​​CAPITOLO 6

Friedrich Engels



    6.1    ​​​Ufficio e caserma

Friedrich Engels nacque a Barmen il 28 novembre 1820. Come Marx, non prese le idee rivoluzionarie nella casa paterna, e, come per Marx, non furono le ristrettezze personali, ma l’alto ingegno a spingerlo sulla via rivoluzionaria. Suo padre era un ricco industriale di tendenze conservatrici e anche ortodosse; per quanto riguarda la religione Engels ha dovuto compiere un cammino più lungo di Marx.

Dopo aver frequentato il ginnasio ad Elberfeld fino al penultimo anno della maturità, egli si dedicò alla professione del commerciante. Come Freiligrath, fu un abilissimo commerciante, senza esser mai stato col cuore nel «maledetto commercio ». Si fa conoscenza con lui la prima volta nelle lettere che l’apprendista diciottenne mandava dall’ufficio dei console Leupold a Brema ai fratelli Gràber, due compagni di scuola in quel tempo studenti di teologia. In esse non si parla mai di commercio e di affari commerciali, se non quando una volta vi si dice: «Scritto sul nostro sgabello d’ufficio, dato che non avevamo preso la sbornia». Engels giovane era un allegro bevitore, come lo fu poi da vecchio; anche se nel Ratskeller di Brema non ha sognato come Hauff e cantato come Heine, sa però raccontare con uno spirito mordace la «grande sbornia» che si prese una volta in questi sacri locali.

Come Marx, fece anch’egli i suoi tentativi poetici, ma non meno rapidamente di Marx riconobbe che in questo giardino non crescevano allori per lui. In una lettera che porta la data del 17 settembre 1838, che dunque è scritta prima di compiere i diciotto anni, egli dichiarava di aver abbandonato la fede nel suo destino di poeta leggendo i consigli di Goethe «per giovani poeti». Alludeva ai due brevi scritti di Goethe nei quali il maestro spiega che la lingua tedesca è giunta a un grado così alto di sviluppo che a ciascuno è dato esprimersi a suo piacimento in verso e in rima, col che nessuno però deve immaginarsi nulla di particolare; Goethe conclude i suoi consigli con queste «parole in cima»:

Ragazzo, ricorda che in epoche

in cui spirito e sentimento stanno alti

la Musa può accompagnare

ma non però guidare.

In questi consigli il giovane Engels si trovò ritratto nella maniera più perfetta; grazie ad essi gli era divenuto chiaro che le sue rime non avevano nulla a che fare con l’arte. Voleva conservarle soltanto come «un di più gradevole », come diceva Goethe, e volle anche pubblicarne una su di una rivista, «dal momento che altri giovanotti, che sono dei somari altrettanto e più grossi di me, lo fanno anch’essi, e dal momento che con esse non innalzerò né abbasserò la letteratura tedesca». Il tono goliardico, che Engels amò sempre, non nascondeva però, nemmeno quando era giovane, nulla di superficiale: nella stessa lettera egli pregava i suoi amici di fargli avere da Colonia libri popolari, Siegfried, Eulenspiegel, Helena, Oktavian, Schildburger, Heymonskinder, Doktor Faust, e diceva di essersi dedicato allo studio di Jakob Böhme. «E’ un’anima oscura ma profonda. La maggior parte delle sue cose bisogna studiarsele terribilmente se ci si vuole capire qualche cosa».

L’abitudine di andare al fondo delle cose aveva ben presto fatto prendere in uggia al giovane Engels la superficiale letteratura della Giovane Germania. In una lettera di qualche tempo dopo, del 10 gennaio 1839, è la volta di questa «bella compagnia » e proprio perché andava diffondendo per il mondo cose inesistenti. «Questo Theodor Mundt manda in giro le sue porcherie sulla Demoiselle Taglioni, che danza cose di Goethe; si adorna di eleganze di Goethe, di Heine, di Rahel e della Stieglitz, dice le più preziose balordaggini su Bettina, ma tutto in modo così moderno, così moderno, che dev’essere un piacere per un bellimbusto o per una giovane, vana, lasciva signora leggere cose del genere... E questo Heinrich Laube! Questo tipo ti scarabocchia senza interruzione caratteri che non esistono, racconti di viaggio che non sono tali, sciocchezze su sciocchezze; è terribile». Per il giovane Engels lo «spirito nuovo» nella letteratura datava dal «colpo di fulmine della rivoluzione di luglio», la «più bella espressione della volontà popolare dalla guerra di liberazione in poi». Tra i rappresentanti di questo nuovo spirito egli annovera i Beck, i Grün e i Lenau, gli Immermann e i Platen, i Börne e gli Heine e anche Gutzkow, che con sicuro giudizio egli poneva al di sopra degli altri luminari della Giovane Germania. Al Telegrapb, una delle riviste pubblicate da questi «assolutamente onorabili giovanotti», Engels, secondo una lettera del 1◦ maggio 1839, fece arrivare un articolo, ma chiedendo però la massima discrezione, perché altrimenti si sarebbe trovato in un «imbarazzo infernale ».

Se di fronte alle tirate liberali della Giovane Germania il giovane Engels non si lasciava ingannare sulla mancanza di valore artistico di quegli scritti, era però anche lontanissimo dal giudicare con indulgenza, per colpa di questa mancanza di valore estetico, gli attacchi ortodossi e reazionari contro la Giovane Germania. In questo caso prese assolutamente partito per i perseguitati, si firmò perfino «Giovane tedesco», e minacciò all’amico: «Io ti dico, Fritz, che una volta che sarai pastore potrai diventare tanto ortodosso quanto vorrai, ma se diventi un pietista l’avrai a che fare con me». E aveva riflessi simili anche la sua singolare predilezione per Börne, il cui scritto contro il delatore Menzel fu descritto dal giovane Engels come la prima opera della Germania dal punto di vista dello stile, mentre Heine all’occasione se ne sbrigò definendolo un «porcaccione»; erano i giorni della grande sollevazione contro il poeta, quando anche il giovane Lassalle scriveva nel suo diario: «E quest’uomo è un apostata della causa della libertà! E quest’uomo si è strappato di testa il berretto dei giacobini e si è messo sui nobili riccioli un berretto gallonato !».

