5.1 I
«Deutsch-Französische Jahrbücher»
La nuova rivista era nata sotto una cattiva stella: di essa
uscì soltanto un numero doppio alla fine del febbraio 1844.
Il «principio gallo-germanico» o, come fu ribattezzato
da Ruge, la «alleanza intellettuale tra tedeschi e francesi» non si poté realizzare; il «principio politico
della Francia» non volle saperne dell’apporto tedesco,
cioè dell’«acume logico» della filosofia
hegeliana, che avrebbe dovuto servirgli da più sicura bussola
nelle regioni metafisiche, dove Ruge vedeva i francesi senza timone,
in preda al vento e alle onde.
Veramente, se, stando alla sua testimonianza, si sarebbero dovuti
conquistare anzitutto Lamartine, Lamennais, Louis Blanc, Leroux e
Proudhon, questa lista era già di per sé abbastanza
variopinta. Di questi, infatti, soltanto Leroux e Proudhon avevano
un’idea della filosofia tedesca, e mentre quest’ultimo viveva in
provincia, il primo aveva per il momento appeso al chiodo il
mestiere dello scrittore per sprofondarsi nel l’invenzione di una
macchina tipografica. Gli altri poi si rifiutarono chi per questo
chi per quello scrupolo religioso, perfino Louis Blanc, che vedeva
sorgere l’anarchia in politica dall’ateismo in religione.
Quanto a collaboratori tedeschi, la rivista se ne procurò, a
dire il vero, una bella schiera: accanto agli editori stessi, Heine,
Herwegh, Johann Jacoby erano nomi di primo piano, e anche in seconda
linea si potevano vedere Moses Hess e F. C. Bernays, un giovane
giurista del Palatinato renano, per tacere del più giovane di
tutti, Friedrich Engels, che, dopo aver già fatto le sue
prime prove nell’attività di scrittore, qui per la prima
volta si schierava in battaglia a visiera alzata e con la corazza
smagliante. Ma anche questa schiera era abbastanza variopinta;
alcuni di loro capivano poco della filosofia hegeliana e ancor meno
del suo «acume logico»; soprattutto, tra i due editori
stessi si manifestò presto un dissidio, che rese impossibile
ogni collaborazione.
Il numero doppio della rivista, che fu poi l’unico, si apriva con un
«carteggio» tra Marx, Ruge, Feuerbach e Bakunin, un
giovane russo, che si era legato a Ruge a Dresda e aveva pubblicato
nei Deutsche Jahrbücher un articolo che era stato molto notato. Sono
in tutto otto lettere, contrassegnate con le iniziali dei nomi degli
autori, di cui tre sono di Marx, tre di Ruge, una di Bakunin e una
di Feuerbach. Più tardi Ruge definì questo carteggio
come una scena drammatica da lui composta, pur utilizzando «in parte passi di lettere vere », e l’accolse anche nelle sue opere complete, ma
significativamente apportandovi notevoli mutilazioni e sopprimendo
l’ultima lettera, che è firmata da Marx e contiene il succo
di tutto questo carteggio. Il contenuto delle lettere non lascia
dubbio che esse sono degli autori di cui portano le iniziali, e se
rappresentano una composizione unitaria, il violino di spalla di
questo concerto è Marx, senza voler perciò contrastare
che Ruge, sia nelle lettere di lui che in quelle di Bakunin e
Feuerbach, possa averci messo le mani.
Marx non solo conclude il carteggio, ma anche lo apre con un breve
attacco denso di motivi: la reazione romantica porta alla
rivoluzione, lo Stato è una cosa troppo seria per lasciarsi
ridurre a una buffonata; si
potrebbe forse lasciare che una nave piena di pazzi andasse per un
tratto col vento, ma essa andrebbe incontro al suo destino proprio
perché i pazzi non lo crederebbero. A questo Ruge rispondeva
con una lunga geremiade sulla irrimediabile pazienza pecorina dei
filistei tedeschi, «accusando e disperando», come
disse più tardi egli stesso; infatti Marx gli ribatteva
subito cortesemente: «La sua lettera è una buona
elegia, un canto sepolcrale che toglie il respiro, ma politicamente
non conclude nulla di malia».
Se il mondo apparteneva al filisteo, valeva la pena di studiare questo signore del mondo. Signore del mondo esso era soltanto in quanto lo riempiva della sua società, come i vermi un cadavere; e finché continuasse a costituire il materiale della monarchia, anche il monarca non poteva essere altro che il re dei filistei. Il nuovo re di Prussia, più sveglio e più vivo del padre, aveva voluto porre lo Stato dei filistei sulla propria base, ma fino a che essi restavano quelli che erano, egli non poteva fare né di se stesso né della sua gente dei veri uomini liberi. Così era seguito il ritorno all’antico Stato fossilizzato dei servi e degli schiavi.
Ma questa situazione disperata riempiva di
nuova speranza. Marx additava l’incapacità dei signori e la
infingardaggine dei servi e dei sudditi, che lasciavano che tutto
avvenisse come a Dio piaceva, eppure le due cose insieme bastavano
già a provocare una catastrofe. Egli affermava che i nemici
del filisteismo, tutti gli uomini che pensavano e che soffrivano,
erano giunti a una intesa, e che perfino il sistema passivo di
riproduzione dei vecchi sudditi, arruolava ogni giorno nuove
reclute per il servizio della nuova umanità. Anche più
rapidamente il sistema dell’industria e del commercio, del possesso
e dello sfruttamento dell’uomo portava ad una rottura entro
l’attuale società, che il vecchio sistema era incapace di
sanare, perché in generale esso non sanava e non creava
nulla, ma solo esisteva e possedeva. Perciò bisognava portare
del tutto alla luce il vecchio mondo e creare positivamente il
nuovo.
Bakunin e Feuerbach scrivono, ciascuno a suo modo, ma tutte due
incoraggiando, a Ruge. E costui si professa convinto «ad
opera del nuovo Anacarsi e dei nuovi filosofi». Se Feuerbach
aveva paragonato la fine dei Deutsche Jahrbücher alla fine della
Polonia, dove gli sforzi di pochi uomini erano vani nella palude
stagnante di tutta la vita popolare, Ruge nella sua lettera a Marx
diceva: «Sì ! Come la fede cattolica e la
libertà nobiliare non salvarono la Polonia, così la
filosofia teologica e la scienza aristocratica non poterono
liberarci. Noi non possiamo proseguire il nostro passato se non
rompendo decisamente con esso. Gli Jahrbucher sono finiti, la
filosofia di Hegel appartiene al passato. Noi vogliamo fondare a
Parigi un organo su cui giudicare in tutta libertà e con
spietata sincerità noi stessi e tutta la Germania».
Egli promette di occuparsi dell’aspetto economico e prega Marx di
dire il suo parere sul piano della rivista.
Marx ha non solo la prima ma anche l’ultima parola. Era chiaro che
bisognava creare un nuovo punto d’incontro per le persone veramente
pensanti e indipendenti. Ma anche se non c’erano dubbi sul punto di
partenza, tanto maggiore era la confusione che regnava sul punto di
arrivo. «Non solo è scoppiata una generale anarchia tra
i riformatori, ma ciascuno sarà costretto a confessare a se
stesso di non avere un’idea esatta di ciò che dovrà
venir fuori. Tuttavia, il vantaggio della nuova tendenza è
proprio questo, che noi non anticipiamo dogmaticamente il mondo, ma
vogliamo trovare il nuovo mondo muovendo dalla critica del vecchio.
Finora i filosofi avevano belle pronta nella loro scrivania la
soluzione di tutti gli enigmi, e lo stupido mondo essoterico non
aveva che da spalancare la bocca perché le colombe della
scienza assoluta ci volassero dentro belle arrostite. La filosofia
si è fatta terrena, e la prova più schiacciante ne
è che la stessa coscienza filosofica è portata non
solo esteriormente, ma anche interiormente nel tormento della lotta.
