​​CAPITOLO 7

L’esilio a Bruxelles

    7.1    ​​​L’«Ideologia tedesca»

Espulso da Parigi, Marx si era trasferito con la famiglia a Bruxelles. Engels temeva che alla fine gli avrebbero dato delle noie anche in Belgio, e la cosa avvenne anzi sin dal principio.

Come scriveva a Heine, Marx dovette, subito dopo il suo arrivo a Bruxelles, sottoscrivere presso l’Adminì stration de la sureté publique l’impegno a non stampare nulla in Belgio sulle questioni politiche del giorno. Questo egli poteva farlo con la coscienza tranquilla, poiché non ne aveva né l’intenzione né la possibili tà. Ma siccome il governo prussiano continuava a insistere presso il governo belga perché lo espellesse, così, ancora nello stesso anno, il 1◦ dicembre 1845, Marx rinunciò alla cittadinanza dello Stato federale prussiano.

Tuttavia, né allora né poi egli prese la cittadinanza di uno Stato straniero, che nella primavera del 1848 gli fu offerta dal Governo provvisorio della Repubblica francese in modo addirittura onorifico. Come Heine, Marx non si poté decidere a questo passo, anche se Freiligrath, che, in quanto tedesco puro, è stato così spesso presentato come solenne contrasto coi due «signori senza patria», non si fece nessun scrupolo a naturalizzarsi inglese durante il suo esilio.

Nella primavera del 1845 anche Engels si recò a Bruxelles, e i due amici fecero insieme un viaggio di studi in Inghilterra che durò sei settimane. Durante questo viaggio Marx, che già a Parigi aveva cominciato a occuparsi di MacCulloch e di Ricardo, si fece un’idea più profonda della letteratura economica del regno insulare, anche se poté vedere solo «i libri che si potevano trovare a Manchester», accanto agli estratti e agli scritti posseduti da Engels. Engels, che già durante il suo primo soggiorno in Inghilterra aveva collaborato sia al New Moral World, organo di Owen, che al Northern Star, organo dei cartisti, rinnovò le antiche relazioni, e così da tutte due gli amici vennero annodate nuove relazioni, sia coi cartisti che coi socialisti.

Dopo questo viaggio si accinsero di nuovo per prima cosa a un lavoro comune. «Noi decidemmo — disse più tardi Marx abbastanza laconicamente — di mettere in chiaro, con un lavoro comune, il contrasto tra il nostro modo di vedere e la concezione ideologica della filosofia tedesca, di fare i conti, in realtà, con la nostra anteriore coscienza filosofica. Il disegno venne realizzato nella forma di una critica della filosofia posteriore ad Hegel. Il manoscritto, due grossi fascicoli in ottavo, era da tempo arrivato nel luogo dove doveva pubblicarsi, in Vestfalia, quando ricevemmo la notizia che un mutamento di circostanze non per metteva la stampa. Abbandonammo tanto più volentieri il manoscritto alla rodente critica dei topi, in quanto avevamo già raggiunto il nostro scopo principale, che era di vedere chiaro in noi stessi.» I topi hanno compiuto l’opera loro sul manoscritto anche nel senso letterale della parola, ma i frammenti che si sono conservati rendono comprensibile come i due autori non si siano troppo angustiati per questa mala sorte.

Se la loro resa dei conti con i Bauer, radicale e approfondita anche troppo, era un osso duro per i lettori, questi due grossi volumi di cinquanta fogli di stampa complessivamente, sarebbero stati un osso ancora più duro. Il titolo dell’opera è: L’ideologia tedesca, critica della più recente filosofia tedesca nei suoi rappresentanti Feuerbach, Bruno Bauer e Stirner, e del socialismo tedesco nei suoi diversi profeti. Engels ricordava in seguito che la critica di Stirner da sola non era meno ampia del libro di Stirner stesso, e i saggi che ne sono stati pubblicati nel frattempo fanno apparire del tutto credibile questo ricordo. E’ una polemica ancora più diffusa di quanto lo sia la Sacra famiglia nei suoi aridissimi capitoli, e in cambio in questo de serto le oasi sono ancor più rare, anche se non mancano del tutto. E anche se sempre si avverte l’acume dialettico, esso degenera però subito in sottigliezze e sofisticherie talvolta di tipo davvero meschino.

Certo, in cose del genere il gusto moderno è molto più delicato di quel che non fosse il gusto d’allora. Ma con ciò non si spiega tutto, tanto più che Marx ed Engels sia prima che poi e anche in quello stesso tempo, hanno dimostrato che sapevano usare un tipo di critica epigrammatica e tagliente, e che il loro stile di tutto soffriva meno che di prolissità. Fu determinante il fatto che queste battaglie spirituali si combatterono in circoli estremamente ristretti, al che quasi sempre si aggiungeva anche la grande giovinezza dei polemi sti. Era un fenomeno quale la storia letteraria aveva visto già in Shakespeare e nei suoi drammaturghi contemporanei; fare a pezzi una locuzione, dare al discorso dell’avversario il senso più pazzesco possibile con una interpretazione letterale o equivoca, la tendenza al sublime e all’indefinito nell’espressione: tutto ciò non era calcolato per il gran pubblico, ma per l’intelligenza raffinata degli specialisti.  Quel che oggi a noi pare impossibile apprezzate o addirittura incomprensibile nello spirito di Shakespeare, si spiega coi fatto che egli, nel suo creare, era , consapevolmente o inconsapevolmente, preoccupato del giudizio che ne avrebbero dato Green e Marlowe, Jonson, Fletcher e Beaumont.

Così all’incirca ci si può spiegare il tono in cui Marx ed Engels, consapevolmente o inconsapevolmente, scadevano, quando avevano a che fare coi Bauer e gli Stirner o con gli altri dei vecchi compagni del puro arzigogolare. Sarebbe stato senza dubbio più istruttivo quello che nel loro libro essi avrebbero avuto da dire su Feuerbach, perché in questo non si sarebbe trattato soltanto di una critica sostanzialmente negativa, ma purtroppo questa parte non è stata completata. Alcuni aforismi, che Marx aveva scritto su Feuerbach nel 1845 e che Engels pubblicò qualche decennio dopo, danno tuttavia chiare indicazioni. Marx sentiva mancare nel materialismo di Feuerbach quello che, ancora studente, aveva sentito mancare in Democrito, il precursore del materialismo: e cioè il «principio energico»; diceva che questo era il difetto di ogni materialismo esistito fino ad allora, quello cioè di concepire il mondo sensibile e la realtà soltanto sotto forma di intuizione o di oggetto, ma non come attività sensibile dell’uomo, ma come prassi, non soggettivamente. Perciò era accaduto che, in contrasto col materialismo, la parte attiva, era stata sviluppata, dall’idealismo, ma solo astrattamente, perché l’idealismo naturalmente non conosce l’attività sensibile reale. In altre parole: Feuerbach, gettando via Hegel tutto intero, aveva gettato via troppo; si trattava di trasferire la dialettica rivoluzionaria di Hegel dal regno dei pensieri nel regno della realtà.

Col suo ardito modo di fare, Engels aveva già scritto a Feuerbach da Barmen per conquistarlo al comu nismo. Feuerbach aveva risposto amichevolmente, ma — almeno per il momento — con un rifiuto. Se possibile, sarebbe venuto in Renania nell’estate e allora Engels voleva «fargli entrare in testa» l’idea di venire anche lui a Bruxelles. Per il momento egli mandò a Marx come «stupendo agitatore» Hermann Kriege, un allievo di Feuerbach.

Soltanto, Feuerbach non andò in Renania, e le sue successive pubblicazioni dimostrarono che egli non riusciva più a lasciare il suo «vecchio stile». Anche il suo allievo Kriege non fece buona prova; egli portò, sì, la propaganda comunista di là dal gran mare, ma a New York combinò sciocchezze irrimediabili, che ebbero anche conseguenze disastrose per la colonia comunista che si era cominciata a riunire a Bruxelles intorno a Marx.

    7.2    ​​​Il vero socialismo

La seconda parte dell’opera progettata doveva occuparsi del socialismo tedesco nei suoi diversi profeti, risolvere criticamente «tutta quella scipita e insulsa letteratura del socialismo tedesco».

Si alludeva con ciò a uomini come Moses Hess, Karl Griin, Otto Liining, Hermann Piittmann e altri, che avevano creato una rispettabile letteratura, ricca anche di riviste: il Gesellschaftspiegel, che uscì come rivista mensile dall’estate del 1845 all’estate del 1846, poi i Rheinische Jahrbucher e il Deutsches Burgerbuch, di ciascuno dei quali nel 1845 e nel 1846 uscirono due annate, inoltre il Westfälisches Dampjboot, rivista mensile che cominciò pure nel 1845, ma restò in vita fino al periodo della rivoluzione tedesca, e infine singoli giornali come la Triersche Zeitung.

Quello strano fenomeno che Ruge una volta battezzò «vero» socialismo, nome che fu accolto da Marx ed Engels in senso derisorio, ebbe una vita molto breve. Nel 1848 era già scomparso senza lasciar traccia; al primo colpo della rivoluzione si dissolse da sé. Per lo sviluppo spirituale di Marx esso non ha avuto alcun significato; egli gli stette di fronte fin dal principio come un critico superiore. Ma l’aspro giudizio, che egli ne dà nel Manifesto comunista, non rispecchia in modo esauriente la sua posizione di fronte a questo socialismo; per un certo tempo egli lo ha ritenuto un mosto che, con tutto il suo comportamento assurdo, avrebbe però potuto dare del vino. La stessa cosa valeva, ed in grado anche maggiore, per Engels. Engels pubblicò insieme con Moses Hess il Gesellschaftspiegel, al quale anche Marx collaborò una volta. Con Hess tutte due collaborarono variamente nel periodo di Bruxelles, e pareva quasi che questi fosse tutto compenetrato delle loro idee. Marx si è spesso adoperato perché Heine collaborasse ai Rheinische Jahrbücher, e, se non ha pubblicato nulla di lui, questa rivista ha però pubblicato, come anche il Deutsches Burgerbuch, edito anch’esso da Püttmann, articoli di Engels. Sia Marx che Engels hanno collaborato al Westfdlisches Damffboot. Marx vi ha pubblicato l’unico passo della seconda parte della Ideologia tedesca che sia finora venuto alla luce: una critica profondamente acuta di una specie di romanzo d’appendice che Karl Griin aveva pubblicato sul movimento sociale in Francia e in Belgio.

Il fatto che anche il vero socialismo si era sviluppato dalla dissoluzione della filosofia hegeliana ha portato ad affermare che anche Marx ed Engels vi avessero originariamente appartenuto e che proprio per questo l’abbiano in seguito tanto più aspramente criticato. Ma la cosa non corrisponde affatto a verità. La verità era piuttosto che tutte due le parti erano pervenute al socialismo muovendo da Hegel e Feuerbach, ma Marx ed Engels avevano studiato l’essenza di questo socialismo nella rivoluzione francese e nell’in dustrialismo inglese, mentre i veri socialisti si accontentavano di tradurre le formule e le parole d’ordine socialiste in un «corrotto tedesco hegeliano». Marx ed Engels si adoperarono a far loro superare questa posizione, pensando, abbastanza gratuitamente, di dover riconoscere in tutta la corrente un prodotto della storia tedesca. Era abbastanza lusinghiero per Grün e consorti che la loro interpretazione del socialismo, come oziosa speculazione sull’attuazione dell’essere umano, venisse paragonata al fatto che anche Kant aveva inteso le espressioni di volontà della grande rivoluzione francese soltanto come leggi della volontà veramente umana.

In questa loro attività pedagogica nei riguardi del vero socialismo, Engels e Marx non hanno mancato né di indulgenza né di severità. Nel Gesellschaftspiegel del 1845 Engels, come condirettore, ha ancora lasciato passare al buon Hess qualche cosa che personalmente doveva dargli molto fastidio; nel Deutsches Burgerbuch del 1846 però dette già del filo da torcere ai veri socialisti. «Un po’ di umanità , come ultimamente si chiama la faccenda, un po’ di ‘realizzazione’ di questa umanità o piuttosto di questo mostro, un pochino sulla proprietà — di terza o di quarta mano, — un po’ di gemiti sul proletariato, organizzazione del lavoro, lugubri associazioni per l’elevazione delle classi più umili del popolo, e insieme un’ignoranza senza limiti dell’economia politica e della società in concreto: a questo si riduce tutta la faccenda, che per di più, grazie alla apartiticità nella teoria, alla assoluta tranquillità del pensiero, perde l’ultima goccia di sangue, l’ultima traccia di energia e di attività. E con questa lagna si vuole rivoluzionare la Germania, mettere in moto il proletariato, far pensare ed agire le masse». L’attenzione al proletariato e alle masse determinava in prima istanza la posizione che Marx ed Engels avevano preso nei riguardi del vero socialismo. Se tra tutti i suoi rappresentanti essi combatterono nel modo più violento Karl Grün, ciò non fu soltanto perché in realtà egli presentava più punti scoperti, ma anche perché egli, vivendo a Parigi, provocava un’insanabile confusione tra gli operai di là ed esercitava un influsso funesto su Proudhon. E se nel Manifesto comunista essi si discostarono dal vero socialismo, con estremo rigore, e anche con chiara allusione al loro finora amico Hess, ciò avvenne perché così essi inauguravano un’agitazione pratica del proletariato internazionale.

