9.1 La «Neue
Rheinische Revue»
Nell’ultima lettera che Marx mandò ad Engels da Parigi, gli
comunicava di aver tutte le buone prospettive di fondare a Londra
una rivista tedesca; una parte del denaro gli era già stata
assicurata. Pregava Engels, che dopo il fallimento dell’insurrezione
nel Baden e nel Palatinato viveva esule in Svizzera, di venire
subito a Londra. Engels seguì il richiamo, facendo il viaggio
da Genova con un veliero.
Da dove venissero i mezzi per l’impresa progettata, oggi non
è più possibile determinarlo. Non possono essere stati
abbondanti, e nemmeno si contava su una lunga vita della rivista;
Marx sperava che dopo tre o quattro mesi sarebbe scoppiato un
incendio rivoluzionario. «L’invito a sottoscrivere azioni» per la Neue Rheinische Zeitung, Politisch-Okonomische Revue,
redatta da Karl Marx porta la data di Londra, 1◦ gennaio 1850, ed
è firmato da Konrad Schramm come gerente dell’impresa. Vi si
dice che redattori della Neue Reintsche Zeitung si erano ritrovati a
Londra, dopo aver preso parte sia nella Germania meridionale che a
Parigi ai movimenti rivoluzionari dell’estate precedente, e avevano
deciso di continuare a Londra il loro giornale. Inizialmente esso
poteva uscire soltanto come rivista in quaderni mensili di circa
cinque fogli di stampa; appena i mezzi lo avessero consentito,
sarebbe dovuto uscire però due volte al mese nello stesso
formato o, possibilmente, come grosso settimanale del tipo dei
settimanali inglesi o americani, per trasformarsi subito in un
quotidiano, appena la situazione avesse consentito il ritorno in
Germania. Infine si invitava a sottoscrivere azioni di 50 franchi.
Non devono essere state collocate molte azioni. La rivista fu
stampata ad Amburgo, dove una ditta commerciale aveva accettato di
curarne l’edizione; essa pretendeva per questo il 50 per cento dei
25 Groschen d’argento che costituivano il prezzo ordinario di
vendita per un trimestre. Essa non si dette un gran da fare con la
cosa, tanto più che l’occupazione prussiana ad Amburgo le
tolse ogni slancio. Ma sarebbe andata sì e no meglio se vi
avesse messo uno zelo maggiore. Lassalle non riuscì a scovare
a Dusseldorf 50 abbonamenti, e Weydemeyer, che si era fatto
mandare 100 copie a Francoforte per la diffusione, dopo mezzo anno
aveva incassato appena 51 fiorini; «io insisto davvero
parecchio con la gente, ma nonostante tutte le sollecitazioni
nessuno ha fretta di pagare». Con giustificata amarezza la
signora Marx gli scriveva che l’impresa era stata del tutto rovinata
per il disordine e la trascuratezza dell’amministrazione, e che non
si sapeva che cosa fosse stato più dannoso, se
l’ostruzionismo del libraio o quello degli incaricati e degli amici
di Colonia, oppure l’atteggiamento della democrazia.
Non del tutto immune da responsabilità era anche
l’insufficiente preparazione redazionale dell’iniziativa, che in
sostanza ricadeva tutta su Marx ed Engels. Il manoscritto per il
fascicolo di gennaio arrivò ad Amburgo soltanto il 6
febbraio. Ma i posteri hanno tutte le ragioni di essere grati che il
progetto sia stato comunque eseguito, perché, se fosse stato
rinviato soltanto di pochi mesi, il rapido defluire dell’ondata
rivoluzionaria l’avrebbe reso assolutamente impossibile.
Così nei sei fascicoli della rivista ci sono state conservate testimonianze preziose di come Marx, secondo le parole di
sua moglie, sapeva sollevarsi «grazie a tutta la sua energia,
la serena, chiara, tranquilla coscienza di sé» al di
sopra delle cure meschine della vita che giorno per giorno ed ora
per ora lo assalivano «in modo rivoltante».
Marx, ed anche Engels — anzi questi più dell’altro — a dire
il vero nella loro gioventù hanno visto sempre troppo vicino
il futuro, e sperato spesso di poter già cogliere i frutti
quando cominciava appena la fioritura; quanto spesso sono stati per
questo derisi come falsi profeti! Ed essere un falso profeta non
è proprio la lode maggiore di un politico. Ma si deve
distinguere se le false profezie derivano dall’ardita sicurezza di
un pensiero chiaro ed acuto o dal vano fantasticare su pii desideri.
In questo caso la delusione ha un effetto snervante, in quanto un
miraggio scompare senza lasciar traccia, ma in quell’altro caso ha
un effetto corroborante, in quanto la mente che ragiona indaga le
cause del suo errore e conquista così nuove cognizioni.
Forse non ci sono mai stati politici che in questa autocritica siano
stati di una sincerità così spietata come Marx ed
Engels. Essi erano totalmente privi di quella miserevole presunzione
che anche di fronte alle più aspre delusioni cerca di
illudersi ancora, immaginandosi che avrebbe avuto ragione
purché questa o quella cosa fosse andata diversamente da come
è andata in realtà. Ed erano altrettanto schivi dal
sentenziare a buon mercato, da ogni sterile pessimismo; dalla
sconfitta imparavano, onde preparare la vittoria con forze maggiori.
Col colpo mancato del 13 giugno a Parigi, col fallimento della
campagna per la costituzione dell’Impero in Germania e con lo
schiacciamento della rivoluzione ungherese ad opera dello Zar, era
giunto alla fine un grande capitolo della rivoluzione. Che essa si
ridestasse era possibile ormai soltanto in Francia, dove il dado
decisivo, nonostante rutto, non era ancora stato tratto. Marx si
teneva saldo a questa speranza, ma ciò non gli impediva di
agire, lo spingeva anzi a sottoporre il corso della rivoluzione
francese fino a quel momento a una critica spietata, schernitrice di
ogni illusione. Così avvenne che egli illuminasse il confuso
intrico delle sue lotte, che doveva apparire più o meno
indecifrabile agli ideologi politici, movendo dalla loro fonte
interiore, dalle contraddizioni economiche che si scontravano in
esse.
Così in questa descrizione, che si prolungò per i
primi tre fascicoli della rivista, gli riuscì abbastanza
spesso di semplificare le più complicate questioni del giorno
con qualche frase epigrammatica. Quante chiacchiere le teste
più illuminate della borghesia e anche i dottrinari del
socialismo avevano accumulato nella Assem blea nazionale di Parigi
sul diritto al lavoro, e con quanta penetrazione Marx attinse il
senso e il nonsenso storico di questa parola d’ordine in queste sue
poche frasi: «Nel primo progetto di Costituzione, elaborato
prima delle giornate di giugno, si trovava ancora il droit au
travail, il diritto al lavoro, prima formula goffa in cui si
riassumono le esigenze rivoluzionarie del proletariato. Lo si
trasformò nel droit à l'assistance, nel diritto alla
pubblica assistenza. E qual è lo Stato moderno che non nutre,
in un modo o nell’altro, i suoi poveri? Il diritto al lavoro
è nel senso borghese un controsenso, un meschino, pio
desiderio; ma dietro il diritto al lavoro sta il potere sul
capitale, dietro il potere sul capitale sta l’appropriazione dei
mezzi di produzione, il loro assoggettamento alla classe operaia
associata, e quindi l’abolizione del lavoro salariato, del capitale
e dei loro rapporti reciproci». Che la lotta di classe
è la ruota motrice della storia, Marx l’aveva riconosciuto
per la prima volta nella storia francese, dato che in essa per
l’appunto questa lotta si è manifestata sin dai giorni del
Medioevo in forme particolarmente chiare e classiche, e
perciò si spiega facilmente la sua particolare predilezione
per la storia francese. Questa trattazione, come poi l’altra sul
colpo di stato del Bonaparte e quella ancora più tarda sulla
Comune di Parigi sono le gemme più luminose nello scrigno dei
suoi scritti storici.
Come riscontro ameno, ma non senza un tragico esito, c’era nei primi
tre fascicoli della rivista, tratteggiato da Engels, il quadro di
una rivoluzione piccolo-borghese, la campagna tedesca per la
costituzione. Le rassegne mensili, nelle quali essi soprattutto
indagavano il corso delle vicende economiche, erano redatte in
comune da loro due. Già nel fascicolo di febbraio essi
additavano nella scoperta delle miniere d’oro in California, un
fatto «anche più importante della rivoluzione di
febbraio», che avrebbe avuto risultati anche più
grandiosi della scoperta dell’America. «Una costa estesa per
trenta gradi di latitudine, una delle più belle e feconde
della terra, finora quasi disabitata, si trasforma sotto i nostri
occhi in una terra ricca e civile, densamente abitata da uomini di
tutte le razze, dal yankee al cinese, dal negro all’indiano e al
malese, dal creolo e dal meticcio all’europeo. L’oro californiano si
riversa a torrenti sull’America e sulla costa asiatica dell’Oceano
Pacifico e trascina i riluttanti barbari nel traffico mondiale,
nella civiltà. Per la seconda volta il traffico mondiale prende una nuova direzione. Grazie all’oro
californiano e all’instancabile energia degli yankees, tutte due le
coste dell’Oceano Pacifico saranno presto altrettanto popolate,
altrettanto aperte al commercio, altrettanto industrializzate come
è ora la costa da Boston a Nuova Orleans. Allora l’Oceano
Pacifico avrà la stessa funzione che ha ora l’Atlantico e che
il Mediterraneo ha avuto nell’antichità, quella della grande
via marittima del commercio mondiale, e l’Oceano Atlantico
decadrà alla funzione di un mare interno, quale è oggi
il Mediterraneo. L’unica possibilità che i paesi civili
europei non cadano poi nella stessa dipendenza industriale,
commerciale e politica in cui si trovano ora il Portogallo, la
Spagna e l’Italia, risiede in una rivoluzione sociale che,
finché si è in tempo, trasformi il modo di produzione
e di commercio secondo i bisogni della produzione risultanti dalle
forze produttive moderne, e in questo modo permetta di creare nuove
forze produttive che assicurino la superiorità dell’industria
europea, compensando così gli svantaggi della situazione
geografica».
Soltanto, come ben presto dovettero riconoscere
gli autori di questa prospettiva grandiosa, la rivoluzione in corso
si insabbiava proprio per la scoperta delle miniere d’oro di
California.
Ugualmente opera comune di Marx ed Engels sono le recensioni degli
scritti in cui alcuni luminari pre quarantotteschi avevano cercato
di affrontare la rivoluzione: il filosofo tedesco Daumer, lo storico
francese Guizot e l’originale genio inglese Carlyle. Se Daurner
veniva dalla scuola di Hegel, Guizot aveva esercitato una notevole
influenza su Marx, e Carlyle su Engels. Ormai si poteva dire di
tutti e tre: pesati sulla bilancia della rivoluzione e trovati
troppo leggeri. Gli incredibili luoghi comuni con cui Daumer
predicava «la religione della nuova epoca», vengono
riassunti in questo «quadro commovente»: la filosofia
tedesca si torce le mani e geme lamentosamente presso il letto di
morte del padre suo adottivo, la piccola borghesia tedesca. A
proposito di Guizot si mostra come perfino le persone più
intelligenti dell’ancien regime, perfino persone alle quali non si
poteva negare di possedere a modo loro del talento storico, erano
state messe tal mente in imbarazzo dal fatale avvenimento del
febbraio, che avevano perduto ogni comprensione storica e
addirittura la comprensione della loro stessa attività
precedente. Infine, se lo scritto di Guizot mostrava che le
capacità della borghesia erano in decandenza, alcuni opuscoli
di Carlyle dimostravano la insufficienza del genio letterario di
fronte all’acuirsi delle lotte storiche, contro le quali esso
cercava di far valere le sue misconosciute, immediate, profetiche
ispirazioni.
