7.1 L’«Ideologia
tedesca»
Espulso da Parigi, Marx si era trasferito con la famiglia a
Bruxelles. Engels temeva che alla fine gli avrebbero dato delle noie
anche in Belgio, e la cosa avvenne anzi sin dal principio.
Come scriveva a Heine, Marx dovette, subito dopo il suo arrivo a
Bruxelles, sottoscrivere presso l’Adminì stration de la
sureté publique l’impegno a non stampare nulla in Belgio
sulle questioni politiche del giorno. Questo egli poteva farlo con
la coscienza tranquilla, poiché non ne aveva né
l’intenzione né la possibili tà. Ma siccome il
governo prussiano continuava a insistere presso il governo belga
perché lo espellesse, così, ancora nello stesso anno,
il 1◦ dicembre 1845, Marx rinunciò alla cittadinanza dello
Stato federale prussiano.
Tuttavia, né allora né poi egli prese la cittadinanza
di uno Stato straniero, che nella primavera del 1848 gli fu offerta
dal Governo provvisorio della Repubblica francese in modo
addirittura onorifico. Come Heine, Marx non si poté decidere
a questo passo, anche se Freiligrath, che, in quanto tedesco puro,
è stato così spesso presentato come solenne contrasto
coi due «signori senza patria», non si fece nessun
scrupolo a naturalizzarsi inglese durante il suo esilio.
Nella primavera del 1845 anche Engels si recò a Bruxelles, e
i due amici fecero insieme un viaggio di studi in Inghilterra che
durò sei settimane. Durante questo viaggio Marx, che
già a Parigi aveva cominciato a occuparsi di MacCulloch e di
Ricardo, si fece un’idea più profonda della letteratura
economica del regno insulare, anche se poté vedere solo
«i libri che si potevano trovare a Manchester»,
accanto agli estratti e agli scritti posseduti da Engels. Engels,
che già durante il suo primo soggiorno in Inghilterra aveva
collaborato sia al New Moral World, organo di Owen, che al Northern
Star, organo dei cartisti, rinnovò le antiche relazioni, e
così da tutte due gli amici vennero annodate nuove
relazioni, sia coi cartisti che coi socialisti.
Dopo questo viaggio si accinsero di nuovo per prima cosa a un lavoro
comune. «Noi decidemmo — disse più tardi Marx
abbastanza laconicamente — di mettere in chiaro, con un lavoro
comune, il contrasto tra il nostro modo di vedere e la concezione
ideologica della filosofia tedesca, di fare i conti, in
realtà, con la nostra anteriore coscienza filosofica. Il
disegno venne realizzato nella forma di una critica della filosofia
posteriore ad Hegel. Il manoscritto, due grossi fascicoli in ottavo,
era da tempo arrivato nel luogo dove doveva pubblicarsi, in
Vestfalia, quando ricevemmo la notizia che un mutamento di
circostanze non per metteva la stampa. Abbandonammo tanto
più volentieri il manoscritto alla rodente critica dei topi,
in quanto avevamo già raggiunto il nostro scopo principale,
che era di vedere chiaro in noi stessi.» I topi hanno compiuto
l’opera loro sul manoscritto anche nel senso letterale della
parola, ma i frammenti che si sono conservati rendono comprensibile
come i due autori non si siano troppo angustiati per questa mala
sorte.
Se la loro resa dei conti con i Bauer, radicale e approfondita anche
troppo, era un osso duro per i lettori, questi due grossi volumi di cinquanta fogli di stampa
complessivamente, sarebbero stati un osso ancora più duro. Il
titolo dell’opera è: L’ideologia tedesca, critica della
più recente filosofia tedesca nei suoi rappresentanti
Feuerbach, Bruno Bauer e Stirner, e del socialismo tedesco nei suoi
diversi profeti. Engels ricordava in seguito che la critica di
Stirner da sola non era meno ampia del libro di Stirner stesso, e i
saggi che ne sono stati pubblicati nel frattempo fanno apparire del
tutto credibile questo ricordo. E’ una polemica ancora più
diffusa di quanto lo sia la Sacra famiglia nei suoi aridissimi
capitoli, e in cambio in questo de serto le oasi sono ancor
più rare, anche se non mancano del tutto. E anche se sempre
si avverte l’acume dialettico, esso degenera però subito in sottigliezze e sofisticherie talvolta di tipo davvero meschino.
Certo, in cose del genere il gusto moderno è molto più
delicato di quel che non fosse il gusto d’allora. Ma con ciò
non si spiega tutto, tanto più che Marx ed Engels sia prima
che poi e anche in quello stesso tempo, hanno dimostrato che
sapevano usare un tipo di critica epigrammatica e tagliente, e che
il loro stile di tutto soffriva meno che di prolissità. Fu
determinante il fatto che queste battaglie spirituali si
combatterono in circoli estremamente ristretti, al che quasi sempre
si aggiungeva anche la grande giovinezza dei polemi sti. Era un
fenomeno quale la storia letteraria aveva visto già in
Shakespeare e nei suoi drammaturghi contemporanei; fare a pezzi una
locuzione, dare al discorso dell’avversario il senso più
pazzesco possibile con una interpretazione letterale o equivoca, la
tendenza al sublime e all’indefinito nell’espressione: tutto
ciò non era calcolato per il gran pubblico, ma per
l’intelligenza raffinata degli specialisti. Quel che oggi a
noi pare impossibile apprezzate o addirittura incomprensibile nello
spirito di Shakespeare, si spiega coi fatto che egli, nel suo
creare, era , consapevolmente o inconsapevolmente, preoccupato del
giudizio che ne avrebbero dato Green e Marlowe, Jonson, Fletcher e
Beaumont.
Così all’incirca ci si può spiegare il tono in cui
Marx ed Engels, consapevolmente o inconsapevolmente, scadevano,
quando avevano a che fare coi Bauer e gli Stirner o con gli altri
dei vecchi compagni del puro arzigogolare. Sarebbe stato senza
dubbio più istruttivo quello che nel loro libro essi
avrebbero avuto da dire su Feuerbach, perché in questo non si
sarebbe trattato soltanto di una critica sostanzialmente negativa,
ma purtroppo questa parte non è stata completata. Alcuni
aforismi, che Marx aveva scritto su Feuerbach nel 1845 e che Engels
pubblicò qualche decennio dopo, danno tuttavia chiare
indicazioni. Marx sentiva mancare nel materialismo di Feuerbach
quello che, ancora studente, aveva sentito mancare in Democrito, il
precursore del materialismo: e cioè il «principio
energico»; diceva che questo era il difetto di ogni
materialismo esistito fino ad allora, quello cioè di
concepire il mondo sensibile e la realtà soltanto sotto forma
di intuizione o di oggetto, ma non come attività sensibile
dell’uomo, ma come prassi, non soggettivamente. Perciò era
accaduto che, in contrasto col materialismo, la parte attiva, era
stata sviluppata, dall’idealismo, ma solo astrattamente,
perché l’idealismo naturalmente non conosce
l’attività sensibile reale. In altre parole: Feuerbach,
gettando via Hegel tutto intero, aveva gettato via troppo; si
trattava di trasferire la dialettica rivoluzionaria di Hegel dal
regno dei pensieri nel regno della realtà.
Col suo ardito modo di fare, Engels aveva già scritto a
Feuerbach da Barmen per conquistarlo al comu nismo. Feuerbach aveva
risposto amichevolmente, ma — almeno per il momento — con un
rifiuto. Se possibile, sarebbe venuto in Renania nell’estate e
allora Engels voleva «fargli entrare in testa» l’idea
di venire anche lui a Bruxelles. Per il momento egli mandò a
Marx come «stupendo agitatore» Hermann Kriege, un
allievo di Feuerbach.
Soltanto, Feuerbach non andò in Renania, e le sue successive
pubblicazioni dimostrarono che egli non riusciva più a
lasciare il suo «vecchio stile». Anche il suo allievo
Kriege non fece buona prova; egli portò, sì, la
propaganda comunista di là dal gran mare, ma a New York
combinò sciocchezze irrimediabili, che ebbero anche
conseguenze disastrose per la colonia comunista che si era
cominciata a riunire a Bruxelles intorno a Marx.
7.2 Il vero socialismo
La seconda parte dell’opera progettata doveva occuparsi del
socialismo tedesco nei suoi diversi profeti, risolvere criticamente
«tutta quella scipita e insulsa letteratura del socialismo
tedesco».
Si alludeva con ciò a uomini come Moses Hess, Karl Griin,
Otto Liining, Hermann Piittmann e altri, che avevano creato una rispettabile letteratura, ricca anche di riviste: il
Gesellschaftspiegel, che uscì come rivista mensile
dall’estate del 1845 all’estate del 1846, poi i Rheinische
Jahrbucher e il Deutsches Burgerbuch, di ciascuno dei quali nel 1845
e nel 1846 uscirono due annate, inoltre il Westfälisches
Dampjboot, rivista mensile che cominciò pure nel 1845, ma
restò in vita fino al periodo della rivoluzione tedesca, e
infine singoli giornali come la Triersche Zeitung.
Quello strano fenomeno che Ruge una volta battezzò «vero» socialismo, nome che fu accolto da Marx ed Engels in
senso derisorio, ebbe una vita molto breve. Nel 1848 era già
scomparso senza lasciar traccia; al primo colpo della rivoluzione si
dissolse da sé. Per lo sviluppo spirituale di Marx esso non
ha avuto alcun significato; egli gli stette di fronte fin dal
principio come un critico superiore. Ma l’aspro giudizio, che egli
ne dà nel Manifesto comunista, non rispecchia in modo
esauriente la sua posizione di fronte a questo socialismo; per un
certo tempo egli lo ha ritenuto un mosto che, con tutto il suo
comportamento assurdo, avrebbe però potuto dare del vino. La
stessa cosa valeva, ed in grado anche maggiore, per Engels. Engels
pubblicò insieme con Moses Hess il Gesellschaftspiegel, al
quale anche Marx collaborò una volta. Con Hess tutte due
collaborarono variamente nel periodo di Bruxelles, e pareva quasi
che questi fosse tutto compenetrato delle loro idee. Marx si
è spesso adoperato perché Heine collaborasse ai
Rheinische Jahrbücher, e, se non ha pubblicato nulla di lui, questa
rivista ha però pubblicato, come anche il Deutsches
Burgerbuch, edito anch’esso da Püttmann, articoli di Engels. Sia
Marx che Engels hanno collaborato al Westfdlisches Damffboot. Marx
vi ha pubblicato l’unico passo della seconda parte della Ideologia
tedesca che sia finora venuto alla luce: una critica profondamente
acuta di una specie di romanzo d’appendice che Karl Griin aveva
pubblicato sul movimento sociale in Francia e in Belgio.
Il fatto che anche il vero socialismo si era sviluppato dalla
dissoluzione della filosofia hegeliana ha portato ad affermare
che anche Marx ed Engels vi avessero originariamente appartenuto e
che proprio per questo l’abbiano in seguito tanto più
aspramente criticato. Ma la cosa non corrisponde affatto a
verità. La verità era piuttosto che tutte due le parti
erano pervenute al socialismo muovendo da Hegel e Feuerbach, ma Marx
ed Engels avevano studiato l’essenza di questo socialismo nella
rivoluzione francese e nell’in dustrialismo inglese, mentre i veri
socialisti si accontentavano di tradurre le formule e le parole
d’ordine socialiste in un «corrotto tedesco hegeliano». Marx ed Engels si adoperarono a far loro superare questa
posizione, pensando, abbastanza gratuitamente, di dover riconoscere
in tutta la corrente un prodotto della storia tedesca. Era
abbastanza lusinghiero per Grün e consorti che la loro
interpretazione del socialismo, come oziosa speculazione
sull’attuazione dell’essere umano, venisse paragonata al fatto che
anche Kant aveva inteso le espressioni di volontà della
grande rivoluzione francese soltanto come leggi della volontà
veramente umana.
In questa loro attività pedagogica nei riguardi del vero
socialismo, Engels e Marx non hanno mancato né di indulgenza
né di severità. Nel Gesellschaftspiegel del 1845
Engels, come condirettore, ha ancora lasciato passare al buon Hess
qualche cosa che personalmente doveva dargli molto fastidio; nel
Deutsches Burgerbuch del 1846 però dette già del
filo da torcere ai veri socialisti. «Un po’ di umanità
, come ultimamente si chiama la faccenda, un po’ di ‘realizzazione’
di questa umanità o piuttosto di questo mostro, un pochino
sulla proprietà — di terza o di quarta mano, — un po’ di
gemiti sul proletariato, organizzazione del lavoro, lugubri
associazioni per l’elevazione delle classi più umili del
popolo, e insieme un’ignoranza senza limiti dell’economia politica
e della società in concreto: a questo si riduce tutta la
faccenda, che per di più, grazie alla apartiticità
nella teoria, alla assoluta tranquillità del pensiero, perde
l’ultima goccia di sangue, l’ultima traccia di energia e di
attività. E con questa lagna si vuole rivoluzionare la
Germania, mettere in moto il proletariato, far pensare ed agire le
masse». L’attenzione al proletariato e alle masse determinava
in prima istanza la posizione che Marx ed Engels avevano preso nei
riguardi del vero socialismo. Se tra tutti i suoi rappresentanti
essi combatterono nel modo più violento Karl Grün,
ciò non fu soltanto perché in realtà egli
presentava più punti scoperti, ma anche perché egli,
vivendo a Parigi, provocava un’insanabile confusione tra gli operai
di là ed esercitava un influsso funesto su Proudhon. E se nel
Manifesto comunista essi si discostarono dal vero socialismo, con
estremo rigore, e anche con chiara allusione al loro finora amico
Hess, ciò avvenne perché così essi inauguravano
un’agitazione pratica del proletariato internazionale.
Ed era anche in relazione con questo il fatto che essi vollero
magari ancora perdonare al vero sociali smo la «pedantesca
innocenza», con la quale esso «prendeva così
solennemente sul serio e andava strombazzando ciarlatanescamente le
sue maldestre esercitazioni scolastiche», ma non però
l’appoggio che secondo loro esso forniva ai governi. La lotta della borghesia
contro l’assolutismo prequarantottesco e il feudalesimo, avrebbe
dovuto offrirgli la «bramata occasione» di colpire
alle spalle l’opposizione libe rale. «Esso servì ai
governi tedeschi assoluti, col loro seguito di preti, maestri di
scuola, gentiluomini di campagna e burocrati, come un utile
spauracchio contro la borghesia che si levava minacciosa. Esso fu il
complemento dolciastro delle amare sferzate e fucilate con cui quei
governi accoglievano le sommosse degli operai tedeschi»1.