Ed era anche in relazione con questo il fatto che essi vollero magari ancora perdonare al vero sociali smo la «pedantesca innocenza», con la quale esso «prendeva così solennemente sul serio e andava strombazzando ciarlatanescamente le sue maldestre esercitazioni scolastiche», ma non però l’appoggio che secondo loro esso forniva ai governi. La lotta della borghesia contro l’assolutismo prequarantottesco e il feudalesimo, avrebbe dovuto offrirgli la «bramata occasione» di colpire alle spalle l’opposizione libe rale. «Esso servì ai governi tedeschi assoluti, col loro seguito di preti, maestri di scuola, gentiluomini di campagna e burocrati, come un utile spauracchio contro la borghesia che si levava minacciosa. Esso fu il complemento dolciastro delle amare sferzate e fucilate con cui quei governi accoglievano le sommosse degli operai tedeschi»1. Ciò era parecchio esagerato per quanto riguardava la sostanza, e assolutamente ingiusto per quanto riguardava le persone.

Marx stesso nei Deutsch-Französische Jahrbücher, aveva additato la particolarità della situazione tedesca, dove la borghesia non poteva sollevarsi contro i governi senza che il proletariato già si sollevasse contro la borghesia. Compito del socialismo era perciò quello di sostenere il liberalismo dove esso era ancora rivoluzionario, di combatterlo dove era già reazionario. Nei suoi particolari non era facile assolvere questo compito; anche Marx ed Engels hanno in certe occasioni difeso il liberalismo come ancora rivoluzionario, quando era già reazionario. A dire il vero, i veri socialisti, soprattutto Karl Grün, ma anche Moses Hess, molto meno Otto Lüning, che dirigeva il Westfdlisches Dampfboot, si sono spesso sbagliati nella direzione opposta e hanno condannato in tutto e per tutto il liberalismo, ciò che non poteva che riuscire gradito ai governi. Ma per quanto essi abbiano potuto peccare in questo senso, ciò è avvenuto per insipienza e incomprensione, e non con l’intenzione di sostenere i governi. Nella rivoluzione che pronunciò la condanna di morte su tutte le loro fantasie, essi sono stati assolutamente all’ala sinistra della borghesia; a tacere del tutto di Hess, che ha combattuto ancora nelle file della socialdemocrazia, nessun altro dei veri socialisti è passato dalla parte del governo; di tutte le sfumature del socialismo borghese, quelle di allora e magari quelle di oggi, i veri socialisti su questo punto hanno addirittura la coscienza più pulita.

Essi avevano anche tutto il rispetto possibile per Marx ed Engels, ai quali tenevano volentieri aperte le loro riviste, perfino se nei loro articoli essi stessi si prendevano una buona ripassata; non a malizie segrete, ma ad una palese mancanza di chiarezza si dovette se essi non riuscirono a rompere il guscio. Essi cantavano con particolare predilezione la vecchia cara canzone filistea: «Zitti, zitti, piano piano»; pensavano che in un partito giovane la cosa non doveva esser presa così sul serio, e, in spiegazioni che si rendessero even tualmente necessarie, non si doveva almeno rompere il tono amichevole, divenire addirittura troppo amari e scostanti; nomi famosi come Bauer, Ruge, Stirner, secondo loro, avrebbero dovuto essere risparmiati. Così in Marx essi avevano trovato davvero il pane per i loro denti; una volta egli scrisse: «Resta caratteristico per queste vecchie femmine il fatto che esse volevano assopire e inzuccherare ogni reale lotta di partito». Tuttavia, con questa sana concezione, egli trovò qua e là comprensione anche tra i veri socialisti; in particolare, in Josef Weydemeyer, che era cognato di Lùning e aveva fatto parte della redazione del Westfdlisches Dampfboot, Marx ed Engels acquistarono uno dei loro più fedeli seguaci.

Weydemeyer, originariamente tenente di artiglieria prussiano, aveva lasciato il servizio militare a causa delle sue convinzioni politiche, ed era entrato negli ambienti del vero socialismo come vice-direttore della Triersche Zeitung, che era sotto l’influenza di Karl Grün. Non si sa se nella primavera del 1846 egli si recasse a Bruxelles per un altro motivo o già per conoscere Marx ed Engels; comunque diventò presto intimo di tutti e due e avversario dichiarato dei piagnistei sulla loro critica spietata, con la quale anche suo cognato Lùning era d’accordo. Originario della Vestfalia Weydemeyer aveva qualcosa di quel modo di fare tranquillo e addirittura pesante, ma fidato e tenero, che si suole attribuire alla sua gente. Non è mai stato uno scrittore particolarmente dotato; quando tornò in Germania, trovò un posto di geometra nella costruzione della ferrovia Colonia-Minden e collaborò solo marginalmente al Westfdlisches Dampfboot. Ma coi suoi modi pratici cercava di rimediare a un altro bisogno che per Marx ed Engels quanto più durava tanto più diventava sensibile, il bisogno di un editore.

Il Literarisches Kontor di Zurigo era loro sbarrato per i rancori di Ruge; sebbene Ruge riconoscesse che Marx non avrebbe scritto facilmente cose cattive, tuttavia usò tutti i mezzi col suo socio Fròbel per impedirgli ogni rapporto d’affari con Marx. Wigand di Lipsia, il principale editore dei Giovani hegeliani, aveva però già rifiutato in un altro caso una critica su Bauer, Feuerbach e Stirner. Così fu graditissima la prospettiva che si aprì quando Weydemeyer, nella sua patria Vestfalia, scovò due ricchi comunisti, Julius Meyer e Rempel, che si dichiararono disposti ad anticipare il capitale necessario per un’impresa editoriale. Essa avrebbe dovuto essere subito impiantata in grande e cominciare con non meno di tre produzioni: l’Ideologia tedesca, una biblioteca di scrittori socialisti ed una rivista trimestrale tra i cui direttori, accanto a Marx ed Engels, era
previsto anche Hess.

Però, quando si trattò di pagare i due capitalisti rifiutarono, nonostante gli accordi orali presi non soltanto con Weydemeyer ma anche con Hess, Al momento buono si presentarono «difficoltà commerciali» che paralizzarono il loro slancio comunista di sacrificio. Così ci fu un’amara delusione, che Weydemeyer rese anche più amara offrendo senza successo il manoscritto della Ideologia tedesca ad altri editori, e racco gliendo tra i compagni d’idee della Vestfalia qualche centinaio di franchi per allontanare da Marx la più nera miseria. Della profonda onestà sua ci dà testimonianza il fatto che, se egli ebbe colpa di queste piccole balordaggini, le fece però presto dimenticare a Marx ed Engels.

Soltanto, il manoscritto della Ideologia tedesca era ormai definitivamente abbandonato alla critica roditrice dei topi.

    7.3    ​​​Weitling e Proudhon

Dal lato umano incomparabilmente più avvincente e dal punto di vista del contenuto incomparabilmente più importante della critica della filosofia posthegeliana, fu la presa di posizione di Marx nei riguardi dei due geniali proletari che influirono notevolmente sui suoi esordi. Weiding e Proudhon erano nati proprio nella classe operaia, nature sane e potenti, riccamente dotate e così favorite dalle circostanze che sa rebbe davvero stato loro possibile appartenere a quelle rare eccezioni sulle quali si fondò la convinzione piccolo-borghese che a ogni talento della classe lavoratrice sarebbe aperta l’ascesa tra le file della classe possidente. Tutti e due hanno sdegnato questa strada e hanno spontaneamente scelto la povertà, per combattere per i loro compagni di classe e di sofferenze.

Uomini considerevoli, pieni di forza vigorosa, creati per godere di ogni gioia della vita, essi si esposero a tutte le privazioni per raggiungere la loro meta. «Un piccolo alloggio per la notte, spesso in tre in una stanzetta, un pezzo di tavola come scrittoio e ogni tanto una tazza di caffè nero», così viveva Weitling, quando il suo nome spaventava ormai i potenti della terra, e similmente viveva Proudhon nella sua stan zetta di Parigi, quando il suo nome aveva già una fama europea, « vestito di un giubbone di lana fatto a maglia e con gli zoccoli di legno ai piedi».

In tutti e due si univano la cultura tedesca e quella francese. Weitling era figlio di un ufficiale francese e si affrettò a recarsi a Parigi appena ebbe una certa età, per bere alla sorgente del socialismo francese. Proudhon era originario della antica franca contea della Borgogna che era stata annessa alla Francia soltanto sotto Luigi XIV; si è sempre voluto vedere in lui la testa tedesca o magari la testa balzana dei tedeschi, In ogni caso, quando egli giunse a maturità spirituale, fu attratto verso la filosofia tedesca, tra i cui rappresentanti Weitling vedeva soltanto «cervelli nebulosi», mentre a sua volta Proudhon non aveva mai giudizi abbastanza taglienti sul conto dei grandi utopisti ai quali Weitling riconosceva quanto di meglio c’era nel suo pensiero.

Comune fu in loro soprattutto la fama e il destino. Essi furono i primi proletari moderni i quali fornissero la prova storica dello spirito e della forza, la prova storica che la classe operaia moderna poteva liberare se stessa, e rompessero per la prima volta il circolo vizioso in cui si muovevano movimento operaio e socialismo. Per questo essi hanno fatto epoca e la loro opera è stata esemplare ed ha avuto un effetto fecondo per il sorgere del socialismo scientifico. Nessuno ha salutato con lodi maggiori di quel che abbia fatto Marx gli esordi di Weitling e Proudhon. Quello che la soluzione critica della filosofia hegeliana gli aveva primamente fornito come risultato speculativo, egli lo vide confermato nella vita reale anzitutto da Proudhon e Weitling.

Ma come ebbero in comune la stessa gloria, così i due uomini ebbero in comune anche il destino. Nono stante ogni comprensione e previsione dei fatti, Weitling non superò mai le posizioni degli artigiani tedeschi, e Proudhon quelle dei piccoli borghesi francesi. Così si separarono dall’uomo che seppe completare glo riosamente quanto essi avevano brillantemente cominciato. Non è avvenuto per vanità personale, né per testarda presunzione, anche se luna cosa e l’altra possa essere comparsa più o meno, quanto più essi si sentivano che la corrente dello sviluppo storico li abbandonava sul greto. Le loro polemiche con Marx mostrano che essi proprio non compresero dove questi mirasse. Essi divennero vittime di una ristretta coscienza di classe, che fu tanto più grave di conseguenze in quanto operava in loro inconsapevolmente.

Weitling giunse a Bruxelles al principio del 1846. Dopo che la sua agitazione nella Svizzera era rimasta paralizzata per le sue stesse contraddizioni interne ed era caduta per una violenza brutale, egli passò a Londra, dove già con la gente della Lega dei Giusti non poté venire a capo di nulla. Egli andò incontro al suo crudele destino proprio perché cercò di salvarsi da esso abbandonandosi a oscuri atteggiamenti profetici. Invece di gettarsi a fondo nel movimento operaio inglese, nel momento in cui l’agitazione cartista innalzava le sue ondate possenti, egli lavorò a una teoria logica e glottologica per creare una lingua universale, che da questo momento diventò sempre più la sua fisima esclusiva. Affrontò temerariamente compiti per i quali le sue capacità e le sue cognizioni non erano affatto all’altezza, e finì in un isolamento spirituale che lo separò sempre di più dalla vera sorgente della sua forza, dalla vita della sua classe.

Trasferirsi a Bruxelles era comunque la cosa più accorta ch’egli potesse fare, perché se era ancora pos sibile salvarlo spiritualmente, Marx era l’uomo che poteva guarirlo. Che Marx gli abbia dato ospitalmente il benvenuto, è testimoniato non soltanto da Engels, ma è stato anche riconosciuto dallo stesso Weitling. Ma una comprensione spirituale si dimostrò impossibile; in una riunione di comunisti di Bruxelles, che ebbe luogo il 30 marzo 1846, Marx e Weitling ebbero un violento scontro; che Marx fosse stato provocato da Weitling nel modo più irritante, lo dice lo stesso Weitling in una lettera a Hess. Proprio allora erano in corso le trattative per la nuova impresa editoriale, e Weitling aveva insinuato che si volesse tagliarlo fuori dalle «fonti finanziarie» e farsi la parte del leone con «traduzioni ben pagate». Tuttavia, anche dopo di ciò, Marx fece per Weitling tutto ciò che poté; in seguito ad un resoconto avuto dallo stesso Weitling, Hess scriveva il 6 maggio da Verviers a Marx: «C’era da aspettarsi da parte tua che la tua ostilità contro di lui non arrivasse fino alla chiusura ermetica della tua borsa, finché ci avevi ancora qualche soldo dentro». Ma Marx ci aveva dentro disperatamente poco.

Ma pochi giorni dopo Weitling spinse le cose fino a una rottura irrimediabile. La propaganda svolta in America da Kriege non aveva corrisposto alle speranze che anche Marx ed Engels vi avevano riposto. Il Volkstribun, un settimanale edito da Kriege a New York, si abbandonava in modo fanciullesco e pomposo a sentimentalismi e fantasticherie che non avevano nulla a che fare coi principi del comunismo e che dovevano demoralizzare al massimo gli operai. Anche peggio era il fatto che Kriege cercasse di cavare qualche dollaro per il suo giornale dai milionari americani con grottesche petizioni. E per di più si atteggiava a portavoce letterario del comunismo tedesco in America, in modo che per i veri portavoce cerano tutti i motivi di protestare contro questa compromettente comunanza.

Il 16 maggio Marx ed Engels e i loro amici decisero di levare questa protesta, minuziosamente motivata, in una circolare ai loro compagni di fede, e di mandarla anzitutto perché fosse pubblicata nel giornale di Kriege. Unico e solo, Weitling si tirò indietro con pretesti che non dicevano nulla: il Volkstribun era un organo comunista che corrispondeva pienamente alla situazione americana; il partito comunista aveva nemici così potenti e così numerosi in Europa, che non bisognava che rivolgesse le sue armi contro l’America, e tanto meno contro se stesso. Né Weitling si accontentò di questo, ma inviò una lettera a Kriege per metterlo in guardia contro gli autori della protesta, come da «intriganti sopraffini». «Nella testa di questa Lega possente e piena di denaro, composta di circa una dozzina o una ventina di persone, non s’agita altro che la lotta contro quel reazionario che sarei io. Per primo taglieranno la testa a me, poi agli altri, e da ultimo ai loro amici, alla fine di tutto taglieranno il collo a se stessi.... E per questa attività sono adesso a disposizione somme enormi, ma per me nessun editore. Io sto da questa parte tutto solo con Hess, ma Hess è come me messo al bando». Ormai anche Hess abbandonava quest’uomo accecato.