Se non è affar nostro costruire il futuro e metter le cose a
posto una volta per tutte, è però tanto più
certo quello che noi abbiamo da compiere presentemente, intendo la
critica senza riguardi di tutto ciò che esiste, senza
riguardi nel senso che la critica non ha paura dei propri risultati
e tanto meno del conflitto con i poteri attuali».
Marx non voleva innalzare nessuna bandiera dogmatica, e il
comunismo, anche come lo insegnavano Cabet, Dezamy, Weitling, era
per lui soltanto un’astrazione dogmatica. L’interesse fondamentale
nella Germania contemporanea era anzitutto la religione, poi la
politica, ad esse non bisognava contrapporre un qualche sistema,
come il viaggio in Icaria, ma anzi bisognava ricollegarsi ad esse,
comunque esse si presentassero.
Marx rigetta l’opinione dei «crassi socialisti»
secondo cui le questioni politiche sarebbero al disotto di ogni
dignità. Dal conflitto dello Stato politico, dal contrasto
della sua destinazione ideale con le sue pre messe reali, si poteva
dappertutto sviluppare la verità sociale. «Nulla
dunque ci impedisce di collegare la nostra critica alla critica
della politica, a un intervento nella politica, insomma a lotte
reali. Allora noi non ci contrapponiamo dottrinariamente al mondo
con un nuovo principio: ‘Qui è la verità; qui
s’inginocchi ognuno!’. Noi elaboriamo per il mondo nuovi principi
partendo dai principi del mondo. Noi non diciamo ad esso: ‘Cessa dalle tue lotte; sono roba da nulla; noi vogliamo dirti
la vera parola d’ordine della lotta’. Noi gli mostriamo soltanto per
che cosa esso veramente combatte, e la consapevolezza è una
cosa che esso deve far sua anche se non vuole». Così
Marx riassume il programma della nuova rivista: comprensione
(filosofia critica) da parte della nostra epoca, di quelle che sono
le sue lotte e i suoi desideri.
A questa «comprensione» è giunto solo Marx, ma
non Ruge. Già il «carteggio» mostrava che Marx
era quello che spingeva avanti e che Ruge si faceva spingere. A
questo si aggiunse che Ruge si ammalò dopo il suo arrivo a
Parigi e che si poté occupare poco della redazione.
Così fu paralizzato nella sua più sostanziale
capacità, quella per la quale Marx gli appariva «
troppo cerimonioso». Egli non poté dare alla rivista
la forma e il carattere che riteneva più adatti, e neppure
poté pubblicarvi un suo lavoro- personale. Tuttavia non si
mostrò del tutto contrario al primo numero. Vi trovò
«cose notevolissime, che faranno grande scalpore in
Germania», anche se biasimava che «fossero imbandite
insieme molte cose poco rifinite»., che egli avrebbe corretto,
ma che ormai nella fretta erano passate. E la iniziativa sarebbe
proseguita di certo, se non avesse urtato in ostacoli esterni.
Anzitutto i mezzi del Literarisches Kontor si esaurirono molto
rapidamente, e Fröbel dichiarò di non poter più
continuare l’impresa. E poi il governo prussiano già al primo
annunzio dell’apparire dei Deutsch-Französische Jahrbücher,
si mobilitò contro di essi.
Comunque non fu contraccambiato di pari sollecitudine né da
Metternich, né tanto meno da Guizot; il 18 aprile 1844
dovette accontentarsi di comunicare ai prefetti di tutte le province
che gli Jahrbucher rappre sentavano la fattispecie del tentativo di
alto tradimento e di lesa maestà; i prefetti, senza suscitare
scalpore, dovevano ordinare alle autorità di polizia di
arrestare Ruge, Marx, Heine e Bernays appena mettessero pie de sul
suolo prussiano, e di sequestrare tutte le loro carte. Ma era ancora
un provvedimento ben innocuo, con ciò che quelli di
Norimberga, come si dice, non impiccano nessuno se prima non l’hanno
tra mano. Ma la cattiva coscienza del re di Prussia divenne
più pericolosa in quanto seppe far sorvegliare i confini con
la vigilanza più malevola. Su un battello del Reno furono
sequestrate 100 copie, presso Bergzabern, al confine
franco-palatino, molto più di 200; erano colpi alla nuca
molto dolorosi dato che si dovevano fare i conti con una tiratura
relativamente modesta.
Ma dove già esistono attriti interni, avviene che essi
facilmente si fanno più amari e più aspri con le
difficoltà esterne. Stando a quel che dice Ruge, esse hanno
anche accelerato o addirittura provocato la sua rottura con Marx,
nel che ci può essere qualche cosa di vero, in quanto nelle
faccende finanziarie Marx era di una sovrana indifferenza, e Ruge di
una taccagna sospettosità. Egli non si peritò di
pagare lo stipendio che spettava a Marx, a imitazione del
trucksystem (pagamento con merci invece che con denaro, Ndr), con
copie degli Jahrbücher, ma si agitò poi moltissimo, dato che
non aveva nessuna pratica del commercio librario, quando gli parve
che si pretendesse da lui che arrischiasse i suoi averi per
continuare la rivista. Comunque, in una situazione del genere,
è più facile che Marx abbia accollato a se stesso
piuttosto che a Ruge un simile peso. Gli potrà magari aver
consigliato di non gettare il fucile alle ortiche subito al primo
insuccesso, e Ruge, che già si era «adirato»
per l’invito a tirar fuori qualche franco per la stampa degli
scritti di Weitling, potrà aver fiutato in questo un
attentato alla sua borsa.
Per di più Ruge stesso accenna alla vera causa della rottura
quando dà come motivo immediato una lite a proposito di
Herwegh, che lui «comunque, forse con eccessiva
violenza», aveva definito «un mascalzone», mentre
Marx aveva insistito sul suo «grande avvenire». I
fatti hanno dato ragione a Ruge: Herwegh non ha avuto un
«grande avvenire», e il genere di vita ch’egli
conduceva allora a Parigi sembra sia stato effettiva mente molto
discutibile; perfino Heine lo ha stigmatizzato severamente, e Ruge
ammette che anche Marx non se ne compiaceva molto. Tuttavia, questo
magnanimo errore onorava il «mordace» Marx più
di quanto l’«onesto» e «nobile» Ruge
potesse gloriarsi del suo maligno istinto. Infatti all’uno importava
il poeta rivoluzionario, all’altro l’irreprensibile piccolo
borghese. Questo era il senso più profondo
dell’insignificante incidente che separò per sempre i due.
Per Marx la rottura con Ruge non ebbe l’importanza sostanziale che
ebbero magari le sue successive spiegazioni con Bruno Bauer o con
Proudhon. Come rivoluzionario egli deve essersi adirato parecchie
volte con Ruge, prima che il dissidio a proposito di Herwegh, anche
se si svolse effettivamente come ce lo descrive Ruge, gli facesse
montare la bile.
Se si vuole conoscere Ruge sotto il suo aspetto migliore, bisogna
leggere le memorie ch’egli pubblicò venti anni dopo. I
quattro volumi giungono fino alla fine dei Deutsche Jahrbucher, fino
al periodo cioè in cui la
vita di Ruge fu esemplare per quella avanguardia letteraria di
professori e studenti che erano i portavoce di una borghesia che
viveva di piccoli traffici e di grandi illusioni. Esse contengono
una quantità di quadretti di genere sull’infanzia di Ruge,
che era cresciuto nella pianura del Ruge e della Pomerania
occidentale, e danno un quadro così vivace del primo periodo
delle associazioni studentesche e della infame caccia ai «demagoghi», come non ne esistono altri nella letteratura
tedesca. Fu una sventura per esse che uscissero in un momento in cui
la borghesia tedesca dava l’addio alle grandi illusioni per dar
principio ai grandi affari; così le memorie di Ruge restarono
quasi inosservate, mentre un libro dello stesso genere, ma
incomparabilmente inferiore non solo dal punto di vista storico, ma
anche da quello letterario, il Diario del carcere di Reuter
scatenò veri uragani d’applausi. Ruge era stato un vero
membro delle Burschenschaften, mentre Reuter era testato al margine,
solo per spassarsela: ma alla borghesia .che già luceva gli
occhi dolci alle baionette prussiane, l’«aureo
umorismo» con cui Reuter scherzava su quell’infame violazione
del diritto che era la caccia ai demagoghi, piacque
incomparabilmente di più dell’ «umorismo ardito»
con cui, secondo l’indovinata espressione di Freiligrath, Ruge
riscontrava come quei miserabili non l’avessero spuntata con lui, e
come le casematte lo avessero reso libero.
