1.
Il saggio più importante di Karl Polanyi, singolare figura di pensatore interdisciplinare - filosofo, sociologo, economista, storico, antropologo -, ha avuto la disavventura di essere stato pubblicato nel momento sbagliato. Scritto nel corso della seconda guerra mondiale, l'opera ha visto la luce quando essa volgeva al termine e si prefigurava il trionfo delle democrazie liberali occidentali (alleate con l'Unione Sovietica) sulla dittatura nazista. Il trionfo era di tipo politico: concerneva la democrazia più che il sistema economico. Il nazismo, infatti, pur valorizzando l'interventismo statale sul piano economico, non metteva in discussione il mercato. Dato però che i due aspetti - la democrazia e il libero mercato - apparivano all'epoca come due facce di una stessa medaglia, il trionfo della democrazia significava anche vittoria del capitalismo. La guerra, tra l'altro, aveva consentito a tutti i paesi occidentali, a partire dagli Stati Uniti, di sormontare la crisi economica disastrosa avviatasi nel 1929. La prospettiva della ricostruzione, che non si sarebbe potuta realizzare senza un massiccio investimento da parte degli Stati, prefigurava, sia pure in un'ottica non del tutto liberistica, uno stimolo potente allo sviluppo del capitalismo.
Era già nell'aria, nonostante gli accordi di Yalta, il presagio del duro scontro, che sarebbe durato decenni, tra il blocco occidentale e il blocco sovietico. Nessuno, però, in Occidente, tranne alcuni partiti comunisti, dubitava dell'assoluta superiorità della democrazia e del modello economico capitalistico rispetto alla dittatura e al capitalismo di Stato sovietico.
In questa temperie storica e culturale, il saggio di Polanyi cade come un sasso nello stagno, determinando qualche fluttuazione ma rapidamente inabissandosi. Esso, infatti, è né più né meno un de profundis per il modello economico liberista, che viene criticato alla radice, in un'ottica non marxista ma socialista e umanitaria. La grande trasformazione è per l’appunto l’utopia di un libero mercato autoregolato, la cui conseguenza, a distanza di un secolo e mezzo dalla sua invenzione è, nell’ottica di Polanyi, la desertificazione dell'ambiente sociale e culturale.
L'avvio del capitolo primo è, a riguardo, poco equivocabile:
"La civiltà del diciannovesimo secolo è crollata. Questo libro si occupa delle origini politiche ed economiche di questo avvenimento oltre che della grande trasformazione che l'ha seguito.
La civiltà del diciannovesimo secolo poggiava su quattro istituzioni. La prima era il sistema dell'equilibrio del potere che per un secolo impedì che tra le grandi potenze scoppiassero guerre lunghe e devastatrici. La seconda era la base aurea internazionale, che simboleggiava un'organizzazione unica dell'economia mondiale. La terza era il mercato autoregolato che produceva un benessere economico senza precedenti. La quarta era lo stato liberale…
Tra queste istituzioni la base aurea si dimostrò decisiva; la sua caduta fu la causa prossima della catastrofe e al tempo in cui essa cadde la maggior parte delle altre istituzioni erano state sacrificate in un vano sforzo di salvarla.
La fonte e la matrice del sistema era tuttavia il mercato autoregolato: fu questa innovazione a dare origine ad una civiltà specifica. La base aurea era semplicemente il tentativo di estendere il sistema del mercato interno al campo internazionale; il sistema dell'equilibrio del potere era una sovrastruttura eretta sulla base aurea e in parte operante su di essa; lo stato liberale era esso stesso una creazione del mercato autoregolato. La chiave del sistema istituzionale del diciannovesimo secolo si trovava nelle leggi che governavano l'economia di mercato.