Tuttavia né Börne né Heine, né alcun altro poeta ha segnato al giovane Engels la strada della sua vita, ma il suo destino lo ha fatto uomo. Veniva da Barmen e visse a Brema, roccaforti l'una e l’altra del pietismo tedesco settentrionale; la liberazione da questi legami fu l’inizio della grande lotta di liberazione che riempie la sua vita gloriosa.  Quando lotta contro la fede della sua fanciullezza parla con una tenerezza che gli è altrimenti sconosciuta: «Io prego ogni giorno, anzi quasi tutto il giorno per avere la verità, lo ho fatto da quando cominciai a dubitare, e proprio non posso ritornare alla vostra fede... Mi vengono le lacrime agli occhi mentre ti scrivo, sono agitato fin nel profondo, ma lo sento, non mi perderò, arriverò a Dio, verso cui tutto il mio cuore tende.  E questa è anche una testimonianza dello Spirito Santo, per la quale io vivo e muoio, anche se nella Bibbia c’è scritto diecimila volte il contrario».

In queste battaglie dello spirito il giovane Engels arrivò dagli Hengstenberg e dai Krurnmacher, capi dell’ortodossia di allora, con un appoggio piuttosto che ccn un indugio momentaneo su Schleiermacher, fino a David Strauss, e ora confessa ai suoi amici teologici che per lui non ci sarà ritorno. Un vero razionalista poteva magari tornare a infilarsi nella camicia di forza dell’ortodossia, abbandonando le sue spiegazioni naturali dei miracoli e la sua piatta ricerca morale, ma la speculazione filosofica non poteva più discendere dai suoi «nevai illuminati dall’aurora » nelle «valli nebbiose» dell’ortodossia. «Sono sul punto di diventare hegeliano. Se lo diventerò a dire il vero non lo so ancora, ma Strauss mi ha dato dei lumi per capire Hegel che mi rendono del tutto plausibile la cosa. Nella sua (di Hegel) filosofia della storia ho trovato tutto me stesso». La rottura con la chiesa portava poi direttamente all’eresia politica. Un elogio pretesco al re di Prussia d’allora, l’uomo della caccia ai demagoghi, fece esclamare a questo Percy testa calda: «Mi aspetto qualche cosa di buono soltanto da quel principe a cui volano intorno alla testa i ceffoni del suo popolo e le finestre del cui palazzo sono mandate in frantumi dalle pietre della rivoluzione».

Con queste idee Engels era andato oltre il Telegraph di Gutzkow arrivando fino alle posizioni dei Deutsche ]ahrbücher e della Rheinische Zeitung. Egli collaborò occasionalmente a tutti e due questi giornali, quando dall’ottobre del 1841 all’ottobre del 1842 fece il suo anno di servizio volontario nell’artiglieria della guardia a Berlino, nella caserma al Kupfergraben, non lontano dalla casa dove Hegel aveva vissuto ed era morto. Il suo nome di battaglia in letteratura — Friedrich Oswald —, che in principio egli aveva scelto per riguardo alla sua famiglia di idee conservatrici e ortodosse, lo dovette conservare per ragioni anche più impellenti «nella regia divisa ».

Ad uno scrittore da lui aspramente criticato nei Deutsche Jabrbücher, Gutzkow scriveva per consolarlo, il 6 dicembre 1842: «il triste merito di aver introdotto nella letteratura F. Oswald appartiene purtroppo a me. Anni fa un tizio che si occupava di commercio, di nome Engels, mi mandò da Brema delle lettere sul Wuppertal. Io le corressi, cancellai gli accenni personali che erano troppo crudi, e le stampai. Da allora mi mandò della roba che dovetti regolar-mentre ritoccare. Improvvisamente proibì queste correzioni, studiò Hegel e passò ad altre riviste. Ancora poco prima che uscisse la critica su di Lei gli avevo mandato a Berlino 15 talleri. Così sono quasi tutti questi novellini. Debbono a noi se possono pensare e scrivere, e la loro prima azione è un parricidio spirituale. Naturalmente di tutta questa cattiveria non ne sarebbe nulla, se non le si facesse incontro la Rheinische Zeitung e la rivista di Ruge». Nemmeno il vecchio Moro nella torre della fame, si lamenta così, ma così va chiocciando la papera quando il paperotto da lei covato se ne va via sull’acqua.

Come nell’ufficio Engels era stato un bravo commerciante, così in caserma fu un bravo soldato; in seguite e fino alla fine della sua vita la scienza militare è stata tra i suoi studi preferiti. In questo stretto e conti nuo contatto con la pratica della vita quotidiana si compensava felicemente quello che poteva mancare di profondità speculativa al suo spirito filosofico. Durante il suo anno di volontariato egli ha gagliardamente bevuto coi Liberi di Berlino ed ha anche partecipato alle loro lotte con qualche scrittarello, a dire il vero in un periodo in cui la loto attività non era ancora degenerata. Già nell’aprile del 1842 uscì anonimo presso una casa editrice di Lipsia il suo breve scritto di 55 pagine: Schelling e la rivelazione, nel quale criticava «l’ultimo tentativo della reazione contro la libera filosofia», il tentativo di Schelling, chiamato all’Università di Berlino, di battere in breccia con la sua fede nella rivelazione la filosofia di Hegel. Ruge, che credette che lo scritto fosse opera di Bakunin, lo accolse con questa lode lusinghiera: «Questo amabile giovane si lascia indietro tutti i vecchi somari di Berlino». In realtà quello scritto rappresentava il Gicvane hegelianesimo ancor filo sofico fino alle sue estreme conseguenze, ma tuttavia non avevano nemmeno tutti i torti altri critici che vi trovavano meno acume critico che impeto poetico-filosofico.

Circa nello stesso tempo, sotto l’impressione ancor fresca dell’allontanamento di Bruno Bauer, Engels pubblicò a Neumünster presso Zurigo, anch’essa anonima, una Epopea cristiana in quattro canti, cioè una satira del «Trionfo della fede sull’arcidiavolo» «destituito d’imperio». Egli fece uso abbondante del privilegio della gioventù, di disprezzare cioè la critica minuziosa; un esempio del suo stile possono darlo i versi in cui Engels raffigura se stesso e Marx, che ancora non conosceva personalmente:

Ma quello dalle lunghe gambe che all’estrema sinistra schiamazza,

E’ Oswald, avvolto in un grigio mantelle e coi pantaloni color pepe, Pepato anche di dentro, Oswald il montagnardo,

Piccante quanto mai dal capo fino ai piedi,

Suona uno strumento, ed è la ghigliottina,

Su di essa accompagna sempre una cavatina;

Sempre risuona il canto infernale, sempre lui intona ’ il ritornello : Formez vos baiaillons ! Aux armes, citoyens !

Chi dietro incalza con furia selvaggia ?

Un giovane bruno di Treviri, un mostro di forza,

Egli va, non saltella, ma balza sui talloni

E imperversa furibondo, e come se volesse afferrare

L’ampia volta del cielo e trarla a terra,

Tende il braccio col duro pugno chiuso

Su in alto nell’aria.