Ma proprio nella vivace narrazione di Ruge si avverte chiaramente
che il liberalismo prequarantottesco, nonostante tutte le sue grandi
parole non fosse altro che puro filisteismo e che i suoi portavoce
alla fin fine dovevano restare sempre dei filistei. Tra questi
filistei Ruge era ancora quello più dotato, ed entro i suoi
limiti ideologici combatté con sufficiente coraggio. Tuttavia
il suo stesso temperamento lo trascinò tanto più
rapidamente su posizioni false, quando a Parigi gli si presentarono
i grandi contrasti della vita moderna.
Se col socialismo egli si era accomodato come con un gioco di
filosofi filantropi, di fronte al comunismo dei circoli operai di
Parigi lo colpì il terrore del borghesuccio non soltanto per
la propria pelle ma anche per la propria borsa. Se nei
Deutsch-Franzòsische Jahrbucher egli aveva consegnato il
certificato di morte alla filosofia di Hegel, nel corso dello stesso
1844 egli salutava nel più stravagante rampollo di questa
filosofia, cioè nel libro di Stirner, la liberazione dal
comunismo, che era la più stupida di tutte le stupidaggini,
il nuovo cristianesimo predicato dai semplici e la cui attuazione
sarebbe stata una abbietta vita da animali di stalla.
Tra Marx e Ruge non c’era ormai più nulla in comune.
5.2 Una prospettiva
filosofica
Perciò i Deutsch-Französische Jahrbücher erano nati
morti. Se alla lunga, i loro editori non potevano asso lutamente
procedere insieme poco importava quando e come essi si sarebbero
separati, ed era addirittura preferibile rompere prima piuttosto che
poi. Bastava che Marx avesse fatto un grande passo in avanti nella
sua «comprensione».
Egli pubblicò nella rivista due articoli: Per la critica
della filosofia del diritto di Hegel. Introduzione, e La questione
ebraica, recensione di due scritti di Bauer. Nonostante il campo
così diverso dei loro argomenti, essi sono strettamente
legati insieme per il loro contenuto di pensiero; se in seguito Marx
riassunse la sua critica della filosofia del diritto di Hegel nel
fatto che la chiave per la comprensione dello sviluppo storico non
sia da ricercare nello Stato, che Hegel apprezza, ma nella
società che egli disprezza, ebbene, nel secondo articolo,
questo punto è trattato addirittura in maniera più
approfondita che nel primo.
Per un altro riguardo i due articoli stanno in rapporto fra loro
come mezzo e fine. Il primo dà un abbozzo filosofico della
lotta di classe del proletariato, il secondo un abbozzo filosofico
della società socialista. Ma né l’uno né
l’altro fanno l’impressione di cose improvvisate, anzi mostrano
tutte due in una linea rigorosamente logica lo sviluppo spirituale
dell’autore. Il primo si riallaccia direttamente a Feuerbach, che
aveva portato a termine negli aspetti essenziali la critica della
religione, premessa di ogni critica. L’uomo fa la religione, non la
religione l’uomo. Ma, così prosegue Marx, l’uomo non è
un essere astratto, rimpiattato fuori del mondo. L’uomo è il
mondo dell’uomo, lo Stato, la società, che, essendo un mondo
a rovescio, producono la religione come coscienza rovesciata del
mondo. La lotta contro la religione è quindi indirettamente
lotta contro quel mondo di cui la religione è l’aroma
spirituale. Così, dopo che è scomparso l’aldilà
della verità, il compito della storia consiste nello
stabilire la verità di questo mondo. E allora la critica del
cielo si tramuta nella critica della terra, la critica della
religione nella critica del diritto, la critica della teologia nella
critica della politica.
Ma per la Germania questo compito storico può essere risolto
soltanto dalla filosofia. Se si rinnegano le condizioni della
Germania del 1843, secondo la cronologia francese si sta appena al
1789, ancor meno nel punto focale del presente. Se si deve
sottoporre a critica la moderna realtà politico-sociale,
questa si trova al di fuori della realtà tedesca, oppure la
critica afferrerebbe il suo oggetto al di sotto del suo oggetto
stesso. Come esempio del fatto che la storia tedesca, come una
recluta maldestra, finora non aveva altro compito che di ripetere
pappagallescamente storie già fritte e rifritte, Marx si
richiama a un «problema fondamentale dell’età
moderna», al rapporto dell’industria, o del mondo della
ricchezza in generale, col mondo politico.
Questo problema occupa i tedeschi sotto forma di dazi protettivi, di
sistema protezionistico, di economia nazionale. In Germania si
comincia appena da dove Francia e Inghilterra stanno finendo. La
vecchia situazione stagnante contro di cui questi paesi sono
teoreticamente in agitazione, e che essi sopportano ancora soltanto
come si sopportano delle catene, in Germania è salutata come
l’aurora nascente di un bell’avvenire. Mentre in Francia e in
Inghilterra il problema è: economia politica, ossia dominio
della società sulla ricchezza, in Germania è: economia
nazionale, ossia dominio della proprietà privata sulla
nazione. Là si tratta già di sciogliere e qui si
tratta ancora di fare il nodo.
Ma i tedeschi sono contemporanei della loro epoca, se non sul piano
storico, almeno su quello filosofico. La critica della filosofia
tedesca del diritto e dello Stato, che ha avuto da Hegel la sua
più conseguente sistemazione, porta in mezzo alle questioni
scottanti di essa. Qui Marx prende decisamente posizione sia di
fronte alle due tendenze che erano state luna accanto all’altra
nella Rheinische Zeitung, sia di fronte a Feuerbach. Pur se
quest’ultimo aveva messo la filosofia tra i ferri vecchi, Marx
diceva che, se ci si voleva ricollegare a veri principi vitali, non
si doveva dimenticare che il vero principio vitale del popolo
tedesco fino ad allora aveva vissuto soltanto dentro il suo cranio.
Ma ai «cavalieri del cotone» e agli «eroi del
ferro» egli diceva: avete perfettamente ragione di eliminare
la filosofia, ma non la potete eliminare senza attuarla; e ai
contrario, al vecchio amico Bruno Bauer e al suo seguito diceva:
avete perfettamente ragione di attuare la filosofia, ma non la
potete attuare senza eliminarla.
La critica della filosofia del diritto finisce col prospettare
compiti per la cui soluzione c’è un solo mezzo: la prassi.
Come può la Germania arrivare a una prassi che sia
all’altezza del principio, cioè a una rivoluzione che non
soltanto la innalzi allo stesso livello dei popoli moderni, ma a
quell’altezza umana che sarà l’immediato futuro di questi
popoli? Come può superare con un salto mortale non soltanto i
suoi propri limiti, ma insieme i limiti dei popoli moderni, che
nella realtà essa deve avvertire e aver di mira come
liberazione dai propri limiti reali ?