Dimostrando con queste brillanti recensioni gli effetti devastatoli
della rivoluzione sulle grandezze letterarie del periodo
prequarantottesco, Marx ed Engels erano tuttavia molto lontani dal
credere ad una qualche mistica forza della rivoluzione, come tavolta
è stato detto di loro. La rivoluzione non creò il
quadro che spaventò a morte i Daumer, i Guizot, i Carlyle, ma
non fece che strappare il velo davanti a questo quadro. Nelle
rivoluzioni lo sviluppo storico non prende un corso diverso, ma
soltanto un corso più celere; in questo senso Marx le ha
chiamate una volta le «locomotive della storia». La
sciocca fiducia filistea nella «riforma pacifica e
legale», che sarebbe superiore a tutte le esplosioni
rivoluzionarie, è stata naturalmente sempre estranea a uomini
come Marx ed Engels; per loro la violenza era anche una potenza
economica, la levatrice di ogni nuova società.
9.2 Il caso Kinkel
Col suo quarto quaderno, nell’aprile 1850, la Neue Rheinische Revue
cessò di uscire regolarmente, e vi ha contribuito un po’ un
breve articolo di questo fascicolo, di cui gli autori predissero che
«avrebbe provocato l’universale indignazione degl’imbroglioni
sentimentali e dei declamatori democratici»: una breve
recensione stroncatrice dell’arringa difensiva che Gottfried Kinkel
aveva pronunciato il 7 agosto 1849 davanti al tribunale militare di
Rastatt nella sua qualità di volontario preso prigioniero, e
che aveva poi pubblicato in un giornale di Berlino al principio
dell’aprile 1850.
Questa recensione era pienamente giustificata in sé. Kinkel,
davanti ai tribunale militare, aveva rinnegato la rivoluzione e i
suoi compagni d’arme; egli aveva reso omaggio al «principe
delle granate» e gridato un evviva all’«impero degli
Hohenzollern», davanti allo stesso tribunale militare che
aveva mandato alla fucilazione ventisei suoi compagni, tutti morti
eroicamente. Ma Kinkel era ancor in carcere quando Marx ed Engels lo
attaccarono; e, a quanto generalmente si credeva, vi era come
vittima agognata della regia bramosia di vendetta, la quale, si
credeva, con un atto del ministero di giustizia aveva trasformato la
condanna alla fortezza, pronunciata dal tribunale militare, nel carcere
disonorante. Metterlo per di più alla berlina politica mentre
era in quella situazione, era cosa che poteva muovere forti riserve
non soltanto presso degli «imbroglioni sentimentali e dei declamatori democratici».
Da allora sono stati aperti gli archivi sul caso Kinkel, che si
presenta come un vero groviglio di tragicomici equivoci. Kinkel era
da principio un teologo, e precisamente un teologo ortodosso; con la
sua apostasia dall’ortodossia protestante, che era stata
accompagnata o magari provocata dal suo matrimonio con una cattolica
intransigente, egli si era tirato addosso l’odio inconciliabile
degli ortodossi, che gli procurò la no mea, molto superiore
ai suoi meriti e alla sua dignità, di «eroe della
libertà». In realtà egli era poi andato a
finire nello stesso partito di Marx ed Engels soltanto per un
«malinteso»; politicamente egli non andava oltre le
parole d’ordine della democrazia corrente, anche se — per dirla con
Freiligrath — la «maledetta retorica», che gli era
rimasta appiccicata addosso dal suo periodo teologico, all’occasione
poteva trascinarlo a sinistra tanto quanto lo aveva trascinato a
destra nella sua arringa di Rastatt. Una modesta vena poetica
serviva a renderlo più noto di altri democratici del suo
stampo.
Nella campagna per la costituzione dell’Impero, Kinkel era entrato
nel reparto volontario di Willich, nel quale combatterono anche
Engels e Moli; qui egli si comportò valorosamente, e
nell’ultimo combattimento alla Murg, dove cadde Moli, fu ferito al
capo da un colpo di striscio, e quindi preso prigioniero. Il
tribunale militare lo condannò alla fortezza a vita ma con
ciò il «principe delle granate», o come Kinkel
si era preziosamente espresso nella sua difesa, «l’Altezza
reale del nostro erede al trono» non era ancora servito, e la
Corte militare suprema di Berlino propose al re di annullare la
sentenza del tribunale militare, dato che Kinkel avrebbe meritato la
pena di morte, e riaprire il procedimento giudiziario contro di lui.
Contro di ciò si levò però tutto il ministero,
poiché esso riconosceva, sì, che la pena era stata
troppo mite per un reato di alto tradimento, ma consigliava di
convalidare la condanna con un «atto di grazia», per
riguardo all’opinione pubblica. Nello stesso tempo gli sembrava
«indicato» disporre che la pena fosse scontata in un
carcere «giudiziario», perché se Kinkel fosse
stato trattato come un condannato alla fortezza, la cosa avrebbe
fatto «grande sensazione». Il re approvò queste
proposte del ministero, ma proprio così sollevò quella
«grande sensazione» che si era voluta evitare. La
«opinione pubblica» avvertì come un oltraggio
sanguinoso che un re con un «atto di grazia» mandasse
in carcere un reo di alto tradimento, che perfino un tribunale
militare aveva voluto inviare soltanto in una fortezza.
Ma si trattava di un errore, perché essa non si intendeva
delia raffinatezza delle pene nelle fortezze prussia ne. Kinkel non
era stato condannato all’arresto militare in fortezza, ma alla pena
militare della fortezza, una pena che si scontava in un modo anche
più duro e brutale che quella carceraria. I condannati alla
fortezza venivano ammassati in dieci o venti entro buchi angusti,
avevano come giaciglio soltanto una dura panca, venivano nutriti
poco e male, dovevano eseguire i lavori più umili, come
pulire latrine, spazzare strade, ecc., alla minima mancanza dovevano
assaggiare lo staffile. Il ministero aveva voluto salvare il
prigioniero Kinkel da questa vita da cani, per paura dell’«
opinione pubblica», ma quando la «opinione pubblica» capì la co sa alla rovescia, esso non osò per
paura del «principe delle granate» e del suo partito
ebbro di vendetta, confessare apertamente le sue «umane» intenzioni, e preferì lasciare il re sotto il peso di
un sospetto che doveva danneggiarlo, e lo ha danneggiato gravemente,
anche agli occhi dei benpensanti.
Sotto la fatale impressione di questa azione malriuscita, il
ministero non volle provocare nuova «sensazione » con le vicende di Kinkel nel carcere, ma osò soltanto
arrivare fino a dare l’ordine che in nessun caso si eseguissero su
di lui punizioni corporali. Esso aveva visto di buon occhio anche
che lo si esentasse dal lavoro forzato e fece capire al direttore
del carcere di Naugard, dove Kinkel risiedette da principio, che
egli doveva accollarsene personalmente la responsabilità. Ma
il rigido burocrate si tenne al suo regolamento e mise Kinkel alla
ruota dell’incannatoio. E di nuovo grande indignazione; nacque una
«canzone della ruota» e la si cantò moltissimo,
ritratti del«poeta alla ruota» inondarono la Germania,
e Kinkel stesso scrisse alla moglie: «il giuoco del destino e
la rabbia dei partiti arrivano all’assurdo, perchè la mano
che scrisse per la nazione tedesca Ottone il tiratore, ora gira la
ruota». Tuttavia si confermò subito l’antica
esperienza secondo cui la «indignazione morale» del
filisteo finisce di solito in una grande ridicolaggine. Spaventato
dal chiasso e più coraggioso del ministero, ma a dire il vero
denunciato anche subito per «opinioni democratiche»,
il governo regionale di Stettino ordinò che Kinkel fosse
occupato in lavori d’ufficio, al che lo stesso Kinkel
dichiarò che desiderava restare alla ruota perché un
leggero esercizio fisico gli consentiva di abbandonarsi liberamente
ai suoi pensieri, mentre il copiare per tutto il giorno gli
affaticava il petto e lo faceva ammalare.
L’opinione diffusissima che nel carcere Kinkel fosse trattato per
ordine del re con particolare perfidia, non corrispondeva al vero,
anche se egli ebbe a soffrire di qualche sevizia. Schnuchel,
direttore della prigione di Naugard, era un rigido burocrate, ma non
un essere disumano: dava del tu a Kinkel, ma gli consentiva molto
moto all’aria aperta, ed aveva umana comprensione per l’instancabile
affaccendarsi della signora Kinkel per liberare il marito. Invece a
Spandau, dove Kinkel andò nel maggio del 1850, gli si dava
del Lei, ma dovette lasciarsi tagliare barba e capelli, il direttore
Jeserich, un bigotto reazionario, lo tormentava tentando di
convertirlo, ed attaccò subito i litigi più
indisponenti con «la coniugata Kinkel». Tuttavia anche
questo mercante d’anime non fece troppe difficoltà quando il
ministero lo invitò a riferire sulla proposta della signora
Kinkel secondo la quale, nel caso che si lasciasse partire suo
marito per l’America, egli si sarebbe impegnato sulla sua parola
d’onore a rinunciare a ogni attività politica e a non
ritornare mai più in Europa. Jeserich pensava addirittura,
per quel che egli conosceva di Kinkel, che in America si sarebbe
ottenuta anche prima una radicale guarigione del suo spirito. Ma
egli doveva scontare almeno un anno di galera, perché la
spada dell’autorità non si ottundesse e si smussasse troppo;
poi gli si poteva consentire di emigrare, a menò che la
salute di Kinkel non risentisse della lunga prigionia, del che
tuttavia non vi erano indizi. Questo rapporto di Jeserich
arrivò al re, che ora si dimostrò veramente più
vendicativo dei ministri e del direttore del carcere; «Sua
Altezza in persona» decise che al prof. Kinkel non si poteva
accordare di emigrare nemmeno dopo un anno, perché bisognava
umiliarlo ancora di più di quanto si era fatto sino ad
allora.