Ciò era parecchio esagerato per quanto riguardava la
sostanza, e assolutamente ingiusto per quanto riguardava le persone.
Marx stesso nei Deutsch-Französische Jahrbücher, aveva
additato la particolarità della situazione tedesca, dove la
borghesia non poteva sollevarsi contro i governi senza che il
proletariato già si sollevasse contro la borghesia. Compito
del socialismo era perciò quello di sostenere il liberalismo
dove esso era ancora rivoluzionario, di combatterlo dove era
già reazionario. Nei suoi particolari non era facile
assolvere questo compito; anche Marx ed Engels hanno in certe
occasioni difeso il liberalismo come ancora rivoluzionario, quando
era già reazionario. A dire il vero, i veri socialisti,
soprattutto Karl Grün, ma anche Moses Hess, molto meno Otto
Lüning, che dirigeva il Westfdlisches Dampfboot, si sono
spesso sbagliati nella direzione opposta e hanno condannato in tutto
e per tutto il liberalismo, ciò che non poteva che riuscire
gradito ai governi. Ma per quanto essi abbiano potuto peccare in
questo senso, ciò è avvenuto per insipienza e
incomprensione, e non con l’intenzione di sostenere i governi. Nella
rivoluzione che pronunciò la condanna di morte su tutte le
loro fantasie, essi sono stati assolutamente all’ala sinistra della
borghesia; a tacere del tutto di Hess, che ha combattuto ancora
nelle file della socialdemocrazia, nessun altro dei veri socialisti
è passato dalla parte del governo; di tutte le sfumature del
socialismo borghese, quelle di allora e magari quelle di oggi, i
veri socialisti su questo punto hanno addirittura la coscienza
più pulita.
Essi avevano anche tutto il rispetto possibile per Marx ed Engels,
ai quali tenevano volentieri aperte le loro riviste, perfino se nei
loro articoli essi stessi si prendevano una buona ripassata; non a
malizie segrete, ma ad una palese mancanza di chiarezza si dovette
se essi non riuscirono a rompere il guscio. Essi cantavano con
particolare predilezione la vecchia cara canzone filistea: «Zitti, zitti, piano piano»; pensavano che in un partito
giovane la cosa non doveva esser presa così sul serio, e, in
spiegazioni che si rendessero even tualmente necessarie, non si
doveva almeno rompere il tono amichevole, divenire addirittura
troppo amari e scostanti; nomi famosi come Bauer, Ruge, Stirner,
secondo loro, avrebbero dovuto essere risparmiati. Così in
Marx essi avevano trovato davvero il pane per i loro denti; una
volta egli scrisse: «Resta caratteristico per queste vecchie
femmine il fatto che esse volevano assopire e inzuccherare ogni
reale lotta di partito». Tuttavia, con questa sana
concezione, egli trovò qua e là comprensione anche tra
i veri socialisti; in particolare, in Josef Weydemeyer, che era
cognato di Lùning e aveva fatto parte della redazione del
Westfdlisches Dampfboot, Marx ed Engels acquistarono uno dei loro
più fedeli seguaci.
Weydemeyer, originariamente tenente di artiglieria prussiano, aveva
lasciato il servizio militare a causa delle sue convinzioni
politiche, ed era entrato negli ambienti del vero socialismo come
vice-direttore della Triersche Zeitung, che era sotto l’influenza di
Karl Grün. Non si sa se nella primavera del 1846 egli si
recasse a Bruxelles per un altro motivo o già per conoscere
Marx ed Engels; comunque diventò presto intimo di tutti e due
e avversario dichiarato dei piagnistei sulla loro critica spietata,
con la quale anche suo cognato Lùning era d’accordo.
Originario della Vestfalia Weydemeyer aveva qualcosa di quel modo di
fare tranquillo e addirittura pesante, ma fidato e tenero, che si
suole attribuire alla sua gente. Non è mai stato uno
scrittore particolarmente dotato; quando tornò in Germania,
trovò un posto di geometra nella costruzione della ferrovia
Colonia-Minden e collaborò solo marginalmente al
Westfdlisches Dampfboot. Ma coi suoi modi pratici cercava di
rimediare a un altro bisogno che per Marx ed Engels quanto
più durava tanto più diventava sensibile, il bisogno
di un editore.
Il Literarisches Kontor di Zurigo era loro sbarrato per i rancori di
Ruge; sebbene Ruge riconoscesse che Marx non avrebbe scritto
facilmente cose cattive, tuttavia usò tutti i mezzi col suo
socio Fròbel per impedirgli ogni rapporto d’affari con Marx.
Wigand di Lipsia, il principale editore dei Giovani hegeliani, aveva
però già rifiutato in un altro caso una critica su
Bauer, Feuerbach e Stirner. Così fu graditissima la
prospettiva che si aprì quando Weydemeyer, nella sua patria
Vestfalia, scovò due ricchi comunisti, Julius Meyer e Rempel,
che si dichiararono disposti ad anticipare il capitale necessario
per un’impresa editoriale. Essa avrebbe dovuto essere subito
impiantata in grande e cominciare con non meno di tre produzioni:
l’Ideologia tedesca, una biblioteca di scrittori socialisti ed una
rivista trimestrale tra i cui direttori, accanto a Marx ed Engels,
era
previsto anche Hess.
Però, quando si trattò di pagare i due capitalisti
rifiutarono, nonostante gli accordi orali presi non soltanto con
Weydemeyer ma anche con Hess, Al momento buono si presentarono
«difficoltà commerciali» che paralizzarono il
loro slancio comunista di sacrificio. Così ci fu un’amara
delusione, che Weydemeyer rese anche più amara offrendo senza
successo il manoscritto della Ideologia tedesca ad altri editori, e
racco gliendo tra i compagni d’idee della Vestfalia qualche
centinaio di franchi per allontanare da Marx la più nera
miseria. Della profonda onestà sua ci dà testimonianza
il fatto che, se egli ebbe colpa di queste piccole balordaggini, le
fece però presto dimenticare a Marx ed Engels.
Soltanto, il manoscritto della Ideologia tedesca era ormai
definitivamente abbandonato alla critica roditrice dei topi.
7.3 Weitling e Proudhon
Dal lato umano incomparabilmente più avvincente e dal punto
di vista del contenuto incomparabilmente più importante della
critica della filosofia posthegeliana, fu la presa di posizione di
Marx nei riguardi dei due geniali proletari che influirono
notevolmente sui suoi esordi. Weiding e Proudhon erano nati proprio
nella classe operaia, nature sane e potenti, riccamente dotate e
così favorite dalle circostanze che sa rebbe davvero stato
loro possibile appartenere a quelle rare eccezioni sulle quali si
fondò la convinzione piccolo-borghese che a ogni talento
della classe lavoratrice sarebbe aperta l’ascesa tra le file della
classe possidente. Tutti e due hanno sdegnato questa strada e hanno
spontaneamente scelto la povertà, per combattere per i loro
compagni di classe e di sofferenze.
Uomini considerevoli, pieni di forza vigorosa, creati per godere di
ogni gioia della vita, essi si esposero a tutte le privazioni per
raggiungere la loro meta. «Un piccolo alloggio per la notte,
spesso in tre in una stanzetta, un pezzo di tavola come scrittoio e
ogni tanto una tazza di caffè nero», così
viveva Weitling, quando il suo nome spaventava ormai i potenti della
terra, e similmente viveva Proudhon nella sua stan zetta di Parigi,
quando il suo nome aveva già una fama europea, «
vestito di un giubbone di lana fatto a maglia e con gli zoccoli di
legno ai piedi».
In tutti e due si univano la cultura tedesca e quella francese.
Weitling era figlio di un ufficiale francese e si affrettò a
recarsi a Parigi appena ebbe una certa età, per bere alla
sorgente del socialismo francese. Proudhon era originario della
antica franca contea della Borgogna che era stata annessa alla
Francia soltanto sotto Luigi XIV; si è sempre voluto vedere
in lui la testa tedesca o magari la testa balzana dei tedeschi, In
ogni caso, quando egli giunse a maturità spirituale, fu
attratto verso la filosofia tedesca, tra i cui rappresentanti
Weitling vedeva soltanto «cervelli nebulosi», mentre a
sua volta Proudhon non aveva mai giudizi abbastanza taglienti sul
conto dei grandi utopisti ai quali Weitling riconosceva quanto di
meglio c’era nel suo pensiero.
Comune fu in loro soprattutto la fama e il destino. Essi furono i
primi proletari moderni i quali fornissero la prova storica dello
spirito e della forza, la prova storica che la classe operaia
moderna poteva liberare se stessa, e rompessero per la prima volta
il circolo vizioso in cui si muovevano movimento operaio e
socialismo. Per questo essi hanno fatto epoca e la loro opera
è stata esemplare ed ha avuto un effetto fecondo per il
sorgere del socialismo scientifico. Nessuno ha salutato con lodi
maggiori di quel che abbia fatto Marx gli esordi di Weitling e
Proudhon. Quello che la soluzione critica della filosofia hegeliana
gli aveva primamente fornito come risultato speculativo, egli lo
vide confermato nella vita reale anzitutto da Proudhon e Weitling.
Ma come ebbero in comune la stessa gloria, così i due uomini
ebbero in comune anche il destino. Nono stante ogni comprensione e
previsione dei fatti, Weitling non superò mai le posizioni
degli artigiani tedeschi, e Proudhon quelle dei piccoli borghesi
francesi. Così si separarono dall’uomo che seppe completare
glo riosamente quanto essi avevano brillantemente cominciato. Non
è avvenuto per vanità personale, né per
testarda presunzione, anche se luna cosa e l’altra possa essere
comparsa più o meno, quanto più essi si sentivano che
la corrente dello sviluppo storico li abbandonava sul greto. Le loro
polemiche con Marx mostrano che essi proprio non compresero dove questi mirasse. Essi
divennero vittime di una ristretta coscienza di classe, che fu tanto
più grave di conseguenze in quanto operava in loro
inconsapevolmente.
Weitling giunse a Bruxelles al principio del 1846. Dopo che la sua
agitazione nella Svizzera era rimasta paralizzata per le sue stesse
contraddizioni interne ed era caduta per una violenza brutale, egli
passò a Londra, dove già con la gente della Lega dei
Giusti non poté venire a capo di nulla. Egli andò
incontro al suo crudele destino proprio perché cercò
di salvarsi da esso abbandonandosi a oscuri atteggiamenti profetici.
Invece di gettarsi a fondo nel movimento operaio inglese, nel
momento in cui l’agitazione cartista innalzava le sue ondate
possenti, egli lavorò a una teoria logica e glottologica per
creare una lingua universale, che da questo momento diventò
sempre più la sua fisima esclusiva. Affrontò
temerariamente compiti per i quali le sue capacità e le sue
cognizioni non erano affatto all’altezza, e finì in un
isolamento spirituale che lo separò sempre di più
dalla vera sorgente della sua forza, dalla vita della sua classe.
Trasferirsi a Bruxelles era comunque la cosa più accorta
ch’egli potesse fare, perché se era ancora pos sibile
salvarlo spiritualmente, Marx era l’uomo che poteva guarirlo. Che
Marx gli abbia dato ospitalmente il benvenuto, è testimoniato
non soltanto da Engels, ma è stato anche riconosciuto dallo
stesso Weitling. Ma una comprensione spirituale si dimostrò
impossibile; in una riunione di comunisti di Bruxelles, che ebbe
luogo il 30 marzo 1846, Marx e Weitling ebbero un violento scontro;
che Marx fosse stato provocato da Weitling nel modo più
irritante, lo dice lo stesso Weitling in una lettera a Hess.
Proprio allora erano in corso le trattative per la nuova impresa
editoriale, e Weitling aveva insinuato che si volesse tagliarlo
fuori dalle «fonti finanziarie» e farsi la parte del
leone con «traduzioni ben pagate». Tuttavia, anche
dopo di ciò, Marx fece per Weitling tutto ciò che
poté; in seguito ad un resoconto avuto dallo stesso Weitling,
Hess scriveva il 6 maggio da Verviers a Marx: «C’era da
aspettarsi da parte tua che la tua ostilità contro di lui non
arrivasse fino alla chiusura ermetica della tua borsa, finché
ci avevi ancora qualche soldo dentro». Ma Marx ci aveva
dentro disperatamente poco.
Ma pochi giorni dopo Weitling spinse le cose fino a una rottura
irrimediabile. La propaganda svolta in America da Kriege non aveva
corrisposto alle speranze che anche Marx ed Engels vi avevano
riposto. Il Volkstribun, un settimanale edito da Kriege a New York,
si abbandonava in modo fanciullesco e pomposo a sentimentalismi e
fantasticherie che non avevano nulla a che fare coi principi del
comunismo e che dovevano demoralizzare al massimo gli operai. Anche
peggio era il fatto che Kriege cercasse di cavare qualche dollaro
per il suo giornale dai milionari americani con grottesche
petizioni. E per di più si atteggiava a portavoce
letterario del comunismo tedesco in America, in modo che per i veri
portavoce cerano tutti i motivi di protestare contro questa
compromettente comunanza.
Il 16 maggio Marx ed Engels e i loro amici decisero di levare questa
protesta, minuziosamente motivata, in una circolare ai loro compagni
di fede, e di mandarla anzitutto perché fosse pubblicata nel
giornale di Kriege. Unico e solo, Weitling si tirò indietro
con pretesti che non dicevano nulla: il Volkstribun era un organo
comunista che corrispondeva pienamente alla situazione americana;
il partito comunista aveva nemici così potenti e così
numerosi in Europa, che non bisognava che rivolgesse le sue armi
contro l’America, e tanto meno contro se stesso. Né Weitling
si accontentò di questo, ma inviò una lettera a Kriege
per metterlo in guardia contro gli autori della protesta, come da
«intriganti sopraffini». «Nella testa di questa
Lega possente e piena di denaro, composta di circa una dozzina o una
ventina di persone, non s’agita altro che la lotta contro quel
reazionario che sarei io. Per primo taglieranno la testa a me, poi
agli altri, e da ultimo ai loro amici, alla fine di tutto
taglieranno il collo a se stessi.... E per questa attività
sono adesso a disposizione somme enormi, ma per me nessun editore.