Kriege stampò la protesta dei comunisti di Bruxelles, che poi fu riprodotta anche da Weydemeyer nel Westfdlisches Dampfboot, ma vi aggiunse come contravveleno la lettera di Weitling o almeno i suoi passi più aspri, e invitò l’Associazione per la riforma sociale, organizzazione operaia tedesca che aveva scelto come proprio organo il suo settimanale, a chiamare Weitling come redattore e a mandargli il denaro necessario per il viaggio. Così Weitling scomparve dall’Europa.

Negli stessi giorni di maggio, si avviò anche la rottura tra Marx e Proudhon. Per ovviare alla mancanza di un organo di stampa, Marx e i suoi amici si aiutavano con circolari stampate o litografate, come nel caso di Kriege; ma oltre a ciò si adoperavano a mantenere rapporti stabili di corrispondenza tra le località principali dove risiedevano dei comunisti. Di uffici di corrispondenza del genere ce n’erano a Bruxelles e a Londra, e si doveva istituirne uno anche a Parigi. Marx aveva scritto a Proudhon pregandolo di farne parte. E Proudhon accettò, in una lettera da Lione in data 17 maggio 1846, anche se non poteva promettere di scrivere né spesso né molto. Ma egli nello stesso tempo approfittò dell’occasione per rivolgere a Marx una grossa predica morale, che doveva mostrare a quest’ultimo l’abisso che si era aperto tra loro due.

Ora Proudhon si pronunciava per un «quasi assoluto antidogmatismo» nelle questioni economiche. Marx non doveva cadere nella contraddizione del suo compatriota Martin Lutero, che dopo il rovesciamento dell’ortodossia cattolica si era subito accinto, con grande uso di anatemi e di scomuniche, a fondare una teologia protestante. «Non creiamo nuovo lavoro al genere umano con nuovi guazzabugli, diamo al mondo l’esempio di una tolleranza saggia e preveggente, non ci atteggiamo ad apostoli di una nuova religione, sia pure della religione della logica e della ragione». Proudhon voleva insomma, proprio come i veri so cialisti, mantenere la bella confusione, il cui superamento era per Marx la condizione pregiudiziale della propaganda comunista.

Di una rivoluzione, a cui aveva creduto per lungo tempo, Proudhon non voleva più saperne: «Preferisco bruciare la proprietà a fuoco lento piuttosto che darle nuova forza con una notte di San Bartolomeo dei proprietari». E prometteva di spiegare esaurientemente, in un’opera già in corso di stampa, come si dovesse risolvere questo problema, e di sottomettersi di buona voglia al flagello che Marx vi avrebbe esercitato contro, in attesa di prendersi la rivincita. «Devo dirLe di passaggio che mi sembra che le intenzioni della classe operaia francese coincidano con le mie; i nostri proletari hanno una così grande sete di sapere che si sarebbe accolti molto male da loro se non gli si offrisse da bere altro che sangue».

Per concludere Proudhon spezzava una lancia a favore di Karl Grün, contro la cui mal intesa hegelianeria Marx lo aveva messo in guardia. Data la sua ignoranza della lingua tedesca, non poteva contare che su Grün ed Ewerbeck per studiare Hegel e Feuerbach, Marx ed Engels. Grün voleva tradurre in tedesco il suo ultimo libro, e Marx poteva essere così gentile da aiutare a diffondere questo libro; ciò sarebbe stato onorevole per tutti. La conclusione suona quasi come uno scherno, anche se non voleva esserlo. Ma non poteva certo essere edificante per Marx vedersi raffigurato nel pomposo gergo di Proudhon come un bevitore di sangue. Tanto più doveva suscitare sospetti l’affaccendarsi di Grün, e si dovette ad esso, anche se vi si aggiunsero altri motivi, se Engels nell’agosto del 1846 si decise a trasferirsi temporaneamente a Parigi e ad assumersi l’incarico di corrispondente da questa città che era pur sempre il posto più importante per la propaganda comunista. Bisognava che i comunisti di Parigi fossero informati sulla rottura con Weitling, sulla storia delle edizioni in Vestfalia e su tutto ciò che avesse potuto far chiasso, tanto più che non avevano un saldo punto d’appoggio né in Ewerbeck né tanto meno in Bernays.

Da principio le informazioni che Engels mandava in parte all’ufficio di corrispondenza di Bruxelles, in parte a Marx personalmente, suonavano ancora piene di speranza, ma a poco a poco risultò che Grün aveva radicalmente compromesso la faccenda E quando lo scritto di Proudhon, che uscì nell’autunno, non fece in realtà che seguire quella via senza uscita a cui la sua lettera aveva già accennato, allora Marx ci lasciò andar sopra il suo flagello, secondo i desideri di Proudhon, ma senza che questi mantenesse poi la promessa di una rivincita altrimenti che rispondendo con grossolane ingiurie.

    7.4    ​​​Il materialismo storico

Proudhon aveva dato al suo libro il titolo Le sistème de contradictions économiques e il sottotitolo La philosofhie de la misere. E Marx intitolò la sua critica La misere de la philosophie, e lo scrisse in francese, per colpire tanto più sicuramente l’avversario. Ma ciò non gli è riuscito, perché l’influenza di Proudhon sulla classe operaia francese e sul proletariato dei paesi neolatini in generale, crebbe piuttosto che diminuire, e Marx ha avuto ancora per decenni a che fare col proudhonismo.

Ma non per questo resta limitato in alcun modo il valore del suo scritto polemico, e nemmeno la sua impor tanza storica. Esso costituisce una pietra miliare sia nella vita del suo autore che nella storia della scienza. In esso sono stati per la prima volta sviluppati scientificamente i motivi fondamentali del materialismo stori co. Se negli scritti precedenti essi lampeggiano come scintille isolate, se in seguito Marx li ha riassunti in
forma epigrammatica, essi si dispiegano però nello scritto contro Proudhon nella convincente chiarezza di una polemica vittoriosa

E lo sviluppo del materialismo storico è la più grande impresa scientifica che Marx abbia compiuto; essa ha significato per le scienze storiche quello che ha significato la teoria di Darwin per le scienze naturali.

Engels vi ha la sua parte, ed anche una parte maggiore di quella che egli volesse ammettere nella sua modestia, ma a ragione egli ha attribuito esclusivamente all’amico la classica formulazione del pensiero fondamentale. A quanto egli racconta, quando egli si recò a Bruxelles nella primavera del 1845, Marx gli espose già pienamente elaborato il pensiero fondamentale del materialismo storico, cioè il pensiero che la produzione economica e la struttura sociale di ogni periodo storico, che ne segue di necessità, costituisce la base della storia politica e intellettuale di questo periodo; che, conforme a ciò, tutta la storia è stata storia di lotte di classi, lotte tra classi sfruttate e sfruttatrici, dominate e dominanti, nei diversi gradi dello sviluppo sociale; che però questa lotta attualmente ha raggiunto un grado tale che la classe sfruttata e oppressa, il proletariato, non può più liberarsi dalla classe che lo sfrutta e lo opprime, la borghesia, senza liberare contemporaneamente e per sempre tutta la società dallo sfruttamento e dall’oppressione.

Ed è appunto questo pensiero fondamentale che si manifesta nello scritto contro Proudhon, come un punto focale su cui si concentrino i raggi della luce. In netto contrasto con la prolissità che tanto stanca talvolta nella polemica contro Bruno Bauer e Stirner, qui tutto è incomparabilmente chiaro e conciso; non si spinge più la barca attraverso una palude, ma essa veleggia sotto un fresco vento su acque correnti.

Il libro si divide in due parti, nella prima delle quali, per usare un’espressione di Lassalle, Marx appare quasi un Ricardo divenuto socialista, mentre nella seconda uno Hegel divenuto economista. Ricardo aveva dimostrato che lo scambio delle merci nella società capitalistica si attua sulla base del tempo di lavoro in esse contenuto; questo «valore» delle merci Proudhon voleva poterlo «costituire», di modo che data la stessa quantità di lavoro, si dovesse scambiare il prodotto dell’uno contro il prodotto dell’altro; la società doveva perciò essere riformata in modo che tutti gli uomini si trasformassero in operai che scambiano direttamente uguali quantità di lavoro. Questa conclusione «egualitaria» desunta dalle teorie di Ricardo l’avevano tratta già dei socialisti inglesi, e avevano anche cercato di attuarla nella pratica, ma le loro «banche di scambio» avevano fatto subito bancarotta.

Ora Marx dimostrò che la «teoria rivoluzionaria», che Proudhon pretendeva di avere scoperto per l’emancipazione del proletariato, era soltanto la formula della moderna schiavitù della classe operaia. Dalla sua legge del valore Ricardo aveva dedotto logicamente la sua legge del salario; il valore della merce forza-lavoro si misura secondo il tempo di lavoro che è necessario alla produzione degli oggetti di cui l’operaio ha bisogno per conservarsi in vita e per propagare la sua razza. E’ una illusione borghese di immaginare possibile lo scambio individuale senza contrasti di classe, per contemplare nella società borghese una condizione-di armonia e di eterna giustizia, che non consentirebbe a nessuno di arricchirsi a spese degli altri.

Come vadano le cose nella realtà, Marx lo esprimeva con queste parole: «Nello stesso momento in cui sorge la civiltà, la produzione comincia a fondarsi sull’antagonismo degli ordinamenti, degli stati, delle classi, infine sull’antagonismo del lavoro accumulato col lavoro immediato. Senza antagonismo non vi è progresso. Questa è la legge che fino ai nostri giorni la civiltà ha seguito. Fino ad oggi, le forze produttive si sono sviluppate attraverso questo regime di antagonismo delle classi». Se Proudhon per mezzo del «suo valore costituito» voleva assicurare all’operaio il prodotto sempre maggiore, che egli ottiene in ogni giornata di lavoro, mediante il progresso del lavoro sociale, Marx indicava che lo sviluppo delle forze produttive, che nell’anno 1840 rendeva possibile all’operaio inglese produrre ventisette volte di più che nel 1770, era dipeso da condizioni storiche che poggiavano sull’antagonismo tra le classi: accumulazione di capitali privati, moderna divisione del lavoro, concorrenza anarchica, sistema del salariato. Per ottenere un’eccedenza di lavoro dovevano esserci classi che ritraevano profitti e classi che deperivano.

Come prime prove del suo «valore costituito», Proudhon aveva additato l’oro e l’argento; grazie alla consacrazione sovrana, impressa in loro dal sigillo dei sovrani, essi erano divenuti denaro. Nient’affatto, rispondeva Marx. Il denaro non è una cosa, ma un rapporto sociale; come lo scambio individuale, esso corrisponde a un determinato modo di produzione. «Davvero bisogna essere sprovvisti di ogni conoscen za storica per ignorare che i sovrani di tutti i tempi hanno subito le condizioni economiche, e non sono mai stati essi a far legge in questo campo. La legislazione sia politica che civile non fa che pronunciare, che verbalizzare, la volontà dei rapporti economici...». Il diritto non è altro che il riconoscimento ufficiale del fatto. Il sigillo dei sovrani imprimeva nell’oro non il valore, ma il peso; col «valore costituito» l’oro e l’argento s’accordano come il pugno con l’occhio; appunto nella loro qualità di segni del valore essi sono le sole fra tutte le merci che non vengono determinate dai loro prezzi di produzione, proprio come possono essere sostituiti nella circolazione con la carta moneta, come è stato da tempo chiarito da Ricardo.

Alla meta finale del comunismo Marx accennava quando dimostrava che la «giusta proporzione tra offerta e domanda», cercata da Proudhon, era stata possibile soltanto in quei tempi in cui i mezzi di produzione erano stati limitati, in cui lo scambio si era attuato entro limiti straordinariamente ristretti, in cui la domanda aveva dominato l’offerta, e il consumo la produzione; essa era divenuta impossibile col sorgere della grande industria, che già per i propri strumenti di lavoro era costretta a produrre in misura sempre maggiore, non poteva attendere la domanda, per necessità naturale doveva esperimentare in successione continua l’alternarsi di prosperità e depressione, crisi, ristagno, nuova prosperità e così via. «Nella società attuale, coll’industria basata sugli scambi individuali, l’anarchia della produzione, che è fonte di tanta miseria, è con temporaneamente la causa di ogni progresso. Così, di due cose, luna: o volete le giuste proporzioni dei secoli passati, con i mezzi di produzione della nostra epoca, e allora siete al contempo reazionari e utopisti. O volete il progresso senza l’anarchia; e allora, per conservare le forze produttive dovete abbandonare gli scambi individuali».

Ancor più importante del primo é il secondo capitolo del libro contro Proudhon. Se in quello Marx aveva a che fare con Ricardo, di fronte al quale egli si poneva non ancora con piena imparzialità scientifica — tra l’altro egli riconosceva ancora per buona la legge dei salari di Ricardo — nel secondo aveva a che fare con Hegel, e qui si trovava proprio nel suo elemento. Proudhon aveva grossolanamente frainteso il metodo dialettico di Hegel. Egli si atteneva ancora alla parte di esso divenuta ormai reazionaria, secondo la quale il mondo della realtà deriva dal mondo dell’Idea, mentre ne rinnegava la parte rivoluzionaria: l’autoattività dell’Idea, che si pone e si contrappone per dispiegare in questa lotta quella superiore unità che conserva il contenuto concreto delle due parti, dissolvendone la forma contraddittoria. Proudhon, piutto sto, distingueva in ogni categoria economica una parte buona e una cattiva, per andare alla ricerca di una sintesi, di una formula scientifica che conservasse la parte buona e eliminasse la parte cattiva. Egli vedeva la parte cattiva messa sotto accusa dai socialisti; con le sue formule e le sue sintesi credeva di elevarsi ugualmente al di sopra degli economisti e dei socialisti.

