storia non ha alcun senso.

Al fine di dar ragione di questa mia opinione, devo prima di tutto dire qualcosa a proposito di quella «storia» alla quale la gente si riferisce quando si chiede se essa ha senso. Finora, anch'io ho parlato della «storia» come se non avesse bisogno di alcuna spiegazione. Ciò non è più oltre possibile; infatti, voglio mettere in chiaro che la «storia» nel senso in cui la maggior parte della gente ne parla, semplicemente non esiste; e questa è almeno una delle ragioni per cui dico che essa non ha alcun senso.

Come arriva la maggior parte della gente a usare il termine «storia»? (Intendo «storia» nel senso in cui diciamo che un libro riguarda la storia d'Europa, non nel senso in cui diciamo che è una storia d'Europa). Essa la impara nella scuola e all'università; legge dei libri di storia; vede che cosa viene trattato nei libri sotto il nome di «storia del mondo» o di «storia del genere umano» e si abitua a considerarla come una serie più o meno definita di fatti. E questi fatti costituiscono, a suo giudizio, la storia del genere umano.

Ma abbiamo già visto che il campo dei fatti è infinitamente ricco e che si deve fare una selezione. Secondo i nostri interessi, possiamo, per esempio, scrivere di storia dell'arte, o di storia del linguaggio, o di storia delle abitudini alimentari, o di storia della febbre tifoide (si veda Rats, Lice, and History dello Zinsser). Certamente, nessuna di queste è la storia del genere umano (come non lo sono, del resto, neppure tutte queste storie messe insieme). Ciò a cui la gente pensa quando parla della storia del genere umano è, piuttosto, la storia degli imperi egiziano, babilonese, persiano, macedone e romano, e così via, fino ai nostri giorni. In altre parole: la gente parla di storia del genere umano, ma di fatto intende riferirsi, ed è questo che ha imparato a scuola, alla storia del potere politico.

Non c'è alcuna storia del genere umano, c'è soltanto un numero indefinito di storie dei diversi aspetti della vita umana. E una di esse è la storia del potere politico. Questa è elevata alla dignità di storia del mondo. Ma in questo caso si tratta a mio giudizio di una vera e propria offesa a una giusta concezione del genere umano.

Non è per nulla meglio che considerare la storia della malversazione o del ladrocinio o del veneficio con la storia del crimine internazionale e dell'assassinio di massa (compresi, naturalmente, alcuni degli sforzi intesi a eliminarli entrambi). Questa storia è insegnata nelle scuole e alcuni dei più grandi criminali sono esaltati come suoi eroi.

Ma non esiste davvero qualcosa come una storia universale nel senso di una storia concreta del genere umano? Non esiste e non può esistere. Questa dev'essere a mio giudizio, la risposta di ogni umanitario e soprattutto quella di ogni cristiano. Una storia concreta del genere umano, se ce ne potesse essere una, dovrebbe essere la storia di tutti gli uomini. Dovrebbe essere la storia di tutte le speranze, lotte e sofferenze umane. Infatti non esiste uomo che sia più importante di un altro uomo. Evidentemente, questa storia concreta non può essere scritta. Dobbiamo procedere per astrazioni, dobbiamo trascurare, dobbiamo scegliere. Ma in questo modo, arriviamo alle molte storie e, fra esse, a quella storia del crimine internazionale, e dell'assassinio di massa che è stata propagandata come la storia del genere umano.

Ma perché è stata scelta proprio la storia del potere e non, per esempio, quella della religione o della poesia? Le ragioni sono molte. Una di esse è che il potere ci riguarda tutti, mentre la poesia interessa soltanto a pochi. Un'altra è che gli uomini sono inclini a venerare il potere. Ma non c'è dubbio che il culto del potere è uno dei peggiori generi di idolatrie umane, un relitto del tempo della gabbia, della servitù umana. Il culto del potere è figlio della paura, emozione che è giustamente disprezzata. Una terza ragione per cui la politica di potere è diventata il nucleo centrale della «storia» è che quelli al potere pretendevano di essere venerati e potevano imporre la loro volontà. Molti storici scrissero sotto il controllo di imperatori, generali e dittatori.