Io sto da questa parte tutto solo con Hess, ma Hess è come me
messo al bando». Ormai anche Hess abbandonava quest’uomo
accecato.
Kriege stampò la protesta dei comunisti di Bruxelles, che poi
fu riprodotta anche da Weydemeyer nel Westfdlisches Dampfboot, ma
vi aggiunse come contravveleno la lettera di Weitling o almeno i
suoi passi più aspri, e invitò l’Associazione per la
riforma sociale, organizzazione operaia tedesca che aveva scelto
come proprio organo il suo settimanale, a chiamare Weitling come
redattore e a mandargli il denaro necessario per il viaggio.
Così Weitling scomparve dall’Europa.
Negli stessi giorni di maggio, si avviò anche la rottura tra
Marx e Proudhon. Per ovviare alla mancanza di un organo di stampa,
Marx e i suoi amici si aiutavano con circolari stampate o
litografate, come nel caso di Kriege; ma oltre a ciò si
adoperavano a mantenere rapporti stabili di corrispondenza tra le
località principali dove risiedevano dei comunisti. Di uffici di corrispondenza del
genere ce n’erano a Bruxelles e a Londra, e si doveva istituirne uno
anche a Parigi. Marx aveva scritto a Proudhon pregandolo di farne
parte. E Proudhon accettò, in una lettera da Lione in data
17 maggio 1846, anche se non poteva promettere di scrivere né
spesso né molto. Ma egli nello stesso tempo
approfittò dell’occasione per rivolgere a Marx una grossa
predica morale, che doveva mostrare a quest’ultimo l’abisso che si
era aperto tra loro due.
Ora Proudhon si pronunciava per un «quasi assoluto
antidogmatismo» nelle questioni economiche. Marx non doveva
cadere nella contraddizione del suo compatriota Martin Lutero, che
dopo il rovesciamento dell’ortodossia cattolica si era subito
accinto, con grande uso di anatemi e di scomuniche, a fondare una
teologia protestante. «Non creiamo nuovo lavoro al genere
umano con nuovi guazzabugli, diamo al mondo l’esempio di una
tolleranza saggia e preveggente, non ci atteggiamo ad apostoli di
una nuova religione, sia pure della religione della logica e della
ragione». Proudhon voleva insomma, proprio come i veri so
cialisti, mantenere la bella confusione, il cui superamento era per
Marx la condizione pregiudiziale della propaganda comunista.
Di una rivoluzione, a cui aveva creduto per lungo tempo, Proudhon
non voleva più saperne: «Preferisco bruciare la
proprietà a fuoco lento piuttosto che darle nuova forza con
una notte di San Bartolomeo dei proprietari». E prometteva di
spiegare esaurientemente, in un’opera già in corso di stampa,
come si dovesse risolvere questo problema, e di sottomettersi di
buona voglia al flagello che Marx vi avrebbe esercitato contro, in
attesa di prendersi la rivincita. «Devo dirLe di passaggio
che mi sembra che le intenzioni della classe operaia francese
coincidano con le mie; i nostri proletari hanno una così
grande sete di sapere che si sarebbe accolti molto male da loro se
non gli si offrisse da bere altro che sangue».
Per concludere
Proudhon spezzava una lancia a favore di Karl Grün, contro la
cui mal intesa hegelianeria Marx lo aveva messo in guardia. Data la
sua ignoranza della lingua tedesca, non poteva contare che su
Grün ed Ewerbeck per studiare Hegel e Feuerbach, Marx ed
Engels. Grün voleva tradurre in tedesco il suo ultimo libro,
e Marx poteva essere così gentile da aiutare a diffondere
questo libro; ciò sarebbe stato onorevole per tutti. La
conclusione suona quasi come uno scherno, anche se non voleva
esserlo. Ma non poteva certo essere edificante per Marx vedersi
raffigurato nel pomposo gergo di Proudhon come un bevitore di
sangue. Tanto più doveva suscitare sospetti l’affaccendarsi
di Grün, e si dovette ad esso, anche se vi si aggiunsero
altri motivi, se Engels nell’agosto del 1846 si decise a trasferirsi
temporaneamente a Parigi e ad assumersi l’incarico di corrispondente
da questa città che era pur sempre il posto più
importante per la propaganda comunista. Bisognava che i comunisti di
Parigi fossero informati sulla rottura con Weitling, sulla storia
delle edizioni in Vestfalia e su tutto ciò che avesse potuto
far chiasso, tanto più che non avevano un saldo punto
d’appoggio né in Ewerbeck né tanto meno in Bernays.
Da principio le informazioni che Engels mandava in parte all’ufficio
di corrispondenza di Bruxelles, in parte a Marx personalmente,
suonavano ancora piene di speranza, ma a poco a poco risultò
che Grün aveva radicalmente compromesso la faccenda E quando
lo scritto di Proudhon, che uscì nell’autunno, non fece in
realtà che seguire quella via senza uscita a cui la sua
lettera aveva già accennato, allora Marx ci lasciò
andar sopra il suo flagello, secondo i desideri di Proudhon, ma
senza che questi mantenesse poi la promessa di una rivincita
altrimenti che rispondendo con grossolane ingiurie.
7.4 Il materialismo storico
Proudhon aveva dato al suo libro il titolo Le sistème de
contradictions économiques e il sottotitolo La philosofhie
de la misere. E Marx intitolò la sua critica La misere de la
philosophie, e lo scrisse in francese, per colpire tanto più
sicuramente l’avversario. Ma ciò non gli è riuscito,
perché l’influenza di Proudhon sulla classe operaia francese
e sul proletariato dei paesi neolatini in generale, crebbe piuttosto
che diminuire, e Marx ha avuto ancora per decenni a che fare col
proudhonismo.
Ma non per questo resta limitato in alcun modo il valore del suo
scritto polemico, e nemmeno la sua impor tanza storica. Esso
costituisce una pietra miliare sia nella vita del suo autore che
nella storia della scienza. In esso sono stati per la prima volta
sviluppati scientificamente i motivi fondamentali del materialismo
stori co. Se negli scritti precedenti essi lampeggiano come
scintille isolate, se in seguito Marx li ha riassunti in
forma epigrammatica, essi si dispiegano però nello scritto
contro Proudhon nella convincente chiarezza di una polemica
vittoriosa
E lo sviluppo del materialismo storico è la più grande
impresa scientifica che Marx abbia compiuto; essa ha significato per
le scienze storiche quello che ha significato la teoria di Darwin
per le scienze naturali.
Engels vi ha la sua parte, ed anche una parte maggiore di quella che
egli volesse ammettere nella sua modestia, ma a ragione egli ha
attribuito esclusivamente all’amico la classica formulazione del
pensiero fondamentale. A quanto egli racconta, quando egli si
recò a Bruxelles nella primavera del 1845, Marx gli espose
già pienamente elaborato il pensiero fondamentale del
materialismo storico, cioè il pensiero che la produzione
economica e la struttura sociale di ogni periodo storico, che ne
segue di necessità, costituisce la base della storia politica
e intellettuale di questo periodo; che, conforme a ciò, tutta
la storia è stata storia di lotte di classi, lotte tra classi
sfruttate e sfruttatrici, dominate e dominanti, nei diversi gradi
dello sviluppo sociale; che però questa lotta attualmente ha
raggiunto un grado tale che la classe sfruttata e oppressa, il
proletariato, non può più liberarsi dalla classe che
lo sfrutta e lo opprime, la borghesia, senza liberare
contemporaneamente e per sempre tutta la società dallo
sfruttamento e dall’oppressione.
Ed è appunto questo pensiero fondamentale che si manifesta
nello scritto contro Proudhon, come un punto focale su cui si
concentrino i raggi della luce. In netto contrasto con la
prolissità che tanto stanca talvolta nella polemica contro
Bruno Bauer e Stirner, qui tutto è incomparabilmente chiaro
e conciso; non si spinge più la barca attraverso una palude,
ma essa veleggia sotto un fresco vento su acque correnti.
Il libro si divide in due parti, nella prima delle quali, per usare
un’espressione di Lassalle, Marx appare quasi un Ricardo divenuto
socialista, mentre nella seconda uno Hegel divenuto economista.
Ricardo aveva dimostrato che lo scambio delle merci nella
società capitalistica si attua sulla base del tempo di lavoro
in esse contenuto; questo «valore» delle merci
Proudhon voleva poterlo «costituire», di modo che data
la stessa quantità di lavoro, si dovesse scambiare il
prodotto dell’uno contro il prodotto dell’altro; la società
doveva perciò essere riformata in modo che tutti gli uomini
si trasformassero in operai che scambiano direttamente uguali
quantità di lavoro. Questa conclusione «egualitaria» desunta dalle teorie di Ricardo l’avevano tratta già
dei socialisti inglesi, e avevano anche cercato di attuarla nella
pratica, ma le loro «banche di scambio» avevano fatto
subito bancarotta.
Ora Marx dimostrò che la «teoria rivoluzionaria», che Proudhon pretendeva di avere scoperto per l’emancipazione del proletariato, era soltanto la formula della moderna
schiavitù della classe operaia. Dalla sua legge del valore
Ricardo aveva dedotto logicamente la sua legge del salario; il
valore della merce forza-lavoro si misura secondo il tempo di
lavoro che è necessario alla produzione degli oggetti di cui
l’operaio ha bisogno per conservarsi in vita e per propagare la sua
razza. E’ una illusione borghese di immaginare possibile lo scambio
individuale senza contrasti di classe, per contemplare nella
società borghese una condizione-di armonia e di eterna
giustizia, che non consentirebbe a nessuno di arricchirsi a spese
degli altri.
Come vadano le cose nella realtà, Marx lo esprimeva con
queste parole: «Nello stesso momento in cui sorge la
civiltà, la produzione comincia a fondarsi sull’antagonismo
degli ordinamenti, degli stati, delle classi, infine
sull’antagonismo del lavoro accumulato col lavoro immediato. Senza
antagonismo non vi è progresso. Questa è la legge che
fino ai nostri giorni la civiltà ha seguito. Fino ad oggi, le
forze produttive si sono sviluppate attraverso questo regime di
antagonismo delle classi». Se Proudhon per mezzo del «suo valore costituito» voleva assicurare all’operaio
il prodotto sempre maggiore, che egli ottiene in ogni giornata di
lavoro, mediante il progresso del lavoro sociale, Marx indicava che
lo sviluppo delle forze produttive, che nell’anno 1840 rendeva
possibile all’operaio inglese produrre ventisette volte di
più che nel 1770, era dipeso da condizioni storiche che
poggiavano sull’antagonismo tra le classi: accumulazione di
capitali privati, moderna divisione del lavoro, concorrenza
anarchica, sistema del salariato. Per ottenere un’eccedenza di
lavoro dovevano esserci classi che ritraevano profitti e classi che
deperivano.
Come prime prove del suo «valore costituito», Proudhon
aveva additato l’oro e l’argento; grazie alla consacrazione
sovrana, impressa in loro dal sigillo dei sovrani, essi erano
divenuti denaro. Nient’affatto, rispondeva Marx. Il denaro non
è una cosa, ma un rapporto sociale; come lo scambio
individuale, esso corrisponde a un determinato modo di produzione.
«Davvero bisogna essere sprovvisti di ogni conoscen za
storica per ignorare che i sovrani di tutti i tempi hanno subito le
condizioni economiche, e non sono mai stati essi a far legge in questo campo. La legislazione sia
politica che civile non fa che pronunciare, che verbalizzare, la
volontà dei rapporti economici...». Il diritto non
è altro che il riconoscimento ufficiale del fatto. Il sigillo
dei sovrani imprimeva nell’oro non il valore, ma il peso; col
«valore costituito» l’oro e l’argento s’accordano come
il pugno con l’occhio; appunto nella loro qualità di segni
del valore essi sono le sole fra tutte le merci che non vengono
determinate dai loro prezzi di produzione, proprio come possono
essere sostituiti nella circolazione con la carta moneta, come
è stato da tempo chiarito da Ricardo.
Alla meta finale del comunismo Marx accennava quando dimostrava che
la «giusta proporzione tra offerta e domanda», cercata
da Proudhon, era stata possibile soltanto in quei tempi in cui i
mezzi di produzione erano stati limitati, in cui lo scambio si era
attuato entro limiti straordinariamente ristretti, in cui la
domanda aveva dominato l’offerta, e il consumo la produzione; essa
era divenuta impossibile col sorgere della grande industria, che
già per i propri strumenti di lavoro era costretta a produrre
in misura sempre maggiore, non poteva attendere la domanda, per
necessità naturale doveva esperimentare in successione
continua l’alternarsi di prosperità e depressione, crisi,
ristagno, nuova prosperità e così via. «Nella
società attuale, coll’industria basata sugli scambi
individuali, l’anarchia della produzione, che è fonte di
tanta miseria, è con temporaneamente la causa di ogni
progresso. Così, di due cose, luna: o volete le giuste
proporzioni dei secoli passati, con i mezzi di produzione della
nostra epoca, e allora siete al contempo reazionari e utopisti. O
volete il progresso senza l’anarchia; e allora, per conservare le
forze produttive dovete abbandonare gli scambi individuali».
Ancor più importante del primo é il secondo capitolo
del libro contro Proudhon. Se in quello Marx aveva a che fare con
Ricardo, di fronte al quale egli si poneva non ancora con piena
imparzialità scientifica — tra l’altro egli riconosceva
ancora per buona la legge dei salari di Ricardo — nel secondo aveva
a che fare con Hegel, e qui si trovava proprio nel suo elemento.
Proudhon aveva grossolanamente frainteso il metodo dialettico di
Hegel. Egli si atteneva ancora alla parte di esso divenuta ormai
reazionaria, secondo la quale il mondo della realtà deriva
dal mondo dell’Idea, mentre ne rinnegava la parte rivoluzionaria:
l’autoattività dell’Idea, che si pone e si contrappone per
dispiegare in questa lotta quella superiore unità che
conserva il contenuto concreto delle due parti, dissolvendone la
forma contraddittoria. Proudhon, piutto sto, distingueva in ogni
categoria economica una parte buona e una cattiva, per andare alla
ricerca di una sintesi, di una formula scientifica che conservasse
la parte buona e eliminasse la parte cattiva. Egli vedeva la parte
cattiva messa sotto accusa dai socialisti; con le sue formule e le
sue sintesi credeva di elevarsi ugualmente al di sopra degli
economisti e dei socialisti.