A questa pretesa Marx opponeva: «Il signor Proudhon si vanta di aver fornito la critica e dell’economia politica e del comunismo: mentre si trova al di sotto dell’una e dell’altro. Al di sotto degli economisti, poiché come filosofo che ha sotto mano una formula magica, ha creduto di potersi esimere dall’entrare in dettagli puramente economici; al di sotto dei socialisti, poiché non ha né sufficiente coraggio né sufficienti lumi per elevarsi, non fosse altro in maniera speculativa, oltre l’orizzonte borghese! ... Vuole essere la sintesi, ed è invece un errore composto. Vuole librarsi come uomo di scienza al disopra dei borghesi e dei proletari; e non è che il piccolo borghese, sballottato costantemente fra il capitale e il lavoro, fra l’economia politica e il comunismo». Ma non si deve, a dire il vero, far tutt’uno del piccolo borghese col borghesuccio benpensante, perché Marx ha sempre riconosciuto in Proudhon una mente notevole, una mente però che con le sue immaginazioni non riuscì ad elevarsi al di sopra dei limiti della società piccolo-borghese.

Non era difficile per Marx scoprire l’inconsistenza del metodo seguito da Proudhon. Se si divide il processo dialettico in una parte buona e in una cattiva e se si prospetta una categoria come contravveleno contro l’altra, si è tolta ogni vita all’Idea; essa non funziona più; né si pone né si decompone in categorie. Marx, da autentico discepolo di Hegel, sapeva molto bene che proprio la parte cattiva che Proudhon voleva dappertutto estirpare è quella che fa la storia in quanto fa maturare la lotta. Se si fossero volute conservare le parti belle del feudalismo, la vita patriarcale delle città, il fiorire dell’artigianato domestico nelle campagne, lo sviluppo dell’artigianato cittadino, e se ci si fosse posto il compito soltanto di estirpare tutto ciò che gettava un’ombra su questo quadro — servitù della gleba, privilegi, anarchia — si sarebbero distrutti tutti gli elementi che provocavano la lotta, e si sarebbe soffocata in germe la borghesia; ci si sarebbe posto il compito assurdo di cancellare la storia.

Marx poneva giustamente il problema dicendo: «Per ben giudicare la produzione feudale, è necessario considerarla come un modo di produzione fondato sull’antagonismo. Bisogna mostrare come la ricchezza veniva prodotta all’interno di questo antagonismo, come le forze produttive si sviluppavano di pari passo all’antagonismo delle classi, come una di queste classi, il lato cattivo, l’inconveniente della società, andasse sempre crescendo finché le condizioni materiali della sua emancipazione non furono pervenute al punto di maturazione».

Lo stesso processo dello sviluppo storico egli lo mostrava per la borghesia. I rapporti di produzione nei quali essa si muove non hanno un carattere semplice ed unitario, ma un carattere duplice; in quegli stessi rapporti, si produce non solo la ricchezza,.ma anche la miseria; nella misura in cui si sviluppa la borghesia, si sviluppa nel suo grembo il proletariato, e subito anche la lotta tra queste due classi. Gli economisti sono i teorici della borghesia, i comunisti e i socialisti sono i teorici del proletariato. Questi ultimi sono utopisti che escogitano sistemi e vanno alla ricerca di una scienza risana-trice per alleviare i bisogni delle classi oppresse, fino a che il proletariato non è ancora sviluppato a sufficienza per costituirsi come classe, e fino a che le forze produttive nel grembo della borghesia non sono ancora sviluppate a sufficienza per lasciare trasparire le condizioni materiali necessarie per la liberazione del proletariato e per la formazione di una nuova società.

«Ma a misura che la storia progredisce e che con essa la lotta del proletariato si profila più netta, essi non hanno più bisogno di cercare la scienza nel loro spirito; devono solo rendersi conto di ciò che si svolge davanti ai loro occhi e farsene portavoce. Finché cercano la scienza e costruiscono solo dei sistemi, finché sono all’inizio della lotta, nella miseria non vedono che la miseria, senza scorgerne il lato rivoluzionario, sovvertitore che rovescerà la vecchia società. Ma quando questo lato viene scorto, la scienza prodotta dal movimento storico.... ha cessato di essere dottrinaria per divenire rivoluzionaria».

Le categorie economiche sono per Marx soltanto le espressioni teoriche, le astrazioni dei rapporti sociali.

«I rapporti sociali sono intimamente connessi alle forze produttive. Impadronendosi di nuove forze pro duttive, gli uomini cambiano il loro modo di produzione e, cambiando il modo di produzione, la maniera di guadagnarsi la vita, cambiano tutti i loro rapporti sociali.  Quegli stessi uomini che stabiliscono i rappor ti sociali conformemente alla loro produttività materiale, producono anche i principi, le idee, le categorie, conformemente ai loro rapporti sociali».

Marx paragonava gli economisti borghesi che parlano delle «eterne e naturali istituzioni» della società borghese, ai teologi ortodossi, per i quali la propria religione è una rivelazione di Dio, mentre ogni altra religione è un’invenzione umana.

Marx dimostrava poi ancora in una serie di categorie economiche: divisione del lavoro e macchine, con correnza e monopolio, proprietà fondiaria o rendita, scioperi e coalizioni operaie, sulle quali Proudhon aveva provato il suo metodo, l’inconsistenza di questo metodo stesso. La divisione del lavoro non è, come Proudhon la assumeva, una categoria economica, ma una categoria storica, che ha preso gli aspetti più diversi nei diversi periodi della storia. Nel senso dell’economia borghese sua condizione di esistenza è la fabbrica. Ma la fabbrica non è sorta, come Proudhon mostra di credere, grazie ad amichevoli unioni di compagni di lavoro, e neppure nel senso delle vecchie corporazioni; padrone dell’officina moderna divenne il commerciante, e non il vecchio mastro d’arte.

Così la concorrenza e il monopolio non sono categorie naturali, ma sociali. La concorrenza non è emu lazione industriale, ma commerciale; essa lotta non per il prodotto, ma per il profitto, non è una necessità dell’anima umana, come Proudhon pensava, ma, sorta nel secolo decimottavo per bisogni storici, potrebbe, per bisogni storici, sparire nel secolo decimonono.

Altrettanto erronea era l’opinione di Proudhon che la proprietà fondiaria non abbia un’origine economica; che essa poggi su considerazioni di psicologia e di morale, le quali starebbero in un rapporto molto lontano con la produzione della ricchezza; che la rendita fondiaria debba legare più saldamente l’uomo alla natura.

«In ogni epoca storica la proprietà si è sviluppata diversamente e in una serie di rapporti sociali interamente differenti. Così definire la proprietà borghese non significa altro che descrivere tutti i rapporti sociali della produzione borghese. Voler dare una definizione della proprietà, come d’un rapporto indipendente non può essere che un’illusione di metafisica o di giurisprudenza». La rendita fondiaria — l’eccedenza del prezzo dei prodotti dell’agricoltura sui loro costi di produzione, ivi compreso l’usuale profitto e interesse del capitale — è sorta in determinati rapporti sociali e poteva sorgere soltanto in quei rapporti. Essa è la proprietà fondiaria nel suo aspetto borghese; la proprietà feudale che si è assoggettata alle condizioni della produzione borghese.

Infine Marx dimostrava l’importanza storica degli scioperi e delle coalizioni, di cui Proudhon non aveva voluto sapere.  Mettano pure economisti e socialisti, e magari per opposti motivi, gli operai in guardia
contro l’uso di queste armi, tuttavia scioperi e coalizioni si sviluppano di pari passo con la grande industria. Divisi dalla concorrenza nei loro interessi, tuttavia gli operai hanno l’interesse comune di mantenere il loro salario; il pensiero comune della resistenza li unisce nella coalizione, che contiene tutti gli elementi di una battaglia imminente, così come la borghesia cominciò con coalizioni parziali contro i signori feudali per costituirsi come classe e per trasformare, come classe costituita, la società feudale in quella borghese.

L’antagonismo tra proletariato e borghesia è una lotta di classe contro classe, una lotta che, portata alla sua più alta espressione, significa una rivoluzione totale. Il movimento sociale non esclude quello politico, perché non c’è nessun movimento politico che non sia anche nello stesso tempo sociale. Soltanto in una società senza classi le evoluzioni sociali cesseranno di essere rivoluzioni politiche. Fino ad allora, alla vigilia di ogni trasformazione generale della società, l’ultima parola della scienza sociale suonerà sempre: «Il combattimento o la morte; la lotta sanguinosa o il nulla. Cosi inesorabilmente, è posto il problema». Con questa frase di George Sand concludeva Marx il suo libro.

Sviluppando in esso il materialismo storico in una serie di aspetti essenziali, veniva nello stesso tempo a una spiegazione definitiva con la filosofia tedesca. Egli andava oltre Feuerbach, risalendo a Hegel. Certamente, la scuola ufficiale di Hegel aveva fatto completo fallimento. Aveva reso la dialettica del maestro un mero schema da applicare a ogni e qualsiasi cosa, e abbastanza spesso nel modo più maldestro. Di questi hegeliani si poteva dire, e lo si disse effettivamente, che non capivano nulla di nulla, ma scrivevano di tutto su tutto.

La loro ora era suonata quando Feuerbach aveva liquidato il concetto speculativo; il contenuto positivo della scienza ebbe di nuovo la preponderanza sulla parte formale. Ma al materialismo di Feuerbach mancava il «principio energico»; esso restava puramente naturalistico e si precludeva il processo storico. Marx ebbe anche troppa ragione di non essere soddisfatto quando sorsero i predicatori di questo materialismo, i Bùchner e i Vogt, la cui gretta mentalità filistea fece dire anche a Feuerbach che era d’accordo con questo materialismo ma per rivolgersi indietro, non in avanti. «Il ronzino stecchito del senso comune borghese si impunta naturalmente imbarazzato davanti alla fossa che divide l’essere dall’apparire, la causa dall’effetto; ma se si va a caccia sfrenata sul terreno accidentato del pensiero astratto, allora non si deve montare un ronzino». E’ un paragone usato una volta da Engels.

Ma gli hegeliani non erano Hegel; mentre essi si facevano forti della loro ignoranza, egli aveva appartenuto alle menti più colte di tutti i tempi. Di fronte a tutti gli altri filosofi, al fondo del suo pensiero c’era un senso storico che gli ha consentito una grandiosa concezione della storia, anche se in forma puramente idealistica vedeva per così dire le cose in uno specchio concavo, in quanto concepiva la storia del mondo soltanto come una prova pratica dello sviluppo del pensiero. Di questo contenuto reale della filosofia hegeliana Feuerbach non era venuto a capo, e gli hegeliani stessi lo avevano lasciato cadere.

Marx, accogliendolo di nuovo, ma capovolgendolo in quanto moveva non dal «puro pensiero» ma dalle tenaci cose della realtà, dette al materialismo la dialettica storica e con ciò un «principio energico», al quale non soltanto toccava di spiegare la società, ma anche di rivoluzionarla.

    7.5    ​​​La «Deutsche Brusseler Zeitung»

Marx, che aveva trovato per il suo non molto esteso scritto contro Proudhon un qualsiasi editore tedesco a Parigi o a Bruxelles, sia pure pagando le spese di stampa, in quel periodo, nel momento in cui esso uscì, nel pieno dell’estate del 1847, aveva anche nella Deutsche Brusseler Zeitung un organo di stampa che gli rendeva possibile far sentire la sua voce in pubblico.

Questo giornale fu pubblicato sin dal principio dell’anno come bisettimanale da quell’Adalbert von Bornstedt che a suo tempo aveva diretto il Vorwärts di Bòrnstein ed era stato al soldo sia del governo prussiano che di quello austriaco. Questo fatto è conosciuto oggi grazie agli archivi sia di Berlino che di Vienna e non può essere messo in dubbio; si tratta al massimo di sapere se Bornstedt ha seguitato il suo mestiere di spia anche a Bruxelles. Anche allora si ebbero dei sospetti contro di lui, ma vennero messi da parte in seguito alle denunzie contro il giornale di Bornstedt con cui l’ambasciata prussiana a Bruxelles tempestò le auto rità belghe. Certamente poteva anche trattarsi di polvere negli occhi, per accreditare Bornstedt presso gli elementi rivoluzionari che si erano riuniti a Bruxelles; nella scelta dei mezzi per i loro nobili scopi, i difensori del trono e dell’altare non si fanno tanti scrupoli.

Comunque Marx non ha creduto che Bornstedt facesse la parte di Giuda. Pensava che il suo giornale no nostante le sue molte debolezze, aveva sempre qualche merito; se non lo si trovava sufficiente, bisognava renderlo tale, invece di prendere il comodo pretesto di essere scandalizzati per il nome di Bornstedt. L’8 agosto Marx scriveva abbastanza amaramente a Herwegh: «Una volta non va l’uomo, un’altra la donna, un’altra la tendenza, un’altra lo stile, un’altra il formato, o magari la diffusione è legata a una dose maggiore o minore di pericolo. I nostri tedeschi hanno sempre in pectore mille sagge sentenze per dimostrare la ragione per la quale sono costretti a lasciar passare l’occasione senza sfruttarla. Un’occasione di far qualcosa non fa altro che metterli in imbarazzo». Seguiva poi un profondo sospiro per il fatto che coi manoscritti le cose andavano come per la Brusseler Zeitung, e una gagliarda maledizione contro quei somari, che gli rimproveravano di aver scritto in francese piuttosto che non aver scritto per niente.