Così infuria senza posa,

Come se diecimila diavoli lo avessero preso pel ciuffo.

Trascorso il periodo del servizio militare, alla fine di settembre del 1842, Engels tornò alla sua casa paterna, e di qui, due mesi più tardi, andò a Manchester, come impiegato nella fabbrica tessile Ermen & Engels, di cui suo padre era comproprietario. Durante il viaggio visitò la redazione della Rheinische Zeitung a Colonia, e per la prima volta vi vide Marx. Ma il loro incontro fu molto freddo, perché capitava proprio nei giorni in cui Marx rompeva coi Liberi. Engels era prevenuto contro Marx per alcune lettere che gli avevano scritto i fratelli Bauer, e Marx vedeva in Engels un compagno d’idee dei Liberi di Berlino.

    6.2    ​​​Civiltà inglese

Sono ormai ventun mesi che Engels ha passato in Inghilterra, e questo periodo ha avuto per lui un’im portanza analoga a quella dell’anno trascorso da Marx a Parigi. Tutte due provenivano dalla scuola della filosofia tedesca, muovendo dalla quale essi, all’estero, giungevano a identici risultati, ma se Marx si era reso conto delie lotte e dei desideri del tempo studiando la rivoluzione francese, Engels lo aveva fatto studiando l’industria inglese.

Anche l’Inghilterra aveva avuto la sua rivoluzione borghese, anzi un secolo prima della Francia, ma ap punto perciò in condizioni incomparabilmente meno avanzate. Quella rivoluzione si età infine risolta in un compromesso tra aristocrazia e borghesia, che si crearono una monarchia comune. La «classe media» inglese non ebbe da sostenere con la monarchia e con la nobiltà quella lotta lunga e tenace che dovette sostenere il «terzo stato» in Francia.

Ma se alla storiografia francese divenne chiaro soltanto attraverso a una considerazione retrospettiva che la lotta del «terzo stato» era una lotta di classe, in Inghilterra il pensiero della lotta di classe sbocciò per così dire fresco fresco dalle radici, quando il proletariato, al tempo del Reform bill del 1832, entrò in lotta con la classe dominante. La differenza si spiegava col fatto che la grande industria aveva sconvolto il suolo inglese molto più profondamente che quello francese. Nel suo processo di sviluppo, constatabile quasi con mano, essa aveva annientato vecchie classi e ne aveva creato di nuove. L’intima struttura della moderna società borghese era in Inghilterra molto più trasparente che in Francia. Dalla storia e dalla natura dell’industria inglese Engels imparò che i fatti economici, che nella storiografia passata non avevano avuto parte alcuna o una parte meschina, almeno nel mondo moderno sono una forza storica decisiva, che essi formavano la base del sorgere degli odierni contrasti di classe, e che questi contrasti di classe, dove essi si fossero sviluppati pienamente grazie alla grande industria, erano a loro volta la base della formazione dei partiti politici, delle lotte politiche e con ciò di tutta la storia politica.

Era senz’altro dovuto alla sua professione il fatto che Engels rivolgesse lo sguardo in prima linea al terreno economico. Nei Deutsch-Französische Jahrbücher egli cominciò con una critica dell’economia politica, così come Marx aveva cominciato con una critica della filosofia del diritto. Il breve articolo è scritto ancora con impeto giovanile, ma annunzia tuttavia già una rara maturità di giudizio. Solo i professori tedeschi potevano chiamarlo un «lavoretto discretamente confuso»: Marx, cogliendo nel segno lo chiamò uno «schizzo geniale». Uno «schizzo», perché quello che Engels dice sull’economia di Adam Smith e di Ricardo non è affatto esauriente e nemmeno sempre esatto, e quello che egli rimprovera loro nei particolari poteva essere già stato detto da socialisti inglesi o francesi.

Tuttavia era geniale il tentativo di far derivare tutte le contraddizioni dell’economia borghese dalla sua fonte reale, dalla proprietà privata in quanto tale; con questo Engels andava già più in là di Proudhon, che sapeva combattere la proprietà privata soltanto sul terreno della proprietà privata. In tutto quello che Engels ebbe a dire sugli effetti disumanizzanti della concorrenza capitalistica, sulla teoria della popolazione di Malthus, sulla sempre crescente febbre della pro duzione capitalistica, sulle crisi commerciali, sulla legge del salario, sui progressi della scienza, che sotto il dominio della proprietà privata da mezzi di liberazione dell’umanità divengono piuttosto mezzi per il sem pre più intenso asservimento della classe operaia ecc., sono contenuti i germi più fecondi del comunismo scientifico per la parte economica, che in realtà Engels ha scoperto per primo in quanto tale.

Su questo punto lui personalmente ha sempre avuto un’idea eccessivamente modesta. Una volta egli ha detto che alle sue tesi economiche soltanto Marx aveva dato «l’acuta impostazione decisiva», un’altra volta che «Marx stava più in alto, vedeva più avanti, considerava più cose e più rapidamente che tutti moi altri», e una terza volta che quello che egli aveva trovato, Marx avrebbe finito per trovarlo da sé; con tutto ciò nel loro periodo iniziale, sul terreno su cui alla fine si sarebbe dovuto dare e fu dato il colpo decisivo, Engels è stato quello che dette e Marx quello che ricevette. Sicuramente allora Marx era la mente più dotata filosoficamente e più quadrata, e se ci si vuole magari divertire con un gioco infantile di se e di ma, che non ha nulla a che fare con la ricerca storica, si può disquisire se Engels avrebbe risolto il problema, che tutti e due risolsero, nella sua forma francese, più complessa, come lo ha risolto Marx. Ma — questo è stato a torto misconosciuto — nella sua forma inglese, più semplice, Engels lo ha risolto non meno felicemente. Proprio se si considera la sua critica dell’economia politica da un angolo visuale unilateralmente economico, si potrà accantonarne qualche cosa; quello che la contraddistingue e quello che ne fa un progresso essenziale della conoscenza, il suo autore lo deve alla scuola dialettica di Hegel.

Nel secondo articolo che Engels pubblicò nei Deutsch-Französische Jahrbücher, il punto di partenza filo sofico si mostra subito evidente. Egli vi descriveva la situazione inglese sulla base di uno scritto di Carlyle, da lui indicato come l’unico libro che valesse la pena d’esser letto tra tutta la produzione letteraria di un anno intero, riconoscendo in questo fatto l’espressione di una miseria anch’essa in significativo contrasto con la ricchezza della produzione francese. Engels vi riallacciava una considerazione sull’esaurimento intellettuale dell’aristocrazia e della borghesia inglese; l’inglese colto, in base al quale si giudica sul conti nente il carattere nazionale degli inglesi, era lo schiavo più disprezzabile sotto il sole, che soffocava sotto i pregiudizi, e particolarmente sotto i pregiudizi religiosi. «Soltanto la parte della nazione inglese ignota sul continente, soltanto gli operai, i paria d’Inghilterra, i poveri, sono davvero rispettabili, nonostante tutta la loro rozzezza e tutta la loro degradazione morale. Da loro viene la salvezza dell’Inghilterra, in loro ancora c’è materia creativa; non hanno cultura, ma nemmeno pregiudizi; hanno ancora energia da impiegare per una grande impresa nazionale, hanno ancora un futuro».