Se si considera il culto che fu allora tributato a Kinkel, si
comprende l’avversione che egli doveva suscitare in uomini come Marx
ed Engels. Teatralità piccolo-borghesi del genere sono state
sempre insopportabili per loro. Già nella sua narrazione
della campagna per la costituzione dell’Impero, Engels si era
espresso molto amaramente sul conto esagerato che si era fatto degli
«intellettuali vittime» dell’insurrezione di maggio,
mentre nessuno parlava delle centinaia e migliaia di operai che
erano caduti in battaglia o ammuffivano nelle casematte di Rastatt,
o all’estero, soli tra tutti gli esuli, dovevano assaporare l’esilio
fino alla feccia della miseria. Ma anche se si prescindeva da
questo, c’erano anche tra le «vittime intellettuali»
molti che avevano da sopportare sacrifici incomparabilmente
più gravi e li sopportavano in modo incomparabilmente
più virile di Kinkel, senza che per questo nessun gallo
cantasse. Basti ricordare August Rockel, che come artista era almeno
alla pari di Kinkel; nel carcere di Waldheim fu maltrattato nella
maniera più crudele, fino alle punizioni corporali, ma dopo
dodici anni di torture insopportabili non lo si potè indurre
a chieder grazia neppure con un cenno delle ciglia, di modo che la
reazione, disperando per il suo orgoglio, alla fine dovette per
così dire gettar via di forza dal carcere. E Ròckel
non era l’unico del suo stampo. Piuttosto Kinkel fu l’unico che,
già dopo pochi mesi di una prigionia pur sempre sopportabile,
pubblicando la sua difesa di Rastatt, espresse davanti a tutto il
mondo pentimento e dolore. E allora l’aspra e dura critica che Marx
ed Engels fecero di questo discorso era assolutamente opportuna;
essi potevano dire a ragione che non peggioravano così la
situazione di Kinkel nella sua prigione, ma che la miglioravano.
Il seguito del caso Kinkel dette loro ragione anche per altra via.
L’entusiasmo per Kinkel sciolse i lacci delle borse borghesi al
punto che potè essere corrotto un impiegato del carcere di
Spandau, e nel novembre del 1850 Kinkel potè essere liberato
ad opera di Karl Schurz.
Il re se l’era voluta, con la sua sete di vendetta. Se egli avesse
lasciato che Kinkel, dietro parola d’onore di non far più
politica, emigrasse in America, Kinkel sarebbe stato presto
dimenticato, come aveva compreso perfino il direttore del carcere
Jeserich; ma ora, grazie al successo della sua fuga, Kinkel fu un
agitatore tre volte celebrato, e il re dovette aggiungere al danno
le beffe.
Tuttavia egli seppe comportarsi nella sua maniera regale. Il
rapporto sulla fuga di Kinkel fece nascere in lui un pensiero che
egli stesso fu abbastanza onesto da dichiarare ignobile. Egli
ordinò ai suo Manteuffel di scoprire e far punire un
complotto per mezzo di quella «preziosa persona» di
Stieber. Stieber era allora già così universalmente
disprezzato, che perfino il presidente della polizia di Berlino
Hinckeldey, che nel perseguitare gli avversari politici aveva una
coscienza molto elastica, si oppose violentemente alla sua
riassunzione al servizio della polizia. Ma nulla valse, e Stieber
inscenò allora come saggio delle sue capacità quel
pezzo a base di furti e di spergiuri che fu il processo dei
comunisti di Colonia.
Quanto a mascalzonate di ogni genere esso superò di gran
lunga il caso Kinkel, ma non si è mai sentito
dire che anche un solo galantuomo borghese si sia agitato per esso.
Forse questa piacevole classe volle così dimostrare di aver
compreso bene, fino in fondo, Marx ed Engels.
9.3 La scissione nella Lega
dei Comunisti
Del resto, il caso Kinkel ebbe un significato più sintomatico
che effettivo. La natura del dissidio in cui Marx ed Engels si
trovarono con l’emigrazione londinese, la si può riconoscere
esattamente da esso, ma la sua manifestazione più importante
non fu esso, e tanto meno ne fu la causa.
Quello che legava Marx ed Engels agli altri emigrati e quello che li
divideva da loro, lo mostrano le due attività a cui essi si
dedicarono nell’anno 1850, accanto alla pubblicazione della Neue
Rheinische Revue: da una parte il Comitato dei profughi, che essi
fondarono con Bauer, Pfänder e Willich per aiutare gli
emigrati che affluivano a Londra, tanto più numerosi quanto
più la Svizzera cominciava a mostrare agli esuli il muso
duro; dall’altra la ricostituzione della Lega dei Comunisti, che
diventava tanto più necessaria in quanto la controrivoluzione
vittoriosa strappava senza riguardi alla classe operaia la
libertà di stampa e di riunione e tutti i mezzi di propaganda
in generale. Si può dire che Marx ed Engels si dichiarassero
solidali con l’emigrazione umanamente ma non politicamente; che
condividessero le sofferenze, ma non le illusioni di essa; che le
sacrificassero l’ultimo centesimo, ma non le più piccole
briciole delle loro convinzioni.
L’emigrazione tedesca, e anzi internazionale, rappresentava una
massa confusa dei più diversi elementi. Tutti speravano in un
ridestarsi della rivoluzione che li avrebbe riportati in patria, e
tutti lavoravano per questo scopo, col che pareva che fosse creata
l’unità d’azione. Tuttavia ogni slancio in questa direzione
falliva regolarmente; arrivava, al massimo, a manifestazioni
cartacee che tanto meno dicevano quanto più pomposamente
tuonavano. Appena si doveva cominciare ad agire, nascevano i litigi
meno edificanti. Essi non erano dovuti alle persone, e ruttai
più venivano acuiti dalla situazione sconfortante in cui
queste persone si trovavano; la loro vera causa erano le lotte di
classe che avevano determinato il corso della rivoluzione e che
proseguivano nell’emigrazione, nonostante tutti i tentativi di
esorcizzarle. La sterilità di questi tentativi fu subito
avvertita da Marx ed Engels, ed essi non vi parteciparono, cosa che
unì tutte le frazioni e frazioncine dell’emigrazione almeno
in quest’unica convinzione che Marx ed Engels fossero i veri e
incorreggibili disturbatori della pace.
Da parte loro essi proseguirono la lotta di classe del proletariato,
che avevano cominciato già da prima della rivoluzione. I
vecchi membri della Lega dei Comunisti si erano ritrovati quasi al
completo a Londra sin dall’autunno del 1849, ad eccezione di Moli,
che era caduto nelle battaglie sulla Murg, e di Schapper, che
arrivò soltanto nell’estate del 1850, e infine di Wilhelm
Wolff, che vi si trasferì dalla Svizzera soltanto un anno
più tardi. Inoltre si erano acquistate nuove energie: August
Willich, l’ex ufficiale prussiano, che nella campagna del Baden e
del Palatinato si era rivelato accorto capo di truppe volontarie ed
era stato conqui stato dal suo aiutante d’allora, Engels: una
personalità notevole, ma teoricamente una testa poco chiara.
Poi giovani d’ogni tipo, il commerciante Konrad Schramm,
l’insegnante Wilhelm Pieper, e soprattutto Wi lhelm Liebknecht, che
aveva studiato nelle università tedesche, ma aveva preso la
laurea nell’insurrezione del Baden e nell’esilio in Svizzera. Tutti
questi stettero molto intorno a Marx in questi anni, ma il
più attacca to e il più fedele fu certo Liebknecht.
Sugli altri due Marx non si espresse sempre favorevolmente, ma non
si deve prendere alla lettera ogni parola pronunciata in un momento
d’impazienza su di loro. Quando Konrad Schramm, ancor giovane
d’anni, fu rapito dalla tisi, Marx lo esaltò come il «Percy testa calda» del partito; anche il Pieper diceva che
«nonostante tutto era un bon garçon». Per mezzo di
Pieper si mise in contatto epistolare con Marx l’avvocato Johannes
Miquel di Gottinga, che entrò nella Lega dei Comunisti. Marx
lo apprezzava apertamente come uomo d’ingegno, e Miquel ha tenuto
fede alla sua bandiera per parecchi anni, finché non
tornò indietro, come il suo amico Pieper, nel campo liberale.
Una circolare del Comitato centrale, in data marzo 1850, redatta da
Marx ed Engels e portata in Germania dall’emissario Heinrich Bauer,
era destinata a ricostituire la Lega dei Comunisti. Essa muoveva
dall’idea che fosse imminente una nuova rivoluzione, «sia che
essa stia per essere provocata da una sollevazione indipendente del
proletariato francese, o dall’invasione della Santa Alleanza contro
la Babele rivoluziona ria». Come la rivoluzione del marzo
aveva portato alla vittoria la borghesia, così la nuova
rivoluzione vi avrebbe portato la piccola borghesia, che avrebbe
tradito ancora una volta la classe operaia. L’atteggiamento del partito rivoluzionario operaio verso la democrazia
piccolo-borghese veniva così riassunto: «Esso procede
d’accordo con quest’ultima contro la frazione di cui persegue la
caduta; esso si oppone ai democratici piccolo-borghesi in tutte le
cose pel cui mezzo essi vogliono consolidarsi per conto proprio». I piccoli borghesi avrebbero sfruttato una rivoluzione per
loro vittoriosa per riformare la società capitalistica fino
al punto di renderla più comoda e più vantaggiosa per
la loro stessa classe e, fino a un certo punto, anche per gli
operai. Ma il proletariato non avrebbe potuto esserne in alcun modo
soddisfatto. Mentre i piccoli borghesi democratici avrebbero spinto
il più rapidamente possibile, dopo l’attuazione delle loro
li mitate rivendicazioni, all’accantonamento della rivoluzione,
compito degli operai sarebbe stato piuttosto di rendere permanente
la rivoluzione «sino a che tutte le classi più o meno
possidenti non siano scacciate dal potere, sino a che il
proletariato non abbia conquistato il potere dello Stato, sino a che
l’Associazione dei proletari, non solo in un paese, ma in tutti i
paesi dominanti del mondo, si sia sviluppata al punto che venga meno
la concorrenza tra proletari di questi paesi, e sino a che almeno le
forze produttive decisive non siano concentrate nelle mani dei
proletari».
Conforme a ciò, la circolare metteva in guardia gli operai
dal lasciarsi ingannare dalle prediche dei demo cratici
piccolo-borghesi sull’unione e sulla conciliazione, e dal lasciarsi
degradare ad appendice della de mocrazia borghese. Al contrario
essi dovevano organizzarsi il più saldamente e il più
fortemente possibile, per dettare alla piccola borghesia, dopo la
vittoria della rivoluzione, che come sempre sarebbe stata conqui
stata grazie alla loro forza e al loro valore, condizioni tali che
il dominio dei democratici borghesi portasse in sé il germe
della sua fine e che si rendesse più facile soppiantarlo in
seguito col dominio del proletariato. «Innanzi tutto gli
operai debbono durante il conflitto e immediatamente dopo la lotta,
fin quando è possibile, opporsi ai tentativi della borghesia
di mantenere la calma, e costringere i democratici a tradurre in
atto le loro attuali frasi terroristiche... Ben lungi dall’opporsi
ai cosiddetti eccessi, casi di vendetta popolare su persone odiate o
su edifici pubblici, cui non si connettono altro che ricordi odiosi,
non soltanto si devono tollerare quegli esempi, ma se ne deve
prendere in mano la direzione».