So che queste mie idee incontreranno la più violenta opposizione da parte di molti; compresi alcuni apologisti del cristianesimo; infatti, benché non si trovi nulla nel Nuovo Testamento a sostegno di questa dottrina, tuttavia si ritiene spesso che faccia parte del dogma cristiano l'idea che Dio si rivela nella storia; che la storia ha significato e che il suo significato è il fine ad esso assegnato da Dio. Si sostiene, in questo modo, che lo storicismo è in elemento necessario della religione. Ma io dissento da questa visuale. Io sostengo che questa concezione è pura idolatria e superstizione, non solo dal punto di vista di un razionalista o di un umanista, ma dallo stesso punto di vista cristiano.

Che cosa c'è dietro questo storicismo teistico? Con Hegel, esso guarda alla storia alla storia politica come a una scena o meglio come ad una specie di lungo dramma scespiriano; e gli spettatori considerano o le «grandi personalità storiche» o il genere umano in astratto come gli eroi del dramma. Quindi chiedono: «Chi ha scritto questo dramma?» E pensano di dare una pia risposta quando replicano: «Dio». Ma si sbagliano. La loro risposta è pura bestemmia, perché il dramma (ed essi lo sanno benissimo) non è stato scritto da Dio ma dai professori di storia sotto il controllo di generali e dittatori.

Non nego che sia legittimo interpretare la storia da un punto di vista cristiano com'è legittimo interpretarla da qualunque altro punto di vista; e riconosco che si deve senz'altro tenere presente, per esempio, che gran parte dei nostri scopi e fini occidentali, come l'umanitarismo, la libertà, l'uguaglianza, li dobbiamo all'influenza del cristianesimo. Ma, nello stesso tempo, bisogna anche tenere presente che il solo atteggiamento razionale e il solo atteggiamento cristiano anche nei confronti della storia della libertà è che siamo noi stessi responsabili di essa, allo stesso modo che siamo responsabili di ciò che facciamo delle nostre vite e che soltanto la nostra coscienza, e non il nostro successo mondano, può giudicarci. La teoria secondo la quale Dio rivela se stesso e il suo giudizio nella storia finisce con l'identificarsi con la teoria secondo la quale il successo mondano è l'ultimo giudice e l'ultima giustificazione delle nostre azioni; essa arriva alla stessa conclusione della dottrina secondo la quale la storia è il nostro giudice, o, in altri termini, che la forza futura è diritto; coincide in pratica con quello che abbiamo chiamato «futurismo morale».

Sostenere che Dio rivela se stesso in quella che normalmente si chiama «storia», nella storia del crimine internazionale e dell'assassinio in massa, è senz'altro blasfemo; infatti quanto effettivamente avviene nell'ambito delle vite umane non è mai neppure sfiorato da questa realtà crudele e nello stesso tempo puerile. La vita dell'uomo singolo dimenticato, ignoto, le sue pene e le sue gioie, la sua sofferenza e la sua morte, questo è il contenuto effettivo dell'esperienza umana attraverso i secoli. Se tutto ciò potesse essere detto dalla storia, allora io certamente non direi che è bestemmia vedere in tutto ciò il dito di Dio. Ma una storia simile non esiste e non può esistere; e tutta la storia che esiste, la nostra storia dei grandi e dei potenti è nel migliore dei casi una superficiale commedia; è l'opera buffa rappresentata dalle potenze che si celano dietro la realtà (simile all'opera buffa di Omero delle potenze olimpiche dietro la scena delle lotte umane). Ed è appunto questo che uno dei nostri istinti peggiori, il culto idolatrico del potere, del successo, ci ha spinto a ritenere reale. E in questa «storia» non solo fatta, ma anche contraffatta dall'uomo, alcuni cristiani osano vedere la mano di Dio! Essi pretendono di comprendere e sapere che cosa Egli vuole quando attribuiscono a Lui le loro meschine interpretazioni storiche! «Al contrario, dice il teologo Barth, nel suo Credo, dobbiamo cominciare con l'ammettere... che tutto quello che pensiamo di sapere quando diciamo (Dio) non raggiunge né comprende Lui,.., ma sempre soltanto uno dei nostri idoli, fatti e concepiti da noi stessi, sia esso 'spirito' o 'natura', 'fato' o 'idea'...». (E' in armonia con questo atteggiamento che il Barth definisce inammissibile la «dottrina neoprotestante della rivelazione di Dio nella storia» e la considera come un'usurpazione del «regale servigio di Cristo»).