Engels additava, per dirla con Marx, come in questo «ingenuo terreno popolare» la filosofia cominciasse a metter radici; la Vita di Gesù di Strauss, che nessuno scrittore decente aveva osato tradurre e nessun libraio per bene stampare, era stata tradotta da un propagandista socialista e veniva diffusa in fascicoli da un penny tra gli operai di Londra, Birmingham e Manchester. Engels traduceva i «più belli » tra «i passi spesso meravigliosamente belli» dello scritto di Carlyle, che dipingevano coi colori più cupi la situazione inglese. Ma contro le proposte che Carlyle fa per la salvezza: una nuova religione, un culto panteistico degli eroi e altre del genere, egli si richiamava a Bruno Bauer e a Feuerbach. Tutte le possibilità della religione erano esaurite, anche il panteismo, che le Tesi di Feuerbach negli Anecdota avevano liquidato per sempre. «Finora la questione è sempre stata questa: che cosa è Dio?, e la filosofia tedesca ha così risolto la questione: Dio è l’uomo. L’uomo ha da riconoscere soltanto se stesso, ha da misurare su se stesso tutte le condizioni della vita, ha da giudicarle secondo la propria natura, ha da organizzare in modo veramente umano il mondo secondo le esigenze del la sua natura, e così ha risolto l’enigma del nostro tempo». E se Marx spiegava subito l’uomo di Feuerbach come l’essenza dell’uomo, lo Stato, la società, così Engels vedeva nell’essenza dell’uomo la storia, che è « il nostro uno e il nostro tutto», e che «da noi » viene tenuta più alta che da ogni altra precedente corrente filosofica, più alta anche che da Hegel, al quale alla fine doveva servire soltanto come prova delle soluzioni da lui prospettate.

E’ straordinariamente seducente seguire fin nei minimi particolari, nei due articoli che Engels e Marx scrissero per i Deutsch-Französische Jahrbücher, come affiorino gli stessi pensieri, diversamente coloriti .— qui alla luce della rivoluzione francese, lì alla luce dell’industrialismo inglese, le due grandi rivoluzioni storiche dalle quali data la storia della società borghese moderna — ma nella sostanza uguali. Se Marx nei dirit ti dell’uomo aveva saputo leggere il carattere anarchico della società borghese, Engels spiegava così la concorrenza, «questa categoria fondamentale dell’economista, questa sua figlia prediletta»: «Che cosa pensare di una legge, che riesce ad imporsi soltanto attraverso le rivoluzioni periodiche delle crisi commer ciali? E’ per l’appunto una legge naturale che si fonda sul venir meno di quelli che vi hanno parte». Se Marx era arrivato a comprendere che l’emancipazione umana è completa soltanto quando l’uomo sia dive nuto essere collettivo mediante l’organizzazione delle sue proprie forze come forze sociali, Engels diceva: producete con coscienza, come uomini, non come atomi spersi senza coscienza della vostra collettività, e avrete superato tutte queste contraddizioni artificiose e insostenibili.

Si veda come l’accordo giunge quasi fino alle particolarità dell’espressione.

    6.3    ​​​La «Sacra famiglia»

Il loro primo lavoro comune fu la resa dei conti con la loro coscienza filosofica, e si tradusse in una po lemica contro la Allgemeine Literaturzeitung, che Bruno Bauer coi fratelli Edgar ed Egbert pubblicava a Charlottenburg dal dicembre 1843.

In questa rivista i Liberi di Berlino tentavano di stabilire la loro concezione del mondo, o piuttosto quella che essi così chiamavano. Bruno Bauer, a dire il vero, era stato invitato da Fròbel a collaborare ai Deutsch-Französische Jahrbücher, ma alla fine egli non si era potuto decidere a farlo, e in sostanza egli teneva duro alla sua autocoscienza filosofica non soltanto perché la sua coscienza personale era stata aspramen te ferita da Marx e da Ruge. Le sue acide osservazioni sulla «Rheinische Zeitung di buona memoria», sui «radicali », sui «saggi dell’anno del Signore 1842» avevano in ogni caso un fondo concreto. La decisione e la rapidità con cui la reazione romantica aveva annientato i Deutsche Jahrbücher e la Rheinische Zeitung, non appena si erano rivolte dalla filosofia alla politica, e l’assoluta indifferenza in cui la «massa» era rimasta davanti a questo «eccidio» dello «spirito», lo avevano convinto che su questa via non c’era nulla da fare.  Vedeva ogni possibile salvezza soltanto nel ritorno alla filosofia pura, alla teoria pura, alla critica pura, con la quale, creare un onnipotente dominatore del mondo nel cielo nuvoloso dell’ideologia, non presentava difficoltà particolari.

Il programma della Allgemeine Literaturzeitung, fin dove era ancora comprensibile, Bruno Bauer lo espresse con queste parole: « Tutte le grandi azioni della storia svoltasi finora o erano fallite da capo a fondo e rimaste senza un deciso successo perché la massa si era interessata o entusiasmata per esse, o avevano fatto una triste fine perché l’idea di cui in esse si trattava, era di tal fatta da doversi accontentare di una interpretazione superficiale e da dover perciò contare anche sull’applauso della massa». Il contrasto tra «spirito» e «massa» passava come un filo rosso attraverso la Allgemeine Literaturzeitung-, essa diceva che ora lo spirito sapeva dove doveva cercare il suo unico antagonista, cioè nella massa con le sue illusioni e la sua mancanza di un nucleo solido.