Comunque, l’arma della critica non può sostituire la critica
delle armi, il potere materiale deve essere abbattuto con la forza
materiale; e del resto, anche la teoria diventa forza materiale non
appena essa investe le masse, ad essa investe le masse non appena
diventa radicale. Tuttavia, una rivoluzione radicale ha bisogno di
un elemento passivo, di una base materiale; la teoria si attua in un
popolo sempre soltanto in quanto essa è l’attuazione dei suoi
bisogni. Non basta che il pensiero tenda ad attuarsi, bisogna che la
realtà stessa si spinga verso il pensiero. Ma per questo pare
che manchi ancora qualcosa in Germania, dove le diverse sfere si
comportano luna con l’altra non drammaticamente, ma epicamente, dove
anzi perfino la consapevolezza del proprio valore nella classe media
si fonda soltanto sulla coscienza di essere la rappresentante
generale della mediocrità filistea di tutte le altre classi,
dove ogni sfera della società civile subisce la sconfitta
prima di celebrare la sua vittoria e fa valere la sua ristrettezza
prima di poter far valere la sua magnanimità, di modo che
ogni classe, prima di cominciare la lotta con la classe che le sta
sopra, viene coinvolta nella lotta con quella che le sta sotto.
Tuttavia, con ciò non è dimostrato che in Germania la
rivoluzione radicale, universalmente umana è impos sibile,
ma soltanto che lo è la rivoluzione a metà, la
rivoluzione soltanto politica, la rivoluzione che lascia intatti i
pilastri della casa In Germania mancano quelle che sono le
condizioni preliminari e cioè, da una par te, una classe
che, movendo dalla sua particolare situazione, si accinga
all’emancipazione generale della società e liberi tutta la
società anche se soltanto presupponendo che tutta la
società si trovi nella situazione di questa classe, e
possieda, per esempio, denaro o cultura o li possa acquistare a
piacimento; dall’altra parte, una classe nella quale si concentrino
tutti i difetti della società, una particolare sfera sociale
che passi notoriamente come la colpa della società intera, di
modo che la liberazione da questa sfera appaia come
la auto liberazione generale. Il significato negativo universale
della nobiltà francese e del clero francese condizionò
il significato positivo universale della borghesia che era
immediatamente accanto e contro ad essi.
Ora Marx, dalla impossibilità della rivoluzione a
metà, deduce la «positiva possibilità»
della rivoluzione radicale. Alla domanda dove sussista questa
possibilità, egli risponde: «Nella formazione di una
classe con catene radicali, di una classe della società
civile che non è una classe della società civile, di
un ceto che è la dissoluzione di tutti i ceti, di una sfera
che possiede un carattere universale grazie alle sue sofferen ze
universali e che non rivendica nessun diritto particolare
perché non si commette su di essa nessuna ingiustizia
particolare, ma l’ingiustizia per eccellenza, che non può
più rivendicare un titolo storico ma or mai soltanto il
titolo umano, che non sta in una contraddizione unilaterale con le
conseguenze, ma in una contraddizione universale con le premesse
dello Stato tedesco, una sfera infine che non può emanciparsi
senza emanciparsi da tutte le altre sfere della società e
senza emancipare con ciò tutte le altre sfere; che, in una
parola, è la perdita totale dell’uomo, e che insomma
può riconquistare se stessa soltanto con la piena riconquista
dell’uomo. Questa dissoluzione della società è il
proletariato».
Esso cominciava appena a formarsi con
l’irrompente movimento industriale per la Germania, perché
non la povertà sorta naturalmente, ma la povertà
prodotta artificialmente, non la massa umana oppressa meccanicamente
dal peso della società, ma quella nascente dalla dissoluzione
acuta di essa, preminentemente dalla dissoluzione del ceto medio,
formava il proletariato, sebbene a poco a poco, come ben si
comprendeva, entrassero nelle sue file anche la povertà
naturale e la servitù della gleba cristiano-germanica. Come
la filosofia trova nel proletariato le sue armi materiali,
così il proletariato trova nella filosofia le sue armi
spirituali, ed appena il lampo del pensiero avrà fatto luce
in questo ingenuo terreno popolare, si completerà
l’emancipazione del tedesco a uomo. L’emancipazione del tedesco
è l’emancipazione dell’uomo. La filosofia non può
attuarsi senza eliminare il proletariato, il proletariato non
può eliminarsi senza attuare la filosofia. Quando saranno
adempiute tutte le condizioni interne, il giorno della resurrezione
tedesca, sarà annunciato dal canto del gallo francese.
Per la forma e per il contenuto questo articolo sta in primo piano
tra i lavori giovanili di Marx che ci sono stati conservati; un
rapido schizzo delle linee generali del suo pensiero non può
dare nemmeno una lontana idea della prorompente piena di pensieri
che egli riesce a costringere in una succosa forma epigrammatica. I
professori tedeschi che vi hanno voluto avvertire uno stile lezioso
e una assoluta mancanza di gusto non hanno fatto altro che fornire
una prova ingloriosa della loro propria leziosaggine e mancanza di
gusto. A dire il vero anche Ruge trovava già «troppo
artificiosi» gli «epigrammi» dell’articolo; egli
biasimava questa
«mancanza e questo eccesso di forma», ma vi scopriva
anche un «talento critico, che talvolta si esprime in una
dialettica che degenera in un eccessivo sfoggio di bravura».
Questo giudizio non è ingiusto. Infatti il giovane Marx
qualche volta prendeva già gusto al tintinnio delle sue armi
affilate e pesanti. Far sfoggio di bravura è proprio di ogni
gioventù geniale.
E ancora, è solo una prospettiva filosofica quella che
l’articolo apre per il futuro. Nessuno ha dimostrato in modo
più concludente di quanto abbia fatto Marx in seguito, che
nessuna nazione può superare con un salto mortale i gradi
necessari del suo sviluppo storico. Ma quelli che la sua mano sicura
traccia sono contorni non tanto inesatti quanto indeterminati. Nei
particolari le cose sono andate altrimenti, ma nel complesso sono
andate proprio come lui aveva predetto. Di questo gli dà atto
sia la storia della borghesia tedesca che la storia del proletariato
tedesco.
5.3 «La questione
ebraica»
Il secondo articolo che Marx pubblicò nei
Deutsch-Französische Jahrbücher non è altrettanto
avvincente nella forma, ma è forse anche superiore per la
capacità dell’analisi critica. In esso egli studiò la
differenza fra l’emancipazione umana e quella politica, sulla base
di due studi di Bruno Bauer sul problema ebraico.
Allora questo problema non era ancora sceso alle bassezze dei
discorsi anti e fìlosemitici di oggi. Una classe della
popolazione che, in quanto portatrice preminente del capitale
mercantile e usurarlo, conquistava una potenza sempre maggiore, era
privata, a causa della sua religione, di tutti i diritti civili,
anche se, a causa dell’usura che praticava, le erano consentiti
particolari privilegi; il rappresentante più famoso
dell’«assolutismo illuminato», il filosofo di Sanssouci, dette
questo edificante esempio, concedendo la «libertà del
banchiere cristiano» agli usurai ebrei che lo aiutavano nel
falsificare le monete e in altre ambigue ope razioni finanziarie,
mentre tollerò appena nel suo Stato il filosofo Moses
Mendelssohn, e non perché fosse un filosofo e si occupasse di
inserire il proprio popolo nella vita spirituale tedesca, ma
perché ricopriva il posto di contabile da uno degli usurai
ebrei privilegiati.
Ma anche gli illuministi borghesi — pur con qualche eccezione — non
si scandalizzavano troppo del bando dato a una classe della
popolazione a causa della sua religione. La religione israelitica
ripugnava loro come prototipo dell’intolleranza religiosa, dalla
quale il cristianesimo aveva appreso a trafficare con le coscien
ze, e gli ebrei stessi non mostrarono il minimo interesse per
l’illuminismo borghese. Essi si compiacquero della critica
illuministica alla religione cristiana, che loro stessi avevano
sempre maledetta, ma gridarono al tradimento dell’umanità
quando la stessa critica attaccò la religione ebraica.