Nell’elezione di una
assemblea nazionale gli operai avrebbero dovuto presentare
dappertutto candidati indipendenti, anche dove non ci fosse la
minima prospettiva di successo, senza curarsi di tutte le frasi
democratiche. Naturalmente gli operai all’inizio del movimento non
avrebbero potuto ancora proporre nessuna misura direttamente
comunistica, ma avrebbero potuto costringere i democratici a
intervenire il più ampiamente possibile nell’ordinamento attuale della società, a disturbarne il corso regolare, e a
compromettere se stessi, come anche a concentrare nelle mani dello
Stato il più gran numero possibile di forze produttive, mezzi
di trasporto, fabbriche, ferrovie, ecc. Soprattutto gli operai non
avrebbero dovuto tollerare che nell’abolizione del feudalesimo le
terre feudali venissero date, come nella grande rivoluzione
francese, ai contadini in libera proprietà, col che si
sarebbe lasciato sussistere il proletariato agricolo e si sarebbe
creata una classe di contadini piccolo-borghesi, che avrebbe dovuto
attraversare lo stesso ciclo di impoverimento e di indebitamento per
cui è passato il contadino francese. Gli operai, al
contrario, avrebbero dovuto pretendere che lette feudali confiscate
restassero beni demaniali e fossero trasformate in colonie di
lavoro, coltivate dal proletariato agricolo associato con tutti i
mezzi della grande agricoltura. Così il principio della
proprietà comune avrebbe ricevuto subito una base salda in
mezzo agli scossi rapporti della società borghese.
Armato di questa circolare, Bauer ebbe un grande successo nella sua
missione in Germania. Riuscì a rian nodare delle fila
strappate e a intesserne delle nuove, e in particolare a guadagnare
una grande influenza sui resti delle associazioni operaie,
contadine, di salariati, ginnastiche, che si erano conservati anche
nel pieno furore della controrivoluzione. Anche i membri più
influenti della Fratellanza operaia fondata da Ste phan Born si
unirono alla Lega, che «aveva guadagnato a sé tutte le
forze adoperabili», come scriveva a Zurigo Karl Schurz, il
quale nello stesso periodo viaggiava attraverso la Germania per
incarico di un’or ganizzazione di profughi in Svizzera. In un
secondo comunicato, in data giugno 1850, il Comitato centrale poteva
annunciare che la Lega aveva preso piede saldamente in una serie di
città tedesche e che si erano formati dei circoli direttivi
ad Amburgo per lo Schleswig-Holstein, a Schwerin per il
Mecklemburgo, a Breslavia per la Slesia, a Lipsia per la Sassonia e
Berlino, a Norimberga per la Baviera, a Colonia per la Renania e la
Vestfalia.
Sempre in questo appello il circolo di Londra era indicato come il
più forte della Lega, quello che quasi da solo faceva fronte
alle spese. Esso continuava a dirigere l’Associazione tedesca
operaia di cultura a Londra, e insieme la parte più decisa
degli esuli di lì; inoltre il Comitato centrale era in
stretti rapporti coi partiti rivoluzionari inglese, francese e
ungherese. Ma per altri riguardi il circolo di Londra era
però la parte più debole della Lega, in quanto la avviluppava nelle
lotte sempre più roventi ma anche sempre più
inconcludenti dell’emigrazione.
Nel corso dell’estate del 1850, venne palesemente meno la speranza
di un rapido ridestarsi della rivoluzione. In Francia fu abolito
il suffragio universale, senza che la classe operaia si sollevasse;
ormai la decisione era tra il pretendente Luigi Bonaparte e
l’Assemblea nazionale monarchica e reazionaria. In Germania la
democrazia piccolo-borghese si ritirava dalla scena politica, mentre
la borghesia liberale partecipava alla spoliazione del cadavere
della rivoluzione tedesca tentata dalla Prussia. Ma la Prussia fu
gabbata dai medi e dai piccoli Stati tedeschi, che ballavano tutti
al suono della musica austriaca, mentre lo Zar agitava su tutta
questa società tedesca il suo staffile minaccioso. Ma
nella misura in cui la vera rivoluzione rifluiva, aumentavano gli
sforzi febbrili dell’emigrazione per fabbricare una rivoluzione
artificiale; essa continuava ad illudersi ad ogni segno minaccioso,
e riponeva le sue speranze nei prodigi che avrebbe saputo compiere
grazie alla sua decisa volontà. Nella stessa misura essa
divenne più diffidente contro ogni autocritica nelle proprie
file. Così Marx ed Engels, che contemplavano con uno sguardo
chiaro e freddo il vero corso delle cose, si trovarono in contrasto
sempre più acuto con l’emigrazione. Ma in che modo la voce
della logica e della ragione avrebbe potuto domare la tempesta delle
passioni in questa massa dirigente più o meno disperata? Lo
poteva tanto poco, che la generale ubriacatura penetrò anche
nel circolo di Londra della Lega dei Comunisti e scompigliò
profondamente il suo Comitato centrale.
Nella sua seduta del 15 settembre del 1850 si venne alla scissione
aperta. Sei membri stavano contro quattro: Marx ed Engels, poi
Bauer, Eccarius, Pfänder della vecchia guardia, e della
giovane generazione, Konrad Schramm, contro Willich, Schapper,
Fränkel e Lehmann, dei quali uno solo era del vecchio ceppo:
cioè Schapper, un rivoluzionario nato, come Engels lo ha ben
definito, trascinato ancora dalla passione rivoluzionaria, dopo che
aveva visto da vicino gli orrori della controrivoluzione per tutto
un anno ed era arrivato proprio allora in Inghilterra.
Nella seduta decisiva Marx caratterizzò il contrasto con
queste parole: «Al posto della considerazione critica, la
minoranza ne mette una dogmatica, al posto di una materialistica ne
mette una idealistica. Per essa invece delle condizioni effettive
diventa ruota motrice della rivoluzione la nuda volontà.
Mentre noi diciamo agli operai: Voi dovete attraversare 15, 20, 50
anni di guerre civili e di lotte popolari non soltanto per cambiare
la situazione ma anche per cambiare voi stessi e per rendervi capaci
del dominio politico voi dite invece: Noi dobbiamo giungere subito
al potere, oppure possiamo andare a dormire! Mentre noi richiamiamo
in particolare gli operai tedeschi sul fatto che il proletariato
tedesco non è ancora sviluppato, voi adulate nel modo
più goffo il sentimento nazionale e i pregiudizi di casta
dell’artigiano tedesco, cosa che comunque dà più
popolarità. Come i democratici hanno fatto della parola
popolo un qualcosa di sacro, così voi avete fatto della
parola proletariato». Si venne a delle spiegazioni violente,
perfino a una sfida a duello di Schramm a Willich — deplorata del
resto da Marx — che ebbe luogo presso Anversa e portò a una
leggera ferita di Schramm. Ma una riconciliazione degli spiriti si
dimostrò impossibile.
La maggioranza cercò di salvare la Lega, trasferendone la
direzione a Colonia; il circolo di Colonia avrebbe dovuto eleggere
un nuovo Comitato centrale e al posto dell’unico circolo esistito
fino ad allora a Londra se ne sarebbero dovuti fare due che,
indipendenti l’uno dall’altro, avrebbero dovuto aver relazione
soltanto col comune Comitato centrale. Il circolo di Colonia fu
d’accordo, ed elesse un nuovo Comitato centrale, ma la minoranza si
rifiutò di riconoscerlo. Essa aveva il seguito maggiore nel
circolo di Londra e soprattutto nell’Associazione tedesca operaia di
cultura, da cui Marx e i suoi amici più intimi si staccarono.
Willich e Schapper fondarono una Lega scissionista, che si perdette
subito in un vano giocare alla rivoluzione.
Marx ed Engels motivarono la loro posizione, più ampiamente
che nella seduta del 15 settembre, nel quinto e sesto fascicolo
della loro rivista, un fascicolo doppio col quale essa
terminò di esistere nel novembre del 1850. Accanto a un lungo
studio nel quale Engels esponeva la guerra dei contadini del 1525
secondo la concezione del materialismo storico, esso conteneva un
articolo di Eccarius sulle sartorie di Londra, che Marx accoglieva
con questo lieto saluto: «Il proletariato, prima di
conquistare la vittoria sulle barrica te, annunzia l’avvento del
proprio dominio con una serie di vittorie intellettuali».
Eccarius, che lavorava personalmente in una delle sartorie
londinesi, considerava un progresso storico il soccombere dell’arti
gianato di fronte alla grande industria, mentre nello stesso tempo
nei risultati e nei portati della grande industria riconosceva le
condizioni reali della rivoluzione proletaria suscitate dalla storia
stessa e riprodu centisi giornalmente. In questa concezione
schiettamente materialistica, che senza lasciarsi prendere da vani sentimentalismi si contrapponeva alla società borghese e
al suo movimento, Marx esaltava il grande progresso sulla critica
sentimentale, moralistica e psicologica, con cui Willich e altri
pubblicisti operai pre tendevano di porsi di fronte alla situazione
esistente. Era un frutto del suo lavoro instancabile, e un frutto
per lui graditissimo.
Ma il centro di gravità di questo ultimo fascicolo era nella
rassegna politico-economica dei mesi dal maggio all’ottobre. Con
un’ampia indagine Marx ed Engels chiarivano le cause economiche
della rivoluzione e della controrivoluzione politica, spiegando come
quella fosse sorta da una grave crisi economica e questa avesse la
sua radice in un nuovo slancio della produzione. Essi giungevano al
risultato che: «Data questa prosperità universale, in
cui le forze produttive della società borghese si sviluppano
con quella sovrabbondanza che è, in generale, possibile nelle
condizioni borghesi, non si può parlare di una vera
rivoluzione. Una rivoluzione siffatta è possibile solamente
in periodi in cui entrambi questi fattori, le forze moderne di
produzione e le forme borghesi di produzione entrano in conflitto
tra di loro. Le diverse beghe, a cui attualmente si abbandonano i
rappresentanti delle singole frazioni del partito continentale
dell’ordine, e in cui si compromettono a vicenda, bea lungi dal
fornire l’occasione di nuove rivoluzioni, sono al contrario
possibili soltanto perché la base dei rapporti é
momentaneamente così sicura e, ciò che la reazione
ignora, così borghese. Contro di essa si spezzeranno tutti i
tentativi reazionari di arrestare l’evoluzione borghese, come tutta
l’indignazione morale e tutti i proclami ispirati dai democratici.
Una nuova rivoluzione non è possibile se non in seguito a una
nuova crisi. L'una però è altrettanto sicura quanto
l’altra».
A questa chiara e convincente esposizione era poi contrapposta, a
conclusione della rassegna, la critica dell’appello di un Comitato
centrale europeo, che, firmato da Mazzini, Ledru-Rollin, Darasz e
Ruge, com pendiava in breve spazio tutte le illusioni
dell’emigrazione, faceva risalire il fallimento della rivoluzione
alle ambiziose gelosie dei singoli capi e alle opinioni contrastanti
dei diversi apostoli dei popoli, e faceva la sua professione di fede
nella libertà, nell’uguaglianza, nella fraternità,
nella famiglia, nei comuni, nello Stato, nella patria, in breve in
una situazione sociale che aveva al vertice Dio e la sua legge, e
alla base il popolo.
Questa rassegna porta la data del 1◦ novembre 1850. Con essa i due
autori cessavano per due decenni di lavorare l’uno accanto
all’altro; Engels partì per Manchester, per rientrare come
impiegato nella fabbrica tessile Ermen & Engels, mentre Marx
restò a Londra per dedicarsi con tutte le sue forze al lavoro
scientifico.