Conformemente a ciò la rivista di Bauer giudicava con perentorio disprezzo tutti i movimenti «di massa » del tempo, cristianesimo e giudaismo, pauperismo e socialismo, rivoluzione francese e industrialismo inglese. Troppa cortesia dimostrava ancora Engels quando dedicava alla rivista questo giudizio: «E’ e resta una vecchia femmina, la appassita e logora filosofia hegeliana, che adorna e acconcia il suo corpo risecchito fino alla più ripugnante astrazione e in tutta la Germania si guarda attorno per trovare un Libero». Infatti la filosofia di Hegel veniva spinta all’assurdo. Hegel, quando diceva che lo spirito assoluto, in quanto spirito creatore del mondo, nel filosofo giunge alla coscienza sempre soltanto in un secondo momento, in fondo diceva soltanto che lo spirito assoluto apparentemente fa la storia nell’immaginazione, e aveva sem pre energicamente protestato contro il malinteso che l’individuo filosofico stesso fosse lo spinto assoluto. Invece i Bauer e i loro discepoli si consideravano come le incarnazioni personali della Critica, dello spirito assoluto, che per mezzo loro, giunto a coscienza, adempiva la parte di spirito del mondo, in contrasto con la restante umanità.

Questa nebbia doveva rapidamente volatilizzarsi nell’atmosfera filosofica della Germa nia, e perfino nel circolo dei Liberi la Allgemeine Literaturzeitung trovò un’accoglienza molto tiepida; non collaborarono né Kòppen, che si tirò senz’altro indietro, né Stirner, che anzi si armò segretamente per liqui darla, e nemmeno Meyen e Rutenberg fu possibile averli della partita, e i Bauer, con l’unica eccezione di Faucher, dovettero accontentarsi di una terza serie di Liberi, un certo Jungnitz, e Szeliga, pseudonimo del tenente prussiano von Zychlinski, che morì più tardi nel 1900 come generale di fanteria. E tutto il can-can in capo a un anno era ammutolito e disperso; la Allgemeine Literaturzeitung era non solo morta, ma anche già dimenticata, quando Marx ed Engels presero posizione pubblicamente contro di essa.

E ciò non fu propizio al loro primo scritto comune, la Critica della Critica critica, come essi stessi lo battezzarono, o La Sacra famiglia, come lo intitolarono su proposta dell’editore. Gli avversari lo schernirono subito perché sfondava delle porte aperte, e anche Engels pensava, nel ricevere il libro finito, che era una cosa molto in gamba, ma comunque troppo lunga; il sovrano disprezzo con cui la Critica critica era trattata stava in netto contrasto con i ventun fogli e mezzo di stampa del libro; la maggior parte di esso sarebbe rimasto incomprensibile al grosso pubblico e non avrebbe avuto un interesse generale. Oggi questo giudizio coglie nel segno incomparabilmente più che allora, ma nel frattempo lo scritto ha acquistato un’attrattiva che non poteva essere apprezzata quando apparve, per lo meno non tanto quanto può essere apprezzata oggi. Un
critico moderno, dopo aver biasimato le sofisticherie, i ghirigori e perfino le storture di pensiero dello scritto, dice subito che esso contiene alcune delle più belle manifestazioni del genio, che anche per la maestria della forma e per la aurea concisione della lingua appartengono a quanto di meglio Marx abbia mai scritto.

In queste parti del libro Marx si rivela un maestro di quella critica costruttiva che batte l’immaginazione ideologica per mezzo della realtà positiva, che mentre distrugge crea, mentre demolisce ricostruisce. Alla fraseologia critica di Bruno Bauer sul materialismo francese e sulla rivoluzione francese Marx contrappone brillanti scorci di questi avvenimenti storici. Alle chiacchiere di Bruno Bauer sul contrasto tra «spirito» e « massa», «idea» e «interesse», Marx risponde freddamente: «L’idea ha fatto sempre una brutta figura tutte le volte che era separata dall’interesse ». Ogni interesse di massa che si imponesse storicamente, presentandosi sulla scena del mondo, andava di solito, nell’idea, molto al di là dei suoi limiti reali e si confondeva senz’altro con l’interesse umano. Era l’illusione che Fourier chiamava il tono di ogni epoca storica. «L’interesse della borghesia nella rivoluzione del 1789, ben lungi dall’aver ‘fallito’, ha ‘raggiunto’ tutto e ha avuto il ‘successo più decisivo’ tanto quanto il pathos è svanito e i fiori entusiastici di cui questo interesse coronava la sua culla sono appassiti. Questo interesse era così possente da superare vittoriosamente la penna di un Marat, la ghigliottina degli uomini del Terrore, la spada di Napoleone, non che il crocifisso e il sangue puro dei Borboni». Nel 1830 la borghesia aveva attuato i suoi desideri del 1789 solo con la differenza che il suo illuminismo politico era cessato, e nello Stato costituzionale rappresentativo essa non perseguiva più l’ideale dello Stato, non perseguiva più la salute del mondo e scopi universalmente umani, ma vi vedeva l’espressione ufficiale del suo potere esclusivo, e il riconoscimento politico del suo particolare interesse. La rivoluzione era fallita soltanto per la massa, perché essa non aveva posseduto nell’idea politica l’idea del suo interesse reale, perché il suo vero principio vitale non era quindi coinciso col principio vitale della rivoluzione, e perché le sue reali condizioni di emancipazione erano sostanzialmente diverse dalle condizioni entro le quali la borghesia poteva emancipare se stessa e la società.

All’asserzione di Bruno Bauer, che lo Stato tiene insieme gli atomi della società borghese, Marx contrapponeva che quello che li teneva insieme è il fatto che essi erano atomi soltanto nell’idea, nel cielo della loro immaginazione, ma che in realtà erano esseri grandemente diversi dagli atomi, e cioè non degli egoisti divini, ma degli uomini egoisti. «Soltanto la superstizione politica s’immagina ancor oggi che la vita sociale debba essere tenuta insieme dallo Stato, mentre al contrario nella realtà lo Stato è tenuto insieme dalla vita sociale». E le sprezzanti espressioni di Bruno Bauer sull’importanza dell’industria e della natura per la conoscenza storica Marx le accoglieva domandando se la Critica critica credesse di essere sia pure soltanto agli inizi nella conoscenza della realtà storica, fino a che escludeva dal movimento storico l’atteg giamento teorico e pratico degli uomini di fronte alla natura, cioè le scienze naturali e l’industria. « Essa, come separa il pensiero dai sensi, l’anima dal corpo, così separa la storia dalle scienze naturali e dall’in dustria, così vede il luogo di nascita della storia non nella produzione rozzamente materiale sulla terra, ma nelle nebbiose nuvole del cielo».