La nostra tesi è che l'idea di un mercato autoregolato implicasse una grande utopia. Un'istituzione del genere non poteva esistere per un qualunque periodo di tempo senza annullare la sostanza naturale e sociale della società; essa avrebbe distrutto l'uomo fisicamente e avrebbe trasformato il suo ambiente in un deserto. Era inevitabile che la società prendesse delle misure per difendersi, ma qualunque misura avesse preso, essa ostacolava l'autoregolazione del mercato, disorganizzava la vita industriale e metteva così l società in pericolo in un altro modo. Fu questo dilemma a spingere lo sviluppo del sistema di mercato in un solco preciso ed infine a far crollare l'organizzazione sociale che si basava su di esso." (pp. 5-6)
All'illustrazione di questa tesi è dedicato il saggio, che ha per l'appunto una struttura quasi sillogistica. L'autore prima ricostruisce l'avvento del sistema di mercato nell'Inghilterra dell'800, la sua evoluzione reale, la sua trascrizione ideologica nei paradigmi dell'economia classica e, infine, le sue conseguenze devastanti per il tessuto umano e sociale; illustra poi le difese poste in atto dalla società nel tentativo di arginare tali conseguenze; descrive infine il processo di trasformazione o meglio di degenerazione che interviene per effetto della spinta del sistema di mercato e del cedimento delle difese sociali.
Non è ovviamente possibile seguire punto per punto la trama complessa delle argomentazioni, che condensano di continuo ricostruzioni storiche, analisi economica, critica ideologica, riflessioni filosofiche e sociologiche, comparazioni antropologiche, ecc. Questa recensione intende estrarre l'essenziale dalla densità del testo e, soprattutto, interrogarsi sulla sua pertinenza in rapporto allo stato di cose attualmente esistente.
2.
Il cuore del libro è da identificare indubbiamente nei capitoli IV, V e VI della parte seconda, dedicata all’ascesa e alla caduta dell’economia di mercato.
In essi, Polany critica il fondamento antropologico del liberismo, quello per cui la pulsione fondamentale dell’attività economica è, sulla scorta di A. Smith, la "propensione [dell’uomo] al baratto, al commercio e allo scambio di una cosa con l’altra" (p. 58). Su questo fondamento si è edificato, infatti, l’utilitarismo e il perseguimento dell’interesse individuale si è configurato come un dovere, legittimo e alla fin dei conti utile per l’intera società. Polanyi viceversa scrive. "Nonostante il coro di invenzioni accademiche tanto insistente nel diciannovesimo secolo, il guadagno e il profitto nello scambio non hanno mai prima svolto una parte importante nell’economia e per quanto l’istituzione del mercato fosse abbastanza comune a partire dalla tarda Età della Pietra, il suo ruolo era soltanto incidentale nei confronti della vita economica" (p. 57). Su questo punto si trovano d’accordo tutti gli etnografi moderni che, nelle società studiate, rilevano: "l’assenza del motivo del guadagno, l’assenza del principio del lavoro per una remunerazione, l’assenza del principio del minimo sforzo e, in particolare, l’assenza di qualunque istituzione separata e distinta basata su motivi economici" (p. 62). In tali società "l’economia dell’uomo, di regola, è immersa nei suoi rapporti sociali. L’uomo non agisce in modo da salvaguardare il suo interesse individuale nel possesso di beni materiali, agisce in modo da salvaguardare la sua posizione sociale, le sue pretese sociali, i suoi vantaggi sociali, Egli valuta i beni materiali soltanto nella misura in cui essi servono a questo fine. Né il processo di produzione né quello di distribuzione sono legati a specifici interessi economici vincolati al possesso dei beni; tuttavia ogni passo di questo processo è collegato ad una molteplicità di interessi sociali, che alla fine assicurano che il passo necessario venga compiuto" (p. 61). In breve, "il sistema economico è in realtà una semplice funzione dell’organizzazione sociale" (p. 65). Questo conferma che "gli atti individuali di baratto o di scambio… non conducono di regola all’istituzione di mercati in società nelle quali prevalgono altri principi di comportamento economico" (p. 79)
Con l’invenzione del mercato autoregolato, invece, "non è più l’economia ad essere inserita nei rapporti sociali, ma sono i rapporti sociali ad essere inseriti nel sistema economico. L’importanza vitale del fattore economico per l’esistenza della società preclude qualunque altro risultato poiché una volta che il sistema economico sia organizzato in istituzioni separate, basate su motivi specifici e conferenti uno speciale status. La società deve essere formata in modo da permettere a questo sistema di funzionare secondo le proprie leggi" (p. 74).