9.4 Vita d’esule
Questi giorni di novembre, che cadono quasi esattamente alla
metà della sua vita, appaiono non soltanto esteriormente una
svolta notevole della attività esplicata da Marx. Egli stesso
lo avvertiva molto vivamente, e forse in grado anche maggiore lo
avvertiva Engels.
«Si vede sempre più — egli scriveva nel febbraio del
1851 a Marx — che l’emigrazione è un’istituzione nella quale
chiunque non si tenga del tutto lontano da essa e non si accontenti
della posizione di scrittore indipendente che se ne infischia anche
del cosiddetto partito rivoluzionario, diventa necessariamente un
pazzo, un somaro e un volgare briccone». E Marx rispondeva.
«Mi piace molto il pubblico autentico isolamento in cui ci
troviamo ora noi due, tu ed io. Corrisponde del tutto alla nostra
posizione e ai nostri principi. Il sistema delle reciproche
concessioni, dei mezzi termini tollerati per correttezza, e il
dovere di assumersi davanti al pubblico la propria parte di
ridicolaggine insieme con tutti questi somari del partito, son cose
finite». Ed Engels ancora: «Finalmente abbiamo
un’altra volta — per la prima volta dopo lungo tempo — l’occasione
di dimostrare che non abbiamo bisogno di nessuna popolarità,
di nessun support di qualsiasi partito di qualsiasi paese e che la
nostra posizione è totalmente indipendente da miserie del
genere. Da questo momento noi siamo responsabili soltanto di noi
stessi... Del resto non possiamo in fondo lamentarci molto che i
petits grands hommes ci temano; non abbiamo da tanti e tanti anni
fatto come se Tizio e Caio fossero del nostro partito quando non
avevamo proprio nessun partito e quando le persone che noi
calcolavamo che appartenessero al nostro partito, almeno
ufficialmente... non capivano neanche le basi più elementari
delle nostre idee?». Non ce bisogno di pesare col bilancino i
«pazzi» e i «bricconi» e si può
anche fare un po’ la tara a questi sfoghi appassionati: questo
resta certo, che Marx ed Engels videro a ragione una decisione
liberatrice nel separarsi con passo risoluto dalle sterili beghe
dell’emigrazione e, come si espresse Engels, in «solitudine cosciente»
indagare scientificamente fino a che non venissero gli uomini e i
tempi che comprendessero le loro cose.
Soltanto, il taglio non fu né così reciso né
così rapido né così profondo come può
forse apparire all’osser vatore che si volga ora a guardare. Nelle
lettere che Engels e Marx si scambiarono nell’anno seguente, le
lotte dell’emigrazione trovarono un’eco ancor molto intensa. La cosa
avvenne se non altro per gli attriti non ancora sopiti tra le due
frazioni in cui si era divisa la Lega dei Comunisti. Inoltre i due
amici non avevano affatto l’intenzione di rinunciare ad ogni
partecipazione alle lotte politiche, anche se non si mescolavano
più nelle gazzarre dell’emigrazione. Se non cessarono la loro
collaborazione agli organi cartisti, essi non pensarono nemmeno di
rassegnarsi alla fine della Neue Rheinische Revue.
L’editore Schabelitz di Basilea voleva curarne l’edizione; ma non se
ne fece di nulla; con Hermann Becker, che era rimasto a Colonia e
aveva diretto dapprima la Westdeutsche Zeitung e, dopo che questa fu
soppressa, una piccola casa editrice, Marx trattò per la
pubblicazione di tutti i suoi scritti e poi anche per una rivista
trimestrale che sarebbe dovuta uscire a Liegi. Questi progetti
andarono in fumo con l’arresto di Becker nel maggio del 1851,
però dei Saggi raccolti a cura di Hermann Becker è
uscito se non altro un fascicolo. Avrebbero dovuto comprendere due
volumi di 25 fogli di stampa ciascuno. Chi sottoscriveva per questi
volumi entro il 15 maggio, li avrebbe ricevuti in dieci fascicoli a
8 Groschen d’argento l’uno; altrimenti il loro prezzo sarebbe stato
di 1 tallero e 15 Groschen d’argento per ogni volume. Il primo
fascicolo fu smerciato subito, però la notizia di Weydemeyer,
secondo cui sarebbe stato diffuso in 15.000 copie, deve fondarsi su
di un errore; già la decima parte di questa cifra avrebbe
rappresentato nelle condizioni d’allora un successo considerevole.
A questi progetti Marx era spinto anche dalla «imperiosa
necessità di un lavoro redditizio». Egli viveva nelle
più amare condizioni. Nel novembre del 1849 gli nacque il
quarto bambino, il figlioletto Guido. La madre allattò lei
stessa il bambino, e scriveva in proposito: «Il povero
angioletto succhiò da me tante ansie e muti affanni che
stette quasi sempre malato, soffrendo giorno e notte forti dolori.
Da quando è venuto al mondo non ha ancora dormito una sola
notte, al massimo due o tre ore». Il povero piccino
morì un anno dopo la nascita.
La famiglia fu estromessa brutalmente dalla sua prima abitazione in
Chelsea, perchè essa aveva sì pagato la pigione alla
affittuaria, ma questa non l’aveva versata al padrone di casa. Con
molta fatica potè trovare un nuovo alloggio in un albergo
tedesco in Leicester Street, Leicester Square, da dove si
trasferì presto in Deanstreet 28, Soho Square. Qui per una
mezza dozzina di anni trovò una dimora stabile in due
stanzette.
Ma non per questo fu scongiurata la miseria. Essa cresceva sempre
più; alla fine di ottobre del 1850, Marx scriveva a
Weydemeyer, a Francoforte sul Meno, che ritirasse e vendesse
l’argenteria impegnata in quel Monte di Pietà; soltanto una
posata da bambino, che apparteneva alla piccola Jenny, doveva esser
salvata ad ogni costo. «Ora la mia situazione è tale
che devo scovare del denaro ad ogni caso, anche per poter continuare
a lavorare». Proprio in questi giorni Engels si trasferiva a
Manchester, per dedicarsi allo «sporco commercio»,
certamente già con la prospettiva di poter così
soprattutto aiutare l’amico.
Se no gli amici si facevano veramente rari nella sventura. «
Quello che davvero mi annienta fin nel più intimo e fa
sanguinare il mio cuore — scriveva la signora Marx a Weydemeyer nel
1850 — è che mio marito deve far fronte a tante piccolezze,
nelle quali basterebbe così poco per aiutarlo, e che lui, che
ha aiutato tanti spontaneamente e gioiosamente, è rimasto
così privo di aiuto. Non creda, caro signor Weydemeyer, che
noi pretendiamo nulla da nessuno. L’unica cosa che mio marito poteva
pretendere da quelli che avevano trovato in lui della sollecitudine,
un sollievo, un aiuto, era che dimostrassero una maggiore
abilità commerciale, un maggiore interessamento per la sua
rivista. Posso affermarlo con orgoglio e franchezza. Di questo poco
gli si era debitori, e credo che nessuno ci avrebbe rimesso.
Ciò mi addolora, ma mio marito pensa altrimenti. Nemmeno nei
momenti più terribili egli ha mai perduto la certezza del
futuro e nemmeno il suo sereno umore ed era tutto contento quando mi
vedeva serena e i nostri teneri bambini circondavano amorosamente la
madre». E come lei pensava a lui quando gli amici tacevano,
così lui pensava a lei quando i nemici alzavano troppo la
voce.
Sempre a Weydemeyer Marx scriveva nell’agosto del 1851: «Puoi
immaginarti quanto la mia situazione sia fosca. Mia moglie non ce la
farà più, se le cose durano così a lungo. Le
cure continue, la meschinità di questa lotta borghese la
estenuano. E per di più anche l’infamia dei miei
avversari che non hanno ancora nemmeno tentato di attaccarmi con argomenti concreti e
cercano di vendicarsi della loro impotenza diffamandomi di fronte
alla gente e diffondendo le più nefande malignità sul
mio conto... Naturalmente, io riderei di tutta questa porcheria;
cose del genere non mi disturbano un solo istante nel mio lavoro, ma
tu capisci che mia moglie, che è sofferente e dal mattino
alla sera si trova immersa nella più spiacevole miseria
borghese e ha il sistema nervoso logorato, non ha ristoro dal fatto
che ogni giorno degli stupidi pettegoli le portino le esalazioni
delle pestilenziali cloache democratiche. La mancanza di tatto di
certa gente è spesso enorme». Quando pochi mesi prima,
nel marzo, gli era nata la figlioletta Franziska, la signora Marx,
nonostante il parto facile, era rimasta gravemente malata, «
per motivi più borghesi che fisici»; in casa non
c’era un centesimo, «e inoltre avremmo anche sfruttato gli
operai! e tenderemmo alla dittatura!» scriveva Marx di tristissimo umore a Engels.
Personalmente Marx trovava nel lavoro scientifico un conforto
inesauribile. Dalle 9 del mattino alle 7 di sera lavorava al British
Museum. Riferendosi al vuoto indaffararsi dei Kinkel e dei Willich,
egli diceva: «i Simplicii democratici, a cui l’illuminazione
viene dall’alto , non hanno naturalmente bisogno di affaticarsi
così. A che scopo dovrebbero tormentarsi coi fatti
dell’economia e della storia questi uomini nati vestiti? E’ tutto
così semplice, soleva dirmi il bravo Willich. Tutto
così semplice! In queste teste vuote. Semplicioni, costoro!». Marx sperava allora di finire la sua Critica dell’economia
politica entro poche settimane e cominciava già a cercare un
editore, ricerca che ancora una volta gli portò soltanto una
delusione dopo l’altra.
Poi, nel maggio 1851 venne a Londra un fedele amico, su cui Marx
poteva contare con sicurezza e con cui negli anni seguenti fu in
strettissime relazioni: Ferdinand Freiligrath. Ma anche a lui tenne
dietro una notizia funesta. Il 10 maggio fu arrestato a Lipsia il
sarto Nothjung durante un suo viaggio di propaganda come inviato
della Lega dei Comunisti, e grazie alle carte che egli aveva con
sé fu rivelata alla polizia l’esistenza della Lega. Subito
dopo vennero arrestati i membri del Comitato centrale di Colonia;
Freiligrath si era sottratto giusto in tempo alla stessa sorte,
senza sospettare del pericolo che lo minacciava. Al suo arrivo a
Londra le diverse frazioncine dell’emigrazione tedesca si
disputarono il famoso poeta, ma Freiligrath dichiarò la
propria fedeltà a Marx e alla cerchia dei suoi intimi.
Così rifiutò anche di partecipare a un’assemblea che
doveva aver luogo il 14 luglio 1851 e doveva servire ancora una
volta al tentativo di ristabilire l’unità dell’emigrazione
tedesca. Il tentativo fallì, come tutti i precedenti, e
provocò soltanto nuove discordie. Il 20 luglio fu
fondata l’Unione di agitazione sotto la direzione spirituale di
Ruge, e il 27 luglio il Club dell’emigrazione sotto la direzione
spirituale di Kinkel. Le due associazioni condussero subito una
guerra rabbiosa luna contro l’altra, soprattutto nella stampa
tedesco-americana.