Come Marx, di fronte alla Critica critica si rifaceva alla rivoluzione francese, così Engels si rifaceva all’indu stria inglese. In questo egli aveva a che fare col giovane Faucher, che tra i collaboratori della Allgemeine Literaturzeitung era quello che teneva più conto della realtà terrena; è spassoso leggere come allora egli sapeva analizzare con esattezza quella legge capitalistica dei salari che venti anni più tardi, all’entrare in scena di Lassalle, doveva condannare nel profondo dell’inferno come una «balorda legge ricardiana ». Accanto a tutti i grossolani errori che Engels gli indicava — nel 1844 Faucher non sapeva ancora nemme no che nel 1824 era stato abolito in Inghilterra il divieto di coalizione — non mancavano però del tutto le sofisticherie, e su di un punto essenziale si sbagliava anche Engels, anche se in una direzione diversa da quella di Faucher. Se questi aveva deriso la legge sulle dieci ore di Lord Ashley come una «fiacca misura a metà», che non sarebbe stata certo un colpo d’accetta nelle radici dell’albero, Engels vi vedeva, con «tut ta la grandiosità dell’Inghilterra», l’espressione comunque più mite possibile di un principio assolutamente radicale, poiché non solo avrebbe posto l’accetta alla radice del commercio estero e con ciò alla radice del sistema di fabbrica, ma ve l’avrebbe conficcata profondamente. Allora Engels, e Marx con lui, vedeva nel bill di lord Ashley un tentativo di mettere alla grande industria una catena reazionaria che sul terreno della società capitalistica sarebbe stata sempre di nuovo strappata.

Engels e Marx non hanno ancora del tutto cancellato il loro passato filosofico; sin dalle prime parole della prefazione essi danno rilievo all’«umanesimo positivo» di Feuerbach contro l’idealismo speculativo di Bruno Bauer. Essi riconoscono senza riserve i geniali sviluppi di Feuerbach, il suo merito di aver fornito elementi importantissimi e magistrali per la critica di ogni metafisica, di aver messo l’uomo al posto dell’antico sfrutta tore, anche dell’autocoscienza infinita. Ma essi passano sempre di nuovo dall’umanesimo di Feuerbach al socialismo, dall’uomo astratto all’uomo storico, e nel mondo del socialismo, fluttuante in caotica confusione, riescono sempre a orientarsi con meraviglioso acume. Essi svelano il segreto delle divagazioni socialisti che, di cui si compiaceva la borghesia satolla. La stessa miseria umana, l’infinita abbiezione costretta a. ricevere l’elemosina, servono di divertimento all’aristocrazia del denaro e della cultura, di appagamento del suo egoismo, di solletico al suo orgoglio: altro senso non hanno le molte associazioni di beneficienza in Germania, le molte società benefiche in Francia, le numerose donchisciotterie benefiche in Inghilterra, i concerti, i balli, gli spettacoli, i pranzi per i poveri, e anche le sottoscrizioni pubbliche per gli infortunati.

Tra i grandi utopisti Fourier è quello che ha più contribuito al contenuto di pensiero della Sacra famiglia. Tuttavia Engels già distingue tra Fourier e fourierismo; egli dice che il fourierismo annacquato, come lo predica la Démocratie pacifique non è altro che la dottrina sociale di una parte della borghesia filantropica. Tanto lui che Marx sottolineano sempre quanto anche i grandi utopisti non hanno mai compreso: lo sviluppo storico, il movimento autonomo della classe operaia. Contro Edgar Bauer, Engels scrive: «La Critica critica non crea nulla, l’operaio crea tutto, sì, tutto al punto da svergognare tutta la critica anche nelle sue creazioni spirituali; gli operai inglesi e francesi possono darne testimonianza». E il preteso contrasto esclusivo tra «spirito» e «massa » Marx lo accantonava tra l’altro anche osservando che alla critica comunista degli utopisti era subito corrisposto nella pratica il movimento delle grandi masse; bisogna aver conosciuto lo studio, l’avidità di sapere, l’energia morale, linstancabile ansia di progredire degli ouvriers francesi ed inglesi, per potersi fare un’idea della nobiltà umana di questo movimento.

Dopo di che è facile comprendere come Marx si rivolgesse con zelo particolare contro l’insulsa traduzione e l’ancora più insulso commento di cui Edgar Bauer aveva gratificato Proudhon nella Allgemeine Lite ra-turzeitung. Naturalmente per opportunità accademica Marx ha magnificato nella Sacra famiglia quello stesso Proudhon che egli doveva aspramente criticare qualche anno più tardi. Marx si opponeva, soltanto a che l’apporto positivo di Proudhon restasse offuscato dalle sbiadite chiacchiere di Edgar Bauer, e que st’apporto egli riteneva che nel campo dell’economia politica aprisse una nuova strada, così come quello di Bruno Bauer nel campo della teologia. Ma Marx si rivolse poi contro la ristrettezza economicistica di Proudhon, così come contro quella teologica di Bruno Bauer.

Se Proudhon, sul terreno dell’economia borghese, trattava la proprietà come una contraddizione interna, Marx diceva:

«La proprietà privata come proprietà privata, come ricchezza, è costretta a mantenere in vita se stessa e con sé la sua contraddizione, il proletariato. E’ la parte positiva della contraddizione, la proprietà privata soddisfatta di sé. Il proletariato invece è costretto, in quanto proletariato, ad eliminare se stesso e con sé la contraddizione che lo condiziona, che lo fa proletariato. E’ la parte negativa della contraddizione, la sua inquietudine per sé, la proprietà privata che si è dissolta e si dissolve. Entro questo contrasto il partito dei proprietari privati è dunque il partito conservatore, quello dei proletari il partito distruttore. Da quello parte l’azione di conservazione del contrasto, da questo l’azione del suo annullamento. D’altronde la proprietà privata nel suo moto economico spinge se stessa verso la propria dissoluzione, ma soltanto attraverso uno sviluppo indipendente da essa, inconsapevole, che ha luogo contro la sua volontà, che è condizionato dalla natura stessa della cosa, soltanto in quanto essa genera il proletariato in quanto proletariato, che è miseria consapevole della propria miseria spirituale e fisica, disumanità consapevole della propria disumanizzazione e perciò volta a eliminare se stessa. Il proletariato esegue la condanna che la proprietà privata infligge a se stessa generando il proletariato, cosi come esegue la condanna che il lavoro salariato infligge a se stesso generando la ricchezza altrui e la propria miseria. Quando il proletariato vince, esso non diventa affatto per questo la parte assoluta della società, perché vince soltanto in quanto elimina se stesso e il proprio contrario E allora è scomparso sia il proletariato che il suo contrasto che lo condiziona, cioè la proprietà privata».

Marx protestava esplicitamente contro l’accusa che egli volesse fare dei proletari degli dei, attribuendo loro questa funzione storica d’importanza mondiale.