Così rivendicavano l’emancipazione politica dell’ebraismo,
ma non nel senso dell’uguaglianza dei diritti, non con l’intenzione
di abbandonare la loro posizione particolare, bensì piuttosto
con l’intenzione di consolidarla, sempre pronti ad abbandonare i
principi liberali non appena contrastassero un interesse particolare
degli ebrei.
La critica della religione esercitata dai Giovani hegeliani si era
naturalmente estesa anche all’ebraismo, che essi consideravano come
un’anticipazione del cristianesimo. Feuerbach aveva analizzato
l’ebraismo come religione dell’egoismo. «Gli ebrei si
sono mantenuti fino ad oggi nella loro particolarità.
Il loro principio, il loro dio è il principio più
pratico del mondo: l’egoismo nella forma di religione. L’egoismo
raccoglie, concentra l’uomo in se stesso, ma lo rende teoreticamente
limitato, perché indifferente a tutto quello che non si
riferisce direttamente al benessere dell’Io stesso».
Similmente parlava Bruno Bauer, che ripeteva agli ebrei che essi si
erano annidati tra le pieghe e nelle fessure della società
borghese per sfruttarne gli elementi incerti, simili agli dei di
Epicuro, che abitavano negli spazi intermedi del mondo, dove erano
dispensati da un lavoro determinato.
Soltanto, se Feuerbach spiegava il carattere della religione ebraica
col carattere degli ebrei, Bauer, nono stante la profondità,
l’arditezza e la acutezza che Marx lodava nei suoi studi sul
problema ebraico, vedeva questo problema ancora attraverso le lenti
della teologia. Come i cristiani, così anche gli ebrei
potevano aprirsi la via alla libertà soltanto in quanto
superassero la loro religione. Lo Stato cristiano non poteva, dato
il suo carattere, emancipare gli ebrei, ma anche gli ebrei non
potevano essere emancipati dato il loro carattere religioso.
Cristiani ed ebrei dovevano cessare di esser cristiani ed ebrei se
volevano essere liberi. Ma siccome l’ebraismo in quanto religione
era stato sopravanzato dal cristianesimo, l’ebreo aveva una via
più dura e più lunga del cristiano per giungere alla
libertà. Secondo l’opinione di Bauer, gli ebrei, prima di
poter diventare liberi, dovevano passare attraverso il tirocinio del
cristianesimo e della filosofia di Hegel.
Marx obiettava che non era sufficiente ricercare chi dovesse
emancipare e chi essere emancipato, ma che la critica doveva
domandarsi di che genere di emancipazione si trattasse, se della
emancipazione politica o di quella umana. Gli ebrei, come i
cristiani, in parecchi Stati erano stati emancipati del tutto
politicamente, senza essere per ciò emancipati umanamente.
Doveva dunque esserci una differenza tra l’emancipazione politica e
quella umana.
L’essenza dell’emancipazione politica era lo Stato moderno
pienamente evoluto, e questo Stato era anche lo Stato cristiano
perfetto, perché lo Stato cristiano-germanico, lo Stato dei
privilegi, era soltanto lo Stato incompiuto, ancora teologico, non
ancora evolutosi in purezza politica. Lo Stato politico nella sua
perfezione suprema non esigeva però né dall’ebreo
l’eliminazione dell’ebraismo, né dall’uomo in genere
l’eliminazione della religione; esso aveva emancipato gli ebrei e
doveva emanciparli secondo la propria essenza. Dove la costituzione
dello Stato dichiarava espressamente indipendente dalla fede
religiosa il godimento dei diritti politici, si considerava
però ugualmente uomo indegno un uomo senza religione.
L’esistenza della religione non contraddiceva perciò alla
perfezione dello Stato. L’emancipazione politica dell’ebreo, del
cristiano, del l’uomo religioso in genere, era l’emancipazione
dello Stato dall’ebraismo, dal cristianesimo, dalla religione in
generale. Lo Stato poteva liberarsi da un limite, senza che l’uomo
ne fosse veramente libero, e qui si vedeva dove s’arrestava
l’emancipazione politica.
Ora, Marx sviluppa ulteriormente questo pensiero. Lo Stato in quanto
Stato nega la proprietà privata; l’uomo dichiara abolita la
proprietà privata sul piano politico appena abolisce il censo
per l’elettorato attivo e passivo, come è avvenuto in molti
degli Stati liberi del Nordamerica. Lo Stato abolisce a suo
modo la differenza di nascita, di ceto, di cultura, di mestiere, quando
dichiara che nascita, censo, cultura, mestiere non sono differenze
politiche, quando senza riguardo a queste differenze proclama
ugualmente partecipe della sovranità popolare ogni membro del
popolo. Cionondimeno lo Stato lascia sussistere la proprietà
privata, la cultura, il mestiere al modo loro, cioè come
proprietà privata, come cultura, come mestiere, e lascia
validità al loro particolare modo d’essere. Ben lungi
dall’abolire queste differenze di fatto, esso piuttosto esiste a
condizione che esse esistano, si sente piuttosto soltanto come Stato
politico e fa valere la sua universalità soltanto in
contrasto con questi suoi elementi. Lo Stato politico perfetto
è, per il suo modo d’essere, la vita dell’umanità,
come specie, in contrasto con la vita materiale. Tutte le premesse
di questa vita egoistica sussistono al di fuori della sfera dello
Stato nella società civile, ma come proprietà della
società civile. Il rapporto dello Stato politico con le sue
premesse, e siano pure queste elementi materiali, come la
proprietà privata, oppure anche elementi spirituali, come la
religione, è il dissidio tra l’interesse privato e quello
generale. Il conflitto in cui l’uomo, in quanto professa una
particolare religione, si trova coi suoi concittadini, con gli altri
uomini in quanto membri della comunità, si riduce alla
scissione tra lo Stato politico e la società civile.
La società civile è la base dello Stato moderno, come
la schiavitù antica era la base dello Stato antico. Lo Stato
moderno riconobbe questa sua origine annunciando i diritti
universali dell’uomo, il cui godimento spetta agli ebrei quanto il
godimento dei diritti politici. I diritti universali dell’uomo
riconoscono l’individuo egoistico, borghese, e lo sfrenato
movimento degli elementi spirituali e materiali che costituiscono il
con tenuto della sua situazione di vita, il contenuto della odierna
vita borghese. Essi non liberano l’uomo dalla religione, ma gli
danno libertà di religione; non lo liberano dalla
proprietà, ma gli danno libertà di proprietà;
non lo liberano dal sudiciume dell’industria, ma gli danno
libertà d’industria. La rivoluzione politica ha crea to la
società civile frantumando la screziata struttura feudale,
tutti i ceti, le corporazioni, le arti che erano altrettante
espressioni della separazione del popolo dalla sua comune essenza;
ha creato lo Stato politico come situazione universale, come Stato
effettivo.
Quindi Marx si riassume: «L’emancipazione politica è
la riduzione dell’uomo da una parte a membro della società
civile, all’individuo egoistico indipendente, dall’altra al
cittadino dello Stato, alla persona morale. Soltanto quando l’uomo
concreto, individuale, riprenda in sé l’astratto cittadino
dello Stato, e in quanto uomo individuale nella sua vita empirica,
nel suo lavoro individuale, nelle sue relazioni individuali, sia
divenuto essere appartenente alla specie, soltanto quando l’uomo
abbia riconosciuto e organizzato, le proprie forze come forze
sociali, e quindi non separi più da sé la forza
sociale sotto forma di forza politica, sarà finalmente
compiuta l’emancipazione umana».
Restava ancora da provare l’affermazione che il cristiano sia
più suscettibile di emancipazione che non l’ebreo,
affermazione che Bauer aveva cercato di spiegare con la religione
ebraica. Marx si ricollegò a Feuer bach che aveva spiegato
la religione ebraica con gli ebrei, e non gli ebrei con la religione
ebraica. Soltanto, egli va anche oltre Feuerbach, in quanto accerta
anche il particolare elemento sociale che si rispecchia nella
religione ebraica. Qual era il fondamento terreno dell’ebraismo? Il
bisogno pratico, l’egoismo. Qual era il culto terreno dell’ebreo?