Gli economisti classici ritengono che l’economia di mercato sia uno sviluppo "naturale" della pulsione allo scambio, determinata dalla progressiva complessificazione del mondo. Secondo Polanyi, viceversa, l’economia di mercato si fonda su di una serie di presupposti ideologici, che egli descrive nei termini seguenti: "Un’economia di mercato è un sistema economico controllato, regolato e diretto soltanto dai mercati; l’ordine nella produzione e nella distribuzione delle merci è affidato a questo meccanismo autoregolantesi. Un’economia di questo tipo deriva dall’aspettativa che gli esseri umani si comportino in modo tale da raggiungere un massimo di guadagno monetario. Essa assue l’esistenza di mercati nei quali la fornitura di merci (e di servizi) disponibili ad un determinato prezzo sarà pari alla domanda a quelprezzo. Essa assume la presenza della moneta come potere di acquisto nelle mani dei suoi possessori. La produzione sarà poi controllata dai prezzi poiché i profitti di coloro che dirigono la produzione dipenderanno da essi; anche la distribuzione delle merci dipenderà dai prezzi perché i prezzi formano i redditi ed è per mezzo di questi redditi che le merci prodotte sono distribuite tra i membri della società. Sulla base di questi assunti l’ordine nella produzione e nella distribuzione delle merci è assicurato soltanto dai prezzi.
L’autoregolazione implica che tutta la produzione è in vendita sul mercato e che tutti i redditi derivano da questa vendita. Di conseguenza vi sono mercati per tutti gli elementi dell’industria, non soltanto per le merci (e i servizi) ma anche per il lavoro, la terra e la moneta" (pp. 88-89)
Sulla base di questi assunti, perché il sistema funzioni, "non si deve permettere niente che ostacoli la formazione di mercati né si deve permettere che i redditi si formino altrimenti che attraverso le vendite, né deve esservi alcuna interferenza con l’aggiustamento dei prezzi alle mutate condizioni del mercato, siano i prezzi quelli delle merci prodotte, del lavoro, della terra o del denaro" (p. 89).
Che cosa c’è di mistificato nella teoria del mercato autoregolato? La risposta di Polanyi è limpida e inequivocabile: "Il punto cruciale è questo: lavoro, terra e moneta sono elementi essenziali dell’industria; anch’essi debbono essere organizzati in mercati poiché formano una parte assolutamente vitale del sistema economico; tuttavia essi non sono ovviamente delle merci, e il postulato per cui tutto ciò che è comprato e venduto deve essere stato prodotto per la vendita è per questi manifestamente falso. Il lavoro è soltanto un altro nome per un’attività umana che si accompagna alla vita stessa la quale a sua volta non è prodotta per essere venduta ma per ragioni del tutto diverse… La terra è soltanto un altro nome per la natura che non è prodotta dall’uomo. La moneta infine è soltanto un simbolo del potere d’acquisto che di regola non è affatto prodotto ma si sviluppa attraverso il meccanismo della banca o della finanza di stato. Nessuno di questi elementi è prodotto per la vendita. La descrizione, quindi, del lavoro, della terra e della moneta come merci è interamente fittizia. E’ nondimeno con il contributo di questa finzione che sono organizzati i mercati del lavoro, della terra e della moneta… La finzione della merce fornisce un principio di organizzazione vitale per tutta la società, il quale influisce su quasi tutte le sue istituzioni nel modo più vario: si tratta cioè del principio secondo il quale non si dovrebbe permettere l’esistenza di nessun’organizzazione o comportamento che impedisca l’effettivo funzionamento del meccanismo di mercato sulla linea della finzione della merce.