“Anzi, al contrario ! Proprio perché l’astrazione da ogni umanità, perfino dall’apparenza di umanità, è praticamente compiuta nel proletariato al suo massimo sviluppo, siccome nelle condizioni di vita del proletariato si assommano tutte le condizioni di vita della società odierna nella loro disumana acutezza, siccome in esso l’uomo perde se stesso, ma nello stesso tempo non solo acquista coscienza teoretica di questa perdita, ma è anche direttamente spinto a sollevarsi contro questa disumanità dal bisogno indifferibile, assolutamente imperativo — espressione pratica della necessità — proprio per questo il proletariato può e deve liberarsi. Ma non può liberare se stesso senza eliminare le sue proprie condizioni di vita. Non può eliminare le sue proprie condizioni di vita, senza eliminare tutte le inumane condizioni di vita della società, che si riassumono nella sua situazione. Non invano esso passa per la dura ma corroborante scuola del lavoro. Non si tratta di ciò che questo o quel proletario o addirittura tutto il proletariato si prefigge momentaneamente come scopo. Si tratta di ciò che esso è e di ciò che, conformemente a questa sua essenza, esso sarà storicamente costretto a fare. Il suo scopo e la sua azione storica sono palesemente, irrevocabilmente tracciati nella sua particolare condizione di vita, come in tutta l’organizzazione dell’odierna società borghese”

E sempre di nuovo Marx sottolineava che una grande parte del proletariato inglese e francese era già consapevole del suo compito storico e lavorava incessantemente a portare a piena chiarezza questa consapevolezza.

Accanto a qualche fresca fonte da cui zampilla l’acqua della vita, la Sacra famiglia contiene a dire il vero anche alcune zone aride. Particolarmente i due lunghi capitoli che si occupano dell’incredibile sapienza del degno Szeliga, mettono a dura prova la pazienza del lettore. Si valuterà il libro nel modo più giusto se lo si considererà come un’improvvisazione, come del resto esso è visibilmente stato. Proprio nei giorni in cui Engels e Marx facevano la rispettiva conoscenza, arrivava a Parigi l’ottavo fascicolo della Allgemeine Literaturzeitung, nel quale Bruno Bauer polemizzava, a dire il vero in modo nascosto, ma insieme mordace, contro la concezione a cui tutti e due erano pervenuti nei Deutsch-Französische Jahrbücher.

E allora deve essere affiorata in loro l’idea di rispondere all’antico amico in maniera divertente e ironica, con un breve opuscolo, che avrebbe dovuto uscire al più presto. La cosa pare confermata dal fatto che Engels buttò giù subito la parte sua, che comprendeva poco più di un foglio di stampa, e restò molto meravigliato quando seppe che Marx aveva allungato lo scritto fino a venti fogli di stampa; gli pareva «curioso» e «buffo» che, data la breve estensione della sua parte, il suo nome figurasse anch’esso nel frontespizio e addirittura al primo posto. Marx deve aver affrontato il lavoro nella sua maniera radicale, e, secondo la nota espressione anche troppo vera, gli deve essere mancato il tempo di essere breve; forse ha anche ampliato la materia per ottenere la libertà di stampa, consentita ai libri superiori ai venti fogli.

Per il resto, gli autori proclamarono che questa polemica serviva soltanto da preambolo a scritti autonomi in cui essi — ciascuno per sé — avrebbero preso posizione di fronte alle più recenti dottrine filosofiche e sociali. E che facessero sul serio lo dimostrò il fatto che Engels aveva già terminato il manoscritto del primo di questi scritti autonomi, quando ricevette il primo esemplare stampato della Sacra famiglia.

    6.4    ​​​Un’opera fondamentale per il socialismo

Quest’opera era Le condizioni della classe lavoratrice in Inghilterra, che uscì a Lipsia nell’estate del 1845 presso Wigand, antico editore dei Deutsche Jahrbücher, che qualche mese prima aveva pubblicato L’Unico di Stirner. Se a Stirner ultimo rampollo della filosofia hegeliana aveva dato alla testa la piatta sapienza della concorrenza capitalistica, Engels poneva nel suo libro la base per quei teorici tedeschi — ed erano quasi tutti — che attraverso la soluzione feuerbachiana della speculazione hegeliana, erano arrivati al comunismo e al socialismo. Egli descriveva le condizioni della classe operaia inglese nella loro realtà orrenda, ma tipica per il dominio della borghesia.

Quando, circa cinquanta anni dopo, Engels ripubblicò il suo lavoro lo definì una fase nello sviluppo embrio nale del moderno socialismo internazionale. Ed aggiungeva che, come l’embrione umano nei suoi primi gradi di sviluppo riproduce ancora gli archi branchiali dei nostri progenitori, cioè dei pesci, così il suo libro mostrava ovunque le tracce dell’origine del socialismo moderno da uno dei suoi antenati, la filosofia classi ca tedesca. Ma questo è giusto soltanto se si precisa che queste tracce sono molto più deboli di quanto io fossero ancora negli articoli che Engels aveva pubblicato nei Deutsch-Französische Jahrbücher, non sono
citati più né Bruno Bauer, né Feuerbach, e «l’amico Stirner» è citato solo un paio di volte, per prenderle un po’ in giro. Si può parlare di una sostanziale influenza della filosofia tedesca su questo libro non in un senso retrivo ma nel senso di un decisivo progresso.

Il vero e proprio centro di gravità del libro non era nella descrizione della miseria proletaria, quale era sorta in Inghilterra sotto il dominio del modo di produzione capitalistico. In questo Engels aveva avuto alcuni precursori, Buret, Gasiceli e altri, che egli cita abbondantemente. Né il tono particolare del libro derivava dalla schietta indignazione contro un sistema sociale che condannava alle più terribili sofferenze le masse lavoratrici, dalla impressionante e veritiera descrizione di queste sofferenze, dalla profonda e sincera pietà per le sue vittime. In esso la cosa più degna di ammirazione e nello stesso tempo storicamente più importante era l’acume con cui il ventiquattrenne autore comprendeva lo spirito del modo di produzione capitalistico e sapeva dedurne non soltanto l’ascesa ma anche la decadenza della borghesia, non soltanto la miseria ma anche la salvezza del proletariato. li succo del libro era che esso mostrava come la grande industria crei nella classe operaia moderna quasi una razza disumanata, intellettualmente e moralmente degradata alla bestialità, fisicamente distrutta, ma anche come la classe operaia moderna, in forza di una dialettica storica le cui leggi vengono indagate nei particolari, si sviluppi e debba svilupparsi fino a provocare la caduta del suo creatore.

