605. FILOSOFIA E RIVOLUZIONE.
La filosofia di Marx è, a prima vista, l'ultima e più riuscita espressione di quel movimento della sinistra hegeliana che fu la prima reazione all'idealismo romantico e a tale idealismo contrappose una rivalutazione dell'uomo e del suo mondo. Ma negli stessi confronti della sinistra hegeliana la filosofia di Marx si distingue per il suo carattere antiteoretico ed impegnato, diretta com'è a promuovere e a dirigere lo sforzo di liberazione della classe operaia nei confronti di quella società borghese che si era venuta formando in seguito alla rivoluzione industriale del secolo xvm. All'idealismo di Hegel che, partendo dall'idea, intendeva giustificare tutta la realtà post facturn, Marx contrappone una filosofia che partendo dall'uomo, tenda a trasformare attivamente la realtà stessa. L'azione, la «prassi» rivoluzionaria fa perciò parte integrante di questa filosofia, che non si esaurisce nell'elaborazione dei concetti sebbene (ovviamente) non possa prescinderne. La polemica di Marx contro la sinistra hegeliana è dettata appunto da questa esigenza, che Marx ha espresso una volta in forma paradossale asserendo: «La filosofia e lo studio del mondo reale stanno tra loro in rapporto come l'onanismo e l'amore sessuale» (Ideologia tedesca, III, trad. ital., p. 229). Lo «studio del mondo reale» non ha nulla a che fare col «mondo delle pure idee»: deve prendere in considerazione la realtà effettiva o, come Marx dice, «empirica e materiale» dell'uomo e del mondo in cui egli vive. Marx prevede (o auspica) il tempo in cui «la scienza naturale comprenderà la scienza dell'uomo come la scienza dell'uomo comprenderà la scienza naturale», e in cui «non ci sarà che una scienza» (Manoscritti economico-filosofici del 1844, III, trad. ital., p. 266). Ma nel frattempo, quella che potremo chiamare la sua «filosofia» è costituita sostanzialmente da una antropologia, da una teoria della storia e da una teoria della società: quest'ultima, movendo dalla riduzione della società stessa alla sua struttura economica, è nient'altro che una teoria dell'economia.
Dopo la pubblicazione delle opere giovanili di Marx (avvenuta soltanto intorno al 1930) che ha reso possibile una migliore conoscenza delle prime due parti della sua filosofia, l'influenza di questa filosofia s'è sempre più estesa e approfondita anche al di fuori dei movimenti politici che da essa hanno tratto origine e che l'hanno considerata più spesso come uno strumento rifinito di lotta che come via aperta a ulteriori sviluppi.
606. VITA E OPERE.
KARL MARX nacque a Treviri il 15 maggio 1818. Studiò all'Università di Bonn e poi a Berlino, dove divenne hegeliano entusiasta; e si laureò in filosofia nel 1841 con una tesi sulla Differenza tra la filosofia della natura di Democrito e quella di Epicuro. Rinunciando alla carriera universitaria, Marx si dedicò alla politica e al giornalismo. Collaborò alla «Gazzetta renana» che fu l'organo dei cosiddetti giovani hegeliani o hegeliani di sinistra e del movimento liberale tedesco. Soppresso il giornale, Marx, le cui idee si erano nel frattempo evolute dal liberalismo al socialismo, collaborò ad una rivista, gli «Annali franco-tedeschi», che fu anch'essa soppressa. Dal 1843 egli dimorò a Parigi, dove rimase sino al 1845 collaborando all'organo dei rifugiati tedeschi, l'«Avanti». Costretto ad allontanarsi da Parigi visse a Bruxelles (dal 1845 al 1848) e nel 1848 pubblicava con Engels, col quale si era legato a Parigi di grande amicizia, il Manifesto del partito comunista che segnò l'inizio del risveglio politico della classe operaia e portò il socialismo dal dominio utopistico a quello della realizzazione storica, additando nella classe operaia lo strumento che deve promuovere e sollecitare l'evoluzione della società capitalistica verso la propria negazione. Gli avvenimenti del 1848 riportarono Marx a Colonia e a Parigi; ma nel 1849 egli si stabiliva con la famiglia a Londra, da dove continuò a ispirare e a dirigere il movimento operaio internazionale, e dove mori il 14 marzo 1883.
Gli scritti filosoficamente più significativi di Marx sono i seguenti: Critica della filosofia del diritto di Hegel, composta nel 1843, la cui introduzione fu pubblicata a Parigi nel 1844 negli «Annali franco-tedeschi», Economia e filosofia, composta nel 1844 ma rimasta inedita e pubblicata postuma; La sacra famiglia o critica della critica critica (1845), scritta, in collaborazione con Engels, e diretta contro Bruno Bauer e i suoi amici giovani hegeliani o hegeliani di sinistra che avevano elevato a guida della storia la «potenza critica della ragione»; Tesi su Feuerbach, brevissimo, ma importante scritto, composto nel 1845, e pubblicato postumo da Engels; Ideologia tedesca, composta nel 1845-1846, diretta contro Feuerbach, Bruno Bauer e Stirner, rimasta inedita e pubblicata postuma; La miseria della filosofia (1847), diretta contro l'opera di Proudhon La filosofia della miseria; Critica dell'economia politica (1859); Il capitale, vol. I, 1867; voll. II e III pubblicati postumi da Engels (1885, 1895).
607. ANTROPOLOGIA,
Il punto di partenza di Marx è la rivendicazione dell'uomo, dell'uomo esistente, nella totalità dei suoi aspetti, già fatta da Feuerbach. Engels testimonia l'entusiasmo che l'opera di Feuerbach aveva suscitato in lui e in Marx, come in molti dei giovani hegeliani tedeschi. «Chi ha scoperto il mistero del "sistema"? Feuerbach. Chi ha negato la dialettica del concetto, la guerra degli dèi che solo i filosofi conoscevano? Feuerbach. Chi ha posto non "il significato degli uomini" -.- come se l'uomo potesse avere altro significato che quello d'essere uomo » ma "gli uomini" al posto del vecchio ciarpame, compresa l'autocoscienza infinita? Feuerbach e soltanto Feuerbach» (Sacra famiglia, Gesamtausgabe, III, p. 265). Ma Marx non si ferma a questo aspetto negativo della filosofia di Feuerbach e neppure al suo aspetto positivo, che è la rivalutazione dei bisogni, della sensibilità, della materialità dell'uomo. Feuerbach si è fermato ad un atteggiamento teoretico o contemplativo; egli ha ignorato l'aspetto attivo e pratico della natura umana che si costituisce e realizza soltanto nei rapporti sociali. Solamente questi rapporti, non già contemplati, ma realizzati e compresi appunto nella loro realizzazione storica, aprono la via a quello che Marx chiama il nuovo materialismo, che si oppone al vecchio materialismo speculativo o contemplante. «I filosofi, dice Marx (Tesi su Feuerbach, 11°), hanno finora soltanto diversamente interpretato il mondo: si tratta ora invece di trasformarlo». Il punto di vista del nuovo materialismo è quello di una praxis rivoluzionaria (lb., 3°); l'uomo perviene alla soluzione dei suoi problemi, non attraverso la speculazione, ma attraverso l'azione criticamente illuminata e diretta.