Ma, dal punto di vista cristiano, tentativi siffatti non sono soltanto motivati dalla superbia: si tratta più precisamente, di un atteggiamento anticristiano. Infatti il cristianesimo insegna soprattutto che il successo mondano non è decisivo. Cristo «patì sotto Ponzio Pilato». Cito ancora dal Barth: «Come mai Ponzio Pilato entra nel Credo? La risposta è semplice e si può darla subito: è una questione di data». Così, l'uomo che aveva successo, che rappresentava la potenza storica di quel tempo, svolge qui il ruolo puramente tecnico di indicare quando questi eventi si verificarono. E quali furono tali eventi? Tali eventi avevano niente a che fare con il successo sul piano della politica e del potere, sul piano della «storia». Essi non furono neanche la storia di una sfortunata rivoluzione nazionalista nonviolenta (alla Gandhi) del popolo ebreo contro i conquistatori romani. Tali eventi non erano altro che le sofferenze di un uomo. Il Barth insiste a dire che la parola “soffre" si riferisce all'intera vita di Cristo e non solo alla sua morte; egli dice (13): “Gesù soffre. Quindi egli non conquista, non trionfa, non ha successo... Egli non conseguì altro che... la sua crocifissione. La stessa cosa si può dire del suo rapporto col suo popolo e con i suoi discepoli". Citando il Barth mi propongo di dimostrare che non è solo il mio punto di vista “razionalista" o “umanista" quello dal quale il culto del successo storico appare incompatibile con lo spirito del cristianesimo. Per il cristianesimo non sono le imprese storiche dei potenti conquistatori romani che contano, ma (per usare una frase di Kierkegaard. (14) ) conta “ciò che pochi pescatori hanno dato al mondo". E tuttavia ogni interpretazione teistica della storia si sforza di vedere nella storia quale ci è tramandata, cioè nella storia del potere, e nel successo storico, la manifestazione della volontà di Dio.

A questo attacco contro la “dottrina della rivelazione di Dio nella storia" si replicherà probabilmente che è il successo, il suo successo dopo la morte quello per cui la vita sfortunata di Cristo sulla terra si rivelò alla fine al genere umano come la più grande vittoria spirituale; che fu il successo, che furono i frutti del suo insegnamento a dimostrarla e a giustificarla, e che grazie ad essi ha trovato conferma la profezia: “Gli ultimi saranno i primi e i primi saranno gli ultimi". In altre parole, che la volontà di Dio si è manifestata attraverso il successo storico della chiesa cristiana. Ma questa è una linea difensiva quanto mai pericolosa. La sua implicazione che il successo mondano della chiesa sia un argomento a sostegno del Cristianesimo rivela senz'altro mancanza di fede. I primi cristiani non ebbero alcun incoraggiamento mondano di questo genere (Essi ritenevano che è la coscienza che deve giudicare il potere (15) e non viceversa). Coloro che sostengono che la storia del successo dell'insegnamento cristiano rivela la volontà di Dio dovrebbero chiedersi se questo successo fu realmente un successo dello spirito del cristianesimo e se questo spirito non trionfò al tempo in cui la chiesa era perseguitata, piuttosto che al tempo in cui la chiesa era trionfante. Quale chiesa impersonò più puramente questo spirito: la chiesa dei martiri o la chiesa vittoriosa dell'inquisizione?