L’usura. Quale il suo dio terreno? Il denaro. «Orbene,
l’emancipazione dall’usura e dal denaro, cioè dall’ebraismo
pratico e concreto, sarebbe l’autoemancipazione del nostro tem po.
Un’organizzazione della società, che eliminasse le premesse
dell’usura, cioè la possibilità dell’usura, renderebbe
impossibile l’ebreo. La sua coscienza religiosa si dissolverebbe
come una nebbia sottile nella reale aura vitale della
società. D’altra parte, se l’ebreo riconosce li
inanità di questa sua natura pratica, e lavora alla sua
abolizione, uscendo dalla evoluzione nel quale si trovava finora,
senz’altro giunge alla vera e propria emancipazione umana, e si
rivolge contro la suprema espressione pratica dell’auto alienazione
umana». Marx riconosce nell’ebraismo un elemento universale,
attuale, antisociale, che è stato spinto al suo presente
livello, nel quale si deve necessariamente dissolvere, dallo
sviluppo storico, al quale gli ebrei in questo senso negativo hanno
zelantemente collaborato.
Era una duplice conquista quella a cui Marx giungeva con questo
articolo. Egli sviscerava il rapporto tra società e Stato. Lo
Stato non è, come pensa Hegel, la realtà dell’idea
morale, l’assoluto nazionale e l’as soluto fine a se stesso, ma
deve accontentarsi del compito incomparabilmente più modesto
di proteggere l’anarchia della società civile che lo ha posto
a farle da guardiano: la lotta universale dell’uomo contro l’uo mo,
dell’individuo contro l’individuo, la guerra reciproca di tutti gli
individui separati gli uni dagli altri ormai soltanto per la propria
individualità, l’universale movimento sfrenato delle forze
vitali elementari liberate delle catene feudali, la schiavitù effettiva, anche se con
l’apparenza di libertà e indipendenza dell’individuo, il
quale crede di riconoscere la propria libertà nel movimento
sfrenato dei suoi elementi vitali alienati, pro prietà,
industria, religione, mentre esso è piuttosto il suo pieno
asservimento e la sua piena privazione di umanità.
Ma poi Marx aveva riconosciuto che le questioni religiose del giorno
avevano ormai soltanto un’importanza sociale. Lo sviluppo
dell’ebraismo egli lo additava non nella teoria religiosa, ma nella
prassi industriale e commerciale, che trova nella religione ebraica
un riflesso fantastico. L’ebraismo pratico non è altro che il
mondo cristiano perfetto. Dato che la società civile ha un
carattere assolutamente ebraico-commerciale, l’ebreo le appartiene
necessariamente e può rivendicare l’emancipazione politica
come il godimento degli universali diritti dell’uomo. Tuttavia la
emancipazione umana è una nuova organizzazione delle forze
sociali, che rende l’uomo padrone delle sue fonti di vita; compare
qui, in contorni indefiniti, l’immagine della società
socialista.
Nei Deutsch-Französische Jahrbücher egli arava ancora nel
campo della filosofia, ma nei solchi tracciati dal suo aratro critico
germogliavano i semi di una concezione materialistica della storia
che, alla luce della civiltà francese, crescevano rapidamente
in spighe.
5.4 Civiltà francese
Dato il modo in cui Marx lavorava, è molto probabile che egli
avesse abbozzato nelle loro linee generali ì due articoli
sulla filosofia del diritto di Hegel e sulla questione ebraica
quando ancora viveva in Germania, nei primi mesi del suo felice
matrimonio. Ma se essi già gravitavano attorno alla grande
rivoluzione francese, tanto più era ovvio che Marx si
sprofondasse nella storia di questa rivoluzione non appena il suo
soggiorno a Parigi gli consentisse di studiare le fonti di essa e
insieme le fonti sia della sua preistoria, cioè il
materialismo francese, sia dei suoi sviluppi, cioè il
socialismo francese.
Allora Parigi poteva vantarsi a buon diritto di marciare alla testa
della civiltà borghese. Nella rivoluzione del luglio 1830 la
borghesia francese, dopo una serie di illusioni e di catastrofi che
hanno il peso di avvenimenti storici mondiali, aveva consolidato
quanto aveva acquistato nella grande rivoluzione del 1789. I suoi
talenti si dispiegavano a loro agio, ma quando la resistenza delle
antiche forze era ancor lontana dall’esser spez zata, si
annunciarono nuove forze, e la guerra degli ingegni divampò
in un’incessante vicenda, quale non sera mai vista in Europa e tanto
meno nella Germania sepolta nel suo silenzio di tomba.
In queste onde vivificanti Marx si lanciò a capofitto. Nel
maggio 1844 Ruge scriveva a Feuerbach, non con l’intenzione di
lodare, ma appunto perciò tanto più persuasivamente,
che Marx leggeva moltissimo e lavorava con enorme intensità,
ma che non portava a termine nulla, interrompeva tutto e si
precipitava sempre di nuovo in uno sterminato mare di libri. Era
eccitato e impetuoso, soprattutto quando aveva lavorato fino allo
sfinimento e non era andato a dormire per tre o quattro notti di
seguito. Aveva abbandonato la critica della filosofia di Hegel e
voleva sfruttare il suo soggiorno a Parigi per scrivere, cosa che
Ruge trovava molto giusta, una storia della Convenzione, per la
quale aveva raccolto materiale e fatto osservazioni molto profonde.
Marx non scrisse la storia della Convenzione, ma non per questo
restano smentite le notizie di Ruge, che sono anzi tanto più
credibili. Quanto più profondamente Marx penetrava nella
essenza storica della rivoluzione del 1789, tanto più poteva
rinunciare alla critica della filosofia di Hegel come mezzo per la
«comprensione» delle lotte e dei desideri dell’epoca,
ma tuttavia tanto meno poteva accontentarsi della storia della
Convenzione, che aveva rappresentato, sì, un massimo di
energia politica, di potere politico e di intelligenza politica, ma
che si era dimostrata impotente di fronte all’anarchia sociale.
Purtroppo, eccettuate le parche notizie di Ruge, non si è
conservata nessuna testimonianza sulla base della quale si possano
dedurre nei particolari le attività di studio di cui Marx si
occupò nella primavera e nell’estate del 1844. Ma
nell’insieme si può ben stabilire come sono andate le cose.
Lo studio della rivoluzione francese portò Marx a quella
letteratura storica del «terzo stato» che era sorta
sotto la restaurazione borbonica ad opera di notevoli ingegni, volti
a indagare l’esistenza storica della loro classe su su fino al
secolo XI, e a raffigurare la storia francese dal Medioevo in poi
come una serie ininterrotta di lotte di classe.
A questi storici — ed egli nomina espressamente Guizot e Thierry —
Marx deve la cognizione della natura storica delle classi e delle
loro lotte, la cui anatomia economica egli apprese poi dagli
economisti borghesi, tra i quali egli nomina espressamente Ricardo.
Egli stesso negò sempre di aver scoperto la teoria della
lotta di classe; quello che egli rivendicava a sé era
soltanto di aver dimostrato che l’esistenza delle classi è
legata a determinate lotte storiche di sviluppo della produzione,
che la lotta di classe porta necessariamente alla dittatura del
proletariato e che questa dittatura stessa non costituisce altro che
il passaggio all’eliminazione di tutte le classi e a una
società senza classi. Questo nesso di pensieri si è
sviluppato in Marx durante l’esilio di Parigi.