Ciò che Marx ha cercato di realizzare, non solo nella sua opera di filosofo e di economista ma nella sua stessa attività politica, è un'interpretazione dell'uomo e del suo mondo che sia insieme impegno di trasformazione e, in questo senso, attività rivoluzionaria. Ora quest'interpretazione è possibile solo se all'uomo non si riconosce un'essenza determinabile una volta per tutte in astratto, essenza che gli sia data nel suo rapporto privato con se stesso, nella sua interiorità o coscienza; ma solo se si vede l'essere dell'uomo nei suoi rapporti esterni con gli altri uomini e con la natura che gli fornisce i mezzi di sussistenza. Ora questi rapporti non sono determinabili una volta per tutte perché sono storicamente determinati dalle forme del lavoro e della produzione. In altri termini, la personalità reale e praticamente attiva dell'uomo è solo quella che si risolve nei rapporti di lavoro in cui l'uomo viene a trovarsi. «Si possono distinguere gli uomini dagli animali, dice Marx, per la coscienza, per la religione, per tutto ciò che si vuole; ma essi cominciarono a distinguersi dagli animali allorché cominciarono a produrre i loro mezzi di sussistenza, un progresso che è condizionato dalla loro organizzazione fisica. Producendo i loro mezzi di sussistenza, gli uomini producono indirettamente la loro stessa vita materiale» (ideologia tedesca, I, trad. ital., p. 17). E dunque attraverso il lavoro, come rapporto attivo con la natura, che l'uomo è in qualche modo il creatore di se stesso; e creatore non solo della sua «esistenza materiale» ma anche del suo modo d'essere o della sua esistenza specifica, come capacità di espressione o di realizzazione di sé. «Questo modo di produzione non si deve giudicare solo in quanto è la riproduzione dell'esistenza fisica degli individui; anzi esso è già un modo determinato dell'attività di quest'individuo, un modo determinato di estrinsecare la loro vita, un modo di vita determinato. Come gli individui esternano la loro vita, così essi sono» (lb.).
L'essere umano è tale dunque nella sua esteriorità, in quel rapporto attivo con la natura e con la società che è il lavoro, o la produzione dei beni materiali: non nella sua interiorità o coscienza. La produzione e il lavoro non sono, secondo Marx, una condanna per l'uomo: sono l'uomo stesso, il suo modo specifico di essere o di farsi uomo. Per essi la natura diventa «il corpo inorganico dell'uomo»; e per essi, anche, l'uomo può rapportarsi a sé come natura universale o generica e assurgere a coscienza di sé, non tanto come individuo, ma come «specie o natura universale». Difatti mentre l'animale produce solo immediatamente e sotto il dominio del bisogno «l'uomo produce anche libero dal bisogno fisico e produce veramente soltanto nella libertà da tale bisogno»; mentre l'animale «produce cose solo secondo la misura e il bisogno della specie cui appartiene, l'uomo sa produrre secondo la misura di ogni specie e dappertutto sa conferire all'oggetto la misura inerente e formare anche secondo le leggi della bellezza» (Manoscritti economico-politici del 1844, I, trad. ital., pp. 230-31).
Il lavoro è pertanto, secondo Marx, una manifestazione, anzi l'unica manifestazione della libertà umana cioè della capacità umana di creare la propria forma di esistenza specifica. Non si tratta, certamente, di una libertà infinita perché la produzione è sempre condizionata dalle condizioni materiali e dai bisogni già sviluppati; e queste condizioni agiscono come fattori limitativi ad ogni fase della storia. Ma dall'altro lato si tratta di un condizionamento che non è esterno ma interno agli stessi individui umani. «Le condizioni sotto le quali gli individui, finché non è ancora apparsa la contraddizione, hanno relazioni tra loro, sono condizioni che appartengono alla loro individualità e non qualche cosa di esterno ad essi: sono condizioni sotto le quali soltanto questi individui determinati, esistenti in situazioni determinate, possono produrre la loro vita materiale e ciò che vi è connesso; esse sono quindi le condizioni della loro manifestazione personale e da questa sono prodotte» (Ideologia tedesca, I, trad. ital., p. 70).
Nei rapporti produttivi, che sono rapporti degli uomini fra loro e con la natura, l'attività umana è dunque insieme condizionata e condizionante e, poiché ad essa spetta l'iniziativa ditali rapporti, è in ultima analisi autocondizionantesi. Difatti quando la forma assunta dai rapporti di produzione, forma che fino a un certo punto ha condizionato la manifestazione personale degli individui, appare come un inceppo per tale manifestazione, essa viene sostituita da un'altra forma che si presta meglio a condizionare queste manifestazioni e che a sua volta può diventare un intralcio ed essere sostituita. «Poiché, dice Marx, ad ogni stadio queste condizioni corrispondono allo sviluppo contemporaneo delle forze produttive, la loro storia è altresì la storia delle forze produttive che si sviluppano e che sono riprese da una nuova generazione e pertanto è la storia dello sviluppo delle forze degli individui stessi» (lb., pp. 70-71). Nei rapporti produttivi, e quindi nella determinazione dell'esistenza umana storicamente condizionata, entra quindi tutto l'uomo, con i suoi bisogni e con la sua ragione, con i suoi interessi e la sua scienza; ma vi entra nel suo atteggiamento pratico ed attivo cioè in quanto si manifesta o attua nel lavoro - non nel suo atteggiamento contemplativo teoretico come uomo morale, religioso, filosofico cioè come «coscienza»: giacché la coscienza (come vedremo subito) è il riflesso della sua attività produttiva.