Sembra che molti siano disposti ad ammettere ciò, quando sostengono, come di fatto sostengono, che il messaggio del cristianesimo è rivolto agli umili, e tuttavia credono nello stesso tempo che questo messaggio sia quello dello storicismo. Un autorevole rappresentante di questa tendenza è I. Macmurray il quale in The Clue to History sostiene che l'essenza dell'argomento cristiano consiste nella profezia storica e vede nel suo fondatore lo scopritore di una legge dialettica della “natura umana". Macmurray sostiene (16) che, secondo questa legge, la storia politica deve inevitabilmente portare alla realizzazione della «comunità socialista del mondo. La legge fondamentale della natura umana non può essere violenta... Sono gli umili che erediteranno la terra". Ma questo storicismo, che sostituisce la certezza alla speranza, deve portare al futurismo morale. “La legge non può essere violata". Perciò possiamo essere sicuri, sul piano psicologico, che qualunque cosa facciamo porterà allo stesso risultato; che anche il fascismo deve, in ultima analisi, portare a quella comunità; sicché l'esito finale non dipende dalla nostra decisione morale e quindi non dobbiamo preoccuparci delle nostre responsabilità. Se ci si dice che possiamo essere certi, su basi scientifiche, che “gli ultimi saranno i primi e i primi saranno gli ultimi", che altro significa tutto ciò se non sostituire alla coscienza / la profezia storica? Questa teoria (naturalmente contro le intenzioni dell'autore) non risulta fosse pericolosamente prossima all'ammonimento: “Sii saggio e prenditi a cuore quello che il fondatore del cristianesimo ti dice, perché egli era un grande psicologo della natura umana e un grande profeta della storia. Balza in tempo nel carrozzone degli umili; infatti, secondo le inesorabili leggi scientifiche della natura umana, questo è il più sicuro modo di giungere al vertice!" Una siffatta chiave della storia implica il culto del successo; implica che gli umili saranno dalla parte della ragione perché si troveranno dalla parte vincente. Essa traduce il marxismo, e in particolare quella che ho definito la teoria morale storicistica di Marx, nel linguaggio di una psicologia della natura umana e della profezia religiosa. Si tratta di un'interpretazione che, implicitamente, vede la massima realizzazione del cristianesimo nel fatto che il suo fondatore fu un precursore di Hegel, anche se ne ammette la superiorità.

Spero che non siano fraintesi né la mia affermazione che non si deve venerare il successo, che non si può fare di esso il nostro giudice e che non si deve lasciarsene abbagliare, né, soprattutto, i miei sforzi intesi a mostrare che in questo atteggiamento io conxordo con quello che ritengo essere il vero insegnamento del cristianesimo. Non mi propongo affatto di schierarmi a difesa dell'atteggiamento di “distacco del mondo" che ho criticato nell'ultimo Capitolo (17) Io non so se il cristianesimo significhi distacco dal mondo, ma so per certo che esso insegna che il solo modo di dare prova della propria fede è quello di recare aiuto pratico (e mondano) a coloro che ne hanno bisogno. Ed è certamente possibile combinare un atteggiamento di estremo riserbo 'e anche di disprezzo per il successo mondano nel senso del potere, della gloria e della ricchezza, con lo sforzo di fare del proprio meglio in questo mondo e di proseguire i fini che si è deciso di far propri con il chiaro proposito di farli trionfare; non per amore del successo o della propria consacrazione da parte della storia, ma semplicemente er amore di essi.