Tuttavia per quanto riguarda lavoro, terra e moneta questo postulato non può essere sostenuto; permettere al meccanismo di mercato di essere l’unico elemento direttivo del destino degli esseri umani e del loro ambiente naturale e perfino della quantità e dell’impiego del potere d’acquisto porterebbe alla demolizione la società. La presunta merce "forza-lavoro" non può infatti essere fatta circolare, usata indiscriminatamente e neanche lasciata priva d’impiego, senza influire nche sull’individuo umano che risulta essere il portatore di questa merce particolare. Nel disporre della forza-lavoro di un uomo, il sistema disporrebbe tra l’altro dell’entità fisica, psicologica e morale "uomo" che si collega a quest’etichetta… La natura verrebbe ridotta ai suoi elementi, l’ambiente e il paesaggio deturpati, i fiumi inquinati, la capcità di produrre cibo e materie prime distrutta…
Indubbiamente i mercati del lavoro, della terra e della moneta sono essenziali per un’economia di mercato, ma nessuna società potrebbe sopportare gli effetti di un simile sistema di rozze finzioni neanche per il più breve periodo di tempo a meno che la sua sostanza umana e naturale, oltre che la sua organizzazione commerciale, fossero protette dalle distruzioni arrecate da questo diabolico meccanismo" (pp. 93-95).
3.
Una volta messo in moto dai processi sociali, vale a dire dalla spietata avidità dei capitalisti, avallato dalle forze politiche che rappresentavano i loro interessi e teorizzato dagli utilitaristi e dagli economisti classici, il meccanismo diabolico produce di fatto, nel corso dell’800, i suoi effetti: la crescita prodigiosa della ricchezza è pagata al prezzo di un enorme aumento della miseria e della degradazione umana.
Questo paradosso reale, al quale secondo Polanyi si associa anche l’intuizione da parte del corpo sociale e di alcuni pensatori socialisti della potenziale pericolosità del nuovo sistema economico, attivano una serie di resistenze a difesa dell’uomo e della natura. Ciononostante il liberismo, tronfio della ricchezza prodotta e distribuita iniquamente, però, non perde vigore. Esso si trasforma, per "l’ostinata e veemente insistenza degli economisti liberali nei loro errori" (p. 182), in un vero e proprio "credo", attestato per un verso su di una rivendicazione apologetica della fondatezza scientifica delle leggi economiche che governano il mercato e per un altro su di un’orgogliosa difesa dalle critiche secondo la quale "l’incompleta applicazione dei suoi principi era la ragione di tutte le difficoltà che ad esso venivano attribuite" (p. 183). Polanyi coglie con estrema lucidità il carattere insidioso di tale difesa, orientata ad inibire ogni controllo sul libero mercato. Gli apologeti di questo "stanno ripetendo con variazioni a non finire che il liberalesimo avrebbe dimostrato i suoi meriti e che responsabili dei nostri mali non sono il sistema concorrenziale e il mercato autoregolato ma, al contrario, l’interferenza con quel sistema e gli interventi su quel mercato…
Chi potrebbe negare che l’intervento governativo nell’economia può abbassare il livello della fiducia? Chi potrebbe negare che talvolta vi sarebbe meno disoccupazione se non vi fossero i provvedimenti di legge a favore dei disoccupati? Che l’attività economica privata è danneggiata dall’interferenza dei lavori pubblici? Che la finanza deficitaria può compromettere gli investimenti privati? Che il paternalismo tende a raffreddare l’iniziativa economica?.. Chi può dubitare che le leggi sulle fabbriche, le assicurazioni sociali, il commercio municipale, i servizi sanitari, i servizi di pubblica utilità, le tariffe, le concessioni e i sussidi, i cartelli e i trusts, le limitazioni all’immigrazione, ai movimenti di capitali, alle importazioni — per non parlare di restrizioni meno evidenti ai movimenti di uomini, merci e capitali — debbono avere agito come altrettante limitazioni al funzionamento del sistema concorrenziale, protraendo le depressioni economiche, aggravando la disoccupazione, approfondendo le crisi finanziarie, diminuendo lo scambio e danneggiando gravemente i meccanismi autoregolatori del mercato?" (p. 184)
E’ in conseguenza di questa difesa che il liberismo paradossalmente si spiritualizza, nel senso che, contro l’evidenza delle cose, esso diventa il paladino del progresso contro le oscure forze conservatrici che ad esso si oppongono: lo Stato burocratico e la classe lavoratrice miope e accecata dai sindacati "di fronte ai benefici ultimi di un’illimitata libertà economica verso tutti gli interessi umani, compresi i suoi" (p. 185).