Marx ha inteso in modo articolato, non rigido, il rapporto tra le forze produttive degli individui e le forme, che esse determinano, dei rapporti sociali e della coscienza che le riflette. Lo sviluppo delle forze produttive accade in modo diverso presso popoli o gruppi umani diversi; e solo lentamente e in modo altrettanto disuguale determina lo sviluppo delle forme istituzionali corrispondenti. Ne segue che queste forme continuano talvolta a sopravvivere anche quando si sono affacciate nuove forze produttive che tendono a distruggerle e a soppiantarle con forme nuove; o che, nell'interno stesso di un gruppo, «gli individui hanno sviluppi del tutto diversi»; o che, in generale, la coscienza possa apparire talvolta più avanzata rispetto alla situazione empirica contemporanea, sicché nelle lotte di un periodo posteriore ci si può appoggiare, come autorità, a teorici anteriori» (lb., p. 71). In altri casi, come nel Nordamerica, il processo di sviluppo prende inizio «con gli individui più evoluti dei vecchi paesi e pertanto con la forma di relazioni più sviluppata, corrispondente a questi individui, ancor prima che questa forma di relazioni possa imporsi ad altri Paesi» (lb., p. 71). Ciò vuol dire che la riduzione, operata da Marx, dell'individuo (cioè dell'essere dell'uomo) ai rapporti sociali, non implica per nulla l'appiattimento dell'individuo stesso sulle forme già realizzate di tali rapporti né il determinismo rigoroso di tali forme sulla struttura dei singoli individui umani.
Tutto ciò però non fa che dimostrare, secondo Marx, il carattere sociale dell'uomo. «Come la società produce l'uomo in quanto uomo, dice Marx, cosi essa è prodotta da lui» (Manoscritti economico-filosofici del 1844, III, trad. ital., p. 259). La natura stessa, con la quale ogni uomo, come essere vivente, è in rapporto, si umanizza solo nella socialità divenendo un legame tra uomo e uomo e il fondamento dell'esistenza comune. «La società, dice Marx, è la compiuta consustanziazione dell'uomo con la natura, la vera resurrezione della natura, il realizzato naturalismo dell'uomo e il realizzato umanismo della natura» (lb., p. 260). Le stesse attività individuali (per esempio, l'attività scientifica) non sono meno sociali delle attività collettive pubbliche: non solo perché adoperano strumenti, per esempio, il linguaggio che sono prodotti sociali, ma in quanto il loro fine o la loro destinazione è la società stessa. «L'individuo è ente sociale. La sua manifestazione di vita - anche se non appare nella forma diretta di una manifestazione di vita comune, compiuta insieme con altri - è una manifestazione e una affermazione di vita sociale» (lb., p. 260). Ciò che distingue l'individuo è semplicemente il suo modo più specifico o più particolare di vivere la vita del genere umano. La morte, dice Marx, appare una dura vittoria del genere sull'individuo e una contraddizione della loro unità; ma l'individuo determinato è soltanto un ente generico determinato e come tale mortale» (lb., p. 261).
Possiamo ora ricapitolare nel modo seguente i capisaldi dell'antropologia di Marx: 1) Non esiste un'essenza o natura umana in generale. 2) L'essere dell'uomo è sempre storicamente condizionato dai rapporti in cui l'uomo entra con gli altri uomini o con la natura per le esigenze del lavoro produttivo. 3) Questi rapporti condizionano l'individuo, cioè la persona umana esistente; ma gli individui a loro volta lo condizionano promuovendone la trasformazione o lo sviluppo. 4) L'individuo umano è un ente sociale.
608. IL MATERIALISMO STORICO.
La terza tesi è il fondamento della concezione marxista della storia cioè del materialismo storico. Marx insiste sul carattere «empirico» del presupposto da cui muove. Questo presupposto è il riconoscimento che la storia è fatta da «individui umani viventi» che si trovano sempre in certe «condizioni materiali di vita» che essi hanno o già trovato esistenti o prodotte con la loro stessa azione (Ideologia tedesca, I, p. 17). Sulla base di questo presupposto Marx avanza la tesi fondamentale della sua dottrina della storia: l'unico soggetto della storia è la società nella sua struttura economica. Marx ha formulato questa tesi in opposizione polemica con la dottrina hegeliana secondo la quale il soggetto della storia è invece l'Idea, la coscienza o lo spirito assoluto. Egli stesso dichiara che, nella revisione critica della filosofia del diritto di Hegel, arrivò alla conclusione che «tanto i rapporti giuridici quanto le forme dello stato non possono essere compresi né per se stessi né per la cosiddetta evoluzione generale dello spirito umano, ma hanno le loro radici nei rapporti materiali dell'esistenza, il cui complesso viene abbracciato da Hegel, seguendo l'esempio degli Inglesi e dei Francesi del secolo xvm, sotto il termine di "società civile"; e che l'anatomia della società civile è da cercare nell'economia politica» (Per la critica dell'economia politica, pref., trad. ital., p. 10). Più precisamente, sulla base della sua antropologia, la tesi viene presentata così: «Nella produzione sociale della loro esistenza, gli uomini entrano in rapporti determinati, necessari, indipendenti dalla loro volontà, in rapporti di produzione che corrispondono a un determinato grado di sviluppo delle loro forze positive materiali. L'insieme di questi rapporti costituisce la struttura economica della società, ossia la base reale sulla quale si eleva una soprastruttura giuridica e politica e alla quale corrispondono forme determinate della coscienza sociale. Il modo di produzione della vita materiale condiziona, in generale, il processo sociale, politico e spirituale della vita. Non è la coscienza degli uomini che determina il loro essere ma è, al contrario, il loro essere sociale che determina la loro coscienza» (lb., pp. 10-11).
Da questo punto di vista l'unico elemento determinante della storia, perciò anche l'unico elemento che si autodetermina, è la struttura economica della società; mentre la soprastruttura, con tutto ciò che ne fa parte, è una specie d'ombra o riflesso della struttura e partecipa quindi solo indirettamente della sua storicità. Per «soprastruttura» Marx intende, oltre che le forme del diritto e dello stato, la morale, la religione, la metafisica, e ogni altra forma ideologica, nonché le forme di coscienza corrispondenti. Tutte queste cose, egli dice, «non hanno storia, non hanno sviluppo, ma gli uomini che sviluppano la loro produzione materiale e le loro relazioni materiali, trasformano, insieme con questa loro realtà, anche il loro pensiero e i prodotti del loro pensiero. Non è la coscienza che determina la vita, ma la vita che determina la coscienza» (Ideologia tedesca, I, trad. ital., p. 23).
Marx insiste continuamente sui fatto che «quegli stessi uomini che stabiliscono i rapporti sociali conformemente alla loro produttività materiale, producono anche i principi, le idee, le categorie, conformemente ai loro rapporti sociali. Così queste idee, queste categorie sono tanto poco eterne quanto le relazioni che esse esprimono. Sono prodotti storici e transitori. Vi è un continuo movimento di accrescimento nelle forze produttive, di distruzione nei rapporti sociali, di formazione delle idee; di immutabile non vi è che l'astrazione del movimento, mors immortalis» (Miseria della filosofia, IT, I, trad. ital., p. 89). Utilizzare categorie, idee o simili «fantasmi» della mente per spiegare la storia significa capovolgere il suo processo effettivo, fare dell'ombra la spiegazione delle cose, invece che delle cose la spiegazione dell'ombra. Una vera teoria della storia non spiega la prassi partendo dalle idee ma al contrario spiega la formazione delle idee partendo dalla prassi materiale e perciò giunge al risultato che «tutte le forme e i prodotti della coscienza possono essere eliminati non mediante la critica intellettuale, risolvendoli nell'autocoscienza o trasformandoli in spiriti, fantasmi o spettri, ecc., ma solo mediante il rovesciamento pratico dei rapporti sociali esistenti, dai quali queste fandonie idealistiche sono derivate»; e che pertanto «non la critica ma la rivoluzione è la forza motrice della storia, anche della storia della religione, della filosofia, e di ogni altra teoria» (Ideologia tedesca, I, trad. ital., p. 34).