Marx naturalmente non aveva ormai altro che scherno per questa
«guerra dei topi e delle rane», i cui capi, per tutta
la loro mentalità, lo indisponevano parecchio. I tentativi di
Ruge nel 1848 di «dimostrar per iscritto la ragione degli
avvenimenti» erano stati trattati sulla Neue Rheinische
Zeitung con una specie di predilezione artistica, ma non erano
nemmeno mancati colpi alquanto secchi contro «Arnold
Winkelried Ruge», il «pensatore della Pomerania»,
i cui scritti erano lo scolo dove «andavano a fluire tutte le
immondi zie retoriche e tutte le contraddizioni della democrazia
tedesca». Ruge, con tutta la sua confusione in fatto di
politica, era pur sempre altro uomo da Kinkel, che dopo la sua fuga
dal carcere di Spandau, faceva a Londra la primadonna, «ora
per la birreria, ora per il salotto», come diceva per
derisione Freiligrath. Per il momento egli presentava nondimeno per
Marx un interesse maggiore, perchè Willich si era collegato
con Kinkel per il solenne imbroglio di una nuova rivoluzione da
fondarsi per mezzo di azioni. Il 14 settembre 1851 Kinkel
sbarcò a New York con la missione di convincere degli esuli
di riguardo a far da garanti di un prestito nazionale tedesco
«per l’importo di due milioni di dollari, onde preparare
l’imminente rivoluzione repubblicana», e di raccogliere un
fondo preliminare di 20.000 talleri. Comunque, Kossuth era arrivato
prima alla geniale trovata di attraversare l’oceano con la borsa
per la questua rivoluzionaria. Ma Kinkel, su una base più
modesta, condusse l’affare con zelo non minore e non meno senza
scrupoli; sia il maestro che il discepolo predicarono negli Stati
del nord contro la schiavitù e negli Stati del sud a suo
favore. Di fronte a queste farse Marx stringeva più serie
relazioni col nuovo mondo. Date le sue crescenti ristrettezze — «è impossibile
seguitare a vivere così», scriveva il 31 luglio a
Engels — egli aveva appunto l’intenzione di pubblicare insieme con
Wilhelm Wolff una Corrispondenza litografica per i giornali
americani, quando, pochi giorni dopo, ricevette l’invito a
collaborare regolarmente alla New York Tribune, il giornale
più diffuso nel Nordamerica, da parte del suo editore Dana,
con cui s’era conosciuto sin dai tempi di Colonia. Siccome egli non
padroneggiava ancora la lingua inglese tanto da poterla scrivere
correntemente, da principio lo sostituì Engels, che scrisse
una serie di articoli sulla rivoluzione e la controrivoluzione
tedesca. Marx però potè subito dopo pubblicare anche lui su suolo americano uno
scritto tedesco.
9.5 Il «Diciotto
brumaio»
Josef Weydemeyer, l’antico amico di Bruxelles, aveva partecipato
valorosamente alla lotta negli anni della rivoluzione, come
redattore di un giornale democratico a Francoforte sul Meno. Nel
frattempo questo giornale era stato soppresso dalla
controrivoluzione che imperversava sempre più sfrontatamente,
e Wey demeyer, dopo che la polizia scoprì la Lega dei
Comunisti, di cui egli era uno dei membri più attivi, ebbe i
segugi alle calcagna.
Da principio egli si nascose «in una tranquilla birreria a
Sachsenhausen»; voleva lasciar passare la tempesta e intanto
scrivere un libro di economia politica, ma l’aria diventava sempre
più soffocante e «neanche il diavolo può
sopportare alla lunga di restarsene nascosto e di bighellonare». Come marito e padre di due bambini egli non vedeva nessuna
prospettiva nel trasferirsi in Svizzera o a Londra; così si
decise ad emigrare in America.
Marx ed Engels perdettero a malincuore il compagno fedele. Invano
Marx tormentò il suo cervello con mille progetti per
procurargli un posto come ingegnere o come geometra nelle ferrovie o
simili; «perché una volta laggiù, chi garantisce
che tu non ti perda nel Far West? E noi abbiamo forze così
scarse e dobbiamo fare gran conto delle nostre capacità». Tuttavia, se non poteva essere diversamente, c’era anche un
vantaggio nel sapere che nella metropoli del nuovo mondo c’era un
rappresentante in gamba della causa del comunismo. «A New
York c’è proprio mancato un ragazzo in gamba come lui, e alla
fine anche New York non è poi fuori del mondo e con
Weydemeyer si è sicuri che le cas échéant
sarà subito a portata di mano» pensava Engels.
Così dettero la loro benedizione al progetto di Weydemeyer,
che il 29 settembre alzò le vele da Le Havre e, dopo una
traversata tempestosa di circa 40 giorni, arrivò a New York.
Marx, già il 31 ottobre, gli aveva mandato una lettera nella
quale gli proponeva di occuparsi di attività edito riali e
di pubblicare come opere a sé le migliori cose della Neue
Rheinische Zeitung e della Revue. E fece subito fuoco e fiamme,
quando Weydemeyer, fra un improperio e l’altro contro la
mentalità da rivenduglioli che in nessun luogo si mostrava in
tutta la sua ripugnante nudità come in America, gli
comunicava che sperava di poter pubblicare già al principio
di gennaio un settimanale dal titolo Revolution, e lo pregava di
mandar subito della collaborazione. Marx si affrettò a
mettere al lavoro tutte le penne comuniste, Engels soprattutto, poi
Freiligrath, di cui Weydemeyer desiderava soprattutto una poesia,
Eccarius e Weerth, i due Wolff; rimproverava che nell’annuncio del
suo settimanale Weydemeyer non avesse fatto anche il nome di Wilhelm
Wolff: «Nessuno tra tutti noi ha il suo stile popolare. E’
straordinariamente modesto. Tanto più bisogna evitare che
sembri che si ritiene superflua la sua collaborazione».
Quanto a se stesso, — accanto a un lungo studio su di una nuova
opera di Proudhon — annunciava in particolare uno studio sul
Diciotto brumaio di Luigi Bonaparte, cioè sul colpo di stato
bonapartistico del 2 dicembre, che in quel momento era l’avvenimento
più importante della politica europea e aveva dato occasione
a innumerevoli scritti.
Tra questi, due soprattutto divennero famosi e portarono ai loro
autori un ricco compenso; e Marx così chiarì in
seguito ciò che li differenziava dal suo. Nel Napoléon
le Petit, Victor Hugo si limita a un’invettiva amara e piena
di sarcasmo contro l’autore responsabile del colpo di Stato.
L’avvenimento in sé gli appare come un fulmine a ciel sereno.
Egli non vede in esso altro che l’atto di violenza di un individuo.
Non si accorge che ingrandisce questo individuo invece di
rimpicciolirlo, in quanto gli attribuisce una potenza di iniziativa
personale che non avrebbe esempi nella storia del mondo». Nel
coup d’Etat, Proudhon, dal canto suo, cerca di rappresentare
il colpo di Stato come il risultato di una precedente evoluzione
storica; ma la ricostruzione storica del colpo di Stato si trasforma
in lui in un’apologia storica dell’eroe del colpo di Stato. Egli
cade così nell’errore dei nostri cosiddetti storici
oggettivi. Io mostro, invece come in Francia la lotta di classe
creò delle circostanze e una situazione che rendono possibile
a un personaggio mediocre e grottesco di far la parte dell’eroe». Quest’opera fece, accanto alle sue due più fortunate
sorelle, la figura di una Cenerentola, ma mentre queste sono da
lungo ridotte in cenere e in polvere, essa splende ancor oggi di
intramontabile freschezza.
In questo suo lavoro scintillante di spirito e di ingegno, con una
maestria prima appena raggiunta, Marx riuscì a spiegare fin nel profondo un avvenimento
contemporaneo sulla base della concezione materiali stica della
storia; la forma è altrettanto deliziosa quanto il contenuto.
Dallo stupendo paragone dell’inizio: «Le rivoluzioni borghesi, come quelle del secolo
decimottavo, passano tempestivamente di successo in successo; i loro
effetti drammatici si sorpassano l’un l’altro; gli uomini e le cose
sembrano illuminate da fuochi di Bengala; l’estasi è lo stato
d’animo d’ogni giorno. Ma hanno una vita effimera, presto
raggiungono il punto culminante; e allora una lunga nausea
s’impadronisce della società, prima che essa possa rendersi
freddamente ragione dei risultati del suo periodo di febbre e di
tempesta. Le rivoluzioni proletarie invece, quelle del secolo
decimonono, criticano continuamente se stesse; interrompono ad ogni
istante il loro pro prio corso; ritornano su ciò che
già sembrava cosa compiuta, per ricominciare daccapo; si
fanno beffe in modo spietato e senza riguardi delle mezze misure,
delle debolezze e delle miserie dei loro primi tentativi; sembra che
abbattano il loro avversario solo perchè questo attinga dalla
terra nuove forze e si levi di nuovo più formidabile di
fronte ad esso; si ritraggono continuamente, spaventate
dall’infinita immensità dei loro propri scopi, sino a che si
crea la situazione in cui è reso impossibile ogni ritorno
addietro e le circostanze stesse gridano: Hic Rhodus, hic salta! Qui
è la rosa, qui balla!...» fino alle sicure parole
profetiche della conclusione: «Ma quando il mantello
imperiale cadrà finalmente sulle spalle di Luigi Bonaparte,
la statua di bronzo di Napoleone precipiterà dall’alto della
colonna Vendóme».
E in quali condizioni fu composto questo scritto stupendo! Fu ancora
il male minore che Weydemeyer dovesse «bloccare» il suo
settimanale già dopo il primo numero, per mancanza di mezzi;
egli scriveva in proposito: «La disoccupazione che
infierisce qui sin dall’autunno in proporzioni finora sconosciute,
pone notevoli ostacoli sul cammino di ogni nuova iniziativa. E poi
tutte le diverse maniere con cui da qualche tempo sono sfruttati gli
operai di qui: prima Kinkel, poi Kossuth, e la maggioranza è
abbastanza asinesca da tirar fuori un dollaro per ogni propaganda a
lei ostile, piuttosto che un centesimo per chi sostiene i suoi
interessi. Il terreno americano esercita una enorme corruzione su
questa gente, e nello stesso tempo dà anche loro l’illusione
di guardare dall’alto i loro compagni del vecchio mondo».
Tuttavia Weydemeyer non disperava di destare a nuova vita il suo
settimanale come rivista mensile; con 200 miserabili dollari sperava
di poter combinare la faccenda.
Ma il peggio fu che, subito dopo il 1◦ gennaio Marx si ammalò
e potè lavorare soltanto con grande sforzo; «da anni nulla mi ha tanto abbattuto come queste maledette
emorroidi, nemmeno le peggiori figuracce francesi». Ma
soprattutto era esasperato dai «maledetti guai finanziari», che gli turbavano ogni momento tranquillo; il 27 febbraio
scriveva: «da una settimana sono arrivato al punto che per
mancanza degli abiti impegnati al Monte di Pietà non esco
più e per mancanza di credito non posso più mangiare
carne». Finalmente il 25 marzo potè mandare a
Weydemeyer l’ultimo fascicolo di manoscritti, insieme con l’augurio
per la nascita di un piccolo rivoluzionario, che Weydemeyer gli
aveva annunciato: «Non si può venire al mondo in un
tempo più stupendo di oggi. Quando andrà in sette
giorni da Londra a Calcutta, noi due saremo da lungo tempo
decapitati o avremo le teste vacillanti. E l’Australia e la
California e l’Oceano Pacifico! I nuovi cittadini del mondo non
comprenderanno più quanto fosse piccolo il nostro mondo». Con lo sguardo volto alle possenti prospettive dello
sviluppo dell’umanità, Marx conservava in mezzo a tutte le
avversità personali il sereno equilibrio dello spirito.