L’arma più splendente e più acuta con cui il «terzo stato» lottò contro le classi dominanti era
stata nel secolo decimottavo la filosofia materialistica. E anche
questa Marx studiò con ardore durante il suo esilio parigino,
ma delle sue due correnti studiò meno quella che partiva da
Descartes e si perdeva nelle scienze naturali, che quella che si
ricollegava a Locke e sboccava nella scienza sociale. Helvetius e
Holbach, che avevano trasferito il materialismo nella vita sociale,
e che avevano messo al centro dei loro sistemi l’ugua glianza
naturale delle intelligenze umane, l’unità tra il progresso
della ragione e il progresso dell’industria, la naturale
bontà dell’umanità, l’onnipotenza dell’educazione,
furono anch’essi stelle che illuminarono i lavori parigini del
giovane Marx. Egli battezzò la loro dottrina col nome di
«umanesimo positivo», come aveva anche battezzato la
filosofia di Feuerbach; soltanto, il materialismo degli Helvetius e
degli Holbach era divenuto la «base sociale del comunismo».
Per studiare il comunismo e il socialismo, come Marx aveva
già annunciato nella Rheinische Zeitung, Parigi offriva
proprio la migliore delle occasioni. Quel che si offerse qui ai suoi
sguardi era un quadro di una pienezza di pensieri e di figure quasi
sconcertante. L’aria culturale era satura di germi socialisti, e
nemmeno il Journal des Débats, il classico foglio
dell’aristocrazia finanziaria dominante, che era sostenuto dal
governo con un considerevole contributo annuo, si poteva sottrarre a
questa corrente, anche se si limitava a pubblicare nella sua
appendice i pseudosocialisti romanzi d’avventure di Eugène
Sue. Formavano il polo opposto a questo pensatori geniali come
Leroux, generati già dal proletariato. Nel mezzo cerano i
resti dei sansimonisti e l’attiva setta dei fourieristi, che aveva
in Considérant il suo capo e nella Démocratie
pacifique il suo organo, socialisti cristiani, come il prete
cattolico Lamennais o l’antico carbonaro Buchez, socialisti
piccolo-borghesi, come Sismondi, Buret, Pecqueur, Vidal, e non
ultima anche la letteratura, nelle cui creazioni spesso eminenti,
come i canti di Béranger o i romanzi di George Sand,
giocavano luci e ombre socialiste.
Era caratteristico, però, di tutti questi sistemi socialisti
contare sull’accortezza e la benevolenza delle classi possidenti,
che per mezzo di una propaganda pacifica avrebbero dovuto essere
convinte della necessità di riforme o di rivolgimenti
sociali. Sorti essi stessi dalle delusioni della grande rivoluzione,
sdegnavano la via politica che aveva portato a queste delusioni;
bisognava aiutare le masse oppresse, poiché esse non erano in
grado di aiutarsi da sé. Le rivolte operaie del quarto
decennio del secolo erano fallite, e in realtà i loro uomini
più decisi, come Barbès e Blanqui, non avevano
conosciuto né una teoria socialista né determinati
mezzi pratici per un rivolgimento sociale.
Soltanto per questo il movimento operaio cresceva tanto più
rapidamente, e Heinrich Heine definiva con sguardo profetico il
problema che ne sorgeva, quando diceva: «I comunisti sono
l’unico partito in Francia che meriti una decisa considerazione.
Io rivendicherei sia per i resti del sansimonismo, i cui seguaci
sono sempre in vita sotto strane etichette, sia per i fourieristi,
che sono ancora freschi ed attivi, la stessa attenzione, ma questi
uomini onorati li muove solo la parola, il problema sociale come
problema, il concetto tramandato, ed essi non sono spinti da
necessità demoniaca, non sono i ministri predestinati per
mezzo dei quali la suprema volontà del mondo attua le sue
grandi decisioni. Prima o poi la famiglia dispersa di Saint-Simon e
tutto lo stato maggiore dei fourieristi passerà all’esercito
sempre crescente del comunismo e, dando al rozzo bisogno la parola
creatrice, si assumerà la parte che già ebbero i padri
della Chiesa». Così scriveva Heine il 15 giugno 1843, e
non era ancora passato un anno, quando arrivò a Parigi l’uomo
che doveva compiere quello che Heine, nel suo linguaggio poetico,
chiedeva ai sansimonisti e ai fourieristi, dare al rozzo bisogno la
parola creatrice.
Probabilmente già in terra tedesca, e in ogni caso muovendo
ancora da considerazioni filosofiche, Marx si era dichiarato contro
la costruzione del futuro e la sistemazione definitiva una volta per
tutte, contro lo spie gamento di una bandiera dogmatica, contro la
posizione del crasso socialismo, secondo cui l’occuparsi di questioni politiche sarebbe al di sotto di ogni decoro. E se egli
aveva pensato che non bastasse che il pensiero andasse verso la
realtà, ma che la realtà dovesse essa stessa andare
verso il pensiero, anche questa condizione si adempì in lui.
Da quando, nel 1839, era stata repressa l’ultima insurrezione
operaia, movimento operaio e socialismo cominciarono ad avvicinarsi
in tre correnti.
Anzitutto nel partito democratico-socialista. Il suo socialismo era
alquanto mal combinato, poiché esso si componeva di elementi
piccolo-borghesi e proletari, e le parole d’ordine che esso
scriveva sulla sua ban diera — organizzazione del lavoro e diritto
al lavoro — erano utopie piccolo-borghesi, che non si potevano
attuare nella società capitalistica. In questa il lavoro
è organizzato come deve essere organizzato date le condizioni
di vita di questa società, cioè sulla base del lavoro
salariato, che presuppone il capitale e che può essere
eliminato soltanto insieme col capitale. Non altrimenti stanno le
cose col diritto al lavoro, che si può attuare soltanto
attraverso la proprietà comune degli strumenti di produzione,
cioè attraverso l’elimi nazione della società
borghese, alle cui radici i capi di questo partito, Louis Blanc,
Ledru-Rollin, Ferdinand Flocon, si rifiutavano solennemente di porre
l’accetta. Essi non volevano essere né comunisti né
socialisti.
Ma per quanto le mete sociali di questo partito fossero utopistiche,
tuttavia esso compiva un progresso decisivo, in quanto entrava nella
strada politica che conduceva ad esse. Esso dichiarava che senza
riforma politica era impossibile ogni riforma sociale, e che la
conquista del potere politico era l’unica leva con cui le masse
oppresse potevano salvarsi. Esso chiedeva il suffragio universale, e
questa rivendicazione trovava un’eco potente tra il proletariato,
che, stanco dei colpi di mano e delle congiure, cercava armi
più efficaci per la sua lotta di classe.
Schiere anche maggiori si riunivano sotto la bandiera del comunismo
operaio, innalzata da Cabet. Egli era stato in origine giacobino, ma
si era convertito al comunismo attraverso la via della letteratura,
ed esatta mente attraverso Utopia di Tommaso Moro. Egli lo
professava tanto apertamente quanto apertamente lo ripudiava il
partito democratico-socialista, ma era d’accordo con questo in
quanto riteneva che la democra zia politica fosse uno stadio di
passaggio necessario. Per questo il Voyage en Icarie, in cui Cabet
tratteggiò la società del futuro, fu incomparabilmente
più popolare delle geniali fantasie avveniristiche di
Fourier, con le quali del resto, col suo procedere asmatico, era ben
lungi dal potersi commisurare.
Infine dal grembo del proletariato si levavano chiare voci che
annunziavano senza ambiguità che questa classe cominciava a
divenire maggiorenne. Marx conobbe Leroux e Proudhon, ambedue
appartenenti, in quanto tipografi, alla classe operaia, sin dai
tempi della Rheinische Zeitung, e sin da allora si era ripromesso di
studiare a fondo i loro scritti. E tanto più ciò gli
veniva fatto, in quanto sia Leroux che Proudhon tentavano di
riallacciarsi alla filosofia tedesca, tutte due a dire il vero, con
gravi incomprensioni. Quanto a Proudhon, Marx stesso ha affermato di
aver cercato di illuminarlo sulla filosofia hegeliana, con lunghe
conversazioni durate spesso tutta la notte. Ed essi giunsero su
posizioni comuni, per risepararsi poi di nuovo; ma, dopo la morte di
Proudhon, Marx ha spontaneamente riconosciuto il grande impulso dato
dai suoi primi scritti, e che, indubbiamente egli stesso aveva
avvertito. Nel primo scritto di Proudhon, che, accantonando tutte le
utopie, sottoponeva la proprietà privata, come causa di tutto
il male sociale, a una critica radicale e senza riguardi, Marx vide
il primo manifesto scientifico del proletariato moderno.