Da questo punto di vista, le idee che dominano in un'epoca storica sono le idee della classe dominante: «La classe che è la potenza materiale dominante della società è in pari tempo la sua potenza spirituale dominante» (lb., p. 43). Difatti tali idee non sono altro che «l'espressione ideale dei rapporti materiali dominanti, i rapporti materiali dominanti presi come idee». La dipendenza delle idee dominanti dalla classe dominante viene obliterata o tenuta nascosta in primo luogo dal fatto che le idee stesse sono elaborate, nell'interno della classe, dagli «ideologi attivi» il cui compito è di promuovere l'illusione della classe su se stessa; e in secondo luogo dal fatto che ogni classe che assume il potere deve rappresentare il suo interesse come l'interesse comune di tutti i membri della società, deve cioè «dare alle proprie idee la forma dell'universalità e rappresentarle come le sole razionali e universalmente valide» (lb., p. 44). Kant, ad esempio, non ha fatto che trasformare «gli interessi materiali e la volontà condizionata e determinata dai rapporti materiali di produzione» della borghesia contemporanea in «autodeterminazioni pure della libera volontà, della volontà in sé e per sé» cioè in «determinazioni ideologiche puramente concettuali e in postulati morali» (lb., III, trad. ital., pp. 189-90).
Come si è detto, soltanto la struttura economica della società ha, propriamente, storia. La molla di questa storia, perciò della storia in generale, è costituita dal rapporto tra le forze produttive e i rapporti di produzione (cioè i rapporti di proprietà). Quando le forze produttive raggiungono un certo grado di sviluppo entrano in contraddizione con i rapporti di produzione esistenti che cessano di essere per esse condizioni di sviluppo e si trasformano in catene. Subentra allora un'epoca di rivoluzione sociale. Tuttavia una formazione sociale non perisce finché non si siano sviluppate tutte le forze produttive a cui può dare corso; i nuovi rapporti di produzione subentrano solo quando siano maturate, in seno alla vecchia società, le condizioni materiali della loro esistenza. Marx ammette a questo proposito il progresso incessante della storia: «I modi di produzione asiatico, antico, feudale e borghese moderno, possono essere designati come epoche che marcano il progresso della formazione economica della società» (Per la critica dell'economia politica, Pref., trad. ital., p. 11). Egli ammette pure che questo progresso è diretto al raggiungimento di una forma finale e conclusiva: «I rapporti di produzione borghese sono l'ultima forma antagonistica del processo di produzione sociale... Ma le forze produttive che si sviluppano nel seno della società borghese creano in pari tempo le condizioni materiali per la soluzione di quest'antagonismo. Con questa formazione sociale si chiude dunque la preistoria della società umana» (lb., pp. 11-12). Ma veramente, da questo punto di vista, dopo la «preistoria» non ci sarà neppure «storia» cioè divenire o progresso; giacché mancherà l'unica molla di esso, la contraddizione tra forze produttive e rapporti economici.
609. IL COMUNISMO.
Se l'uomo, come ente sociale, è costituito dai rapporti di
produzione, la sua natura e il suo sviluppo dipendono dalle forme
storicamente assunte da tali rapporti. E evidente, da questo punto di
vista, che il progresso della natura umana non è un problema puramente
individuale o privato, risolvibile
per via di un perfezionamento spirituale, attraverso la morale, la
religione, e la filosofia; ma è un problema sociale, risolvibile solo
attraverso la trasformazione della struttura economica della società.
Marx si è fermato spesso a illustrare quello che è oggi uno dei teoremi meglio stabiliti della psicologia sociale, cioè la stretta connessione della personalità umana con l'ambiente sociale. Un individuo a cui le circostanze consentono di sviluppare soltanto una qualità a spese delle altre avrà uno sviluppo unilaterale e monco. Un individuo vivente in un ambiente ristretto e immobile sarà capace soltanto, se sentirà il bisogno di pensare, di un pensiero astratto che gli servirà di evasione dal suo squallore quotidiano. Un individuo che abbia con il mondo relazioni molteplici e attive sarà invece capace di un pensiero universale e vivo. In ogni caso, nota Marx, le «prediche moraleggianti» non servono a nulla (Ideologia tedesca, III, trad. ital., p. 255 sgg.).
Il comunismo si presenta allora come l'unica soluzione del problema dell'uomo perché è l'unica soluzione che fa dipendere la realizzazione di una personalità umana unificata e libera da una trasformazione della struttura sociale che condiziona la personalità stessa. La società capitalistica, originata dalla divisione del lavoro, che ha diviso nettamente capitale e lavoro, produce una lacerazione interna della personalità umana. In quella società difatti le forze produttive sono completamente avulse dagli individui e costituiscono un mondo indipendente, quello della proprietà privata. A queste forze si contrappone la maggioranza degli individui che, privati di ogni reale contenuto di vita, sono diventati individui astratti, pur essendo posti nella condizione di entrare in collegamento tra loro. Il lavoro, che è l'unico modo in cui gli individui possono ancora entrare in rapporto con le forze produttive, ha perduto per essi ogni parvenza di manifestazione personale e sostenta la loro vita solo a patto d'intristirla (lb., I, p. 65). Il comunismo, realizzando la soppressione della proprietà privata, cioè del capitale, elimina la lacerazione che essa ha portato nella struttura sociale e nella personalità degli individui. Il lavoro ridiventa allora l'attività autonoma, personale dell'uomo, lo strumento della solidarietà umana. Il comunismo è perciò «il completo, consapevole ritorno dell'uomo a se stesso, come uomo sociale, cioè come uomo umano» (Manoscritti economico-filosofici del 1844, III, trad. ital., p. 258). Da un lato esso sopprime l'opposizione tra la natura e l'uomo risolvendo a favore dell'uomo il relativo rapporto con il mettere a disposizione dell'uomo tutto il complesso delle forze naturali; dall'altro sopprime l'opposizione tra uomo e uomo istituendo la solidarietà del lavoro comune. Esso realizza pertanto la naturalizzazione dell'uomo e l'umanizzazione della natura (lb., p. 260). Senza dubbio questa realizzazione avverrà per gradi. In una prima fase della società comunistica uscita, dopo i lunghi travagli del parto, dalla società capitalistica, una certa disuguaglianza tra gli uomini, in particolare la disuguale retribuzione in base al lavoro prestato, sarà inevitabile. Solo in una fase più elevata della società comunistica, con la scomparsa della divisione del lavoro e quindi del contrasto tra il lavoro intellettuale e quello manuale e quando il lavoro sarà diventato non solo mezzo di vita, ma bisogno della vita e le forze produttive avranno raggiunto il loro sviluppo, la società, dice Marx, «potrà scrivere sulla propria bandiera: Ognuno secondo la sua capacità, a ognuno secondo i propri bisogni» (Per &l critica del programma di Gotha, 1875).