Se da questo si dovesse desumere che Marx prendesse un po’ di sottogamba certe riserve nei riguardi di Bornstedt, per non lasciar passare «l’occasione senza sfruttarla», neanche per questo ci sarebbe da fargli alcun rimprovero.  L’occasione era infatti molto favorevole, e sarebbe stato pazzesco lasciarsela scappare soltanto per un sospetto. Nella primavera del 1847 le tragiche ristrettezze finanziarie avevano costretto il re di Prussia a convocare il Landtag unificato, assemblea comune dei precedenti parlamenti provinciali, insomma una rappresentanza feudale per ceti, così come nella primavera del 1789 Luigi XVI aveva convocati sotto lo stesso stimolo. Ora le cose in Prussia non avevano camminato così in fretta come allora in Francia, ma il Landtag unificato aveva pur sempre tenuta chiusa la borsa e dichiarato pari pari al governo che non accordava nessun mezzo prima che fosse assicurata la periodicità delle sue convo cazioni. Così le cose si erano messe in moto, perché il dissesto finanziario non era cosa tale da scherzarci; prima o poi la danza sarebbe ricominciata daccapo, e quanto prima le si fosse dato l’avvio, tanto meglio!

Gli articoli che Marx ed Engels fornirono alla Deutsche Brusseler Zeitung si muovevano appunto in questa cerchia di pensieri. Alle discussioni del Landtag unificato sulla libertà di commercio e sul dazio protettivo si rifaceva un articolo che invero uscì anonimo, ma che, a giudicare dal contenuto e dallo stile, è evidente mente di Engels. Allora egli era penetrato dalla convinzione che la borghesia tedesca avesse bisogno di alti dazi protettivi per non essere schiacciata dall’industria straniera, ma per acquistare anzi la forza neces saria a superare l’assolutismo e il feudalesimo. Per questo motivo Engels raccomandava al proletariato di sostenere l’agitazione per i dazi protettivi, anche se soltanto per questo motivo. Egli pensava, sì, che List, l’autorità maggiore dei protezionisti, aveva pur sempre prodotto quanto di meglio aveva la letteratura economico borghese in Germania, ma aggiungeva che tutta la sua opera gloriosa era copiata dal francese Ferrier, fondatore teorico del sistema continentale, e metteva in guardia gli operai dal lasciarsi ingannare dalle frasi sul «bene della classe lavoratrice», che sia i libero-scambisti che i protezionisti ostentava no come smagliante insegna della loro egoistica agitazione. Il salario della classe lavoratrice rimaneva lo stesso sia col sistema protettivo che col sistema del libero scambio. Engels difendeva i dazi protettivi soltanto come «misura borghese progressiva», e così pure li considerava Marx.

Steso insieme da Marx ed Engels è un articolo più lungo che respingeva un attacco del socialismo cristia no-feudale. Questo attacco era stato portato sul Rheinischer Beobachter, giornale fondato recentemente dal governo a Colonia, per istigare gli operai renani contro la borghesia renana. Sulle sue colonne il giova ne Hermann Wagener, come egli stesso ci informa nelle sue memorie, fece le prime armi. Marx ed Engels, date le loro strette relazioni con Colonia, dovettero averne sentore, dal momento che il ritornello della loro risposta è per così dire lo scherno contro la «testa pelata del consigliere concistoriale». E allora Wagener era assessore concistoriale a Magdeburgo.

Per questa volta il Rheinischer Beobachter si era scelto a pretesto per adescare gli operai il fallimento del Landtag unificato. La borghesia, rifiutando tutte le richieste di danaro del governo, aveva dimostrato che per essa non c’era altro da fare che prendere in mano il potere dello Stato; il bene del popolo le era indifferente; essa spingeva avanti il popolo soltanto per intimidire il governo; per essa il popolo era solo carne da cannone nel grande assalto contro l’autorità del governo. Quello che Marx ed Engels rispondevano è estremamente chiaro oggi. Sul conto della borghesia il proletariato si faceva illusioni come sul conto del
governo; si trattava soltanto di sapere che cosa fosse utile per i suoi scopi, il dominio della borghesia o il dominio del governo, e per rispondere a questa domanda era sufficiente un semplice confronto tra la situazione degli operai tedeschi e la situazione degli operai sia inglesi che francesi.

Alle frasi demagogiche del Rheinischer Beobachter: «Popolo beato! Tu hai davvero vinto sulla questione di principio. E se tu non comprendi che razza di cosa è questa, lascia che te lo spieghino i tuoi rappresentanti; durante il lungo discorso forse dimenticherai la tua fame», Marx ed Engels rispondevano anzitutto con mordente ironia che dal fatto che queste frasi sobillatrici erano rimaste impunite si poteva riconoscere che la stampa tedesca era veramente libera. Ma poi spiegavano che il proletariato aveva capito così bene la questione di principio che non rimproverava al Landtag unificato di aver vinto su questo punto, ma di non aver vinto. Se esso non si fosse limitato semplicemente a rivendicare l’ampliamento dei suoi diritti corporativi, ma avesse rivendicato giurie, uguaglianza di fronte alla legge, abolizione delle corvées, libertà di stampa, libertà di associazione e una effettiva rappresentanza popolare, esso avrebbe trovato il più energico appoggio da parte del proletariato.

Poi si faceva piazza pulita delle chiacchiere bigotte intorno ai principi sociali del cristianesimo, davanti ai quali il comunismo avrebbe dovuto sparire. «I principi sociali del cristianesimo hanno ormai avuto il tempo di svilupparsi per milleottocento anni, e non hanno bisogno di nessuno sviluppo ulteriore ad opera di consiglieri concistoriali prussiani. I principi sociali del cristianesimo hanno giustificato la schiavitù antica, magnificato la servitù della gleba medievale, e in caso di necessità sanno anche difendere l’oppressione del proletariato, sia pure con una smorfia di compassione. I principi sociali del cristianesimo predicano la necessità di una classe dominante e di una classe oppressa, e per quest’ultima non hanno altro che il pio desiderio che l’altra sia benefica. I principi sociali del cristianesimo pongono in cielo il concistoriale compenso per tutte le infamie, e giustificano così la prosecuzione di queste infamie sulla terra. I principi sociali del cristianesimo spiegano tutte le indegnità perpetrate dagli oppressori contro gli oppressi o come la giusta punizione per il peccato originale e per i peccati di ciascuno, o come prove a cui il Signore, secondo la sua sapienza, condanna gli eletti. I principi sociali del cristianesimo predicano la vigliaccheria, il disprezzo di se stessi, l’avvilimento, la sottomissione, l’umiltà, insomma tutte le caratteristiche della canaglia, e il proletariato, che non vuole lasciarsi trattare da canaglia, ha bisogno del suo coraggio, del suo orgoglio, della sua consapevolezza e della sua indipendenza, ancor più che del suo pane. I principi sociali del cri stianesimo sono ipocriti, e il proletariato è rivoluzionario». E proprio questo proletariato rivoluzionario Marx ed Engels portavano alla lotta contro ogni miraggio di riforma sociale da parte della monarchia. Il popolo che ringrazia con occhi lacrimosi per ogni calcio e per ogni soldo ricevuto esiste soltanto nell’immaginazione del re: il vero popolo, il proletariato, è, secondo la espressione di Hobbes, un giovanotto robusto e malizioso; come proceda contro i re che vogliono prenderlo in giro lo dimostra il destino di Carlo I di Inghilterra e di Luigi XVI di Francia.

Questo articolo si rovesciò come una grandinata sul seminato del socialismo feudale, ma alcune gragnuole caddero anche nelle vicinanze. Per quanto Marx ed Engels difendessero a ragione l’attività del Landtag unificato, volta a negare a un governo abbietto e reazionario ogni mezzo finanziario, però gli facevano un troppo grande onore quando consideravano dallo stesso punto di vista il rifiuto di un’imposta sul reddito proposta dal governo. Qui si trattava piuttosto di una trappola che il governo aveva teso alla borghesia. La proposta di abolire la tassa sul macinato e sul macellato, estremamente gravosa pei gli operai delle grandi città, e di compensare il disavanzo finanziario in primo luogo con un’imposta sul reddito da far pagare alle classi possidenti, partì originariamente dalla borghesia renana, che nel far questo si lisciava guidare dagli stessi morivi da cui si era lasciata guidare la borghesia inglese nella sua lotta contro i dazi sul grano.

Questa rivendicazione era assolutamente odiosa per il governo, se non altro perché toccava direttamente le tasche della grande proprietà fondiaria, senza che questa classe — dato che la tassa sul macinato e sul macellato riguardava soltanto le grandi città — potesse attendersi dalla sua. abolizione la riduzione dei salari del proletariato che essa sfruttava. Il governo tuttavia presentò al Landtag unificato un progetto di legge in proposito col secondo fine di rendere impopolare il Landtag e popolare il governo stesso, che infatti contava sul fatto che un’assemblea feudale corporativa mai avrebbe accettato una riforma fiscale che tendesse sia pure provvisoriamente ad alleggerire le classi lavoratrici a spese delle classi possidenti. E quanto questo calcolo fosse esatto lo dimostrò già il voto sul suo progetto di legge, nel quale quasi tutti i principi, quasi tutti gli Junker e quasi tutti i funzionari votarono contro. Ma in questo esso ebbe anche la ventura particolare che una parte della borghesia, quando si venne al dunque, fallì brillantemente.

E allora il rifiuto dell’imposta sul reddito fu sfruttato dalle penne ufficiose come una prova schiacciante di come la borghesia giocasse a darla a bere, e soprattutto il Rheinischer Beobachter non si stancava di insi stere sull’argomento. Se all’incontro Marx ed Engels facevano osservare al loro «consigliere concistoriale» che egli «era il più grande e svergognato ignorante di cose economiche» in quanto sosteneva che un’im posta sul reddito riduceva sia pure di un capello la miseria sociale, essi avevano perfettamente ragione, ma avevano torto di difendere il rifiuto dell’imposta sul reddito come un giusto colpo inferto al governo. Questo colpo non raggiunse affatto il governo, che finanziariamente ne fu piuttosto consolidato che indebolito, se conservò nelle sue tasche la sua tassa sul macinato e sul macellato; redditizia e funzionante con perfetta esattezza, invece di tormentarsi con un’imposta sul reddito che, stando alle antiche e alle nuove esperien ze, se deve esser applicata alle classi possidenti, presenta le sue difficoltà particolari. Marx e Engels in questo caso hanno ritenuto la borghesia ancora rivoluzionaria, mentre era già reazionaria.

I veri socialisti procedevano abbastanza spesso in maniera opposta, ed è abbastanza comprensibile che, in un momento in cui la borghesia si accingeva alla battaglia, Marx ed Engels ancora una volta attaccassero questa corrente. Ciò fu fatto in una serie di feuilletons che Marx pubblicò sulla Deutsche Brusseler Zeitung contro «il socialismo tedesco in versi e in prosa», e in un articolo non più stampato, scritto da Engels ma forse pensato da tutti e due. Nei due lavori si regola magnificamente il conto col vero socialismo dal punto di vista estetico-letterario, che era proprio la sua parte più debole o, se si vuole, più forte. Marx ed Engels, affrontando questa deformazione artistica, non hanno sempre rispettato abbastanza i diritti dell’arte; soprattutto nell’articolo manoscritto lo stupendo Ça ira di Freiligrath viene giudicato con ingiusta severità. Ma anche i Canti del poveruomo di Karl Beck Marx li considerò nella Deutsche Brusseler Zeitung alquanto severamente classificandoli tra le «illusioni piccolo-borghesi»; tuttavia egli prediceva sin d’allora il triste destino del pretenzioso naturalismo che doveva affacciarsi quindici anni dopo, quando scriveva:

«Beck canta la vile miseria piccolo-borghese, il ‘poveruomo’, il pauvre honteux con i suoi poveri, pii e incoerenti desideri, non il proletario superbo, minaccioso e rivoluzionario». Accanto a Karl Beck bisogna mettere ancora l’infelice Grün, che in un libro oggi da gran tempo dimenticato bistrattava Goethe «dal punto di vista umano», cioè ricostruiva il « vero uomo» con tutte le parti meschine, noiose e filistee del grande poeta.

Più importante di queste scaramucce era una più estesa trattazione in cui Marx giudicava il corrente radicalismo frasaiolo non meno aspramente di quanto aveva fatto col socialismo frasaiolo del governo. In una polemica contro Engels, Karl Heinzen aveva spiegato per mezzo della violenza l’ingiustizia nei rapporti di proprietà; aveva chiamato vile e pazzo chiunque osteggiasse un borghese a causa dei suoi acquisti di denaro e lasciasse in pace un re a causa del suo acquisto di potere. Heinzen era un volgare strillone che non meritava una particolare attenzione, ma l’opinione che egli rappresentava era molto conforme ai gusti dei filistei «illuminati». La monarchia, secondo lui, doveva la sua esistenza al fatto che gli uomini per secoli e secoli avevano fatto a meno del buon senso e della dignità morale; ma ora che essi erano di nuovo in possesso di questi beni preziosi, tutti i problemi sociali sarebbero scomparsi di fronte al problema: mo narchia o repubblica. Questa ingegnosa concezione era l’esatto corrispondente della ingegnosa opinione dei principi, secondo cui i movimenti rivoluzionari sono provocati soltanto dalla malvagità dei demagoghi.