A questa pretesa Marx opponeva: «Il signor Proudhon si vanta
di aver fornito la critica e dell’economia politica e del comunismo:
mentre si trova al di sotto dell’una e dell’altro. Al di sotto degli
economisti, poiché come filosofo che ha sotto mano una
formula magica, ha creduto di potersi esimere dall’entrare in
dettagli puramente economici; al di sotto dei socialisti,
poiché non ha né sufficiente coraggio né
sufficienti lumi per elevarsi, non fosse altro in maniera
speculativa, oltre l’orizzonte borghese! ... Vuole essere la
sintesi, ed è invece un errore composto. Vuole librarsi come
uomo di scienza al disopra dei borghesi e dei proletari; e non
è che il piccolo borghese, sballottato costantemente fra il
capitale e il lavoro, fra l’economia politica e il comunismo».
Ma non si deve, a dire il vero, far tutt’uno del piccolo borghese
col borghesuccio benpensante, perché Marx ha sempre
riconosciuto in Proudhon una mente notevole, una mente però
che con le sue immaginazioni non riuscì ad elevarsi al di
sopra dei limiti della società piccolo-borghese.
Non era difficile per Marx scoprire l’inconsistenza del metodo
seguito da Proudhon. Se si divide il processo dialettico in una
parte buona e in una cattiva e se si prospetta una categoria come
contravveleno contro l’altra, si è tolta ogni vita all’Idea;
essa non funziona più; né si pone né si
decompone in categorie. Marx, da autentico discepolo di Hegel,
sapeva molto bene che proprio la parte cattiva che Proudhon voleva
dappertutto estirpare è quella che fa la storia in quanto fa
maturare la lotta. Se si fossero volute conservare le parti belle
del feudalismo, la vita patriarcale delle città, il fiorire
dell’artigianato domestico nelle campagne, lo sviluppo
dell’artigianato cittadino, e se ci si fosse posto il compito
soltanto di estirpare tutto ciò che gettava un’ombra su
questo quadro — servitù della gleba, privilegi, anarchia — si
sarebbero distrutti tutti gli elementi che provocavano la lotta, e
si sarebbe soffocata in germe la borghesia; ci si sarebbe posto il
compito assurdo di cancellare la storia.
Marx poneva giustamente il problema dicendo: «Per ben
giudicare la produzione feudale, è necessario considerarla
come un modo di produzione fondato sull’antagonismo. Bisogna
mostrare come la ricchezza veniva prodotta all’interno di questo antagonismo, come le forze
produttive si sviluppavano di pari passo all’antagonismo delle
classi, come una di queste classi, il lato cattivo, l’inconveniente
della società, andasse sempre crescendo finché le
condizioni materiali della sua emancipazione non furono pervenute al
punto di maturazione».
Lo stesso processo dello sviluppo storico egli lo mostrava per la borghesia. I rapporti di produzione nei quali essa si muove non hanno un carattere semplice ed unitario, ma un carattere duplice; in quegli stessi rapporti, si produce non solo la ricchezza,.ma anche la miseria; nella misura in cui si sviluppa la borghesia, si sviluppa nel suo grembo il proletariato, e subito anche la lotta tra queste due classi. Gli economisti sono i teorici della borghesia, i comunisti e i socialisti sono i teorici del proletariato. Questi ultimi sono utopisti che escogitano sistemi e vanno alla ricerca di una scienza risana-trice per alleviare i bisogni delle classi oppresse, fino a che il proletariato non è ancora sviluppato a sufficienza per costituirsi come classe, e fino a che le forze produttive nel grembo della borghesia non sono ancora sviluppate a sufficienza per lasciare trasparire le condizioni materiali necessarie per la liberazione del proletariato e per la formazione di una nuova società.
«Ma a misura
che la storia progredisce e che con essa la lotta del proletariato
si profila più netta, essi non hanno più bisogno di
cercare la scienza nel loro spirito; devono solo rendersi conto di
ciò che si svolge davanti ai loro occhi e farsene portavoce.
Finché cercano la scienza e costruiscono solo dei sistemi,
finché sono all’inizio della lotta, nella miseria non vedono
che la miseria, senza scorgerne il lato rivoluzionario,
sovvertitore che rovescerà la vecchia società. Ma
quando questo lato viene scorto, la scienza prodotta dal movimento
storico.... ha cessato di essere dottrinaria per divenire
rivoluzionaria».
Le categorie economiche sono per Marx soltanto le espressioni
teoriche, le astrazioni dei rapporti sociali.
«I rapporti sociali sono intimamente connessi alle forze produttive. Impadronendosi di nuove forze pro duttive, gli uomini cambiano il loro modo di produzione e, cambiando il modo di produzione, la maniera di guadagnarsi la vita, cambiano tutti i loro rapporti sociali. Quegli stessi uomini che stabiliscono i rappor ti sociali conformemente alla loro produttività materiale, producono anche i principi, le idee, le categorie, conformemente ai loro rapporti sociali».
Marx paragonava gli
economisti borghesi che parlano delle «eterne e naturali
istituzioni» della società borghese, ai teologi
ortodossi, per i quali la propria religione è una rivelazione
di Dio, mentre ogni altra religione è un’invenzione umana.
Marx dimostrava poi ancora in una serie di categorie economiche:
divisione del lavoro e macchine, con correnza e monopolio,
proprietà fondiaria o rendita, scioperi e coalizioni
operaie, sulle quali Proudhon aveva provato il suo metodo,
l’inconsistenza di questo metodo stesso. La divisione del lavoro
non è, come Proudhon la assumeva, una categoria economica,
ma una categoria storica, che ha preso gli aspetti più
diversi nei diversi periodi della storia. Nel senso dell’economia
borghese sua condizione di esistenza è la fabbrica. Ma la
fabbrica non è sorta, come Proudhon mostra di credere,
grazie ad amichevoli unioni di compagni di lavoro, e neppure nel
senso delle vecchie corporazioni; padrone dell’officina moderna
divenne il commerciante, e non il vecchio mastro d’arte.
Così la concorrenza e il monopolio non sono categorie
naturali, ma sociali. La concorrenza non è emu lazione
industriale, ma commerciale; essa lotta non per il prodotto, ma per
il profitto, non è una necessità dell’anima umana,
come Proudhon pensava, ma, sorta nel secolo decimottavo per bisogni
storici, potrebbe, per bisogni storici, sparire nel secolo
decimonono.
Altrettanto erronea era l’opinione di Proudhon che la
proprietà fondiaria non abbia un’origine economica; che essa
poggi su considerazioni di psicologia e di morale, le quali
starebbero in un rapporto molto lontano con la produzione della
ricchezza; che la rendita fondiaria debba legare più
saldamente l’uomo alla natura.
«In ogni epoca storica la proprietà si è
sviluppata diversamente e in una serie di rapporti sociali
interamente differenti. Così definire la proprietà
borghese non significa altro che descrivere tutti i rapporti
sociali della produzione borghese. Voler dare una definizione della
proprietà, come d’un rapporto indipendente non può
essere che un’illusione di metafisica o di giurisprudenza».
La rendita fondiaria — l’eccedenza del prezzo dei prodotti
dell’agricoltura sui loro costi di produzione, ivi compreso l’usuale
profitto e interesse del capitale — è sorta in determinati
rapporti sociali e poteva sorgere soltanto in quei rapporti. Essa
è la proprietà fondiaria nel suo aspetto borghese; la
proprietà feudale che si è assoggettata alle
condizioni della produzione borghese.
Infine Marx dimostrava l’importanza storica degli scioperi e delle
coalizioni, di cui Proudhon non aveva voluto sapere. Mettano
pure economisti e socialisti, e magari per opposti motivi, gli
operai in guardia
contro l’uso di queste armi, tuttavia scioperi e coalizioni si
sviluppano di pari passo con la grande industria. Divisi dalla
concorrenza nei loro interessi, tuttavia gli operai hanno
l’interesse comune di mantenere il loro salario; il pensiero comune
della resistenza li unisce nella coalizione, che contiene tutti gli
elementi di una battaglia imminente, così come la borghesia
cominciò con coalizioni parziali contro i signori feudali per
costituirsi come classe e per trasformare, come classe costituita,
la società feudale in quella borghese.
L’antagonismo tra proletariato e borghesia è una lotta di
classe contro classe, una lotta che, portata alla sua più
alta espressione, significa una rivoluzione totale. Il movimento
sociale non esclude quello politico, perché non c’è
nessun movimento politico che non sia anche nello stesso tempo
sociale. Soltanto in una società senza classi le evoluzioni
sociali cesseranno di essere rivoluzioni politiche. Fino ad allora,
alla vigilia di ogni trasformazione generale della società,
l’ultima parola della scienza sociale suonerà sempre: «Il combattimento o la morte; la lotta sanguinosa o il nulla. Cosi
inesorabilmente, è posto il problema». Con questa
frase di George Sand concludeva Marx il suo libro.
Sviluppando in esso il materialismo storico in una serie di aspetti
essenziali, veniva nello stesso tempo a una spiegazione definitiva
con la filosofia tedesca. Egli andava oltre Feuerbach, risalendo a
Hegel. Certamente, la scuola ufficiale di Hegel aveva fatto
completo fallimento. Aveva reso la dialettica del maestro un mero
schema da applicare a ogni e qualsiasi cosa, e abbastanza spesso nel
modo più maldestro. Di questi hegeliani si poteva dire, e lo
si disse effettivamente, che non capivano nulla di nulla, ma
scrivevano di tutto su tutto.
La loro ora era suonata quando Feuerbach aveva liquidato il concetto
speculativo; il contenuto positivo della scienza ebbe di nuovo la
preponderanza sulla parte formale. Ma al materialismo di Feuerbach
mancava il «principio energico»; esso restava
puramente naturalistico e si precludeva il processo storico. Marx
ebbe anche troppa ragione di non essere soddisfatto quando sorsero
i predicatori di questo materialismo, i Bùchner e i Vogt, la
cui gretta mentalità filistea fece dire anche a Feuerbach
che era d’accordo con questo materialismo ma per rivolgersi
indietro, non in avanti. «Il ronzino stecchito del senso
comune borghese si impunta naturalmente imbarazzato davanti alla
fossa che divide l’essere dall’apparire, la causa dall’effetto; ma
se si va a caccia sfrenata sul terreno accidentato del pensiero
astratto, allora non si deve montare un ronzino». E’ un
paragone usato una volta da Engels.
Ma gli hegeliani non erano Hegel; mentre essi si facevano forti
della loro ignoranza, egli aveva appartenuto alle menti più
colte di tutti i tempi. Di fronte a tutti gli altri filosofi, al
fondo del suo pensiero c’era un senso storico che gli ha consentito
una grandiosa concezione della storia, anche se in forma puramente
idealistica vedeva per così dire le cose in uno specchio
concavo, in quanto concepiva la storia del mondo soltanto come una
prova pratica dello sviluppo del pensiero. Di questo contenuto reale
della filosofia hegeliana Feuerbach non era venuto a capo, e gli
hegeliani stessi lo avevano lasciato cadere.
Marx, accogliendolo di nuovo, ma capovolgendolo in quanto moveva non
dal «puro pensiero» ma dalle tenaci cose della
realtà, dette al materialismo la dialettica storica e con
ciò un «principio energico», al quale non
soltanto toccava di spiegare la società, ma anche di
rivoluzionarla.
7.5 La «Deutsche
Brusseler Zeitung»
Marx, che aveva trovato per il suo non molto esteso scritto contro
Proudhon un qualsiasi editore tedesco a Parigi o a Bruxelles, sia
pure pagando le spese di stampa, in quel periodo, nel momento in cui
esso uscì, nel pieno dell’estate del 1847, aveva anche nella
Deutsche Brusseler Zeitung un organo di stampa che gli rendeva
possibile far sentire la sua voce in pubblico.
Questo giornale fu pubblicato sin dal principio dell’anno come
bisettimanale da quell’Adalbert von Bornstedt che a suo tempo
aveva diretto il Vorwärts di Bòrnstein ed era stato al
soldo sia del governo prussiano che di quello austriaco. Questo
fatto è conosciuto oggi grazie agli archivi sia di Berlino
che di Vienna e non può essere messo in dubbio; si tratta al
massimo di sapere se Bornstedt ha seguitato il suo mestiere di spia
anche a Bruxelles. Anche allora si ebbero dei sospetti contro di
lui, ma vennero messi da parte in seguito alle denunzie contro il
giornale di Bornstedt con cui l’ambasciata prussiana a Bruxelles
tempestò le auto rità belghe. Certamente poteva anche
trattarsi di polvere negli occhi, per accreditare Bornstedt presso
gli elementi rivoluzionari che si erano riuniti a Bruxelles; nella
scelta dei mezzi per i loro nobili scopi, i difensori del trono e
dell’altare non si fanno tanti scrupoli.
Comunque Marx non ha creduto che Bornstedt facesse la parte di
Giuda. Pensava che il suo giornale no nostante le sue molte
debolezze, aveva sempre qualche merito; se non lo si trovava
sufficiente, bisognava renderlo tale, invece di prendere il comodo
pretesto di essere scandalizzati per il nome di Bornstedt. L’8
agosto Marx scriveva abbastanza amaramente a Herwegh: «Una
volta non va l’uomo, un’altra la donna, un’altra la tendenza,
un’altra lo stile, un’altra il formato, o magari la diffusione è legata a una dose maggiore o minore di pericolo. I nostri
tedeschi hanno sempre in pectore mille sagge sentenze per dimostrare
la ragione per la quale sono costretti a lasciar passare l’occasione
senza sfruttarla. Un’occasione di far qualcosa non fa altro che
metterli in imbarazzo». Seguiva poi un profondo sospiro per il
fatto che coi manoscritti le cose andavano come per la Brusseler
Zeitung, e una gagliarda maledizione contro quei somari, che gli
rimproveravano di aver scritto in francese piuttosto che non aver
scritto per niente.