Ma da questo, che è il comunismo autentico, Marx distingue il comunismo rozzo che non consiste nell'abolizione della proprietà privata ma nell'attribuzione di tutta la proprietà privata alla comunità e quindi nella riduzione di tutti gli uomini a proletari. Questo comunismo è, secondo Marx, «una manifestazione della bassezza della proprietà privata che intende porsi come positiva comunità» (Manoscritti economicofilosofici del 1844, III, trad. ital., p. 257). Esso è un'espressione di quello che oggi, dopo Nietzsche e Scheler, chiamiamo risentimento. Dice Marx: «Questo comunismo, in quanto nega ovunque la personalità dell'uomo, è soltanto l'espressione conseguente della proprietà privata che è tale negazione. L'invidia generale, che diventa una forza, è soltanto la forma nascosta in cui la cupidità si stabilisce e si soddisfa in altra guisa: il pensiero di ogni proprietà privata come tale si stravolge, almeno contro la proprietà più ricca, in invidia e brama di livellamento» (lb., p. 256). Fa parte di questo comunismo la sostituzione del matrimonio con la comunione delle donne per cui anche la donna diventa una proprietà comune; e quest'aspetto svela il carattere degradante di questa forma di comunismo perché è per l'appunto nel rapporto tra uomo e donna che si manifesta meglio il grado in cui l'uomo ha realizzato la propria umanità (lb., p. 257).
Ma, come si è detto, la nascita, l'affermazione e la vittoria del comunismo sono esse stesse condizionate dallo sviluppo economico. Il comunismo non può essere un dover essere, un ideale, un'utopia che si contrapponga alla realtà storica e pretenda di volgerla nella sua direzione. Marx ha affermato energicamente che la classe operaia «non ha da realizzare alcun ideale» (La guerra civile in Francia, trad. ital., Roma, 1907, p. 47). E nel Manifesto del partito comunista è detto: «Gli enunciati teorici dei comunisti non riposano affatto su idee o principi che siano stati inventati o scoperti da questo o quest'altro riformatore del mondo. Essi non sono che espressioni generali dei rapporti effettivi di una già esistente lotta di classe, di un moto storico che si va svolgendo sotto i nostri occhi». La fine della società capitalistica e l'avvento del comunismo saranno dovuti allo sviluppo inevitabile della stessa economia capitalistica; la quale, mentre da un lato è incapace di assicurare l'esistenza dei lavoratori salariati, di cui pure non può fare a meno, dall'altro unisce i lavoratori stessi nella grande industria e ne fa una forza destinata a distruggerla. La borghesia stessa produce i propri becchini.
Questa eliminazione totale dell'elemento etico, questo affidare la realizzazione dell'esigenza umana del comunismo unicamente allo sviluppo della struttura economica della società capitalistica, è la conseguenza inevitabile del materialismo storico; che sarebbe negato in pieno ove si ammettesse che una qualsiasi ideologia (compreso il comunismo) possa nascere e realizzarsi indipendentemente dalla struttura economica della società o contro di essa. Ma, in virtù di questa conseguenza, l'intera validità del comunismo come ideologia politica dipende dalla dimostrazione della tesi che esso è lo sbocco inevitabile dello sviluppo della società capitalistica; e s'intende come Marx si sia sentito sempre impegnato alla dimostrazione di questa tesi, alla quale ha dedicato la sua opera maggiore, Il capitale. Quest'opera, nella quale Marx ha sommato e portato a compimento tutte le sue ricerche nel campo dell'economia, non può essere intesa isolatamente; presuppone la filosofia della storia di Marx, senza tuttavia esserne dipendente quanto alla sua struttura e ai suoi capisaldi. Il materialismo storico e la dottrina economica del Capitale stanno tra loro come la premessa maggiore e la premessa minore di un sillogismo. Il materialismo storico afferma che nessun mutamento sociale avviene per l'azione di un'ideologia o di un ideale utopistico perché l'ideologia non fa che esprimere rapporti sociali storicamente determinati. Il Capitale intende mostrare che il comunismo esprime i rapporti sociali che si vanno già formando nella società capitalistica e che pertanto esso è lo sbocco inevitabile dello sviluppo di questa società.
Com'è noto, Marx parte dal principio di Adamo Smith e di Ricardo che il valore di un bene qualsiasi è determinato dalla quantità di lavoro necessario a produrlo. Se perciò il capitalista corrispondesse al salariato l'intero prodotto del suo lavoro, non avrebbe per sé alcun margine di profitto. Egli invece compra dal salariato la forza di lavoro, pagandola, come si paga ogni altra merce, in base alla quantità di lavoro che basta a produrla, cioè in base a quanto occorre per il sostentamento dell'operaio e della sua famiglia (che rappresenta la forza di lavoro futura). In tal modo è possibile il fenomeno del plusvalore: che è quella parte del valore prodotto dal lavoro salariato di cui il capitalista si appropria. E il plusvalore rende possibile l'accumulazione capitalistica, la produzione del denaro mediante denaro, che è il fenomeno fondamentale della società borghese (Capitale, I, 3). Marx difende queste tesi con una ricca e minuziosa analisi del sorgere della moderna società capitalistica. E volge quest'analisi a dimostrare le due tesi fondamentali che dovrebbero giustificare il comunismo dal punto di vista del materialismo storico: la legge dell'accumulazione capitalistica, per la quale la ricchezza tenderebbe a concentrarsi in poche mani; e la legge dell'immiserimento progressivo del proletariato, per la quale, corrispondentemente all'accumulazione del capitale, si verificherebbe il livellamento nella miseria di tutti i ceti produttivi; i quali ad un certo punto sarebbero pronti e preparati all'espropriazione della esigua minoranza capitalistica e ad assumere perciò tutte le funzioni ed i poteri sociali. In tal modo la produzione capitalistica, negazione di quella proprietà privata che è il corollario del lavoro indipendente, deve produrre ad un certo punto la sua stessa negazione. La società capitalistica sarà distrutta dalla sua stessa contraddizione interna: dalla contraddizione per la quale le forze produttive che essa avrà cercato di sviluppare allo scopo di raggiungere il massimo incremento del capitale, entreranno in conflitto con questo scopo e perciò infrangeranno l'involucro capitalistico, consentendo l'espropriazione degli espropriati. «La produzione capitalistica, dice Marx (Cap., I, 24, S 7), genera essa stessa la propria negazione con la fatalità che presiede ai fenomeni della natura».