Ora Marx dimostrava, e in prima linea sulla base della storia tedesca, che la storia fa i principi e non i principi la storia. Egli indicava le origini economiche della monarchia assoluta, che compare in quel periodo di trapasso in cui gli antichi ceti feudali scompaiono e il ceto cittadino medievale cresce fino a divenire la moderna classe borghese. Che essa in Germania si sia formata più tardi e duri più a lungo è un fatto dovuto allo stentato processo di sviluppo della classe borghese tedesca. Così, per motivi economici. si spiega la massiccia funzione reazionaria di cui si compiacquero i principi. La monarchia assoluta, che prima aveva favorito il commercio e l’industria e, nello stesso tempo, l’affacciarsi della classe borghese, come condizioni necessarie sia della potenza nazionale che del proprio splendore, ora si frapponeva sempre sul cammino del commercio e dell’industria, diventate armi sempre più pericolose nelle mani di una borghesia già potente. Dalla città, luogo da cui ebbe origine la sua ascesa, essa getta lo sguardo divenuto timoroso e spento verso la campagna, concimata dal cadavere degli antichi suoi giganteschi avversari.

La trattazione è ricca di pensieri fecondi, ma il « buon senso» dei probi borghesucci non si lasciò incantare così facilmente. La stessa teoria della violenza che Marx combatté per Engels contro Heinzen, Engels la
dové combattere per Marx contro Dühring un’intera generazione più tardi.

    7.6    ​​​La Lega dei Comunisti

Nel 1847 la colonia comunista di Bruxelles si era sviluppata in modo imponente.

A dire il vero non vi si trovava nessun talento che potesse misurarsi con Marx o Engels. Talvolta sembrava che o Moses Hess o Wilhelm Wolff, che collaboravano tutte due alla Deutsche Brusseler Zeitung sarebbe divenuto il terzo della partita. Ma alla fine nessuno de! due lo è diventato. Hess non riuscì mai a liberarsi dalla ragnatela filosofica, e il modo aspramente offensivo con cui ilManifesto comunista giudico i suoi scritti portò alla sua rottura completa con Marx ed Engels.

Più recente era la loro amicizia con Wilhelm Wolff, venuto a Bruxelles soltanto nella primavera del 1846, ma essa ha resistito a tutte le tempeste fino a che non la sciolse la morte prematura di Wolff.

Ma Wolff non era un pensatore originale, e come scrittore, rispetto a Max ed Engels, non godeva soltanto dei lati buoni della « maniera popolaresca». Era originario di una famiglia di contadini della Slesia, servi della gleba per generazioni, ed era arrivato agli studi universitari attraverso fatiche indicibili, e lì aveva nutrito sui grandi pensatori e poeti dell’antichità il suo odio ardente contro gli oppressori della sua classe. Era stato trascinato dall’una all’altra delle fortezze slesiane per qualche anno come demagogo, e poi, come insegnante privato a Breslavia, aveva condotto una instancabile guerriglia con la burocrazia e la censura, finché, nuovamente processato, si indusse ad andare all’estero piuttosto che irrancidire nelle prigioni prussiane.

Sin dal periodo di Breslavia era divenuto amico di Lassalle, come più tardi di Marx ed Engels, e tutti e tre hanno adornato la sua tomba con allori che non appassiranno. Wolff apparteneva a quelle nobili nature che, secondo la parola del poeta, pagano di persona; il suo carattere saldo quanto una quercia, la sua fedeltà incorruttibile, la sua severa coscienziosità, il suo inalterabile disinteresse, la sua tranquilla modestia facevano di lui un campione di lottatore rivoluzionario e spiegavano la profonda stima con cui, a parte tutto l’amore e tutto l’odio, solevano parlare di lui sia i suoi amici politici che i suoi nemici politici.

Alquanto in seconda linea in confronto a Wilhelm Wolff, faceva parte del circolo degli intimi di Marx ed Engels il suo omonimo Ferdinand Wolff; ed anche Ernst Dronke, che aveva scritto un libro eccellente sulla Berlino prequarantottesca ed era stato condannato a due anni di fortezza per un presunto reato di lesa maestà in esso perpetrato, arrivò soltanto alla dodicesima ora dopo la sua fuga dalle casematte di Wesel. Apparteneva poi alla cerchia più intima anche Georg Weerth, che Engels conosceva sin dal tempo in cui viveva a Manchester, e Weerth, anche lui impiegato in una ditta tedesca, a Bradford. Weerth era un autentico poeta, e appunto per questo privo di ogni pedanteria propria della corporazione dei poeti; anche egli è scomparso per morte prematura, e nessuna mano pietosa ha raccolto finora i versi che egli cantò con lo spirito del proletariato in lotta e disperse senza curarsene.

Intorno a questi lavoratori dello spirito si riunivano poi abili lavoratori del braccio, primi di tutti Karl Wallau e Stephan Born, i due tipografi della Deutsche Brusseler Zeitung.

Inoltre Bruxelles, capitale di uno Stato che si atteggiava a modello di monarchia borghese, era il luogo più adatto per allacciare relazioni internazionali, perlomeno finché Parigi, che era sempre il centro della rivoluzione, restava sotto l’oppressione delle famigerate leggi di settembre. Nel Belgio stesso Marx ed Engels avevano buone relazioni con gli uomini della rivoluzione del 1830; in Germania, soprattutto a Co lonia, contavano vecchi e nuovi amici, accanto a Georg Jung soprattutto i medici d’Ester e Daniels; a Parigi, Engels si legò al partito socialista-democratico e soprattutto ai suoi rappresentanti ideologici, Louis Blanc e Ferdinand Flocon, che dirigeva l’organo di questo partito, la Réforme. Relazioni anche più strette esistevano con la frazione rivoluzionaria dei cartisti, con Julian Harney, direttore del Northern Star, e con Ernest Jones, che era stato educato in Germania. Sotto l’influsso spirituale di questi dirigenti cartisti vivevano i Fraternal Democrats, organizzazione internazionale nella quale, attraverso Karl Schapper, Josef Moli e altri membri, era rappresentata anche la Lega dei Giusti.

Ora, proprio da questa Lega partì nel gennaio 1847 la spinta decisiva.  Essa, in quanto «Comitato comunista di corrispondenza di Londra», era legata con il «Comitato di corrispondenza di Bruxelles», ma i rapporti reciproci erano molto freddi. Da una parte regnava una certa diffidenza verso i «dotti» che non riuscivano ancora a sapere di che cosa propriamente soffrisse il proletariato, dall’altra parte la diffidenza contro i «vagabondi», cioè contro la limitatezza artigianesca-corporativa che era ancora fortissima tra gli operai tedeschi di allora. Engels, che a Parigi aveva il suo bel da fare a sottrarre i «vagabondi» di là all’influsso di Proudhon e di Weitling, riteneva invero che i «vagabondi» di Londra fossero i soli coi quali si potesse trattare, ma di fronte a un indirizzo che la Lega dei Giusti aveva diramato nell’autunno del 1846 a proposito della questione dello Schleswig-Holstein dichiarò pari pari che era uno «sconcio»; i suoi autori avevano appreso dagli inglesi per l’appunto le balordaggini: la totale ignoranza di tutta la situazione realmente esistente e l’incapacità di concepire uno sviluppo storico.

Più di un decennio dopo, Marx così si espresse sulla sua posizione di allora nei riguardi della Lega dei Giusti

: «Noi pubblicammo contemporaneamente una serie di pamphlets in parte stampati, in parte litografati, nei quali quel miscuglio di socialismo o comunismo franco-inglese e di filosofia tedesca, che allora costituiva la dottrina segreta della Lega, era sottoposto ad una critica spietata, e in sua vece si prospettava cerne unica base teorica solida una considerazione scientifica della struttura economica della società borghese, e infine si spiegava in forma popolare come non si trattasse di attuare un qualche sistema utopistico, ma di partecipare consapevolmente al processo di rivoluzionamento della soci età che si andava svolgendo sotto i nostri occhi». Alla efficacia di queste prese di posizione Marx attribuiva il fatto che la Lega dei Comunisti inviasse a Bruxelles nel gennaio del 1847 uno dei membri del suo Comitato centrale, l’orologiaio Josef Moli, per invitare lui ed Engels a entrare nella Lega che aveva intenzione di accettare la loro concezione.

Purtroppo non si è conservato nessuno degli opuscoli di cui Marx parla, eccetto la circolare contro Kriege, che fra l’altro viene preso in giro come emissario e profeta di una lega segreta di Esseni, la «Lega della giustizia». Kriege mistificava lo sviluppo storico reale del comunismo nei diversi paesi d’Europa descri vendo la sua origine e i suoi progressi sulla base di intrighi favolosi e romanzeschi, del tutto campati in ara, di questa Lega di Esseni e diffondendo le più folli fantasie circa la sua forza.

Se la circolare ha avuto efficacia sulla Lega dei Giusti, essa ha dimostrato proprio con questo che i suoi membri erano qualcosa di più che dei «vagabondi», e che essi avevano appreso dalla storia inglese qualcosa di meglio di quello che Engels supponeva. Essi seppero apprezzare la circolare, per quanto poco amichevolmente vi fosse citata la loro Lega di Esseni, meglio di quanto non fece Weitling, che non vi era affatto tartassato, ma che si schierò subito dalla parte di Kriege. In realtà la Lega dei Giusti, data la possibilità di contatti internazionali offerti da Londra, si era conservata più fresca e più potente delle sezioni di Zurigo e anche di Parigi. Destinata inizialmente alla propaganda tra gli operai tedeschi, in quella capitale del mondo aveva preso un carattere internazionale. Nelle continue relazioni con profughi di tutti i paesi del mondo, e al cospetto del movimento cartista, che alzava ondate sempre più possenti, i suoi dirigenti acquistarono una capacità di guardare lontano, che oltrepassava di gran lunga le posizioni artigianesche. Accanto ai vecchi dirigenti Schapper, Bauer e Moli, e più di loro, si fecero luce il miniaturista Karl Pfànder di Heilbronn e il sarto Georg Eccarius della Turingia per le loro doti di comprensione ideologica.

La procura scritta di mano di Schapper e datata al 20 gennaio 1847, con la quale Moli si presentò a Bruxelles da Marx e poi a Parigi da Engels, è redatta ancora in modo molto circospetto; essa autorizza il latore a dare informazioni sulla situazione della Lega e a fornire esatta informazione su tutti gli argomenti d’importanza. A voce Moli si espresse più liberamente.  Egli invitò Marx ad entrare nella Lega e superò le sue remore iniziali comunicandogli che i dirigenti centrali avevano l’intenzione di convocare a Londra un congresso della Lega, per presentare in un pubblico manifesto come dottrina della Lega le opinioni critiche sostenute da Marx e da Engels. Tuttavia Marx ed Engels dovevano aiutare a contrastare gli elementi ormai invecchiati e recalcitranti, e per questo fine dovevano entrare nella Lega.

Così si decisero a entrarvi. Tuttavia, nel congresso che ebbe luogo nell’estate del 1847, si giunse soltanto a un’organizzazione democratica della Lega, come si confaceva a un’associazione di propaganda che vo leva sì agire in segreto, ma che si teneva lontana da ogni attività di tipo cospiratorio. La Lega si organizzò in comunità che non dovevano contare meno di tre e più di dieci membri, in circoli, circoli direttivi, comitato centrale e congresso. Suo scopo fu dichiarato l’abbattimento cella borghesia, il dominio del proletariato, l’abolizione della vecchia società fondata sugli antagonismi di classe, la fondazione di una nuova società senza classi e senza proprietà privata.

Era conforme al carattere democratico della Lega, che da questo momento si chiamò Lega dei Comunisti, che i nuovi statuti fossero prima sottoposti alla discussione delle singole comunità. La decisione definitiva su di essi fu rinviata a un secondo congresso, che avrebbe dovuto aver luogo prima della fine dell’anno e deliberare insieme il nuovo programma della Lega. Marx non partecipò al primo congresso, ma Engels sì, come rappresentante delle comunità parigine, e Wolff come rappresentante delle comunità di Bruxelles.

    7.7    ​​​Propaganda a Bruxelles

La Lega dei Comunisti considerava suo primo compito fondare associazioni culturali di operai tedeschi che le rendessero possibile una propaganda pubblica, allo scopo di completarsi ed estendersi partendo dai suoi membri più idonei.

Il funzionamento di queste associazioni era dappertutto lo stesso. Un giorno alla settimana era destina to alla discussione, un altro ai trattenimenti sociali (canto, recitazione ecc.). Dappertutto furono istituite biblioteche sociali e, dove possibile, classi per l’istruzione elementare degli operai.

Secondo questo modello fu poi istituita anche l’Associazione operaia tedesca, che sorse a Bruxelles alla fine di agosto e contò presto un centinaio di membri. Presidenti ne erano Moses Hess e Wallau, segretario era Wilhelm Wolff. L’Associazione si riuniva il mercoledì e la domenica sera. Il mercoledì si discutevano questioni importanti riguardanti gli interessi del proletariato, la domenica sera Wolff soleva fare la sua ras segna politica settimanale, nella quale egli dispiegò ben presto una particolare capacità; poi seguiva il trattenimento sociale, al quale prendevano parte anche le donne.

Il 27 settembre questa Associazione organizzò un banchetto internazionale per dimostrare che gli ope rai di diversi paesi nutrivano sentimenti fraterni gli uni verso gli altri. Allora si preferiva scegliere la forma dei banchetti per la propaganda politica onde sfuggire ai controlli polizieschi sulle pubbliche riunioni. Il banchetto del 27 settembre aveva però anche un’origine e uno scopo particolare. Esso fu organizzato da Bornstedt e da altri elementi scontenti della colonia tedesca, come scriveva Engels, che vi presenziò, a Marx assente, «per degradare tutti noi a una parte secondaria di fronte... ai democratici belgi... e far nascere un’associazione molto più grandiosa e universale della nostra meschina Associazione operaia» 1. Engels tuttavia seppe sventare a tempo l’intrigo; fu addirittura eletto a uno dei due posti di vicepresidente accanto al francese Imbert, nonostante la sua resistenza per il fatto che «aveva un aspetto così maledetta mente giovanile», mentre la presidenza onoraria del banchetto fu data al generale Mellinet e la presidenza effettiva all’avvocato Jottrand, vecchi combattenti della rivoluzione belga del 1830.