Ma tristi giornate lo attendevano presto. In una lettera del 30
marzo Weydemeyer dovè togliergli ogni speranza di poter
stampare il suo scritto. Non si è conservata la lettera ma
soltanto un’eco di essa: una violenta lettera di Wilhelm Wolff del
16 aprile, scritta nel giorno in cui era stata sepolta una bambina
di Marx, scritta «nell’universale disgrazia e nelle
più orribili ristrettezze di quasi tutti i conoscenti», piena di amari rimproveri per Weydemeyer, che pur non stava
nemmeno lui su di un letto di rose e faceva sempre del suo meglio.
Fu una Pasqua terribile per Marx e la sua famiglia. La bambina che
essi perdettero era la figlioletta nata un anno prima; su di un
foglio di diario della madre sono state trovate queste commoventi
parole: «Pasqua del 1852, la nostra piccola Franziska si
ammalò di una grave bronchite. Per tre giorni la povera
piccina lottò con la morte. Soffrì moltissimo. Il suo
piccolo corpicino inanimato giaceva nella seconda delle due
stanzette, tutti noi passammo insieme nella prima, ci mettemmo a
giacere per terra. Là i tre bambini vivi si distesero con
noi, e noi piangemmo per il piccolo angelo, che giaceva accanto a
noi freddo e bianco. La morte della cara piccina avvenne nel momento
della nostra più nera miseria. Allora io corsi da un esule
francese, che abitava nelle vicinanze e che ci aveva fatto visita
poco prima. Mi dette subito due sterline condolendosi nel modo più amichevole con noi. Con esse fu
pagata la piccola bara, nella quale ora dorme in pace la mia povera
piccina. Non ebbe culla quando venne al mondo, ed anche l’ultimo
piccolo riparo gli fu negato per lungo tempo. Che cosa è
stato per noi, quando fu portata fuori per l’ultima sua dimora!». E proprio in questa giornata dolorosa arrivò la
triste lettera di Weydemeyer. Marx era estremamente preoccupato per
sua moglie, che da due anni vedeva fallire tutte le sue iniziative.
Tuttavia, in queste ore di sventura già da una settimana
varcava l’oceano una nuova lettera di Weydemeyer in data 9 aprile,
che così cominciava: «Un aiuto inaspettato ha
finalmente fatto superare le difficoltà che si frapponevano
alla stampa dell’opuscolo. Dopo l’invio della mia ultima lettera
incontrai uno dei nostri operai di Francoforte, un sarto, che era
venuto quaggiù anche lui quest’estate. Mi ha messo subito a
disposizione tutti i suoi risparmi, quaranta dollari». Si
deve a questo operaio se il Diciotto brumaio potè vedere
allora la luce. Weydemeyer non nominò nemmeno questa persona
così meritevole; ma che importa che si chiamasse in un modo o
nell’altro? Quello che lo guidò fu la coscienza di classe del
proletariato, che mai si stanca nei suoi magnanimi sacrifici per la
propria emancipazione.
Il Diciotto brumaio formò così il primo fascicolo
della rivista mensile Revolution, a cui Weydemeyer tentò di
dar vita: il secondo e ultimo fascicolo conteneva due missive
poetiche di Freiligrath a Weydemeyer, nelle quali si fustigavano con
stupenda ironia per l’appunto gli accattonaggi americani di Kinkel.
Poi la cosa finì; alcune cose mandate da Engels andarono
perdute in viaggio.
Del Diciotto brumaio Weydemeyer fece tirare mille copie, delle quali
un terzo arrivò in Europa, anche se non nelle librerie
europee; queste copie furono diffuse da amici del partito in
Inghilterra e particolarmente in Renania. Nemmeno dei librai «
radicali» si lasciarono indurre a curarsi della diffusione di
un libro così «contrario ai tempi», né tanto meno potè
vedere la luce una traduzione inglese buttata giù da Pieper e
riveduta da Engels.
Ma se il bisogno di un editore si accrebbe ancora per Marx,
ciò fu dovuto al fatto che al colpo di Stato bonapartistico
seguì il processo dei comunisti di Colonia.
9.6 Il processo dei
comunisti di Colonia
Dopo gli arresti del maggio 1851, Marx aveva seguito con grande
attenzione il corso dell’istruttoria, ma dato che essa s’inceppava
ad ogni momento per mancanza di «risultanze obiettive per
l’accusa», come stabilì perfino il Senato d’accusa
della Corte d’Appello di Colonia, in principio ci fu poco da fare.
Agli undici accusati non si poteva addebitare altro che la
partecipazione a un’associazione segreta di propaganda, e per questo
il Code penal non prevedeva alcuna pena.
Ma per volontà del re la «preziosa persona» di
Stieber doveva fornire il «saggio delle sue capacità» e dare al pubblico prussiano lo spettacolo, lungamente e
giustamente atteso, di un complotto scoperto e (soprattutto) punito,
e Stieber era un troppo buon patriota per non render giustizia alla
volontà del suo avito signore e re. Egli cominciò
degnamente con un furto con scasso, facendo scassinare da uno dei
suoi tirapiedi la scrivania di un certo Oswald Dietz, segretario
della lega scissionista di Willich. Col suo fiuto da poliziotto
Stieber aveva capito che l’irriflessiva e incauta attività di
questa lega apriva alla sua degna missione prospettive di riuscita
che egli avrebbe cercato invano nel «partito di Marx».
In realtà, con l’aiuto degli scritti rubati, nonché
con l’aiuto di provocazioni di ogni genere e di altri sistemi
polizieschi, nei quali la polizia bonapartistica alla vigilia del
colpo di Stato gli dette una mano, egli riuscì a confezionare
un cosiddetto «complotto franco-tedesco di Parigi»,
che nel febbraio 1852 portò a far condannare dai giurati
parigini alcuni poveri diavoli di operai tedeschi a un periodo
più o meno lungo di perdita della libertà.
Ma quello che non si potè fabbricare con tutte le arti
stieberiane fu una qualche relazione con gli accusati di Colonia;
contro di loro dal «complotto franco-tedesco» non
venne fuori nemmeno l’ombra di una prova.
Anzi grazie ad esso divenne anche più acuto il contrasto tra
il «partito di Marx» e il «partito di Willich e
Schapper». Nella primavera e nell’estate dei 1852 si venne ad
attriti più forti, tanto più che Willich continuava
come prima a far causa comune con Kinkel, il cui ritorno
dall’America tornò a far divampare più vive le fiamme anche delle altre contese tra i profughi. Egli non
era riuscito a raccogliere i 20.000 talleri che avrebbero dovuto
servire come deposito base per il prestito nazionale rivoluzionario,
ma soltanto una metà, e il problema di quel che ci si dovesse
fare diventò un problema sul quale gli esuli democratici si
ruppero la testa anche nel senso materiale della parola. Infine
1.000 sterline — il resto se ne era andato in spese di viaggio e
varie — furono depositate nella Westminsterbank a disposizione del
primo governo provvisorio. A dire il vero esse non servirono a
questo scopo, ma tutta la faccenda finì tuttavia in modo
passabilmente conciliante, dato che quindici anni dopo questi danari
contribuirono a far superare alcune difficoltà alla stampa
della socialdemocrazia tedesca ai suoi inizi.
Mentre ancora infuriava la contesa per questo tesoro dei Nibelunghi,
Marx ed Engels effigiarono gli eroi contendenti con alcuni tratti di
penna che purtroppo non sono giunti ai posteri. Essi furono
sollecitati a ciò dal colonnello ungherese Banya, che si era
accreditato presso di loro con una dichiarazione di mano di Kossuth
come capo della polizia dell’emigrazione ungherese. In realtà
Banya era una spia internazionale, che si rivelò come tale
per l’appunto in questa occasione, consegnando al governo prussiano
il manoscritto affidatogli da Marx per un editore di Berlino. Marx
smascherò subito questo soggetto con una denuncia da lui
firmata nella New Yorker Criminalzeitung, ma il suo manoscritto
andò perduto e non lo si è più trovato. Se il
governo prussiano aveva cercato di averlo per trovarci del materiale
per il processo di Colonia, s’era dato da fare per nulla.
Disperando di poter scovare delle prove contro gli accusati, esso
aveva rinviato lo svolgimento pubblico del processo da un’assise
all’altra e aveva così eccitato al massimo la tensione del
rispettabile pubblico, finché nell’ottobre del 1852 dovette
finalmente decidersi ad alzare il sipario per la rappresentazione.
Ma poiché con tutti i convulsi spergiuri della canaglia
poliziesca non si potè dimostrare che gli accusati avessero
qualche cosa a che fare col «complotto franco-tedesco», cioè con un complotto che era stato messo su da
provocatori della polizia durante l’arresto preventivo in una
organizzazione con la quale essi erano stati in palese
ostilità, alla fine Stieber se ne venne fuori con «
l’originale dei verbali del partito di Marx», una serie di
verbali dei dibattiti in cui Marx e i suoi compagni di partito
avrebbero discusso i loro piani scellerati per sconvolgere il mondo.
Il fascicolo era una infame falsificazione, messa insieme a Londra
sotto la guida del tenente di polizia Greif ad opera dei provocatori
Charles Fleury e Wilhelm Horsch. Portava visibilissime le tracce
della falsificazione, anche a prescindere dal contenuto balordo, ma
Stieber contava sull’ottusità borghese dei giurati
accuratamente vagliati e sulla severa vigilanza della posta, grazie
alla quale sperava di poter impedire l’arrivo di ogni chiarimento da
Londra.
Ma il piano indegno fallì per l’energia e la vigilanza con
cui Marx seppe rispondergli, per quanto poco egli fosse armato per
una lotta estenuante e protrattasi per settimane. L’8 settembre egli
aveva scritto a Engels:
«Mia moglie è malata, la piccola Jenny è
malata, Lenchen ha una specie di febbre nervosa. Il dottore non
potevo e non posso chiamarlo, perchè non ho denaro per le
medicine. Da otto o dieci giorni ho nutrito la family con pane e
patate, ed è anche dubbio che io riesca a scovarne oggi...
Articoli per Dana non ne ho scritti perchè non avevo il penny
per andare a leggere i giornali... La cosa migliore e più
desiderabile che potrebbe accadere sarebbe che la landlady mi
cacciasse di casa. Perlomeno in tal caso mi liberei di un debito di
22 sterline. Ma riesco appena a crederla capace di tanta cortesia.
Inoltre il fornaio, il lattaio, quello del tè, il
greengrocer, e ancora un vecchio debito col macellaio. Come debbo
fare a farla finita con tutta questa merda del diavolo? Finalmente,
negli ultimi otto o dieci giorni ho preso in prestito qualche
scellino e qualche pence da certi zoticoni, il che è stato
per me la cosa più noiosa ma era necessario per non crepare». In questa situazione disperata egli dovette intraprendere
la lotta contro avversari strapotenti, e nella lotta lui, e con lui
la sua coraggiosa moglie, dimenticò le cure domestiche.