La discussione di queste tesi economiche, che si trovano contraddette dallo sviluppo ulteriore dell'economia politica, cade fuori dei limiti di questa opera. Basti qui aver accennato ad esse unicamente per chiarire il rapporto tra la filosofia e la dottrina economica marxiste, rapporto che è fondamentale per la comprensione della personalità storica di Marx.
610. L'ALIENAZIONE.
La condizione dell'uomo nella società capitalistica è stata talvolta, e specialmente nelle opere giovanili, caratterizzata da Marx come alienazione.
Marx aveva desunto questo concetto da Hegel che se ne era avvalso, nelle ultime pagine della Fenomenologia, per illustrare il procedimento attraverso il quale l'Autocoscienza pone l'oggetto cioè pone se stessa come oggetto e così si aliena da sé per poi ritornare a se stessa. «L'alienazione dell'Autocoscienza, dice Hegel, pone, essa proprio, la cosalità: onde questa alienazione ha significato non solo negativo ma anche positivo e ciò non solo per noi o in sé ma anche per l'Autocoscienza stessa. Per essa, il negativo dell'oggetto o l'autotogliersi di quest'ultimo ha un significato positivo, ovvero essa sa quella nullità dell'oggetto perché, da una parte, essa aliena se stessa: infatti in questa alienazione pone sé come oggetto o, per l'inscindibile unità dell'esser-persé, pone l'oggetto come se stesso. E d'altra parte, c'è qui anche l'altro momento per cui essa ha anche tolto e ripreso in se medesima quell'alienazione e oggettività rimanendo dunque presso di sé nel suo esser-altro come tale. Questo è il movimento della coscienza la quale è, perciò, la totalità dei suoi momenti» (Fenomenologia dello spirito, VIII, ed. Glockner, pp. 602-03).
Nelle mani di Marx questa nozione si trasforma completamente. In primo luogo, il soggetto dell'alienazione non è l'autocoscienza che, secondo Marx, è un concetto astratto o fittizio, ma l'uomo, l'uomo reale o esistente; e l'alienazione non è una figura speculativa ma la condizione storica in cui l'uomo viene a trovarsi nei confronti della proprietà privata dei mezzi di produzione. La proprietà privata, difatti, trasforma i mezzi di produzione da semplici strumenti e materiali dell'attività produttiva umana, in fini ai quali viene subordinato l'uomo stesso. «Non è l'operaio che adopera i mezzi di produzione, dice Marx, ma sono i mezzi di produzione che adoperano l'operaio; invece di venire da lui consumati come elementi materiali della sua attività produttiva, essi consumano lui come fermento del loro processo vitale; e il processo vitale del capitale consiste solo nel suo movimento di valore che valorizza se stesso» (Capitale, I, III, cap. IX, trad. ital., p. 339). In altri termini, la proprietà privata aliena l'uomo da sé perché io trasforma da fine in mezzo, da persona a strumento di un processo impersonale che lo asservisce senza riguardo dei suoi bisogni e delle sue esigenze. «La produzione produce l'uomo non solo come una merce, la merce umana, l'uomo con il carattere della merce; ma lo produce, conformemente a questo carattere, come un ente disumanato sia spiritualmente che fisicamente» (Manoscritti economicifilosofici del 1844, III, trad. ital., p. 242).
La caratteristica più grave di questa alienazione, quella sulla quale Marx ha insistito soprattutto nelle opere giovanili, è la scissione o lacerazione che essa produce nell'essere stesso dell'uomo. Come si è visto, l'uomo è costituito dai rapporti di produzione che sono rapporti con la natura e con gli altri uomini; e questi rapporti, nella forma che assumono per effetto della proprietà privata, tendono a scindersi e così a scindere l'uomo dalla natura e dagli altri uomini, a estraniarlo dai suoi rapporti con essi e quindi da se stesso. «La proprietà privata, dice Marx, è soltanto l'espressione sensibile del fatto che l'uomo diventa oggettivo a se stesso o piuttosto oggetto estraneo o disumano, che la sua manifestazione di vita è la sua espropriazione di vita e la sua realizzazione è la sua privazione, una realtà estranea» (lb., III, trad. ital., p. 261). Questo è l'errore, secondo Marx, di tutta la civiltà moderna: la quale «separa dall'uomo il suo essere oggettivo quasi fosse un essere soltanto esteriore o materiale; e così non assume il contenuto dell'uomo come la vera realtà di esso» (Critica della filosofia hegeliana del diritto, trad. ital., p. 114). Per contro, il comunismo in quanto è «l'effettiva soppressione della proprietà privata quale autoalienazione dell'uomo», è «la reale appropriazione dell'essenza umana da parte dell'uomo e per l'uomo»; e perciò pure «la vera soluzione del contrasto dell'uomo con la natura e con l'uomo; la vera soluzione del conflitto tra esistenza ed essenza, oggettivazione e affermazione oggettiva, libertà e necessità, individuo e genere» (lb., p. 258).
L'alienazione cosi intesa, cioè come condizione storica dell'uomo nella società capitalistica, indebolendo od obliterando il senso concreto del rapporto dell'uomo con l'oggetto (natura e società), determina la nozione di una «essenza umana» universale ed astratta cioè priva d'ogni rapporto con l'oggetto stesso: cioè la nozione di autocoscienza, spirito o coscienza, che Hegel ha posto come unico e solo soggetto della storia e che anche la critica antihegeliana ha, secondo Marx, mantenuto intatta continuando a parlare dell'essenza dell'uomo e rifiutandosi di riconoscere l'essere dell'uomo nei rapporti oggettivi che lo costituiscono. Questa conseguenza dell'alienazione è talvolta chiamata da Marx «alienazione religiosa» (lb., p. 259); e nella Introduzione alla Critica della filosofia del diritto di Hegel Marx considera, sotto quest'aspetto, la religione come l'immagine di un «mondo rovesciato»: cioè di un mondo in cui al posto dell'uomo reale è stata messa l'essenza astratta dell'uomo. «La religione, dice Marx, è la teoria generale di questo mondo rovesciato, il suo compendio enciclopedico, la sua logica in forma popolare, il suo point-d'honneur spiritualistico, il suo entusiasmo, la sua sanzione morale, il suo solenne completamento, il fondamento universale della consolazione e della giustificazione di esso». Sotto quest'ultimo aspetto essa è «l'oppio del popolo», «la felicità illusoria del popolo». Ma l'alienazione religiosa è propria, secondo Marx, di tutte le filosofie idealistiche perché in queste, come nella religione, si fa del «mondo empirico un mondo semplicemente pensato o rappresentato, che si contrappone agli uomini come cosa estranea» (ideologia tedesca, III, trad hai., p. 151). Ed è propria anche del cosiddetto «stato politico» nel quale l'essenza dell'uomo come cittadino è contrapposta alla sua vita materiale. Nello stato politico l'uomo, dice Marx «conduce una doppia vita, una vita in cielo ed una in terra, la vita nella comunità politica nella quale egli si considera natura sociale e la vita nella società civile nella quale egli agisce da uomo privato, considera gli altri uomini come mezzi, degrada se stesso fino a ridursi a strumento e diventa il trastullo di forze a lui estranee». In tal modo l'uomo «è sottratto alla vita reale ed individuale e viene gonfiato con una universalità irreale»: il che è proprio dell'alienazione (La questione ebraica, I).