Se da questo si dovesse desumere che Marx prendesse un po’ di
sottogamba certe riserve nei riguardi di Bornstedt, per non lasciar
passare «l’occasione senza sfruttarla», neanche per
questo ci sarebbe da fargli alcun rimprovero. L’occasione era
infatti molto favorevole, e sarebbe stato pazzesco lasciarsela
scappare soltanto per un sospetto. Nella primavera del 1847 le
tragiche ristrettezze finanziarie avevano costretto il re di Prussia
a convocare il Landtag unificato, assemblea comune dei precedenti
parlamenti provinciali, insomma una rappresentanza feudale per ceti,
così come nella primavera del 1789 Luigi XVI aveva convocati
sotto lo stesso stimolo. Ora le cose in Prussia non avevano
camminato così in fretta come allora in Francia, ma il
Landtag unificato aveva pur sempre tenuta chiusa la borsa e
dichiarato pari pari al governo che non accordava nessun mezzo prima
che fosse assicurata la periodicità delle sue convo cazioni.
Così le cose si erano messe in moto, perché il
dissesto finanziario non era cosa tale da scherzarci; prima o poi la
danza sarebbe ricominciata daccapo, e quanto prima le si fosse dato
l’avvio, tanto meglio!
Gli articoli che Marx ed Engels fornirono alla Deutsche Brusseler
Zeitung si muovevano appunto in questa cerchia di pensieri. Alle
discussioni del Landtag unificato sulla libertà di commercio
e sul dazio protettivo si rifaceva un articolo che invero
uscì anonimo, ma che, a giudicare dal contenuto e dallo
stile, è evidente mente di Engels. Allora egli era penetrato
dalla convinzione che la borghesia tedesca avesse bisogno di alti
dazi protettivi per non essere schiacciata dall’industria straniera,
ma per acquistare anzi la forza neces saria a superare
l’assolutismo e il feudalesimo. Per questo motivo Engels
raccomandava al proletariato di sostenere l’agitazione per i dazi
protettivi, anche se soltanto per questo motivo. Egli pensava,
sì, che List, l’autorità maggiore dei protezionisti,
aveva pur sempre prodotto quanto di meglio aveva la letteratura
economico borghese in Germania, ma aggiungeva che tutta la sua opera
gloriosa era copiata dal francese Ferrier, fondatore teorico del
sistema continentale, e metteva in guardia gli operai dal lasciarsi
ingannare dalle frasi sul «bene della classe lavoratrice», che sia i libero-scambisti che i protezionisti ostentava
no come smagliante insegna della loro egoistica agitazione. Il
salario della classe lavoratrice rimaneva lo stesso sia col sistema
protettivo che col sistema del libero scambio. Engels difendeva i
dazi protettivi soltanto come «misura borghese
progressiva», e così pure li considerava Marx.
Steso insieme da Marx ed Engels è un articolo più
lungo che respingeva un attacco del socialismo cristia no-feudale.
Questo attacco era stato portato sul Rheinischer Beobachter,
giornale fondato recentemente dal governo a Colonia, per istigare
gli operai renani contro la borghesia renana. Sulle sue colonne il
giova ne Hermann Wagener, come egli stesso ci informa nelle sue
memorie, fece le prime armi. Marx ed Engels, date le loro strette
relazioni con Colonia, dovettero averne sentore, dal momento che il
ritornello della loro risposta è per così dire lo
scherno contro la «testa pelata del consigliere concistoriale». E allora Wagener era assessore concistoriale a Magdeburgo.
Per questa volta il Rheinischer Beobachter si era scelto a pretesto
per adescare gli operai il fallimento del Landtag unificato. La
borghesia, rifiutando tutte le richieste di danaro del governo,
aveva dimostrato che per essa non c’era altro da fare che prendere
in mano il potere dello Stato; il bene del popolo le era
indifferente; essa spingeva avanti il popolo soltanto per intimidire
il governo; per essa il popolo era solo carne da cannone nel grande
assalto contro l’autorità del governo. Quello che Marx ed
Engels rispondevano è estremamente chiaro oggi. Sul conto
della borghesia il proletariato si faceva illusioni come sul conto
del
governo; si trattava soltanto di sapere che cosa fosse utile per i
suoi scopi, il dominio della borghesia o il dominio del governo, e
per rispondere a questa domanda era sufficiente un semplice
confronto tra la situazione degli operai tedeschi e la situazione
degli operai sia inglesi che francesi.
Alle frasi demagogiche del Rheinischer Beobachter: «Popolo
beato! Tu hai davvero vinto sulla questione di principio. E se tu
non comprendi che razza di cosa è questa, lascia che te lo
spieghino i tuoi rappresentanti; durante il lungo discorso forse
dimenticherai la tua fame», Marx ed Engels rispondevano
anzitutto con mordente ironia che dal fatto che queste frasi
sobillatrici erano rimaste impunite si poteva riconoscere che la
stampa tedesca era veramente libera. Ma poi spiegavano che il
proletariato aveva capito così bene la questione di principio
che non rimproverava al Landtag unificato di aver vinto su questo
punto, ma di non aver vinto. Se esso non si fosse limitato
semplicemente a rivendicare l’ampliamento dei suoi diritti
corporativi, ma avesse rivendicato giurie, uguaglianza di fronte
alla legge, abolizione delle corvées, libertà di
stampa, libertà di associazione e una effettiva
rappresentanza popolare, esso avrebbe trovato il più energico
appoggio da parte del proletariato.
Poi si faceva piazza pulita delle chiacchiere bigotte intorno ai
principi sociali del cristianesimo, davanti ai quali il comunismo
avrebbe dovuto sparire. «I principi sociali del cristianesimo
hanno ormai avuto il tempo di svilupparsi per milleottocento anni, e
non hanno bisogno di nessuno sviluppo ulteriore ad opera di
consiglieri concistoriali prussiani. I principi sociali del
cristianesimo hanno giustificato la schiavitù antica,
magnificato la servitù della gleba medievale, e in caso di
necessità sanno anche difendere l’oppressione del
proletariato, sia pure con una smorfia di compassione. I principi
sociali del cristianesimo predicano la necessità di una
classe dominante e di una classe oppressa, e per quest’ultima non
hanno altro che il pio desiderio che l’altra sia benefica. I
principi sociali del cristianesimo pongono in cielo il concistoriale
compenso per tutte le infamie, e giustificano così la
prosecuzione di queste infamie sulla terra. I principi sociali del
cristianesimo spiegano tutte le indegnità perpetrate dagli
oppressori contro gli oppressi o come la giusta punizione per il
peccato originale e per i peccati di ciascuno, o come prove a cui il
Signore, secondo la sua sapienza, condanna gli eletti. I principi
sociali del cristianesimo predicano la vigliaccheria, il disprezzo
di se stessi, l’avvilimento, la sottomissione, l’umiltà,
insomma tutte le caratteristiche della canaglia, e il proletariato,
che non vuole lasciarsi trattare da canaglia, ha bisogno del suo
coraggio, del suo orgoglio, della sua consapevolezza e della sua
indipendenza, ancor più che del suo pane. I principi sociali
del cri stianesimo sono ipocriti, e il proletariato è
rivoluzionario». E proprio questo proletariato rivoluzionario
Marx ed Engels portavano alla lotta contro ogni miraggio di riforma
sociale da parte della monarchia. Il popolo che ringrazia con occhi
lacrimosi per ogni calcio e per ogni soldo ricevuto esiste soltanto
nell’immaginazione del re: il vero popolo, il proletariato,
è, secondo la espressione di Hobbes, un giovanotto robusto e
malizioso; come proceda contro i re che vogliono prenderlo in giro
lo dimostra il destino di Carlo I di Inghilterra e di Luigi XVI di
Francia.
Questo articolo si rovesciò come una grandinata sul seminato
del socialismo feudale, ma alcune gragnuole caddero anche nelle
vicinanze. Per quanto Marx ed Engels difendessero a ragione
l’attività del Landtag unificato, volta a negare a un
governo abbietto e reazionario ogni mezzo finanziario, però
gli facevano un troppo grande onore quando consideravano dallo
stesso punto di vista il rifiuto di un’imposta sul reddito proposta
dal governo. Qui si trattava piuttosto di una trappola che il
governo aveva teso alla borghesia. La proposta di abolire la tassa
sul macinato e sul macellato, estremamente gravosa pei gli operai
delle grandi città, e di compensare il disavanzo finanziario
in primo luogo con un’imposta sul reddito da far pagare alle classi
possidenti, partì originariamente dalla borghesia renana, che
nel far questo si lisciava guidare dagli stessi morivi da cui si era
lasciata guidare la borghesia inglese nella sua lotta contro i dazi
sul grano.
Questa rivendicazione era assolutamente odiosa per il governo, se
non altro perché toccava direttamente le tasche della grande
proprietà fondiaria, senza che questa classe — dato che la
tassa sul macinato e sul macellato riguardava soltanto le grandi
città — potesse attendersi dalla sua. abolizione la riduzione
dei salari del proletariato che essa sfruttava. Il governo tuttavia
presentò al Landtag unificato un progetto di legge in
proposito col secondo fine di rendere impopolare il Landtag e
popolare il governo stesso, che infatti contava sul fatto che
un’assemblea feudale corporativa mai avrebbe accettato una riforma
fiscale che tendesse sia pure provvisoriamente ad alleggerire le
classi lavoratrici a spese delle classi possidenti. E quanto questo
calcolo fosse esatto lo dimostrò già il voto sul suo
progetto di legge, nel quale quasi tutti i principi, quasi tutti
gli Junker e quasi tutti i funzionari votarono contro. Ma in questo
esso ebbe anche la ventura particolare che una parte della borghesia, quando si venne
al dunque, fallì brillantemente.
E allora il rifiuto dell’imposta sul reddito fu sfruttato dalle
penne ufficiose come una prova schiacciante di come la borghesia
giocasse a darla a bere, e soprattutto il Rheinischer Beobachter non
si stancava di insi stere sull’argomento. Se all’incontro Marx ed
Engels facevano osservare al loro «consigliere concistoriale» che egli «era il più grande e svergognato
ignorante di cose economiche» in quanto sosteneva che un’im
posta sul reddito riduceva sia pure di un capello la miseria
sociale, essi avevano perfettamente ragione, ma avevano torto di
difendere il rifiuto dell’imposta sul reddito come un giusto colpo
inferto al governo. Questo colpo non raggiunse affatto il governo,
che finanziariamente ne fu piuttosto consolidato che indebolito, se
conservò nelle sue tasche la sua tassa sul macinato e sul
macellato; redditizia e funzionante con perfetta esattezza, invece
di tormentarsi con un’imposta sul reddito che, stando alle antiche e
alle nuove esperien ze, se deve esser applicata alle classi
possidenti, presenta le sue difficoltà particolari. Marx e
Engels in questo caso hanno ritenuto la borghesia ancora
rivoluzionaria, mentre era già reazionaria.
I veri socialisti procedevano abbastanza spesso in maniera opposta,
ed è abbastanza comprensibile che, in un momento in cui la
borghesia si accingeva alla battaglia, Marx ed Engels ancora una
volta attaccassero questa corrente. Ciò fu fatto in una
serie di feuilletons che Marx pubblicò sulla Deutsche
Brusseler Zeitung contro «il socialismo tedesco in versi e
in prosa», e in un articolo non più stampato, scritto
da Engels ma forse pensato da tutti e due. Nei due lavori si regola
magnificamente il conto col vero socialismo dal punto di vista
estetico-letterario, che era proprio la sua parte più debole
o, se si vuole, più forte. Marx ed Engels, affrontando questa
deformazione artistica, non hanno sempre rispettato abbastanza i
diritti dell’arte; soprattutto nell’articolo manoscritto lo
stupendo Ça ira di Freiligrath viene giudicato con ingiusta
severità. Ma anche i Canti del poveruomo di Karl Beck Marx li
considerò nella Deutsche Brusseler Zeitung alquanto
severamente classificandoli tra le «illusioni
piccolo-borghesi»; tuttavia egli prediceva sin d’allora il
triste destino del pretenzioso naturalismo che doveva affacciarsi
quindici anni dopo, quando scriveva:
«Beck canta la vile miseria piccolo-borghese, il ‘poveruomo’,
il pauvre honteux con i suoi poveri, pii e incoerenti desideri, non
il proletario superbo, minaccioso e rivoluzionario». Accanto a
Karl Beck bisogna mettere ancora l’infelice Grün, che in un
libro oggi da gran tempo dimenticato bistrattava Goethe «dal
punto di vista umano», cioè ricostruiva il «
vero uomo» con tutte le parti meschine, noiose e filistee del
grande poeta.
Più importante di queste scaramucce era una più estesa
trattazione in cui Marx giudicava il corrente radicalismo
frasaiolo non meno aspramente di quanto aveva fatto col socialismo
frasaiolo del governo. In una polemica contro Engels, Karl Heinzen
aveva spiegato per mezzo della violenza l’ingiustizia nei rapporti
di proprietà; aveva chiamato vile e pazzo chiunque
osteggiasse un borghese a causa dei suoi acquisti di denaro e
lasciasse in pace un re a causa del suo acquisto di potere. Heinzen
era un volgare strillone che non meritava una particolare
attenzione, ma l’opinione che egli rappresentava era molto conforme
ai gusti dei filistei «illuminati». La monarchia,
secondo lui, doveva la sua esistenza al fatto che gli uomini per
secoli e secoli avevano fatto a meno del buon senso e della
dignità morale; ma ora che essi erano di nuovo in possesso
di questi beni preziosi, tutti i problemi sociali sarebbero
scomparsi di fronte al problema: mo narchia o repubblica. Questa
ingegnosa concezione era l’esatto corrispondente della ingegnosa
opinione dei principi, secondo cui i movimenti rivoluzionari sono
provocati soltanto dalla malvagità dei demagoghi.
Ora Marx dimostrava, e in prima linea sulla base della storia
tedesca, che la storia fa i principi e non i principi la storia.
Egli indicava le origini economiche della monarchia assoluta, che
compare in quel periodo di trapasso in cui gli antichi ceti feudali
scompaiono e il ceto cittadino medievale cresce fino a divenire la
moderna classe borghese. Che essa in Germania si sia formata
più tardi e duri più a lungo è un fatto dovuto
allo stentato processo di sviluppo della classe borghese tedesca.