Ma di un simile risultato era capace soltanto chi avesse fatto della dialettica di Hegel carne della sua carne e sangue del suo sangue, e avesse saputo metterla in piedi, mentre essa si trovava a testa in giù. Per questo il libro è una fondazione del socialismo, come doveva esserlo secondo l’intenzione dell’autore. Tuttavia la grande impressione che esso suscitò al suo apparire, non si fondava su questo, ma soltanto sull’interesse del suo contenuto; se esso — come pensa una parrucca accademica con comica presunzione — ha reso il socialismo «degno dell’Università», lo ha fatto però soltanto nel senso che questo o quel professore ci ha dovuto spezzar contro qualche lancia arrugginita. La critica erudita si gonfiò soprattutto quando non sopravvenne la rivoluzione che Engels vedeva già alle porte d’Inghilterra. Egli stesso cinquanta anni dopo poteva dire tranquillamente che era meraviglioso non il fatto che questa e altre profezie da lui fatte nell’«ardore giovanile » non si fossero avverate, ma che se ne fossero avverate tante, anche se allora le aveva previste per un «futuro troppo vicino».

Oggi quell’ «ardore giovanile» che prevedeva alcune cose per un «futuro anche troppo vicino» non è una delle attrattive minori di questo scritto precorritore. Senza queste ombre non sarebbe pensabile la sua luce. Lo sguardo geniale, che sa intravedere il futuro di là dal presente, vede le cose future più acutamente, ma perciò anche più vicine del comune intelletto umano che non sa abituarsi all’idea che non ci sia bisogno che la minestra gli venga scodellata alle dodici in punto. D’altra parte allora molti altri, oltre Engels, vedevano la rivoluzione inglese alle porte, come lo stesso Times, il giornale più importante della borghesia inglese, ma la paura della cattiva coscienza paventava nella rivoluzione soltanto incendi e assassinii, mentre il suo sguardo indagatore della società vedeva germogliare nuova vita dalle rovine.

Tuttavia, durante l’inverno tra il 1844 e il 1845, Engels fu preso dall’«ardore giovanile» non soltanto in questo suo scritto; mentre ancora lo stava forgiando alla sua incudine, già aveva altro ferro sul fuoco: oltre alla continuazione d’esso (doveva infatti essere soltanto un capitolo di un lavoro più ampio sulla storia sociale d’Inghilterra), pensava anche a una rivista mensile socialista, che voleva pubblicare insieme con Moses Hess, a una biblioteca di scrittori socialisti stranieri, a un saggio su List e ad altre cose ancora. Incitava instancabilmente Marx, coi quale si incontrava spesso nei suoi piani, a un’attività altrettanto operosa. «Fa in modo di venire a capo del tuo libro di economia politica; anche se tu stesso dovessi rimanere scontento di molte cose, non fa niente, gli animi sono maturi, e dobbiamo battere il ferro finché è caldo.... Ma ora non c’è tempo da perdere. Fa perciò in modo di essere pronto prima dell’aprile, fa come faccio io, stabilisciti un termine di tempo entro il quale sei effettivamente deciso a finire, e pensa a stampar presto. Se non lo puoi far stampare costà, fallo stampare a Mannheim, Darmstadt o altrove. Ma uscire deve presto». Perfino sulla «mirabolante» estensione della Sacra Famiglia, Engels si consolava pensando che fosse bene così: «così arriveranno fin d’ora al pubblico molte cose che chissà per quanto tempo ancora sarebbero rimaste nel tuo scrittoio». Quanto spesso egli avrebbe dovuto ancora levare appelli simili nel corso dei decenni seguenti!

Ma, impaziente sollecitatore, egli era nello stesso tempo il più paziente degli aiutatori, quando, nella sua du ra lotta con se stesso, il genio era impedito anche dalle miserie della vita comune. Appena arrivò a Barmen la notizia che Marx era stato espulso da Parigi, Engels ritenne necessario aprire subito una sottoscrizione «per ripartire da buoni comunisti fra tutti noi le spese extra che essa ti avrà causato». Al suo rendiconto sul
«buon esito» delle sottoscrizioni, egli aggiungeva: «Poiché però non so se questo basterà per la tua siste mazione, a Bruxelles, va da sé che metto col massimo piacere a tua disposizione il compenso che avrò per la mia prima roba inglese, che spero mi sarà almeno in parte pagata presto e di cui per il momento posso fare a meno, perché il mio vecchio mi deve mandar soldi. Non sia mai che quei cani abbiano il piacere di metterti in imbarazzi finanziari con la loro perfidia»2. Ed anche per proteggere l’amico da « questo piacere di quei cani» Engels si è prodigato instancabilmente per tutta la vita.

Ma, disinvolto quale egli ci appare da queste sue lettere giovanili, Engels era però tutt’altro che leggero. La «sua prima roba inglese», di cui parlava a quel modo, ha avuto un peso determinante ormai da sette decenni; fu un’opera che fece epoca, il primo grande documento del socialismo scientifico. Engels aveva ventiquattro anni quando lo scriveva e scuoteva persino così la polvere dalle parrucche accademiche. Ma non era un talento precoce che prosperasse nell’aria calda della serra per appassire poi in fretta; il suo «ardore giovanile» derivava dallo schiettofuoco del sole di un grande ingegno che riscaldò la sua vecchiaia e la sua gioventù.

In quel tempo nella casa dei suoi genitori, egli viveva «una vita silenziosa e tranquilla nell’amore e nel timore di Dio», come solo il «più brillante filisteo» poteva desiderare. Ma presto non ne potè più e si lasciò indurre solo dai «visi tristi» dei suoi vecchi a fare un ultimo tentativo col commercio. Per la primavera voleva andarsene ad ogni costo, anzitutto, a Bruxelles. Le sue «beghe familiari» si inasprivano notevolmente per la propaganda comunista a Barmen-Elberfeld, alla quale egli prendeva vivamente parte. Egli dava notizia a Marx di tre riunioni comuniste, di cui la prima aveva avuto 40 partecipanti, la seconda 130, la terza 200.

«L’argomento esercita un’enorme attrazione. Non si parla di nient’altro che di comunismo, ed ogni giorno vengono a noi nuovi aderenti. Il comunismo del Wuppertal è une verité, anzi quasi una forza ormai». Questa forza a dire il vero si disperse a un semplice ordine della polizia, e aveva d’altronde un carattere alquanto singolare; Engels stesso dava notizia del fatto che soltanto il proletariato si era tenuto fuori da questo movimento comunista, per il quale cominciava quasi a smaniare la parte più stupida, più indolente, più filistea della popolazione, che non si interessava di nulla al mondo.

Tutto questo mal si accordava con quello che Engels scriveva nello stesso tempo sulle prospettive del proletariato inglese. Ma così era lui: un simpaticone dalla testa ai piedi, sempre sul chi vive, fresco, acuto, instancabile, e non senza quel ramo di cara pazzia che si addice così bene a una gioventù entusiastica e gagliarda.