In ogni caso, pertanto, l'alienazione consiste per l'uomo nell'obliterazione dei suoi rapporti oggettivi e nel suo automistificarsi come un'essenza universale e spirituale. Da questo punto di vista l'alienazione di cui parla Hegel è, si può dire, un'alienazione nell'alienazione. Marx riconosce a Hegel il merito di aver colto l'essenza del lavoro come processo di oggettivazione e di avere concepito l'uomo come «risultato del proprio lavoro» (Manoscritti economico-politici del 1844, III, trad. ital., p. 298). Ma egli ha concepito l'uomo come autocoscienza, l'alienazione dell'uomo come alienazione dell'autocoscienza e il recupero dell'ente alienato come un'incorporazione nell'autocoscienza (lb., pp. 299-300). Questa non è che una formula mistificata per esprimere l'alienazione: mistificata appunto dal fatto che essa stessa presuppone l'alienazione cioè presuppone l'estraniazione dell'uomo dalla sua natura oggettiva. «E del tutto ovvio, dice Marx che un ente vivente, naturale, munito e dotato di forze essenziali oggettive, cioè materiali, abbia degli oggetti naturali e reali del suo essere, come altresì che la sua autoalienazione sia il porsi di un mondo reale ma avente la forma dell'esteriorità, dunque non appartenente al suo essere, e predominante e oggettivo. Non c'è niente di inconcepibile e misterioso in questo; il contrario sarebbe piuttosto un mistero. Ma è parimenti chiaro che una autocoscienza, cioè la sua alienazione, può porre soltanto la cosalità ossia soltanto una cosa astratta, una cosa dell'astrazione e nessuna cosa reale» (lb., p. 301). Come l'alienazione autentica non è figura di pensiero ma una situazione storica, casi la soppressione dell'alienazione è il ritorno dell'ente uomo alla sua oggettività naturale o meglio ad una oggettività che è nello stesso tempo naturale ed umana (lb., p. 303).
611. LA DIALETTICA.
La necessità del passaggio dalla società capitalistica alla società comunistica è, secondo Marx, di natura dialettica: è, anzi, la stessa dialettica. La nozione di dialettica è, insieme con quella di alienazione, la maggiore eredità che Marx ha accettato da Hegel. Ma nell'uno e nell'altro caso il senso delle nozioni hegeliane è stato da lui capovolto.
Per ciò che riguarda la dialettica, la prefazione alla seconda edizione (1873) del Capitale contiene l'esplicito riconoscimento di ciò che Marx doveva a Hegel e di ciò che non gli doveva. «Per Hegel, il processo del pensiero, che egli trasforma addirittura in soggetto indipendente con il nome di Idea, è il demiurgo del reale, che costituisce a sua volta solo il fenomeno esterno dell'Idea o processo del pensiero. Per me, viceversa, l'elemento ideale non è altro che l'elemento materiale trasferito e tradotto nel cervello degli uomini... La mistificazione alla quale soggiace la dialettica nelle mani di Hegel non toglie in nessun modo che egli sia stato il primo a esporre ampiamente e consapevolmente le forme generali del movimento della dialettica stessa. In lui essa è capovolta. Bisogna rovesciarla per scoprire il nocciolo razionale entro il guscio mistico». Nella sua forma razionale, la dialettica include «nella comprensione positiva dello stato di cose esistente anche la comprensione della negazione di esso, la comprensione del suo necessario tramonto perché concepisce ogni forma divenuta nel fluire del movimento quindi anche dal suo lato transeunte, perché nulla la può intimidire ed essa è critica e rivoluzionaria per essenza». Da questo passo risulta che per Marx: 1) la dialettica è un metodo per comprendere il movimento reale delle cose, non le astrazioni concettuali; 2) questo metodo consiste nel comprendere non solo lo stato di cose «esistente» ma anche la «negazione» di esso; 3) la conclusione cui questo metodo conduce o il suo risultato è la «necessità», cioè l'inevitabilità, della negazione, quindi della distruzione dello stato di cose esistente.
In altri testi Marx riconosce a Hegel il merito di «cominciare ovunque con l'opposizione delle determinazioni» (Critica della filosofia hegeliana del diritto, trad. ital., p. 77); mentre rivendica per il Capitale il merito di essere «il primo tentativo di applicare il metodo dialettico all'economia politica» (Carteggio, V, p. 95); e caratterizza talvolta questo metodo come quello che mostra la «intima correlazione» dei rapporti sociali (lb., pp. 45-46). Comunque perciò Marx ritenne che il metodo dialettico costituisse la legge di sviluppo della realtà storica, cioè della società nella sua struttura economica; e che questa legge esprimesse l'inevitabilità del passaggio dalla società capitalistica alla società comunistica, quindi dall'alienazione umana che è propria della prima alla soppressione dell'alienazione che è propria della seconda. A Marx rimase invece estraneo un caposaldo essenziale della dialettica hegeliana: quello per il quale le sue fasi, non essendo soltanto realtà empiriche o storiche, ma momenti di un processo eterno che è quello dell'Autocoscienza, sono eterne come questa stessa coscienza. Il loro «superamento» non è, per Hegel, la loro distruzione empirica e storica o speculativa ma piuttosto il loro mantenimento nell'unità conciliata dell'insieme. Diceva Hegel: «Il vero è il divenire di se stesso, il circolo che presuppone ed ha all'inizio la propria fine come proprio fine e che solo mediante l'attuazione e la propria fine è effettuale» (Fenomenologia, pref., ed. Glockner, p. 23); e in questo senso affermava che «il vero èl'intero» e che «dell'Assoluto si deve dire che esso è essenzialmente risultato e che solo alla fine è ciò che è in verità» (lb., p. 24). Nella fine, nel risultato, sono pertanto non solo «superati», ma anche conservati i momenti precedenti: che costituiscono «l'intero» allo stesso titolo, cioè con la stessa necessità, di quelli finali.