Così, per motivi economici. si spiega la massiccia funzione
reazionaria di cui si compiacquero i principi. La monarchia
assoluta, che prima aveva favorito il commercio e l’industria e,
nello stesso tempo, l’affacciarsi della classe borghese, come
condizioni necessarie sia della potenza nazionale che del proprio
splendore, ora si frapponeva sempre sul cammino del commercio e
dell’industria, diventate armi sempre più pericolose nelle
mani di una borghesia già potente. Dalla città, luogo
da cui ebbe origine la sua ascesa, essa getta lo sguardo divenuto
timoroso e spento verso la campagna, concimata dal cadavere degli
antichi suoi giganteschi avversari.
La trattazione è ricca di pensieri fecondi, ma il «
buon senso» dei probi borghesucci non si lasciò
incantare così facilmente. La stessa teoria della violenza
che Marx combatté per Engels contro Heinzen, Engels la
dové combattere per Marx contro Dühring un’intera generazione
più tardi.
7.6 La Lega dei Comunisti
Nel 1847 la colonia comunista di Bruxelles si era sviluppata in modo
imponente.
A dire il vero non vi si trovava nessun talento che potesse
misurarsi con Marx o Engels. Talvolta sembrava che o Moses Hess o
Wilhelm Wolff, che collaboravano tutte due alla Deutsche Brusseler
Zeitung sarebbe divenuto il terzo della partita. Ma alla fine
nessuno de! due lo è diventato. Hess non riuscì mai a
liberarsi dalla ragnatela filosofica, e il modo aspramente offensivo
con cui ilManifesto comunista giudico i suoi scritti portò
alla sua rottura completa con Marx ed Engels.
Più recente era la loro amicizia con Wilhelm Wolff, venuto a
Bruxelles soltanto nella primavera del 1846, ma essa ha resistito a
tutte le tempeste fino a che non la sciolse la morte prematura di
Wolff.
Ma Wolff non era un pensatore originale, e come scrittore, rispetto
a Max ed Engels, non godeva soltanto dei lati buoni della «
maniera popolaresca». Era originario di una famiglia di
contadini della Slesia, servi della gleba per generazioni, ed era
arrivato agli studi universitari attraverso fatiche indicibili, e
lì aveva nutrito sui grandi pensatori e poeti
dell’antichità il suo odio ardente contro gli oppressori
della sua classe. Era stato trascinato dall’una all’altra delle
fortezze slesiane per qualche anno come demagogo, e poi, come
insegnante privato a Breslavia, aveva condotto una instancabile
guerriglia con la burocrazia e la censura, finché, nuovamente
processato, si indusse ad andare all’estero piuttosto che
irrancidire nelle prigioni prussiane.
Sin dal periodo di Breslavia era divenuto amico di Lassalle, come
più tardi di Marx ed Engels, e tutti e tre hanno adornato la
sua tomba con allori che non appassiranno. Wolff apparteneva a
quelle nobili nature che, secondo la parola del poeta, pagano di
persona; il suo carattere saldo quanto una quercia, la sua
fedeltà incorruttibile, la sua severa coscienziosità,
il suo inalterabile disinteresse, la sua tranquilla modestia
facevano di lui un campione di lottatore rivoluzionario e spiegavano
la profonda stima con cui, a parte tutto l’amore e tutto l’odio,
solevano parlare di lui sia i suoi amici politici che i suoi nemici
politici.
Alquanto in seconda linea in confronto a Wilhelm Wolff, faceva parte
del circolo degli intimi di Marx ed Engels il suo omonimo Ferdinand
Wolff; ed anche Ernst Dronke, che aveva scritto un libro eccellente
sulla Berlino prequarantottesca ed era stato condannato a due anni
di fortezza per un presunto reato di lesa maestà in esso
perpetrato, arrivò soltanto alla dodicesima ora dopo la sua
fuga dalle casematte di Wesel. Apparteneva poi alla cerchia
più intima anche Georg Weerth, che Engels conosceva sin dal
tempo in cui viveva a Manchester, e Weerth, anche lui impiegato in
una ditta tedesca, a Bradford. Weerth era un autentico poeta, e
appunto per questo privo di ogni pedanteria propria della
corporazione dei poeti; anche egli è scomparso per morte
prematura, e nessuna mano pietosa ha raccolto finora i versi che
egli cantò con lo spirito del proletariato in lotta e
disperse senza curarsene.
Intorno a questi lavoratori dello spirito si riunivano poi abili
lavoratori del braccio, primi di tutti Karl Wallau e Stephan Born,
i due tipografi della Deutsche Brusseler Zeitung.
Inoltre Bruxelles, capitale di uno Stato che si atteggiava a modello
di monarchia borghese, era il luogo più adatto per allacciare
relazioni internazionali, perlomeno finché Parigi, che era
sempre il centro della rivoluzione, restava sotto l’oppressione
delle famigerate leggi di settembre. Nel Belgio stesso Marx ed
Engels avevano buone relazioni con gli uomini della rivoluzione del
1830; in Germania, soprattutto a Co lonia, contavano vecchi e nuovi
amici, accanto a Georg Jung soprattutto i medici d’Ester e Daniels;
a Parigi, Engels si legò al partito socialista-democratico e
soprattutto ai suoi rappresentanti ideologici, Louis Blanc e
Ferdinand Flocon, che dirigeva l’organo di questo partito, la
Réforme. Relazioni anche più strette esistevano con la
frazione rivoluzionaria dei cartisti, con Julian Harney, direttore
del Northern Star, e con Ernest Jones, che era stato educato in
Germania. Sotto l’influsso spirituale di questi dirigenti cartisti
vivevano i Fraternal Democrats, organizzazione internazionale nella
quale, attraverso Karl Schapper, Josef Moli e altri membri, era
rappresentata anche la Lega dei Giusti.
Ora, proprio da questa Lega partì nel gennaio 1847 la spinta
decisiva. Essa, in quanto «Comitato comunista di corrispondenza di Londra», era legata con il
«Comitato di corrispondenza di Bruxelles», ma i rapporti
reciproci erano molto freddi. Da una parte regnava una certa
diffidenza verso i «dotti» che non riuscivano ancora a
sapere di che cosa propriamente soffrisse il proletariato,
dall’altra parte la diffidenza contro i «vagabondi»,
cioè contro la limitatezza artigianesca-corporativa che era
ancora fortissima tra gli operai tedeschi di allora. Engels, che a
Parigi aveva il suo bel da fare a sottrarre i «vagabondi» di là all’influsso di Proudhon e di Weitling,
riteneva invero che i «vagabondi» di Londra fossero i
soli coi quali si potesse trattare, ma di fronte a un indirizzo che
la Lega dei Giusti aveva diramato nell’autunno del 1846 a proposito
della questione dello Schleswig-Holstein dichiarò pari pari
che era uno «sconcio»; i suoi autori avevano appreso
dagli inglesi per l’appunto le balordaggini: la totale ignoranza di
tutta la situazione realmente esistente e l’incapacità di
concepire uno sviluppo storico.
Più di un decennio dopo, Marx così si espresse sulla
sua posizione di allora nei riguardi della Lega dei Giusti
: «Noi pubblicammo contemporaneamente una serie di pamphlets
in parte stampati, in parte litografati, nei quali quel miscuglio di
socialismo o comunismo franco-inglese e di filosofia tedesca, che
allora costituiva la dottrina segreta della Lega, era sottoposto ad
una critica spietata, e in sua vece si prospettava cerne unica base
teorica solida una considerazione scientifica della struttura
economica della società borghese, e infine si spiegava in
forma popolare come non si trattasse di attuare un qualche sistema
utopistico, ma di partecipare consapevolmente al processo di
rivoluzionamento della soci età che si andava svolgendo
sotto i nostri occhi». Alla efficacia di queste prese di
posizione Marx attribuiva il fatto che la Lega dei Comunisti
inviasse a Bruxelles nel gennaio del 1847 uno dei membri del suo
Comitato centrale, l’orologiaio Josef Moli, per invitare lui ed
Engels a entrare nella Lega che aveva intenzione di accettare la
loro concezione.
Purtroppo non si è conservato nessuno degli opuscoli di cui
Marx parla, eccetto la circolare contro Kriege, che fra l’altro
viene preso in giro come emissario e profeta di una lega segreta di
Esseni, la «Lega della giustizia». Kriege mistificava
lo sviluppo storico reale del comunismo nei diversi paesi d’Europa
descri vendo la sua origine e i suoi progressi sulla base di
intrighi favolosi e romanzeschi, del tutto campati in ara, di
questa Lega di Esseni e diffondendo le più folli fantasie
circa la sua forza.
Se la circolare ha avuto efficacia sulla Lega dei Giusti, essa ha
dimostrato proprio con questo che i suoi membri erano qualcosa di
più che dei «vagabondi», e che essi avevano
appreso dalla storia inglese qualcosa di meglio di quello che
Engels supponeva. Essi seppero apprezzare la circolare, per quanto
poco amichevolmente vi fosse citata la loro Lega di Esseni, meglio
di quanto non fece Weitling, che non vi era affatto tartassato, ma
che si schierò subito dalla parte di Kriege. In realtà
la Lega dei Giusti, data la possibilità di contatti
internazionali offerti da Londra, si era conservata più
fresca e più potente delle sezioni di Zurigo e anche di
Parigi. Destinata inizialmente alla propaganda tra gli operai
tedeschi, in quella capitale del mondo aveva preso un carattere
internazionale. Nelle continue relazioni con profughi di tutti i
paesi del mondo, e al cospetto del movimento cartista, che alzava
ondate sempre più possenti, i suoi dirigenti acquistarono
una capacità di guardare lontano, che oltrepassava di gran
lunga le posizioni artigianesche. Accanto ai vecchi dirigenti
Schapper, Bauer e Moli, e più di loro, si fecero luce il
miniaturista Karl Pfànder di Heilbronn e il sarto Georg
Eccarius della Turingia per le loro doti di comprensione ideologica.
La procura scritta di mano di Schapper e datata al 20 gennaio 1847,
con la quale Moli si presentò a Bruxelles da Marx e poi a
Parigi da Engels, è redatta ancora in modo molto circospetto;
essa autorizza il latore a dare informazioni sulla situazione della
Lega e a fornire esatta informazione su tutti gli argomenti
d’importanza. A voce Moli si espresse più liberamente.
Egli invitò Marx ad entrare nella Lega e superò le sue
remore iniziali comunicandogli che i dirigenti centrali avevano
l’intenzione di convocare a Londra un congresso della Lega, per
presentare in un pubblico manifesto come dottrina della Lega le
opinioni critiche sostenute da Marx e da Engels. Tuttavia Marx ed
Engels dovevano aiutare a contrastare gli elementi ormai invecchiati
e recalcitranti, e per questo fine dovevano entrare nella Lega.
Così si decisero a entrarvi. Tuttavia, nel congresso che ebbe
luogo nell’estate del 1847, si giunse soltanto a un’organizzazione
democratica della Lega, come si confaceva a un’associazione di
propaganda che vo leva sì agire in segreto, ma che si teneva
lontana da ogni attività di tipo cospiratorio. La Lega si
organizzò in comunità che non dovevano contare meno di
tre e più di dieci membri, in circoli, circoli direttivi,
comitato centrale e congresso. Suo scopo fu dichiarato
l’abbattimento cella borghesia, il dominio del proletariato,
l’abolizione della vecchia società fondata sugli antagonismi
di classe, la fondazione di una nuova società senza classi e
senza proprietà privata.
Era conforme al carattere democratico della Lega, che da questo
momento si chiamò Lega dei Comunisti, che i nuovi statuti
fossero prima sottoposti alla discussione delle singole
comunità. La decisione definitiva su di essi fu rinviata a
un secondo congresso, che avrebbe dovuto aver luogo prima della fine
dell’anno e deliberare insieme il nuovo programma della Lega. Marx
non partecipò al primo congresso, ma Engels sì, come
rappresentante delle comunità parigine, e Wolff come
rappresentante delle comunità di Bruxelles.
7.7 Propaganda a Bruxelles
La Lega dei Comunisti considerava suo primo compito fondare
associazioni culturali di operai tedeschi che le rendessero
possibile una propaganda pubblica, allo scopo di completarsi ed
estendersi partendo dai suoi membri più idonei.
Il funzionamento di queste associazioni era dappertutto lo stesso.
Un giorno alla settimana era destina to alla discussione, un altro
ai trattenimenti sociali (canto, recitazione ecc.). Dappertutto
furono istituite biblioteche sociali e, dove possibile, classi per
l’istruzione elementare degli operai.
Secondo questo modello fu poi istituita anche l’Associazione operaia
tedesca, che sorse a Bruxelles alla fine di agosto e contò
presto un centinaio di membri. Presidenti ne erano Moses Hess e
Wallau, segretario era Wilhelm Wolff. L’Associazione si riuniva il
mercoledì e la domenica sera. Il mercoledì si
discutevano questioni importanti riguardanti gli interessi del
proletariato, la domenica sera Wolff soleva fare la sua ras segna
politica settimanale, nella quale egli dispiegò ben presto
una particolare capacità; poi seguiva il trattenimento
sociale, al quale prendevano parte anche le donne.
Il 27 settembre questa Associazione organizzò un banchetto
internazionale per dimostrare che gli ope rai di diversi paesi
nutrivano sentimenti fraterni gli uni verso gli altri. Allora si
preferiva scegliere la forma dei banchetti per la propaganda
politica onde sfuggire ai controlli polizieschi sulle pubbliche
riunioni. Il banchetto del 27 settembre aveva però anche
un’origine e uno scopo particolare. Esso fu organizzato da Bornstedt
e da altri elementi scontenti della colonia tedesca, come scriveva
Engels, che vi presenziò, a Marx assente, «per
degradare tutti noi a una parte secondaria di fronte... ai
democratici belgi... e far nascere un’associazione molto più
grandiosa e universale della nostra meschina Associazione operaia» 1. Engels tuttavia seppe sventare a tempo l’intrigo; fu
addirittura eletto a uno dei due posti di vicepresidente accanto al
francese Imbert, nonostante la sua resistenza per il fatto che
«aveva un aspetto così maledetta mente
giovanile», mentre la presidenza onoraria del banchetto fu
data al generale Mellinet e la presidenza effettiva all’avvocato
Jottrand, vecchi combattenti della rivoluzione belga del 1830.