Un energico sostegno ad alcune di queste opinioni e specialmente di, quella relativa all'incompatibilità di storicismo e cristianesimo, si trova nella critica di Kierkegaard a Hegel. Benché Kierkegaard non sia mai riuscito a liberarsi completamente dalla tradizione hegeliana nella quale era stato educato (IS), credo che nessun altro abbia capito *più chiaramente di lui che cosa effettivamente significasse lo storicismo hegeliano. “Ci furono scrisse Kierkegaard (19) dei filosofi che tentarono, prima di Hegel, di spiegare.. la storia. E la provvidenza poteva solo sorridere a vedere questi tentativi. Ma la provvidenza non si abbandonò al riso sfrenato, perché in essi c'era sincerità umana e onestà. Ma Hegel! Qui ho bisogno del linguaggio di Omero. A quali scoppi di risa devono essersi abbandonati gli dei! Un così sgraziato professorino che pretende semplicemente di avere scoperto la necessità di ogni cosa e di tutte le cose che sono, ed ora eccolo intento o suonare tutta la sua musica nel suo organetto: ascoltate, dunque, o dei dell'Olimpo!" E Kierkegaard continua, riferendosi all'attacco (20) sferrato dall'ateo Schopenhauer contro l'apologista cristiano Hegel: “La lettura di Schopenhauer mi ha dato una gioia così intensa che non posso interamente esprimerla. Quello che dice è perfettamente vero ed egli è duro come sa esserlo soltanto un tedesco". Ma le espressioni che usa Kierkegaard sono quasi altrettanto dure che quelle di Schopenhauer; infatti, Kierkegaard arriva a dire che l'hegelismo,. che chiama “questo brillante spirito di putridità", è la “più ripugnante di tutte le forme di libertinaggio"; e parla della sua “marcia pomposità", della sua “sensualità intellettuale" e della sua “abominevole pompa corruttrice".

E, in realtà, non solo la nostra educazione intellettuale, ma anche la nostra educazione etica è corrotta. Essa è pervertita dall'ammirazione per la forma brillante, per il modo in cui le cose sono dette, che prende il posto di una valutazione critica delle cose che vengono dette (e delle cose che vengono fatte). E' pervertita dall'idea romantica dello splendore della scena della storia nella quale noi siamo gli attori. Noi siamo abituati ad operare tenendo d'occhio il pubblico.

Tutto il problema di educare l'uomo a una corretta valutazione della propria importanza in rapporto a quella degli altri individui è radicalmente sovvertito da questa etica della fama e del fato, da una moralità che perpetua un sistema educativo che è ancor fondato sui classici con la loro concezione romantica della storia del potere e con la loro romantica moralità tribale che risale a Eraclito; un sistema la cui base ultima è il culto del potere. Invece di una equilibrata combinazione di individualismo e di altruismo (per usare ancora queste etichette (21) ), cioè invece di una posizione che si può compendiare nella formula: “Ciò che realmente conta sono gli individui umani, ma con ciò non intendo dire che sono io quello che conta di più", si accetta per buona una romantica combinazione di egoismo e collettivismo. Il che significa che l'importanza dell'io, della sua vita emozionale e della sua “autoespressione" è romanticamente esagerata e, con essa, la tensione fra la “personalità" e il gruppo, il collettivo. Quest'ultimo prende il posto degli altri individui, degli altri uomini, ma non consente relazioni personali ragionevoli. “Dominare o sottomettersi" è implicitamente la divisa di questo atteggiamento; o essere un grand'uomo, un eroe che lotta col fato e conquista la gloria ( quanto maggiore la caduta, tanto maggiore la gloria", dice Eracito) o appartenere alle “masse" e sottomettersi alla leadership e sacrificarsi alla causa superiore del proprio collettivo. C'è una componente nevrotica, isterica in questa esagerata insistenza sull'importanza della tensione fra l'io e il collettivo, e io sono convinto che questo isterismo, questa reazione all'effetto stressante della civiltà, è il segreto del forte appello emozionale dell'etica del culto degli eroi, dell'etica della dominazione e della sottomissione (a).