Nella dottrina di Marx, ovviamente, non c'è niente di simile: come non c'è niente che somigli alla «unità» o «sintesi» degli opposti in cui Hegel scorge il terzo e conclusivo momento della dialettica. Ciò che veramente rimane della dialettica hegeliana nell'interpretazione di Marx è soltanto la necessità del passaggio da una certa fase alla sua negazione: nonché l'esigenza generica di comprendere ogni fase o determinazione nella sua correlazione con fasi o determinazioni diverse ed eventualmente negative di essa.
Quest'ultima è una valida esigenza metodologica alla quale però difficilmente può essere applicato il termine «dialettica» che è ricco, in tutta la sua lunga storia, di ben altre determinazioni. Sicché l'eredità più specifica che Marx ha ricevuto da Hegel si può riconoscere nel concetto della necessità della storia cioè nella inevitabilità del suo esito negatore della società capitalistica, e disalienante. Si tratta di un'eredità pesante perché il suo peso non è stato diminuito dal «capovolgimento» che Marx ha fatto subire alla dialettica hegeliana. Questa eredità è stata accettata volentieri dai movimenti politici che si sono ispirati al marxismo perché si è rivelata dotata di notevole forza pragmatica come mito dell'inevitabilità del comunismo. Dal punto di vista concettuale, può dirsi, tuttavia, in un certo modo estranea all'impostazione fondamentale di Marx: il quale, come si è visto, ha sempre ritenuto che l'uomo e la storia sono il prodotto della libertà per cui l'uomo costruisce se stesso e ha visto nello sbocco della storia l'affermazione definitiva della libertà umana.
612. ENGELS.
Marx aveva chiamato «materialismo» la sua filosofia per opporla all'idealismo di Hegel, ma il termine non aveva riferimento alle correnti positivistiche che cominciavano a prevalere nella filosofia contemporanea.
Al positivismo cercò invece di riportare il marxismo Friedrich Engels, nato il 28 novembre 1820 a Barmen in Germania, morto a Londra il 5 agosto 1895, che fu per quarant'anni amico e collaboratore di Marx. L'opera principale di Engels è l'AntiDuhring (1878) diretta contro il filosofo positivista Duhring. Ma egli è anche autore, oltre che di numerosi scritti storico-politici, di un libro su Feuerbach e la fine della filosofia classica tedesca (1888) e di una Dialettica della natura pubblicata postuma (1925).
Per Marx la dialettica è un metodo per interpretare la società e la storia; per Engels è, in primo luogo, un metodo per interpretare la natura. La preoccupazione dominante di Engels è quella di inquadrare il marxismo nelle concezioni della scienza positivistica del suo tempo. «La dialettica è per la scienza naturale odierna la forma di pensiero più importante perché essa sola offre le analogie e con ciò i metodi per comprendere i processi di sviluppo che hanno luogo nella natura, i nessi generali, i passaggi da un campo di ricerca ad un altro» (Dialettica della natura, trad. ital., p. 39). Pertanto le leggi della dialettica devono essere ricavate «per astrazione» tanto dalla storia della natura come da quella della società umana. Esse sono fondamentalmente tre: 1) la legge della conversione della quantità in qualità e viceversa; 2) la legge della compenetrazione degli opposti; 3) la legge della negazione della negazione. «Tutte e tre queste leggi, dice Engels, sono state sviluppate da Hegel nella sua maniera idealistica, come pure leggi del pensiero: la prima nella prima parte della logica, nella teoria dell'essere; la seconda occupa tutta la seconda, e di gran lunga più importante parte della sua logica, la teoria dell'essenza; la terza infine figura come legge fondamentale per la costruzione dell'intero sistema» (lb., p. 56). Queste leggi sono illustrate da Engels con esempi tolti dalle scienze elementari; esempi fondati su analogie o immagini superficiali (per esempio, il seme si nega trasformandosi in pianta che a sua volta produce il seme, negazione della negazione). Per ciò che riguarda la compenetrazione degli opposti, un esempio sarebbe il rapporto tra attrazione e repulsione per le quali la dialettica scientifica avrebbe dimostrato «che tutte le opposizioni polari sono condizionate dall'alterno gioco dei due poli opposti l'uno sull'altro, che la separazione e l'opposizione dei poli sussiste soltanto nel loro reciproco appartenersi, nella loro unione, e che viceversa la loro unione può esistere solo nella loro separazione, il loro rapporto nella opposizione» (lb., p. 66). E così via.
Engels condivide le previsioni di alcuni scienziati circa la fine dell'universo; ma dichiara la sua certezza che «la materia in tutti i suoi mutamenti» rimane eternamente la stessa, che nessuno dei suoi attributi può mai andare perduto e che perciò essa deve di nuovo creare, in altro tempo e in altro luogo, «il suo più alto frutto, lo spirito pensante, per quella stessa ferrea necessità che porterà alla scomparsa di esso sulla terra» (lb., p. 35) - una certezza consolante, certo: ma piú «mistica» che «materialistica».
Dal punto di vista del materialismo di Engels, anche il materialismo storico cambia fisionomia. La formazione dei rapporti di produzione, quindi delle strutture sociali e delle soprastrutture ideologiche, che per Marx erano il prodotto dell'attività umana autocondizionantesi, diventano per Engels prodotti naturali, determinati da una dialettica materialistica. E allora l'inserzione dell'uomo in tali rapporti e la sua capacità di trasformarli attivamente, diventano un rovesciamento della «praxis» storica, cioè una reazione della coscienza umana alle condizioni materiali, inversa all'azione di queste su quella. E evidente che questo rovesciamento della praxis è reso necessario dal concepire i rapporti economici come naturalisticamente determinati e quindi indipendenti dall'uomo: l'attività dell'uomo sarebbe la correzione o la trasformazione di tali rapporti. Ma per Marx i rapporti di produzione costituiscono l'uomo, la sua concreta personalità, ed esprimono perciò (come s'è visto) l'attività autocondizionantesi dell'uomo stesso. La loro trasformazione e il loro sviluppo non dipendono da un rovesciamento della praxis ma dalla praxis stessa: è inerente all'intrinseco loro condizionarsi.
La dottrina del materialismo storico che, per la scarsa conoscenza degli scritti filosofici di Marx (rimasti in parte inediti) è stata di solito presentata come opera collettiva di Marx ed Engels, va distinta nella formulazione che Marx ne ha fatto e nella interpretazione positivistica che Engels ne ha tentato e che le toglie il suo significato originario e la sua forza.