Partecipavano al banchetto centoventi ospiti: belgi, tedeschi, svizzeri, francesi, polacchi, italiani ed anche un russo. Dopo i soliti discorsi, si decise di fondare in Belgio un’associazione degli amici della riforma sul modello dei Fraternal democrats. Nel comitato promotore fu eletto anche Engels. Poiché egli lasciò subito dopo Bruxelles, raccomandò in una lettera a Jottrand di chiamare al suo posto Marx, che sarebbe stato eletto senza dubbio se avesse potuto esser presente all’assemblea del 27 settembre. «Non sarebbe dunque il signor Marx a sostituirmi, ero piuttosto io che alla riunione ho sostituito il signor Marx». In realtà, quando il 7 e il 15 novembre si costituì definitivamente l’«Associazione democratica per l’unificazione di tutti i paesi», Imbert e Marx vennero eletti vicepresidenti, mentre Mellinet fu confermato presidente onorario e Jottrand presidente effettivo. Lo statuto era sottoscritto da democratici belgi, tedeschi, francesi e polacchi, in tutto circa sessanta nomi; di tedeschi, oltre Marx, vi si trovavano Moses Hess, Georg Weerth, i due Wolff, Stephan Born e anche Bornstedt.

La prima grande manifestazione dell’Associazione democratica fu la celebrazione dell’anniversario della rivoluzione polacca il 29 novembre. Per i tedeschi parlò Stephan Born, che ebbe grandi applausi Ma Marx parlò come rappresentante ufficiale dell’Associazione nel meeting che i Fraternal democrats organizzarono a Londra nello stesso giorno e per lo stesso motivo. Egli dette al suo discorso un’impostazione asso lutamente proletario-rivoluzionaria. «La vecchia Polonia è perduta, c noi saremo gli ultimi ad auspicare la sua ricostituzione. Ma non soltanto la vecchia Polonia è perduta, ma la vecchia Germania, la vecchia Francia, la vecchia Inghilterra, tutta la vecchia società è perduta. La perdita della vecchia società non è però una perdita per coloro che non hanno nulla da perdere nella vecchia società, e in tutti i paesi è ora così per la grande maggioranza». Nella vittoria del proletariato sulla borghesia Marx vedeva il segnale della liberazione per tutte le nazionalità oppresse, e nella vittoria dei proletari inglesi sulla borghesia inglese egli vedeva il colpo decisivo per la vittoria di tutti gli oppressi sui loro oppressori. La Polonia non doveva essere liberata in Polonia, ma in Inghilterra. Se i cartisti battevano i loro nemici interni, avrebbero battuto l’intera società.

Nella risposta all’indirizzo presentato da Marx, i Fraternal Democrats tennero lo stesso tono. «Il vostro rappresentante, il nostro amico e fratello Marx, vi racconterà con quale entusiasmo noi abbiamo salutato la sua comparsa e la lettura del vostro indirizzo. Tutti gli occhi lampeggiavano di gioia, tutte le voci gridavano il benvenuto, tutte le mani si tendevano fraternamente verso il vostro rappresentante.... Noi accettiamo coi sensi della gioia più viva l’alleanza che voi ci offrite. La nostra associazione esiste da più di due anni con la parola d’ordine: Tutti gli uomini sono fratelli. In occasione della nostra ultima festa nell’anniversario della nostra fondazione, noi abbiamo raccomandato la costituzione di un congresso democratico di tutte le nazioni, e siamo lieti di udire che voi avete fatto pubblicamente le stesse proposte. La congiura dei re dev’essere combattuta dalla congiura dei popoli... Noi siamo convinti che ci si deve rivolgere al vero popolo, ai proletari, agli uomini che versano giornalmente il loro sangue e il loro sudore sotto l’oppressione dell’attuale sistema sociale, per fondare la fratellanza universale.... Dalla capanna, dalla soffitta o dalla cantina, dall’aratro, dalla fabbrica, dall’incudine si potranno vedere, anzi già si vedono venire per la stessa strada i portatori della fraternità e gli eletti salvatori dell’umanità». I Fraternal Democrats proponevano di tenere il congresso democratico universale a Bruxelles nel settembre del 1848, in un certo modo come contraltare al congresso libero-scambista che aveva avuto luogo nella stessa città nel settembre del 1847.

Tuttavia il saluto ai Fraternal Democrats non era l’unico scopo che aveva portato Marx a Londra. Subito dopo il meeting polacco, nello stesso locale, la saia delle riunioni dell’Associazione comunista operaia di cultura, che era stata fondata nel 1840 da Schapper, Bauer e Moli, ebbe luogo il congresso convocato dalla Lega dei Comunisti per approvare definitivamente i nuovi statuti e per discutere il nuovo programma. Anche Engels partecipò a questo congresso; egli si era incontrato con Marx a Ostenda, venendo da Parigi, il 27 novembre, e avevano fatto insieme il viaggio per mare. Dopo una discussione durata almeno dieci giorni, essi ottennero l’incarico di riassumere in un manifesto pubblico i principi fondamentali del comunismo.

Verso la metà di dicembre Marx tornò a Bruxelles ed Engels a Parigi. Pare che essi non dimostrassero troppa fretta di eseguire l’incarico avuto; perlomeno il 24 gennaio 1848, il Comitato centrale di Londra fece pervenire al comitato del circolo di Bruxelles un ammonimento molto energico in base al quale si doveva significare al cittadino Marx che se il Manifesto del Partito Comunista, della cui redazione egli si era assunto l’incarico, non fosse pervenuto a Londra entro il 1◦ febbraio, sarebbero stati presi ulteriori provvedimenti contro di lui. E’ ormai difficile stabilire che cosa possa aver provocato il ritardo; il modo di lavorate di Marx, così impegnativo e approfondito, o la sua lontananza da Engels; forse quelli di Londra si spazientirono anche alla notizia che Marx lavorava intensamente a Bruxelles alla sua propaganda.

Il 9 gennaio 1848 Marx tenne nell’Associazione democratica un discorso sul libero scambio. Egli avrebbe voluto tenere lo stesso discorso già al congresso libero-scambista di Bruxelles, ma non era riuscito ad aver la parola. Quello che egli dimostrava e confutava in questo discorso era l’inganno perpetrato dai li bero-scambisti col «bene degli operai», che essi sostenevano fosse lo stimolo della loro agitazione. Ma se il libero scambio favoriva in assoluto il capitale a scapito degli operai, tuttavia Marx non disconosceva — e non lo disconosceva proprio per questo — che esso corrispondeva ai fondamenti dell’economia borghese. Era la libertà del capitale che abbatteva i confini nazionali entro i quali restava ancora impedito, per svincolare totalmente la propria attività. Esso spezzava le antiche nazionalità e spingeva all’estremo il contrasto tra borghesia e proletariato. Con ciò esso affrettava la rivoluzione sociale; e, in questo senso rivoluzionario, Marx era d’accordo col sistema della libertà di commercio.

Nello stesso tempo egli si schermiva dal sospetto di nutrire tendenze protezionistiche, e pur approvando il libero scambio, non entrava affatto in contraddizione colla sua valutazione dei dazi protettivi tedeschi corre di una «misura borghese progressiva». Come Engels, Marx considerava tutta la questione del libero scambio e del protezionismo da una posizione puramente rivoluzionaria. La borghesia tedesca aveva bisogno di dazi protettivi come di un’arma contro l’assolutismo e il feudalesimo, come di un mezzo per concentrare le sue forze, per attuare il libero scambio all’interno del paese, per promuovere la grande industria, che ben presto avrebbe finito col dipendere dal commercio mondiale, cioè più o meno dal libero scambio. Del resto il discorso trovò il vivo consenso dell’Associazione democratica, che decise di farlo stampare a sue spese in francese e in fiammingo.

Più significative e più importanti di questo discorso furono le conferenze che Marx tenne nell’Associazione operaia tedesca sul tema Lavoro salariato e capitale. Marx partiva dal fatto che il salario lavorativo non è una partecipazione dell’operaio alla merce da lui prodotta, ma la parte della merce già esistente, con cui il capitalista si compra una determinata quantità di lavoro produttivo. Il prezzo del lavoro viene determinato come il prezzo di ogni altra merce: dai suoi costi di produzione. Il costo di produzione del lavoro semplice ammonta alle spese per il mantenimento e per la propagazione della specie dell’operaio. Il prezzo di queste spese costituisce il salario lavorativo, che a causa delle oscillazioni della concorrenza sta ora al di sopra ora al di sotto dei costi di produzione, come il prezzo di ogni altra merce, ma entro queste oscillazioni tende a stabilirsi sul minimo salariale.

Marx esaminava quindi il capitale. Alla spiegazione degli economisti borghesi, secondo cui il capitale è lavoro accumulato, egli rispondeva: «Che cos’è uno schiavo negro? Un uomo di razza nera. Una spiega zione vale l’altra. Un negro è un negro. Soltanto in determinate condizioni egli diventa uno schiavo. Una macchina filatrice di cotone è una macchina per filare il cotone. Soltanto in determinate condizioni essa diventa capitale.  Sottratta a queste condizioni essa non è un capitale, allo stesso modo che l’oro in sé e per sé non è denaro e lo zucchero non il prezzo dello zucchero» . Il capitale è un rapporto sociale di produzione, un rapporto di produzione della società borghese. Una quantità di merci, di valori di scambio, diventa capitale per il fatto che come forza sociale indipendente, cioè come la forza di una parte della società, si conserva e si accresce mediante lo scambio con l’immediata forza di lavoro vivente. «L’esistenza di una classe che non possiede nient’altro che la capacità di lavorare, è una premessa necessaria del ca pitale. Soltanto il dominio del lavoro accumulato, passato, materializzato, il lavoro immediato, vivente, fa del lavoro accumulato capitale. Il Capitale non consiste nel fatto che il lavoro accumulato serve al lavoro vivente come mezzo per una nuova produzione. Esso consiste nel fatto Che il lavoro vivente serve al lavoro accumulato come mezzo per conservare e per accrescere il suo valore di scambio». Capitale e lavoro li condizionano reciprocamente, si producono reciprocamente.

Da ciò gli economisti borghesi traggono la conseguenza che l’interesse dei capitalisti e quello degli operai sono lo stesso, e, certo, bisogna convenire che l’operaio è rovinato se il capitale non lo occupa, e il ca pitale va in malora se non sfrutta l’operaio. Quanto più rapidamente si accresce il capitale produttivo, quanto più è perciò fiorente l’industria, quanto più la borghesia si arricchisce, di tanti più operai ha bisogno il capitalista, tanto più caro si vende l’operaio. Perciò la condizione indispensabile per una situazione passabile dell’operaio è l’incremento più rapido possibile del capitale produttivo.

Marx spiegava che in questo caso un aumento sensibile del salario lavorativo presuppone un incremento tanto più rapido del capitale produttivo. Se cresce il capitale, per quanto salga il salario lavorativo, tanto più rapidamente sale il profitto del capitale. La situazione materiale dell’operaio si è migliorata ma a scapito della sua situazione sociale: l’abisso sociale che le separa dal capitalista si è approfondito. Che la condi zione più favorevole per il lavoro salariato è l’incremento più rapido possibile del capitale, significa soltanto: quanto maggiore è la rapidità con cui la classe operaia accresce e aumenta la forza a lei avversa, la ric chezza altrui che la signoreggia, tanto più favorevoli sono le condizioni in cui le viene permesso di lavorare di nuovo all’accrescimento della potenza del capitale, soddisfatta di saldarsi da sé le catene d’oro con cui la borghesia la trascina dietro di sé.

Però, prosegue Marx, il fatto si è che incremento del capitale e l’aumento del salario lavorativo non sono affatto legati così indissolubilmente come sostengono gli economisti borghesi. Non è vero che quanto più il capitale s’ingrassa tanto meglio viene ingrassato il suo schiavo. L’incremento del capitale produttivo comprende in sé l’accumulazione e la concentrazione dei capitali. Il loro accentramento porta con sé una maggiore divisione del lavoro e un uso più intenso delle macchine. La maggiore divisione del lavoro distrugge la particolare abilità del operaio; sostituendo a questa particolare abilità un lavoro che ciascuno può eseguire, essa aumenta la concorrenza tra gli operai.

Questa concorrenza diventa tanto più forte quanto più la divisione del lavoro rende possibile al singole operaio di eseguire il lavoro di tre operai. Lo stesso risultato lo hanno le macchine in grado anche molto maggiore. L’incremento del capitale produttivo costringe i capitalisti industriali a lavorare con mezzi sempre crescenti; così rovina i piccoli industriali e li respinge tra il proletariato. Inoltre poiché il tasso dell’interesse cade nella misura in cui i capitali si accumulano, i piccoli redditieri, che non possono più vivere sulle loro rendite, si rivolgeremo all’industria e aumenteranno il numero dei proletari.

Infine, quanto più il capitale produttivo cresce, tanto più è costretto a produrre per un mercato di cui non conosce i bisogni. Tanto più la produzione precede il bisogno, tanto più l’offerta cerca di forzare la domanda, tanto più crescono di frequenza e di violenza le crisi, quei terremoti industriali, dai quali il commercio mondiale ora si salva sacrificando agli dei dell’Averno una parte della ricchezza, dei profitti e persino delle forze produttive. Il capitale non vive soltanto del lavoro. Un signore nobile insieme e barbarico lo trascina con sé nel sepolcro ove sono i cadaveri dei suoi schiavi, intere ecatombe di operai che periscono nelle crisi. E Marx così si riassume: se il capitale cresce rapidamente, cresce in modo incomparabilmente più rapido la concorrenza fra gli operai, cioè sempre più diminuiscono proporzionalmente i mezzi di occupazione, i mezzi di sussistenza per la classe operaia, e ad onta di ciò il rapido aumento del capitale è la condizione più favorevole per il lavoro salariato.