La vittoria non era ancora decisa, quando la signora Marx scriveva a
un amico americano: «Bisognò far pervenire di qua
tutte le prove della falsificazione, sicché mio marito
dovette lavorare tutto il giorno fino a notte alta. Poi
bisognò copiare tutti i documenti da sei a otto volte, e
spedirli in Germania per diverse vie, per Francoforte, Parigi ecc.,
perchè tutte le lettere a mio marito, come quelle da qui a
Colonia, venivano aperte e sequestrate. Tutto si riduce ora a una
lotta tra la polizia da una parte e mio marito dall’altra, sulle cui
spalle si fa gravare tutto, anche la condotta del processo. Mi scusi
per il mio modo disordinato di scrivere, ma anch’io ho collaborato
in questo intrigo e ho copiato, e le dita mi bruciano. Perciò
questa confusione. Proprio ora arrivano da parte di Weerth ed
Engels pacchi interi di indirizzi di commercianti e di lettere
dall’aspetto commerciale, per poter far pervenire sicuramente i
documenti, ecc. Abbiamo un intero ufficio in casa, adesso. Due, tre persone scrivono, altri
corrono, altri ancora mettono insieme i pence affinché gli
scrivani abbiano di che vivere e possano portare al cospetto di
tutto il mondo ufficiale le prove dello scandalo più
inaudito. Intanto i miei allegri bambini fischiettano e cantano e
spesso si prendono delle belle risciaquate dal loro signor
papà. Questo si chiama lavorare».
Marx vinse questa battaglia; la falsificazione di Stieber fu
scoperta ancor prima di arrivare in assise, e lo stesso procuratore
dello Stato dovette lasciar cadere come mezzo di prova l’«infelice libro». Ma la vittoria fu fatale per la maggior parte
degli accusati. I dibattiti durati cinque settimane avevano scoperto
una massa tale di scandali polizieschi, ordinati dalle più
alte autorità dello Stato prussiano, che la piena assoluzione
di tutti gli accusati avrebbe bollato questo Stato davanti a tutto
il mondo. Piuttosto di far arrivare le cose a tal punto, i giurati
preferirono far violenza al loro onore e alla loro coscienza, e
condannarono sette degli undici accusati per tentativo di alto
tradimento: il sigaraio Roser, lo scrittore Bùrgers, il
lavorante sarto Nothjung a 6 anni di fortezza, l’operaio Reifl il
chimico Otto, l’ex referendario Becker a 5 anni e il lavorante sarto
Lessner a 3. Vennero assolti l’impiegato Ehrhardt e i medici
Daniels, Jacoby e Klein. Tuttavia uno degli assolti fu colpito
più duramente di tutti: Daniels morì pochi anni dopo
in seguito alla tisi che si era preso in cella durante l’istruttoria
durata un anno e mezzo, profondamente compianto da Marx, a cui la
signora Daniels mandò in una commovente lettera gli ultimi
saluti del marito.
Le altre vittime di questo vergognoso processo sopravvissero a lungo
e in parte sono ritornate nel mondo borghese, come Bürgers,
che arrivò ad essere deputato progressista al Parlamento, e
Becker, che diventò primo sindaco di Colonia e membro del
senato prussiano, stimato dalla corte e dal governo per i suoi alti
sentimenti patriottici. Dei condannati che rimasero fedeli alla
bandiera, Nothjung e Ròser sono stati attivi ancora agli
inizi della ripresa del movimento operaio, e Lessner sopravvisse a
lungo a Marx ed Engels, tra i più fedeli compagni dei quali
egli fu durante il suo esilio.
Dopo il processo dei comunisti, la Lega dei Comunisti si sciolse, e
la seguì presto la Lega scissionista di Willich e Schapper.
Willich emigrò in America, dove acquistò gloria
meritata come generale dei nordisti nella guerra di secessione, e
Schapper tornò pentito dai vecchi compagni.
Ma Marx volle stigmatizzare il sistema che davanti alle assise di
Colonia aveva ottenuto una vergognosa vittoria. Egli scrisse le
Rivelazioni sul processo dei comunisti di Colonia che voleva
pubblicare in Svizzera e possibilmente anche in America. Il 7
dicempre scriveva a certi amici americani: «Voi potrete
apprezzare lo spirito dell’opuscolo, se rifletterete che il suo
autore è praticamente internato a causa della mancanza di una
copertura bastevole per il di dietro e per i piedi, e che inoltre
era ed è sotto la minaccia di veder presentarsi ad ogni
momento alla sua famiglia una miseria veramente disastrosa. Il
processo mi mise nei pasticci anche perché per cinque
settimane, invece di lavorare per il pane, dovetti lavorare per il
partito contro le macchinazioni del governo. Inoltre mi ha del tutto
alienato alcuni editori tedeschi coi quali speravo di concludere un
contratto per la mia Economia». Ma l’11 dicembre Schabelitz
figlio, che intendeva curarne l’edizione, scriveva da Basilea a Marx
che aveva appunto terminato di leggere le prime bozze di stampa.
«Sono convinto che l’opuscolo farà un grande scalpore,
perchè è un capolavoro». Schabelitz voleva
tirarne
2.000 copie e fissare il prezzo dell’opuscolo a 10 Groschen
d’argento, nella supposizione che in ogni caso una parte della
tiratura sarebbe stata sequestrata.
Purtroppo tutta l’edizione fu sequestrata proprio quando la si
doveva mandare dal villaggio di confine nel Baden, dove era rimasta
sei settimane, nell’interno della Germania. Il 10 marzo Marx dava la
brutta notizia ad Engels con queste amare parole: «In queste
condizioni non si deve perdere la voglia di scrivere? Lavo rar
sempre pour le roi de Prusse!». Non si potè più
appurare come erano andate le cose; il sospetto nutrito in principio
da Marx contro l’editore si rivelò presto ingiustificato.
Schabelitz voleva addirittura diffondere ancora nella Svizzera 500
copie che aveva trattenuto presso di sé, ma pare che non se
ne sia fatto nulla, e per Marx la faccenda ebbe ancora l’amaro
strascico che tre mesi dopo non propriamente Schabelitz in persona,
ma il suo socio Amberger pretese da lui il rimborso delle spese di
stampa per l’ammontare di 424 franchi.
Quello che era fallito in Svizzera, riuscì poi in America,
dove, a dire il vero, l’apparire delle Rivelazioni non aveva ragione
di preoccupare troppo il governo prussiano. La New England-Zeitung
di Boston le ristampò, ed Engels ne fece tirare a sue spese
440 copie speciali che avrebbero dovuto essere diffuse in Renania
con l’aiuto di Lassalle. La signora Marx fu per questo in
corrispondenza con Lassalle, che si dimostrò abbastanza attivo, ma da questa corrispondenza non è
possibile stabilire se lo scopo è stato effettivamente
raggiunto.
Il libro trovò larga risonanza nella stampa
tedesco-americana, dove specialmente Willich si dette da fare contro
di esso, cosa che indusse di nuovo Marx a un piccolo scritto contro
Willich, che uscì alla fine del 1853 col titolo: Ilcavaliere
della nobile coscienza. Oggi vale sì e no la pena di
riesumarlo dal passato dove è sprofondato da tempo. Come
sempre in lotte del genere, anche allora si è peccato da una
parte e dall’altra, e, uscito vincitore dalla contesa, Marx
rinunciò volentieri a trionfare sul vinto. Già nel
1860 egli diceva a proposito dei primi anni dell’emigrazione, che la
più splendida difesa che si potesse farne era un confronto
della sua storia con la storia contemporanea dei governi e della
società borghese; ad eccezione di pochissime persone, non si
poteva rimproverarle altro che delle illusioni, più o meno
giustificate dalle condizioni dei tempi, e delle follie, che
sorgevano di necessità dalle circostanze straordinarie in cui
essa si trovò inaspettatamente coinvolta.
E quando, nel 1875, Marx preparò una seconda edizione delle
Rivelazioni, esitò un istante domandandosi se non dovesse
togliere la parte sulla frazione Willich-Schapper. E la
lasciò stare, ma soltanto perchè, dopo più
attenta riflessione, ogni mutilazione del testo gli parve una
falsificazione di un documento storico, ma vi aggiunse: «La
sconfitta violenta di una rivoluzione lascia nelle teste di chi vi
ha partecipato, soprattutto di quelli scagliati nell’esilio, lontano
dalla scena patria, una scossa che rende per così dire
irresponsabili per un periodo più o meno lungo anche delle
personalità in gamba. Esse non riescono più a
ritrovarsi nel cammino della storia, non vogliono riconoscere che la
forma del movimento è cambiata. Da qui il giocare alla
cospirazione e alla rivoluzione, ugualmente compromettente per loro
stesse e per la causa al cui servizio esse stanno; da qui anche gli
sbagli di Schapper e di Willich. Willich dimostrò nella
guerra nordamericana di essere qualcosa di più che un
fantasticone, e Schapper, per tutta la vita campione del movimento
operaio, riconobbe e confessò subito dopo la fine del
processo di Colonia il suo temporaneo errore. Molti anni dopo, sul
suo letto di morte, un giorno prima di morire, egli parlò
ancora con mordace ironia di quei tempi delle ‘balordaggini degli
esuli’. D’altra parte, le circostanze nelle quali furono scritte le
rivelazioni, spiegano l’amarezza dell’attacco agli involontari
complici del comune nemico. Nei momenti di crisi la mancanza di
riflessione diventa tradimento del partito, che richiede
un’espiazione pubblica». Parole auree, tanto più in
giorni in cui l’attenzione del «tono adatto» vien
messa al di sopra della fedeltà ai principi.
Combattuta la battaglia e conquistata la vittoria, Marx era meno che
mai uomo da serbar rancore. Conce dette più di quanto
occorreva che concedesse, quando nel 1860, di fronte a certe brusche
osservazioni di Freiligrath sugli «elementi ambigui e
abbietti» che si erano infiltrati nella Lega, ammetteva per
parte sua: «è certo che durante le tempeste si accumuli della
sporcizia, che nessun periodo rivoluzionario odori di estratto di
rose, che qua e là ti resti addosso anche dell’immondizia
d’ogni genere. Ma, o luna cosa o l’al tra». Tuttavia poteva
aggiungere a buon diritto: «Del resto, quando si riflette
agli sforzi enormi fatti contro di noi da tutto il mondo ufficiale
che, per rovinarci, non soltanto rasentava ma contravveniva al Code
penal, quando si riflette alla faccia viziosa della ‘democrazia
dell’idiozia’, che non potè mai perdonare al nostro partito
di avere più intelligenza e più carattere di quanto
non ne avesse lei, quando si conoscono le vicende contemporanee di
tutti gli altri partiti, e ci si domanda alla fine che cosa mai
possa essere rinfacciato a tutto il partito, si giunge alla
conclusione che in questo secolo decimonono esso si distingue per la
sua purezza».
Con lo scioglimento della Lega dei Comunisti, si strapparono gli
ultimi fili che legavano Marx con la vita pubblica della Germania.
L’esilio, «la patria dei buoni», da questo momento fu
per lui la seconda patria.