In realtà, è l’aspetto intrinsecamente selvaggio del liberismo, che pretende di assoggettare l’uomo e la natura alle leggi del mercato, a costringere la società a difendersi dal pericolo di una disgregazione. Come si può sostenere un’accusa del genere di fronte alla constatazione che l’economia di mercato, nonostante il suo tragico decollo, che ha causato immani sofferenze, ha pur sempre prodotto un aumento del benessere collettivo? Per rispondere a questo quesito, che rappresenta la più insidiosa argomentazione degli economisti liberali a difesa dell’economia di mercato, Polanyi adotta una logica da antropologo: "La causa della degradazione non è, come spesso si è voluto asserire, lo sfruttamento economico ma la disgregazione dell’ambiente culturale della vittima. Il processo economico può naturalmente rappresentare il veicolo di questa distruzione e quasi sempre l’inferiorità economica porterà il più debole a cedere, ma la causa immediata della sua distruzione non è per questo economica; essa si trova nella ferita mortale alle istituzioni nelle quali la sua esistenza è materializzata. Il risultato è la perdita del rispetto di sé e dei valori, sia che l’unità sia un popolo o una classe, sia che il processo abbia origine da un cosiddetto conflitto culturale o dal cambiamento nella posizione di una classe all’interno dei confini di una società" (p. 202).
Il carattere selvaggio del liberismo non sta dunque tanto e solo nel grado di sfruttamento dell’uomo e della natura che esso promuove, ma soprattutto nella sua vocazione a promuovere una nuova cultura che scinda definitivamente i legami che l’uomo ha sempre sentito di avere con la società e con la natura, il tessuto umano e naturale della vita sociale, per produrre infine l’individuo che persegue univocamente il fine di affermare i suoi interessi: "separare il lavoro dalle altre attività della vita ed assoggettarlo alle leggi di mercato significa annullare tutte le forme organiche di esistenza e sostituirle con un tipo diverso di organizzazione, atomistico e individualistico" (p. 210).
A questa minaccia, culturale prima ancora che economica, la società ha opposto due soluzioni: il socialismo e il fascismo. Il primo, che Polanyi considera solo nella sua versione umanitaristica, socialdemocratica, è "la tendenza inerente ad una civiltà industriale a superare il mercato autoregolato subordinandolo consapevolmente ad una società democratica… dal punto di vista della comunità nel suo insieme il socialismo è semplicemente la continuazione di quello sforzo di rendere la società un rapporto specificamente umano tra persone, rapporto che nell’Europa occidentale era sempre stato associato alle tradizioni cristiane. Dal punto di vista economico, esso è al contrario un allontanamento radicale dal passato immediato, nella misura in cui esso rompe con il fare dei guadagni monetari privati l’incentivo generale alle attività produttive e non riconosce il diritto degli individui privati di disporre dei principali strumenti di produzione. Ecco perché, in ultima analisi, la riforma dell’economia capitalistica da parte dei partiti socialisti è difficile anche quando essi siano decisi a non interferire nel sistema di proprietà. Infatti la semplice possibilità che essi possano decidere di farlo diminuisce quel tipo di fiducia che nell’economia liberale è vitale, cioè l’assoluta fiducia nella continuità dei titoli di proprietà. Mentre il contenuto di fatto dei diritti di proprietà potrebbe subire una ridefinizione per mezzo della legislazione, la sicurezza della continuità formale è esenziale per la continuità dell’economia di mercato" (p. 295).