Al fondo di tutto ciò c'è una difficoltà reale. Mentre è sufficientemente chiaro (come abbiamo visto nei Capitoli IX e XXIV) che il politico deve limitarsi a combattere contro i mali, invece di combattere per valori “positivi" o “superiori", come la felicità, ecc., il maestro, in linea di principio, si trova in una condizione diversa. Benché non debba imporre la sua scala di valori “superiori" ai suoi allievi, egli deve certamente cercar di stimolare il loro interesse per questi valori. Egli deve aver cura delle anime dei suoi allievi. (Quando Socrate diceva ai suoi amici di aver cura delle loro anime, egli si prendeva cura di essi). Perciò, inevitabilmente, c'è una specie di componente romantica o estetica nell'educazione, che invece deve restare estranea alla politica. Ma benché ciò sia vero, in linea di principio; non risulta affatto applicabile al nostro sistema educativo. Infatti, presuppone un rapporto di amicizia fra maestro e allievo, un rapporto al quale, come abbiamo sottolineato nel Capitolo XXIV, ciascuna delle parti deve essere libera di por fine. (Socrate sceglieva i suoi compagni ed essi sceglievano lui). Il numero stesso degli scolari rende tutto ciò impossibile nella nostra scuola. Quindi, i tentativi di imporre valori superiori non solo non hanno successo, ma si deve anche rilevare che si risolvono in un danno, in qualcosa di molto più concreto e pubblico di quanto non siano gli ideali ai quali si tende. E il principio che coloro i quali sono affidati a noi devono, prima di ogni altra cosa, non essere danneggiati, dev'essere riconosciuto altrettanto fondamentale per l'educazione di quanto lo è per la medicina. “Non danneggiare" (e quindi “dare ai giovani ciò di cui hanno maggiormente bisogno affinché diventino indipendenti da noi e siano messi in grado di fare autonomamente le loro scelte"), dovrebbe essere un importantissimo obiettivo per il nostro sistema educativo, un obiettivo la cui realizzazione è alquanto difficile anche se sembra modesto. Invece, sono di moda i fini “superiori", fini che sono tipicamente romantici e, in sostanza, privi di senso, come quello del “pieno sviluppo della personalità".

Sotto l'influenza di codeste idee romantiche l'individualismo è ancora identificato con Fegoismo, come lo fu già da Platone, e l'altruismo con il collettivismo (cioè con la sostituzione dell'egoismo di gruppo all'egoismo individualistico). Ma ciò sbarra la strada anche a una chiara formulazione del problema essenziale, cioè il problema di come pervenire a una corretta valutazione dell'importanza propria di ciascuno in rapporto agli 'altri individui. Poiché si sente, senza dubbio giustamente, che dobbiamo tendere verso qualcosa che ci trascende, verso qualcosa a cui possiamo consacrarci e per cui possiamo fare dei sacrifici, si giunge alla conclusione che questo qualcosa dev'essere il collettivo con la sua “missione storica". Così ci si dice che dobbiamo fare dei sacrifici e, nello stesso tempo, ci si assicura che, comportandoci così, faremo un ottimo affare. Noi dobbiamo fare dei sacrifici, ci dicono, ma in compenso otterremo onore e fama. Noi diventeremo “primi attori", eroi sulla scena della storia; con piccolo rischio otterremo grandi compensi. Questa è la dubbia moralità di un periodo in cui contava soltanto una ridotta minoranza e in cui nessuno si dava cura della gente comune. E' la moralità di coloro che, essendo aristocratici politici o intellettuali, hanno qualche probabilità di entrare nei manuali di storia. Non può essere certo la moralità di coloro che propugnano la giustizia e l'eguaglianza; infatti la fama storica non può essere giusta e, per giunta, può essere conseguita soltanto da pochissimi. [1 numero sterminato di uomini che sono giusti e degni, o anche più degni, sarà sempre dimenticato.