Partecipavano al banchetto centoventi ospiti: belgi, tedeschi,
svizzeri, francesi, polacchi, italiani ed anche un russo. Dopo i
soliti discorsi, si decise di fondare in Belgio un’associazione
degli amici della riforma sul modello dei Fraternal democrats. Nel
comitato promotore fu eletto anche Engels. Poiché egli
lasciò subito dopo Bruxelles, raccomandò in una
lettera a Jottrand di chiamare al suo posto Marx, che sarebbe stato
eletto senza dubbio se avesse potuto esser presente all’assemblea
del 27 settembre. «Non sarebbe dunque il signor Marx a
sostituirmi, ero piuttosto io che alla riunione ho sostituito il
signor Marx». In realtà, quando il 7 e il 15 novembre
si costituì definitivamente l’«Associazione
democratica per l’unificazione di tutti i paesi», Imbert e
Marx vennero eletti vicepresidenti, mentre Mellinet fu confermato
presidente onorario e Jottrand presidente effettivo. Lo statuto era
sottoscritto da democratici belgi, tedeschi, francesi e polacchi,
in tutto circa sessanta nomi; di tedeschi, oltre Marx, vi si
trovavano Moses Hess, Georg Weerth, i due Wolff, Stephan Born e
anche Bornstedt.
La prima grande manifestazione dell’Associazione democratica fu la
celebrazione dell’anniversario della rivoluzione polacca il 29
novembre. Per i tedeschi parlò Stephan Born, che ebbe grandi
applausi Ma Marx parlò come rappresentante ufficiale
dell’Associazione nel meeting che i Fraternal democrats
organizzarono a Londra nello stesso giorno e per lo stesso motivo.
Egli dette al suo discorso un’impostazione asso lutamente
proletario-rivoluzionaria. «La vecchia Polonia è
perduta, c noi saremo gli ultimi ad auspicare la sua ricostituzione.
Ma non soltanto la vecchia Polonia è perduta, ma la vecchia
Germania, la vecchia Francia, la vecchia Inghilterra, tutta la
vecchia società è perduta. La perdita della vecchia
società non è però una perdita per coloro che
non hanno nulla da perdere nella vecchia società, e in tutti
i paesi è ora così per la grande maggioranza». Nella vittoria del proletariato
sulla borghesia Marx vedeva il segnale della liberazione per tutte
le nazionalità oppresse, e nella vittoria dei proletari
inglesi sulla borghesia inglese egli vedeva il colpo decisivo per la
vittoria di tutti gli oppressi sui loro oppressori. La Polonia non
doveva essere liberata in Polonia, ma in Inghilterra. Se i cartisti
battevano i loro nemici interni, avrebbero battuto l’intera
società.
Nella risposta all’indirizzo presentato da Marx, i Fraternal
Democrats tennero lo stesso tono. «Il vostro rappresentante,
il nostro amico e fratello Marx, vi racconterà con quale
entusiasmo noi abbiamo salutato la sua comparsa e la lettura del
vostro indirizzo. Tutti gli occhi lampeggiavano di gioia, tutte le
voci gridavano il benvenuto, tutte le mani si tendevano
fraternamente verso il vostro rappresentante.... Noi accettiamo coi
sensi della gioia più viva l’alleanza che voi ci offrite. La
nostra associazione esiste da più di due anni con la parola
d’ordine: Tutti gli uomini sono fratelli. In occasione della nostra
ultima festa nell’anniversario della nostra fondazione, noi abbiamo
raccomandato la costituzione di un congresso democratico di tutte
le nazioni, e siamo lieti di udire che voi avete fatto pubblicamente
le stesse proposte. La congiura dei re dev’essere combattuta dalla
congiura dei popoli... Noi siamo convinti che ci si deve rivolgere
al vero popolo, ai proletari, agli uomini che versano giornalmente
il loro sangue e il loro sudore sotto l’oppressione dell’attuale
sistema sociale, per fondare la fratellanza universale.... Dalla
capanna, dalla soffitta o dalla cantina, dall’aratro, dalla
fabbrica, dall’incudine si potranno vedere, anzi già si
vedono venire per la stessa strada i portatori della
fraternità e gli eletti salvatori dell’umanità». I
Fraternal Democrats proponevano di tenere il congresso democratico
universale a Bruxelles nel settembre del 1848, in un certo modo
come contraltare al congresso libero-scambista che aveva avuto
luogo nella stessa città nel settembre del 1847.
Tuttavia il saluto ai Fraternal Democrats non era l’unico scopo che
aveva portato Marx a Londra. Subito dopo il meeting polacco, nello
stesso locale, la saia delle riunioni dell’Associazione comunista
operaia di cultura, che era stata fondata nel 1840 da Schapper,
Bauer e Moli, ebbe luogo il congresso convocato dalla Lega dei
Comunisti per approvare definitivamente i nuovi statuti e per
discutere il nuovo programma. Anche Engels partecipò a questo
congresso; egli si era incontrato con Marx a Ostenda, venendo da
Parigi, il 27 novembre, e avevano fatto insieme il viaggio per mare.
Dopo una discussione durata almeno dieci giorni, essi ottennero
l’incarico di riassumere in un manifesto pubblico i principi
fondamentali del comunismo.
Verso la metà di dicembre Marx tornò a Bruxelles ed
Engels a Parigi. Pare che essi non dimostrassero troppa fretta di
eseguire l’incarico avuto; perlomeno il 24 gennaio 1848, il
Comitato centrale di Londra fece pervenire al comitato del circolo
di Bruxelles un ammonimento molto energico in base al quale si
doveva significare al cittadino Marx che se il Manifesto del Partito
Comunista, della cui redazione egli si era assunto l’incarico, non
fosse pervenuto a Londra entro il 1◦ febbraio, sarebbero stati presi
ulteriori provvedimenti contro di lui. E’ ormai difficile stabilire
che cosa possa aver provocato il ritardo; il modo di lavorate di
Marx, così impegnativo e approfondito, o la sua lontananza
da Engels; forse quelli di Londra si spazientirono anche alla
notizia che Marx lavorava intensamente a Bruxelles alla sua
propaganda.
Il 9 gennaio 1848 Marx tenne nell’Associazione democratica un
discorso sul libero scambio. Egli avrebbe voluto tenere lo stesso
discorso già al congresso libero-scambista di Bruxelles, ma
non era riuscito ad aver la parola. Quello che egli dimostrava e
confutava in questo discorso era l’inganno perpetrato dai li
bero-scambisti col «bene degli operai», che essi
sostenevano fosse lo stimolo della loro agitazione. Ma se il libero
scambio favoriva in assoluto il capitale a scapito degli operai,
tuttavia Marx non disconosceva — e non lo disconosceva proprio
per questo — che esso corrispondeva ai fondamenti dell’economia borghese. Era la libertà del capitale che abbatteva i confini
nazionali entro i quali restava ancora impedito, per svincolare
totalmente la propria attività. Esso spezzava le antiche
nazionalità e spingeva all’estremo il contrasto tra borghesia
e proletariato. Con ciò esso affrettava la rivoluzione
sociale; e, in questo senso rivoluzionario, Marx era d’accordo col
sistema della libertà di commercio.
Nello stesso tempo egli si schermiva dal sospetto di nutrire
tendenze protezionistiche, e pur approvando il libero scambio, non
entrava affatto in contraddizione colla sua valutazione dei dazi
protettivi tedeschi corre di una «misura borghese progressiva». Come Engels, Marx considerava tutta la questione del libero
scambio e del protezionismo da una posizione puramente
rivoluzionaria. La borghesia tedesca aveva bisogno di dazi
protettivi come di un’arma contro l’assolutismo e il feudalesimo,
come di un mezzo per concentrare le sue forze, per attuare il libero
scambio all’interno del paese, per promuovere la grande industria,
che ben presto avrebbe finito col dipendere dal commercio mondiale,
cioè più o meno dal libero scambio. Del resto il discorso trovò il vivo consenso
dell’Associazione democratica, che decise di farlo stampare a sue
spese in francese e in fiammingo.
Più significative e più importanti di questo discorso
furono le conferenze che Marx tenne nell’Associazione operaia
tedesca sul tema Lavoro salariato e capitale. Marx partiva dal fatto
che il salario lavorativo non è una partecipazione
dell’operaio alla merce da lui prodotta, ma la parte della merce
già esistente, con cui il capitalista si compra una
determinata quantità di lavoro produttivo. Il prezzo del
lavoro viene determinato come il prezzo di ogni altra merce: dai
suoi costi di produzione. Il costo di produzione del lavoro semplice
ammonta alle spese per il mantenimento e per la propagazione della
specie dell’operaio. Il prezzo di queste spese costituisce il
salario lavorativo, che a causa delle oscillazioni della
concorrenza sta ora al di sopra ora al di sotto dei costi di
produzione, come il prezzo di ogni altra merce, ma entro queste
oscillazioni tende a stabilirsi sul minimo salariale.
Marx esaminava quindi il capitale. Alla spiegazione degli economisti
borghesi, secondo cui il capitale è lavoro accumulato, egli
rispondeva: «Che cos’è uno schiavo negro? Un uomo di
razza nera. Una spiega zione vale l’altra. Un negro è un
negro. Soltanto in determinate condizioni egli diventa uno schiavo.
Una macchina filatrice di cotone è una macchina per filare il
cotone. Soltanto in determinate condizioni essa diventa
capitale. Sottratta a queste condizioni essa non è un
capitale, allo stesso modo che l’oro in sé e per sé
non è denaro e lo zucchero non il prezzo dello
zucchero» . Il capitale è un rapporto sociale di
produzione, un rapporto di produzione della società borghese.
Una quantità di merci, di valori di scambio, diventa capitale
per il fatto che come forza sociale indipendente, cioè come
la forza di una parte della società, si conserva e si
accresce mediante lo scambio con l’immediata forza di lavoro
vivente. «L’esistenza di una classe che non possiede
nient’altro che la capacità di lavorare, è una
premessa necessaria del ca pitale. Soltanto il dominio del lavoro
accumulato, passato, materializzato, il lavoro immediato, vivente,
fa del lavoro accumulato capitale. Il Capitale non consiste nel
fatto che il lavoro accumulato serve al lavoro vivente come mezzo
per una nuova produzione. Esso consiste nel fatto Che il lavoro
vivente serve al lavoro accumulato come mezzo per conservare e per
accrescere il suo valore di scambio». Capitale e lavoro li
condizionano reciprocamente, si producono reciprocamente.
Da ciò gli economisti borghesi traggono la conseguenza che
l’interesse dei capitalisti e quello degli operai sono lo stesso,
e, certo, bisogna convenire che l’operaio è rovinato se il
capitale non lo occupa, e il ca pitale va in malora se non sfrutta
l’operaio. Quanto più rapidamente si accresce il capitale
produttivo, quanto più è perciò fiorente
l’industria, quanto più la borghesia si arricchisce, di tanti
più operai ha bisogno il capitalista, tanto più caro
si vende l’operaio. Perciò la condizione indispensabile per
una situazione passabile dell’operaio è l’incremento
più rapido possibile del capitale produttivo.
Marx spiegava che in questo caso un aumento sensibile del salario
lavorativo presuppone un incremento tanto più rapido del
capitale produttivo. Se cresce il capitale, per quanto salga il
salario lavorativo, tanto più rapidamente sale il profitto
del capitale. La situazione materiale dell’operaio si è
migliorata ma a scapito della sua situazione sociale: l’abisso
sociale che le separa dal capitalista si è approfondito. Che
la condi zione più favorevole per il lavoro salariato
è l’incremento più rapido possibile del capitale,
significa soltanto: quanto maggiore è la rapidità con
cui la classe operaia accresce e aumenta la forza a lei avversa, la
ric chezza altrui che la signoreggia, tanto più favorevoli
sono le condizioni in cui le viene permesso di lavorare di nuovo
all’accrescimento della potenza del capitale, soddisfatta di
saldarsi da sé le catene d’oro con cui la borghesia la
trascina dietro di sé.
Però, prosegue Marx, il fatto si è che incremento del
capitale e l’aumento del salario lavorativo non sono affatto legati
così indissolubilmente come sostengono gli economisti
borghesi. Non è vero che quanto più il capitale
s’ingrassa tanto meglio viene ingrassato il suo schiavo.
L’incremento del capitale produttivo comprende in sé
l’accumulazione e la concentrazione dei capitali. Il loro
accentramento porta con sé una maggiore divisione del lavoro
e un uso più intenso delle macchine. La maggiore divisione
del lavoro distrugge la particolare abilità del operaio;
sostituendo a questa particolare abilità un lavoro che
ciascuno può eseguire, essa aumenta la concorrenza tra gli
operai.
Questa concorrenza diventa tanto più forte quanto più
la divisione del lavoro rende possibile al singole operaio di
eseguire il lavoro di tre operai. Lo stesso risultato lo hanno le
macchine in grado anche molto maggiore. L’incremento del capitale
produttivo costringe i capitalisti industriali a lavorare con mezzi
sempre crescenti; così rovina i piccoli industriali e li respinge
tra il proletariato. Inoltre poiché il tasso dell’interesse
cade nella misura in cui i capitali si accumulano, i piccoli
redditieri, che non possono più vivere sulle loro rendite, si
rivolgeremo all’industria e aumenteranno il numero dei proletari.
Infine, quanto più il capitale produttivo cresce, tanto
più è costretto a produrre per un mercato di cui non
conosce i bisogni. Tanto più la produzione precede il
bisogno, tanto più l’offerta cerca di forzare la domanda,
tanto più crescono di frequenza e di violenza le crisi, quei
terremoti industriali, dai quali il commercio mondiale ora si salva
sacrificando agli dei dell’Averno una parte della ricchezza, dei
profitti e persino delle forze produttive. Il capitale non vive
soltanto del lavoro. Un signore nobile insieme e barbarico lo
trascina con sé nel sepolcro ove sono i cadaveri dei suoi
schiavi, intere ecatombe di operai che periscono nelle crisi. E
Marx così si riassume: se il capitale cresce rapidamente,
cresce in modo incomparabilmente più rapido la concorrenza
fra gli operai, cioè sempre più diminuiscono
proporzionalmente i mezzi di occupazione, i mezzi di sussistenza per
la classe operaia, e ad onta di ciò il rapido aumento del
capitale è la condizione più favorevole per il lavoro
salariato.