Il fascismo, viceversa, secondo Polanyi, è il frutto della crisi dell’economia di mercato, resa evidente dalla crisi del 1929. Esso interviene a sopperire alla difficoltà delle classi conservatrici di arginare i partiti socialisti. La sua specificità consiste nel fatto che, per salvare l’economia di mercato, esso sacrifica la democrazia: "La soluzione fascista dell’impasse raggiunta dal capitalismo liberale può essere descritta come una riforma dell’economia di mercato raggiunta al prezzo dell’estirpazione di tutte le istituzioni democratiche tanto nel campo dell’industria che in quello della politica. Il sistema economico che era in via di disfacimento veniva così rivitalizzato mentre i popoli stessi venivano sottoposti ad una rieducazione destinata a snaturare l’individuo e a renderlo incapace di funzionare come unità responsabile del corpo politico. Questa rieducazione, che comprendeva le norme di una religione politica che negava l’idea della fratellanza dell’uomo nelle sue varie forme, fu raggiunta attraverso un atto di conversione di massa applicato ai recalcitranti con mezzi scientifici di tortura" (p. 297).
4.
Non è difficile capire perché il pensiero di Polanyi, caduto rapidamente nel dimenticatoio per effetto dell’avversione congiunta da parte di liberisti e comunisti, stia andando incontro negli ultimi anni ad una rivalutazione che è quasi una riscoperta. E’ il processo di globalizzazione in atto, che avviene all’insegna del liberismo, a giustificare tale riscoperta. Eccezion fatta per Marx, nessuno meglio di Polanyi ha analizzato il credo liberale con le sue veementi formule apologetiche, che vengono ancora oggi ripetute alla lettera dai suoi adepti; nessuno meglio di lui ha anticipato e chiarito le ragioni di una smodata aggressività contro ogni forma di interventismo statale e di opposizione popolare, nelle quali il liberismo coglie solo l’espressione rispettivamente di una resistenza burocratica e parassitaria e di una cieca miopia nei confronti delle magnifiche sorti e progressive del sistema socioeconomico fondato sull’economia di mercato. Rispetto a Marx, che non viene citato neppure una volta nel saggio, ma il cui pensiero è onnipresente, Polanyi ha il vantaggio di applicare all’analisi del liberismo un’ottica antropologica che, senza minimizzarne gli effetti economici, sottolinea la sua pervicace volontà di attentare la sostanza umana e naturale della vita sociale: quella per cui l’uomo, nella sua lunga storia e — aggiungerei — nelle falde profonde della sua mente, ha sempre riconosciuto l’appartenenza ad un gruppo e alla natura come fondamento della sua esistenza. A differenza di Marx, Polanyi sottolinea vigorosamente il carattere di mutazione culturale prima ancora che economica che il liberismo introduce nella storia del mondo. Una mutazione che, secondo i liberisti, affrancherebbe finalmente l’individuo dalle pastoie di un passato che limitava, nei rapporti sociali e in quelli con l’ambiente, la sua libertà di autorealizzazione, mentre, secondo Polanyi, essa comporta il rischio di un’atomizzazione dell’esistenza individuale e di una degradazione della società.
Da questo punto di vista, il pensiero di Polanyi, più che sormontarlo, integra quello di Marx. Come Weber, egli dà alla sovrastruttura culturale un peso di certo non meno rilevante rispetto all’infrastruttura economica. Egli però non è abbagliato dal mito della razionalità, non ritiene irreversibile il mutamento culturale prodotto dal liberismo. Egli intuisce che la linea di resistenza contro la quale questo verrà ad urtare e infine ad infrangersi sta nella natura umana, laddove, nonostante tutto, nulla riesce ad estirpare il sogno di un’esperienza individuale e individuata nel contesto di una comunità e in un rapporto dialettico, ma non distruttivo, con l’ambiente cui l’uomo appartiene.
Dicembre 2004