Purtroppo si è conservato soltanto questo frammento delle conferenze che Marx tenne agli operai tedeschi in Bruxelles. Ma è sufficiente per mostrare con che serietà e con che profondità di pensiero egli svolgesse questa propaganda. Bakunin che, espulso dalla Francia per un discorso da lui tenuto nell’anniversario cella rivoluzione polacca, era arrivato a Bruxelles proprio in quei giorni, ne dava, certo, un giudizio di verso. Il 28 dicembre 1847 egli così scriveva a un amico russo: «Marx qui seguita a fare le stesse cose di prima, corrompe gli operai facendone dei chiacchieroni. La stessa pazzia teorica e la stessa inappagata vanagloria», e anche peggio poi parlava di Marx ed Engels in una lettera a Herwegh: «In una parola, menzogne e idiozie, idiozie e menzogne. In questa compagnia non c’è alcuna possibilità di respirare libe ramente. Io me ne tengo lontano e ho dichiarato fermissimamente che me ne vado dalla loro Associazione operaia comunista e non voglio avere più nulla a che fare con essa».

Queste espressioni di Bakunin sono degne di nota non per quel che contengono di irritazione personale — Bakunin infatti, sia prima che poi, venne giudicato diversamente Marx — ma perché in esse si annunciava quel contrasto che doveva portare a lotte violente tra questi due rivoluzionari.

    7.8    ​​​Il «Manifesto comunista»

Nel frattempo anche il manoscritto del Manifesto comunista era stato mandato a Londra per la stampa. Lavori preparatori non ne erano mancati già dopo il primo congresso, che aveva rinviato a un secondo congresso la deliberazione di un programma comunista. Era ovvio che i teorici del movimento si occupassero di questo compito. Marx ed Engels, ed anche Hess, hanno steso alcuni primi abbozzi del genere.

Ma si è conservato soltanto l’abbozzo a proposito del quale Engels scriveva a Marx il 24 novembre 1847, cioè poco prima del secondo congresso: «Pensa un po’ alla professione di fede. Io credo che facciamo la cosa migliore se abbandoniamo la forma di catechismo e intitoliamo la cosa: Manifesto comunista. Dato che bisogna più o meno narrare la storia, la forma usata finora non si adatta per nulla. Porterò con me quella di qui che ho fatto io, è semplicemente narrativa, ma redatta in modo miserabile, con una fretta tremenda». Engels aggiungeva che l’abbozzo non era stato ancora sottoposto al giudizio delle comunità parigine, ma che sperava di farlo passare, a parte alcune minuzie da nulla.

Esso è redatto ancora proprio nella forma di catechismo che in ogni caso avrebbe aiutato, piuttosto che compromesso, la sua grande accessibilità per l’uomo comune. Per gli scopi dell’agitazione immediata, esso sarebbe stato più adatto del Manifesto scritto poi, col quale coincide perfettamente per quanto riguarda il contenuto ideologico. Nondimeno Engels sacrificando del tutto le sue venticinque domande e risposte a favore di uno studio storico, dette una prova della sua coscienziosità: il Manifesto, nel quale il comunismo si annunciava come fenomeno storico mondiale, doveva — secondo le parole dello storico greco — essere un’opera di importanza duratura e non uno scritto polemico per il lettore distratto.

E’ infatti anche la sua forma classica che ha assicurato al Manifesto comunista il suo posto stabile nella letteratura mondiale.  E non perché si debba con ciò fare una concessione a quegli strani originali che,
estraendone singole frasi, hanno preteso di dimostrare che gli autori del Manifesto avrebbero plagiato Carlyle o Gibbon o Sismondi, o chissà chi altro. Questo non è che polvere negli occhi, e per questo riguardo il Manifesto è tanto indipendente e originale quanto non lo è mai stata nessun’opera. Ma tuttavia esso non contiene nessun pensiero che Marx ed Engels non avessero già espresso nei loro scritti precedenti. Il Manifesto non fu una nuova rivelazione; soltanto riassumeva la nuova concezione del mondo dei suoi autori in uno specchio la cui luce non poteva essere più chiara e la cui cornice più stretta. Per quello che lo stile ci consente di giudicare, Marx ha avuto la parte maggiore nel dargli la forma definitiva, sebbene Engels, come il suo abbozzo dimostra, non stesse affatto su di un livello ideologico inferiore, e debba con lo stesso buon diritto esserne considerato, anch’egli, autore.

Da quando uscì il Manifesto sono passati due terzi di secolo, e questi sei o sette decenni sono stati un periodo di possenti rivolgimenti economici e politici, che non sono passati senza lasciar traccia sul Manifesto. Per certi aspetti lo sviluppo storico si è compiuto altrimenti, e soprattutto più lentamente di quanto i suoi autori non supponessero.

Quanto più il loro sguardo si spingeva in avanti, tanto più le cose apparivano loro vicine. Si può dire che non si poteva avere la luce senza queste ombre. E’ un fenomeno psicologico che Lessing ha già notato negli uomini che lanciano «sguardi molto giusti nel futuro»: « Quello per cui la natura si prende millenni di tempo, deve maturarsi nel breve attimo della loro esistenza». Ora, Marx ed Engels non si sono sbagliati di millenni, ma certo di parecchi decenni. Nel concepire il Manifesto essi vedevano lo sviluppo del modo di produzione capitalistico ad un grado tale che esso ha appena raggiunto oggi. Ed Engels si esprimeva nel suo abbozzo in modo anche più crudo che nel Manifesto stesso, là dove diceva che nei paesi civili in quasi tutti i rami della produzione veniva attuato il sistema di fabbrica, e che in quasi tutti i rami della produzione l’artigianato e la manifattura erano stati soppiantati dalla grande industria.

In singolare contrasto con questo stava la consistenza relativamente meschina dei partiti operai che il Manifesto comunista poté registrare.

Perfino il più notevole di essi, il cartismo inglese, era ancora fortemente impregnato di elementi picco lo-borghesi, e tanto più lo era il partito socialista democratico di Francia. I radicali della Svizzera e quei rivoluzionari polacchi per i quali l’emancipazione dei contadini era la condizione preliminare della liberazione nazionale, erano soltanto ombre. Più tardi gli autori stessi hanno indicato quale ristretto territorio di diffusione avesse allora il movimento proletario, e sottolineato in particolare l’assenza della Russia e degli Stati Uniti. « Erano i tempi in cui la Russia costituiva l’ultima grande riserva di tutta la reazione europea e l’emigrazione negli Stati Uniti assorbiva le forze esuberanti del proletariato europeo. Entrambi quei paesi rifornivano l’Europa di materie prime e le servivano al tempo stesso di mercato per i suoi prodotti industriali. Così entrambi, in un modo o nell’altro, erano dei bastioni dell’ordine sociale esistente in Europa». Come era cambiato tutto ciò già dopo una generazione, e così completamente oggi ! Ma è davvero una confuta zione del Manifesto la constatazione che la «funzione altamente rivoluzionaria» che esso attribuisce al modo di produzione capitalistico ebbe un respiro più lungo di quanto non gli attribuissero i suoi autori?

E’ legato con questo il fatto che la descrizione avvincente e grandiosa che il primo capitolo del Manifesto traccia della lotta di classe tra la borghesia e il proletariato nelle sue linee fondamentali è invero di insu perabile verità, ma tratta in modo fin troppo sommario il processo di questa lotta. Oggi non si può porre la questione in questi termini generali, che l’operaio moderno — a differenza dalle classi oppresse del passato, a cui erano state assicurate le condizioni entro le quali esse potevano almeno aver sicura la loro esistenza servile — invece di elevarsi col progresso dell’industria, precipita sempre più profondamente al di sotto delle condizioni della sua stessa classe. Per quanto il modo di produzione capitalistico presenti questa tendenza, tuttavia larghi strati della classe operaia hanno saputo assicurarsi, anche sul terreno del la società capitalistica, un’esistenza che si eleva addirittura al di sopra del livello di esistenza di certi strati piccolo-borghesi.

Ci si dovrà certo guardare dall’inseguire perciò coi critici borghesi la caducità della «teoria dell’immiserimento» che sarebbe stata proclamata dal Manifesto comunista.  Questa teoria, l’asserzione cioè che il modo di produzione capitalistico immiserirebbe le masse delle nazioni in cui esso predomina, era stata avanzata lungo tempo prima che apparisse il Manifesto comunista, anzi prima che Marx ed Engels prendessero la penna in mano. Essa era stata avanzata da pensatori socialisti, da politici radicali, anzi prima di tutti da economisti borghesi. La legge della popolazione di Malthus si affannava a coonestare la «teoria dell’immiserimento» come una legge naturale eterna. La «teoria dell’immiserimento» rispecchiava una prassi contro la quale inciampava perfino la legislazione delle classi dominanti. Si fabbricavano leggi sui poveri e si costruivano bastiglie per i poveri, nelle quali l’immiserimento veniva considerato come una colpa dei poveri e come tale veniva punito. Questa «teoria dell’immiserimento» l’hanno tanto poco inventa ta Marx ed Engels che essi le si sono anzi opposti fin dal principio, non certo in quanto essi combattessero la realtà incontrovertibile e universalmente riconosciuta dell’immiserimento, ma in quanto dimostrarono che questo immiserimento non era una legge naturale eterna, ma un fenomeno storico che poteva essere eliminato, e lo sarà, grazie agli effetti dello stesso modo di produzione che l’aveva generato.

Se si vuole levare un’accusa contro il Manifesto comunista partendo da queste posizioni, si può mirare soltanto al fatto che esso non si era ancora abbastanza liberato dall’impostazione della teoria borghese del l’«immiserimento». Esso stava ancora sulle posizioni della legge dei salari, così come l’aveva sviluppata Ricardo partendo dalla teoria della popolazione di Malthus; perciò dava un giudizio troppo svalutativo sulle lotte salariali e sulle organizzazioni sindacali degli operai, nelle quali riconosceva essenzialmente soltanto la piazza d’armi e il campo di manovra della lotta politica di classe. Nella legge inglese sulle dieci ore Marx ed Engels non riconoscevano ancora, come fecero più tardi, la «vittoria di un principio»; partendo da premesse capitalistiche essa era ai loro occhi soltanto una catena reazionaria per la grande industria. Insomma il Manifesto non riconosceva ancora nelle leggi di fabbrica e nelle organizzazioni sindacali le tappe della lotta per l’emancipazione del proletariato, che dovrà rivoluzionare la società capitalistica nella società socialista e che sarà combattuta fino alla sua meta ultima, se non si vuole che vadano perduti anche i primi successi faticosamente conquistati.

Conformemente a ciò il Manifesto considerava la reazione del proletariato alle tendenze all’immiserimento insite nel modo di produzione capitalistico, troppo unilateralmente alla luce di una rivoluzione politica. Davanti ad esso aleggiavano gli esempi della rivoluzione inglese e francese; esso attendeva alcuni decenni di guerre civili e di lotte di popolo, nella cui serra calda il proletariato sarebbe presto giunto a maturità politica. L’opinione degli autori si manifestava con piena chiarezza nelle frasi che trattavano dei compiti del partito comunista in Germania. Il Manifesto auspicava qui la lotta comune del proletariato e della bor ghesia, non appena questa agisse rivoluzionariamente contro la monarchia assoluta, la proprietà fondiaria feudale e la piccola borghesia, senza però lasciar passare un momento per portare gli operai alla coscienza più chiara possibile dell’antagonismo insanabile tra borghesia e proletariato.

Vi si dice poi: «Sulla Germania i comunisti rivolgono specialmente la loro attenzione, perché la Germania è alla vigilia della rivoluzione borghese, e perché essa compie tale rivoluzione in condizioni di civiltà generale europea più progredite e con un proletariato molto più sviluppato che non avessero l’Inghilterra nel secolo XVII e la Francia nel secolo XVIII; per cui la rivoluzione borghese tedesca non può essere che l’immediato preludio di una rivoluzione proletaria». Questa rivoluzione borghese in Germania, a dire il vero, tenne subito dietro al Manifesto ma le condizioni nelle quali essa si compì ebbero proprio l’effetto opposto: lasciarono fermarsi a mezza via la rivoluzione borghese, fino a che, alcuni mesi dopo, la battaglia parigina del giugno fece passare ogni velleità rivoluzionaria alla borghesia e particolarmente alla borghesia tedesca.

Così il dente del tempo ha roso qua e là le frasi quasi scolpite sul marmo del Manifesto. Già nell’anno 1872 gli autori stessi, nella prefazione ad una nuova edizione, riconoscevano che esso era «qua e là invecchiato», ma potevano con ugual diritto aggiungere che i principi fondamentali sviluppati nel Manifesto avevano conservato nel complesso la loro piena validità. E ciò varrà finché non sarà finita la lotta mondiale tra borghesia e proletariato. I momenti decisivi di questa lotta sono svolti con insuperabile maestria nel primo capitolo, come nel secondo sono svolte le idee direttive del comunismo scientifico moderno; e se nel terzo capitolo la critica della letteratura socialistica e comunistica giunge soltanto fino all’anno 1847, essa getta però lo sguardo così al fondo delle cose, che da allora in poi non è sorta nessuna tendenza socialista o comunista che non sia stata già criticata in questo capitolo. Ma finanche la predizione del quarto ed ultimo capitolo sullo svolgimento storico in Germania è stata vera, sia pure in un senso diverso di come la pensavano i suoi autori; la rivoluzione borghese in Germania, rattrappitasi già in germe, è stata soltanto un preludio del possente sviluppo della lotta di classe del proletariato.

Incrollabile nelle sue verità fondamentali e istruttivo anche nei suoi errori, il Manifesto comunista è divenuto un documento della storia mondiale, e attraverso la storia mondiale risuona il grido di battaglia con cui esso si conchiude: Proletari di tutti i paesi, unitevi!