Purtroppo si è conservato soltanto questo frammento delle
conferenze che Marx tenne agli operai tedeschi in Bruxelles. Ma
è sufficiente per mostrare con che serietà e con che
profondità di pensiero egli svolgesse questa propaganda.
Bakunin che, espulso dalla Francia per un discorso da lui tenuto
nell’anniversario cella rivoluzione polacca, era arrivato a
Bruxelles proprio in quei giorni, ne dava, certo, un giudizio di
verso. Il 28 dicembre 1847 egli così scriveva a un amico
russo: «Marx qui seguita a fare le stesse cose di prima,
corrompe gli operai facendone dei chiacchieroni. La stessa pazzia
teorica e la stessa inappagata vanagloria», e anche peggio
poi parlava di Marx ed Engels in una lettera a Herwegh: «In
una parola, menzogne e idiozie, idiozie e menzogne. In questa
compagnia non c’è alcuna possibilità di respirare
libe ramente. Io me ne tengo lontano e ho dichiarato
fermissimamente che me ne vado dalla loro Associazione operaia
comunista e non voglio avere più nulla a che fare con
essa».
Queste espressioni di Bakunin sono degne di nota non per quel che
contengono di irritazione personale — Bakunin infatti, sia prima che
poi, venne giudicato diversamente Marx — ma perché in esse si
annunciava quel contrasto che doveva portare a lotte violente tra
questi due rivoluzionari.
7.8 Il «Manifesto
comunista»
Nel frattempo anche il manoscritto del Manifesto comunista era stato
mandato a Londra per la stampa. Lavori preparatori non ne erano
mancati già dopo il primo congresso, che aveva rinviato a un
secondo congresso la deliberazione di un programma comunista. Era ovvio che i
teorici del movimento si occupassero di questo compito. Marx ed
Engels, ed anche Hess, hanno steso alcuni primi abbozzi del genere.
Ma si è conservato soltanto l’abbozzo a proposito del quale
Engels scriveva a Marx il 24 novembre 1847, cioè poco prima
del secondo congresso: «Pensa un po’ alla professione di
fede. Io credo che facciamo la cosa migliore se abbandoniamo la
forma di catechismo e intitoliamo la cosa: Manifesto comunista. Dato
che bisogna più o meno narrare la storia, la forma usata
finora non si adatta per nulla. Porterò con me quella di qui
che ho fatto io, è semplicemente narrativa, ma redatta in
modo miserabile, con una fretta tremenda». Engels aggiungeva
che l’abbozzo non era stato ancora sottoposto al giudizio delle
comunità parigine, ma che sperava di farlo passare, a parte
alcune minuzie da nulla.
Esso è redatto ancora proprio nella forma di catechismo che
in ogni caso avrebbe aiutato, piuttosto che compromesso, la sua
grande accessibilità per l’uomo comune. Per gli scopi
dell’agitazione immediata, esso sarebbe stato più adatto del
Manifesto scritto poi, col quale coincide perfettamente per quanto
riguarda il contenuto ideologico. Nondimeno Engels sacrificando del
tutto le sue venticinque domande e risposte a favore di uno studio
storico, dette una prova della sua coscienziosità: il
Manifesto, nel quale il comunismo si annunciava come fenomeno
storico mondiale, doveva — secondo le parole dello storico greco —
essere un’opera di importanza duratura e non uno scritto polemico
per il lettore distratto.
E’ infatti anche la sua forma classica che ha assicurato al
Manifesto comunista il suo posto stabile nella letteratura
mondiale. E non perché si debba con ciò fare una
concessione a quegli strani originali che,
estraendone singole frasi, hanno preteso di dimostrare che gli
autori del Manifesto avrebbero plagiato Carlyle o Gibbon o Sismondi, o chissà chi altro. Questo non è che polvere
negli occhi, e per questo riguardo il Manifesto è tanto
indipendente e originale quanto non lo è mai stata
nessun’opera. Ma tuttavia esso non contiene nessun pensiero che Marx
ed Engels non avessero già espresso nei loro scritti
precedenti. Il Manifesto non fu una nuova rivelazione; soltanto
riassumeva la nuova concezione del mondo dei suoi autori in uno
specchio la cui luce non poteva essere più chiara e la cui
cornice più stretta. Per quello che lo stile ci consente di
giudicare, Marx ha avuto la parte maggiore nel dargli la forma
definitiva, sebbene Engels, come il suo abbozzo dimostra, non stesse
affatto su di un livello ideologico inferiore, e debba con lo stesso
buon diritto esserne considerato, anch’egli, autore.
Da quando uscì il Manifesto sono passati due terzi di secolo,
e questi sei o sette decenni sono stati un periodo di possenti
rivolgimenti economici e politici, che non sono passati senza
lasciar traccia sul Manifesto. Per certi aspetti lo sviluppo
storico si è compiuto altrimenti, e soprattutto più
lentamente di quanto i suoi autori non supponessero.
Quanto più il loro sguardo si spingeva in avanti, tanto
più le cose apparivano loro vicine. Si può dire che
non si poteva avere la luce senza queste ombre. E’ un fenomeno
psicologico che Lessing ha già notato negli uomini che
lanciano «sguardi molto giusti nel futuro»: «
Quello per cui la natura si prende millenni di tempo, deve maturarsi
nel breve attimo della loro esistenza». Ora, Marx ed Engels
non si sono sbagliati di millenni, ma certo di parecchi decenni. Nel
concepire il Manifesto essi vedevano lo sviluppo del modo di
produzione capitalistico ad un grado tale che esso ha appena
raggiunto oggi. Ed Engels si esprimeva nel suo abbozzo in modo anche
più crudo che nel Manifesto stesso, là dove diceva che
nei paesi civili in quasi tutti i rami della produzione veniva
attuato il sistema di fabbrica, e che in quasi tutti i rami della
produzione l’artigianato e la manifattura erano stati soppiantati
dalla grande industria.
In singolare contrasto con questo stava la consistenza relativamente
meschina dei partiti operai che il Manifesto comunista poté
registrare.
Perfino il più notevole di essi, il cartismo inglese, era
ancora fortemente impregnato di elementi picco lo-borghesi, e tanto
più lo era il partito socialista democratico di Francia. I
radicali della Svizzera e quei rivoluzionari polacchi per i quali
l’emancipazione dei contadini era la condizione preliminare della
liberazione nazionale, erano soltanto ombre. Più tardi gli
autori stessi hanno indicato quale ristretto territorio di
diffusione avesse allora il movimento proletario, e sottolineato in
particolare l’assenza della Russia e degli Stati Uniti. «
Erano i tempi in cui la Russia costituiva l’ultima grande riserva
di tutta la reazione europea e l’emigrazione negli Stati Uniti
assorbiva le forze esuberanti del proletariato europeo. Entrambi
quei paesi rifornivano l’Europa di materie prime e le servivano al
tempo stesso di mercato per i suoi prodotti industriali.
Così entrambi, in un modo o nell’altro, erano dei bastioni
dell’ordine sociale esistente in Europa». Come era cambiato
tutto ciò già dopo una generazione, e così
completamente oggi ! Ma è davvero una confuta zione del
Manifesto la constatazione che la «funzione altamente
rivoluzionaria» che esso attribuisce al modo di produzione
capitalistico ebbe un respiro più lungo di quanto non gli
attribuissero i suoi autori?
E’ legato con questo il fatto che la descrizione avvincente e
grandiosa che il primo capitolo del Manifesto traccia della lotta
di classe tra la borghesia e il proletariato nelle sue linee
fondamentali è invero di insu perabile verità, ma
tratta in modo fin troppo sommario il processo di questa lotta. Oggi
non si può porre la questione in questi termini generali, che
l’operaio moderno — a differenza dalle classi oppresse del passato,
a cui erano state assicurate le condizioni entro le quali esse
potevano almeno aver sicura la loro esistenza servile — invece di
elevarsi col progresso dell’industria, precipita sempre più
profondamente al di sotto delle condizioni della sua stessa classe.
Per quanto il modo di produzione capitalistico presenti questa
tendenza, tuttavia larghi strati della classe operaia hanno saputo
assicurarsi, anche sul terreno del la società capitalistica,
un’esistenza che si eleva addirittura al di sopra del livello di
esistenza di certi strati piccolo-borghesi.
Ci si dovrà certo guardare dall’inseguire perciò coi
critici borghesi la caducità della «teoria
dell’immiserimento» che sarebbe stata proclamata dal
Manifesto comunista. Questa teoria, l’asserzione cioè
che il modo di produzione capitalistico immiserirebbe le masse delle
nazioni in cui esso predomina, era stata avanzata lungo tempo
prima che apparisse il Manifesto comunista, anzi prima che Marx ed
Engels prendessero la penna in mano. Essa era stata avanzata da
pensatori socialisti, da politici radicali, anzi prima di tutti da economisti borghesi. La legge della popolazione di
Malthus si affannava a coonestare la «teoria
dell’immiserimento» come una legge naturale eterna. La
«teoria dell’immiserimento» rispecchiava una prassi
contro la quale inciampava perfino la legislazione delle classi
dominanti. Si fabbricavano leggi sui poveri e si costruivano
bastiglie per i poveri, nelle quali l’immiserimento veniva
considerato come una colpa dei poveri e come tale veniva punito.
Questa «teoria dell’immiserimento» l’hanno tanto poco
inventa ta Marx ed Engels che essi le si sono anzi opposti fin dal
principio, non certo in quanto essi combattessero la realtà
incontrovertibile e universalmente riconosciuta dell’immiserimento,
ma in quanto dimostrarono che questo immiserimento non era una legge
naturale eterna, ma un fenomeno storico che poteva essere
eliminato, e lo sarà, grazie agli effetti dello stesso modo
di produzione che l’aveva generato.
Se si vuole levare un’accusa contro il Manifesto comunista partendo
da queste posizioni, si può mirare soltanto al fatto che esso
non si era ancora abbastanza liberato dall’impostazione della teoria
borghese del l’«immiserimento». Esso stava ancora
sulle posizioni della legge dei salari, così come l’aveva
sviluppata Ricardo partendo dalla teoria della popolazione di
Malthus; perciò dava un giudizio troppo svalutativo sulle
lotte salariali e sulle organizzazioni sindacali degli operai, nelle
quali riconosceva essenzialmente soltanto la piazza d’armi e il
campo di manovra della lotta politica di classe. Nella legge inglese
sulle dieci ore Marx ed Engels non riconoscevano ancora, come fecero
più tardi, la «vittoria di un principio»;
partendo da premesse capitalistiche essa era ai loro occhi soltanto
una catena reazionaria per la grande industria. Insomma il Manifesto
non riconosceva ancora nelle leggi di fabbrica e nelle
organizzazioni sindacali le tappe della lotta per l’emancipazione
del proletariato, che dovrà rivoluzionare la società
capitalistica nella società socialista e che sarà
combattuta fino alla sua meta ultima, se non si vuole che vadano
perduti anche i primi successi faticosamente conquistati.
Conformemente a ciò il Manifesto considerava la reazione del
proletariato alle tendenze all’immiserimento insite nel modo di
produzione capitalistico, troppo unilateralmente alla luce di una
rivoluzione politica. Davanti ad esso aleggiavano gli esempi della
rivoluzione inglese e francese; esso attendeva alcuni decenni di
guerre civili e di lotte di popolo, nella cui serra calda il
proletariato sarebbe presto giunto a maturità politica.
L’opinione degli autori si manifestava con piena chiarezza nelle
frasi che trattavano dei compiti del partito comunista in Germania.
Il Manifesto auspicava qui la lotta comune del proletariato e della
bor ghesia, non appena questa agisse rivoluzionariamente contro la
monarchia assoluta, la proprietà fondiaria feudale e la
piccola borghesia, senza però lasciar passare un momento per
portare gli operai alla coscienza più chiara possibile
dell’antagonismo insanabile tra borghesia e proletariato.
Vi si dice poi: «Sulla Germania i comunisti rivolgono
specialmente la loro attenzione, perché la Germania è
alla vigilia della rivoluzione borghese, e perché essa compie
tale rivoluzione in condizioni di civiltà generale europea
più progredite e con un proletariato molto più
sviluppato che non avessero l’Inghilterra nel secolo XVII e la
Francia nel secolo XVIII; per cui la rivoluzione borghese tedesca
non può essere che l’immediato preludio di una rivoluzione
proletaria». Questa rivoluzione borghese in Germania, a dire
il vero, tenne subito dietro al Manifesto ma le condizioni nelle
quali essa si compì ebbero proprio l’effetto opposto:
lasciarono fermarsi a mezza via la rivoluzione borghese, fino a che,
alcuni mesi dopo, la battaglia parigina del giugno fece passare ogni
velleità rivoluzionaria alla borghesia e particolarmente alla
borghesia tedesca.
Così il dente del tempo ha roso qua e là le frasi
quasi scolpite sul marmo del Manifesto. Già nell’anno 1872
gli autori stessi, nella prefazione ad una nuova edizione,
riconoscevano che esso era «qua e là
invecchiato», ma potevano con ugual diritto aggiungere che i
principi fondamentali sviluppati nel Manifesto avevano conservato
nel complesso la loro piena validità. E ciò
varrà finché non sarà finita la lotta mondiale
tra borghesia e proletariato. I momenti decisivi di questa lotta
sono svolti con insuperabile maestria nel primo capitolo, come nel
secondo sono svolte le idee direttive del comunismo scientifico
moderno; e se nel terzo capitolo la critica della letteratura
socialistica e comunistica giunge soltanto fino all’anno 1847, essa
getta però lo sguardo così al fondo delle cose, che da
allora in poi non è sorta nessuna tendenza socialista o
comunista che non sia stata già criticata in questo capitolo.
Ma finanche la predizione del quarto ed ultimo capitolo sullo
svolgimento storico in Germania è stata vera, sia pure in un
senso diverso di come la pensavano i suoi autori; la rivoluzione
borghese in Germania, rattrappitasi già in germe, è
stata soltanto un preludio del possente sviluppo della lotta di
classe del proletariato.
Incrollabile nelle sue verità fondamentali e istruttivo anche
nei suoi errori, il Manifesto comunista è divenuto un
documento della storia mondiale, e attraverso la storia mondiale
risuona il grido di battaglia con cui esso si conchiude: Proletari di tutti i paesi, unitevi!