Bisogna forse riconoscere che l'etica eraclitea, la dottrina se condo la quale la più alta ricompensa è quella che soltanto la po sterità può offrire, è per qualche rispetto un po' superiore a una dottrina etica che ci insegna a ricercare la ricompensa ora. Ma non è neppur essa quella di cui abbiamo bisogno. Noi abbiamo bisogno di un'etica che disprezzi il successo e il compenso. E un'etica siffatta non bisogna inventarla e non è neppure nuova: è stata insegnata dal cristianesimo, almeno ai suoi inizi. Ed è ancora oggi insegnata dalla cooperazione sia industriale che scientifica del nostro tempo. Per fortuna sembra che sia in declino la moralità storicistica romantica della fama. Il milite ignoto lo dimostra.

Cominciamo a renderci conto che il sacrificio può avere un alto, e anche superiore, significato quando è fatto in maniera anonima. La nostra educazione etica deve seguirne l'esempio. Devono insegnarci a fare il nostro lavoro; a fare il nostro sacrificio per amore di questo lavoro, e non per conseguire lode o evitare biasimo. (Il fatto che noi tutti abbiamo bisogno di qualche incoraggiamento, speranza, lode e anche biasimo è tutt'altra faccenda). Noi dobbiamo cercare la nostra giustificazione nel nostro lavoro, in ciò che facciamo noi stessi e non in un fittizio “senso della storia".

Ribadisco che la storia non ha senso. Ma questa affermazione non implica che non ci resti altro da fare che guardare sconcertati alla storia del potere politico o considerarla come una beffa crudele. Infatti, possiamo interpretarla, tenendo l'occhio fisso su quei problemi della politica di potere di cui decidiamo di tentare la soluzione interpretare la storia della politica di potere dal punto di vista della nostra lotta per la società aperta, per il dominio della ragione, per la giustizia, la libertà, l'uguaglianza, e per il controllo del crimine internazionale. Benché la storia non abbia fini, noi possiamo imporre ad essa questi nostri finì e benché la storia non abbia alcun senso, noi possiamo darle un senso.

Ci troviamo così ancora di fronte, a questo punto, al problema di natura e convenzione (a). Né la natura né la storia possono dirci che cosa dobbiamo fare. I fatti, sia quelli della natura sia quelli della storia, non possono decidere per noi, non possono determinare i fini che ci proporremo di perseguire. Siamo noi che introduciamo finalità e significato, ne11a natura e nella storia. Gli uomini non sono uguali, ma noi possiamo decidere di batterci per l'uguaglianza dei diritti. Le istituzioni umane come lo stato non sono razionali, ma noi possiamo decidere di lottare per renderle più razionali. Noi stessi e il nostro linguaggio abituale siamo, nel complesso, piuttosto emotivi che. razionali; ma possiamo cercare di diventare un po' più razionali e possiamo avvezzarci a usare il nostro linguaggio come uno strumento non di autoespressione (come direbbero i nostri pedagogisti romantici) ma di comunicazione razionale (24). La storia stessa intendo dire la storia della politica di potere, naturalmente, e non l'inesistente storia dello sviluppo del genere umano non ha alcun fine o senso, ma noi possiamo decidere di conferirle l'uno e l'altro. Noi possiamo fare di essa la nostra lotta per la società aperta e contro i suoi nemici (che, quando sono con le spalle al muro, protestano sempre i loro sentimenti umanitari, in armonia con il suggerimento di Pareto); e possiamo interpretarla in maniera conforme. In ultima analisi, possiamo dire la stessa cosa del “significato della vita". Sta a noi decidere quale sarà il nostro scopo nella vita, determinare, i nostri fini (a).

Questo dualismo difatti e decisioni (26) è, a mio giudizio, di fondamentale importanza. I fatti in quanto tali non hanno senso: possono acquistarne uno soltanto attraverso le nostre decisioni. Lo storicismo è soltanto uno dei numerosi tentativi compiuti per sbarazzarsi di questo dualismo; esso è figlio della paura, perché rifiuta di ammettere che su noi ricade l'ultima responsabilità anche per gli standard che scegliamo. Ma un tentativo siffatto mi sembra rappresenti precisamente quella che di solito si definisce superstizione. Infatti, esso presuppone che possiamo raccogliere dove non abbiamo seminato; cerca di persuaderci che basta metterci al passo con la storia perché tutto diventi giusto e debba diventare giusto, e che non è richiesto da parte nostra nessuna dicisioii fondamentale; cerca di scaricare la nostra responsabilità sulla storia e quindi sui gioco di forze demoniache che ci trascendono; cerca di basare le nostre azioni sulle intenzioni nascoste di queste forze, che possono rivelarsi a noi solo in intuizioni e ispirazioni mistiche; e pone così le nostre azioni e noi stessi al livello morale di un uomo che, ispirandosi agli oroscopi e ai sogni, sceglie il suo numero della fortuna in una lotteria (27) Come il gioco d'azzardo, lo storicismo è figlio della nostra sfiducia nella razionalità e responsabilità delle nostre azioni. Essa è una falsa speranza e una falsa fede, un tentativo di sostituire alla speranza e alla fede che scaturiscono dal nostro entusiasmo morale e dal disprezzo del successo una certezza che scaturisce da una pseudoscienza; una pseudoscienza delle stelle o della “natura umana" o del destino storico.

Sostengo che lo storicismo non è soltanto insostenibile razionalmente ma è anche in conflitto con qualsiasi religione che predichi l'importanza della coscienza. Infatti, una religione siffatta deve concordare con l'atteggiamento razionalistico nei confronti della storia nella sua accentuazione della nostra responsabilità suprema per le nostre azioni e per le ripercussioni di esse sul corso della storia. Certo, abbiamo bisogno di speranza; agire, vivere senza speranza va oltre le nostre forze. Ma non abbiamo bisogno di avere di più e non ci deve essere dato di più. Noi non abbiamo bisogno di certezza. La religione, in particolare, non deve essere un surrogato dei sogni e dei desideri; essa non deve somigliare né al possesso di un biglietto di lotteria né al possesso di una polizza di una società di assicurazione. La componente storicistica nella religione è un elemento di idolatria e di superstizione.

Questa insistenza sul dualismo di fatti e decisioni determina anche il nostro atteggiamento nei confronti di certe idee come quella di “progresso". Se pensiamo che la storia progredisce o che siamo destinati a progredire, commettiamo lo stesso errore di coloro che credono che la storia abbia un senso che può essere scoperto in essa e che non occorre sia dato ad essa. Infatti, progredire significa procedere verso un qualche genere di fine, verso un fine che esiste per noi come esseri umani. La “storia" non può fare questo, soltanto noi, individui umani, possiamo farlo; e possiamo farlo difendendo e rafforzando quelle istituzioni democratiche dalle quali dipende la libertà e con essa il progresso. E potremo farlo tanto meglio quanto più decisamente assumiamo coscienza del fatto che il progresso dipende da noi, dalla nostra vigilanza, dai nostri sforzi, dalla chiarezza della nostra concezione dei nostri fini e dal realismo () della loro scelta.

Invece di posare a profeti dobbiamo diventare i creatori del nostro destino. Noi dobbiamo imparare a fare le cose nel miglior modo che ci è possibile e ad andare alla ricerca dei nostri errori. E quando avremo abbandonato l'idea che la storia del potere sarà il nostro giudice, quando avremo smesso di preoccuparci se la storia ci giustificherà o meno, allora forse riusciremo un giorno a mettere sotto controllo il potere. In questo modo possiamo anche giustificare la storia, a nostra volta. Essa ha estremo bisogno di una giustificazione.