Tutte queste correnti portavano alla fusione tra il movimento
operaio e il socialismo, ma, a quel modo che esse erano in
contraddizione luna con l’altra, così ciascuna si smarriva
dopo i primi passi in nuove contrad dizioni. Ora per prima cosa a
Marx, dopo lo studio del socialismo, importava lo studio del
proletariato. Nel luglio 1844 Ruge scriveva a un comune amico in
Germania: «Marx si è buttato a studiare il comunismo
tedesco di qui dal punto di vista sociale, s’intende, perché
da quello politico è impossibile che trovi impor tante
questa meschina agitazione. Una ferita così piccola come sono
in grado di procurare gli artigiani e poi questi altri quattro gatti
conquistati qui, la Germania la può sopportare senza troppe
medicine». Ben presto Ruge doveva essere erudito sul
perché Marx trovasse importante l’agitarsi di quei quattro
gatti di artigiani.
5.5 Il
«Vorwärts» e l’espulsione
Sulla vita privata di Marx nel suo esilio di Parigi non si hanno
troppe notizie. La moglie gli donò la prima figlioletta e
tornò poi in patria per farla conoscere ai parenti. Con gli
amici di Colonia egli continuò a mantenersi in relazione; con
un’offerta di mille talleri essi contribuirono notevolmente a far
sì che quell’anno fosse così fecondo per Marx.
Marx era in stretti rapporti con Heinrich Heine, ed è anche
merito suo se l’anno 1844 segnò un punto particolarmente
felice nella vita di questo poeta. Il Racconto d’inverno e il Canto
dei tessitori, e così pure le satire immortali sui despoti
tedeschi, li ha tenuti a battesimo Marx. Egli fu in relazione col
poeta soltanto pochi mesi, ma gli ha mantenuto fede anche quando le
urla dei filistei risanarono contro Heine anche più alte che
contro Herwegh; Marx ha perfino magnanimamente taciuto quando Heine,
dal suo letto di malato, lo citò, contro la verità,
come testimone della insospettabilità della pensione annua
che il poeta aveva avuto dal ministero Guizot. Marx, che, ancora
ragazzo, aveva mirato sia pur transitoriamente all’alloro poetico,
conservò sempre una viva simpatia per la corporazione dei
poeti, e molta indulgenza per le loro piccole debolezze. Pensava
certo che i poeti sono degli strani originali che bisognava lasciare
andare per la loro strada, che non si potevano misurare con la
misura degli uomini comuni e anche non comuni; volevano essere
adulati quando dovevano cantare; non era il caso di affrontarli con
una critica tagliente.
In Heine, però, Marx vedeva non soltanto il poeta, ma anche
il lottatore. Nella polemica tra Börne e Heine, che in quel
periodo era divenuta una specie di pietra di paragone degli
intelletti, egli si schierò decisamente per Heine. Egli
pensava che in nessun periodo della letteratura tedesca si era
ancora mai vista un’accoglienza più balorda di quella che lo
scritto di Heine su Börne aveva avuto da parte degli asini cristiano-germanici, sebbene in nessun periodo fossero mancati i
balordi. Marx non si lasciò mai ingannare dal chiasso sul
presunto tradimento di Heine, dal quale perfino Engels e Lassalle,
l’uno e l’altro, a dire il vero, in giovanissima età, si
erano lasciati turbare. «Ci bastano pochi segni per capirci
», gli scrisse una volta Heine, per scusare gli «
illeggibili scarabocchi» della sua scrittura, ma
l’espressione aveva un senso più profondo di quello esteriore
a cui egli accennava.
Marx era ancora sui banchi di scuola quando, nel 1834, Heine
già scopriva che lo «spirito di libertà»
della nostra letteratura classica si esprimeva «tra i dotti,
i poeti e i letterati molto meno» che «tra le grandi
masse operose, tra gli artigiani e gli operai», e dieci anni
dopo, al tempo in cui Marx viveva a Parigi, egli scopriva che i
«proletari nella loro lotta contro la situazione esistente
» avevano «come guida degli intelletti più
avanzati, i grandi filosofi». La libertà e la sicurezza
di questo giudizio si comprendono appieno quando si considera che
nel frattempo Heine riversava la più mordace derisione sul
continuo chiacchierar di politica nelle piccole conventicole di
esuli, nelle quali Börne faceva la parte del grande odiator
dei tiranni. Heine riconosceva che erano due cose del tutto diverse
se era Börne o Marx a occuparsi di quei «quattro gatti
di artigiani».
Quello che lo legava a Marx era lo spirito della filosofia tedesca e
lo Spirito del socialismo francese, era l’avversione radicale contro
la poltroneria cristiano-tedesca, il falso germanesimo che
modernizzava un po’ le sue parole d’ordine radicali l’aspetto
dell’antica follia tedesca. I Massmann e i Venedey, che continuavano
a vivere nella satira di Heine, camminavano proprio sulle orme di
Börne, per quanto questi stesse al di sopra di loro per
intelligenza e per spirito. Ma a costui mancava ogni;»usto
per l’arte, ogni intelligenza della filosofia, conformemente alla
sua frase famosa secondo cui Goethe sarebbe stato un servo in versi
e Hegel un servo in prosa1, ma quando egli ruppe con le grandi
tradizioni della storia tedesca, non acquistò però un
rapporto di parentela spirituale con le nuove potenze culturali
dell’Europa occidentale. Heine invece non poteva rinunciare a Goethe
e a Hegel senza perdere se stesso, e si buttò sul socialismo
francese con grande ardore, come su una nuova fonte di vita
spirituale. I suoi scritti vivono ancora e vivranno; essi eccitano
ancor oggi l’ira dei nipoti, così come hanno eccitato l’ira
degli ivi, mentre gli scritti di Börne sono dimenticati,
molto meno per colpa del «fiacco ritmo» del suo stile
che per il loro contenuto. Di fronte alle pettegole indiscrezioni
che Börne aveva già diffuso sul conto di Heine, quando
stavano ancora tutte due spalla a spalla, e che gli eredi letterari
di Börne sono stati tanto poco intelligenti da pubblicare
tra i suoi scritti postumi, Marx pensava di non essersi ancora
immaginato un Börne così scipito, insulso e meschino.
Non perciò Marx avrebbe dubitato del carattere
incontrastabilmente onesto di quel pettegolo, se avesse scritto
sulla polemica com’era sua intenzione. Non si trovano facilmente
nella vita pubblica gesuiti peggiori di quei radicali limitati e adoratori della lettera, che nel logoro
mantello della loro virtuosità non arretrano di fronte a
nessuna insinuazione contro spiriti più acuti e più
liberi, ai quali è dato di svelare i più profondi
nessi della vita storica. Marx è stato sempre dalla parte di
questi, mai di quegli altri, tanto più che conosceva a fondo
per esperienza personale la loro razza virtuosa.
Più avanti negli anni, Marx ha parlato di «aristocratici russi» che durante il suo esilio a Parigi lo
avevano portato in palma di mano, aggiungendo comunque che non era
cosa da valutar troppo. L’aristocrazia russa veniva educata nelle
università tedesche, e passava a Parigi la sua giovinezza.
Essa tendeva sempre agli estremi che l’occidente forniva; ma questo
non impediva a quegli stessi russi di diventare dei manigoldi non
appena entravano al servizio dello Stato. Pare che Marx pensasse al
conte Tolstoi, agente segreto del governo russo, o a qualcun altro
del genere; ma non aveva e non poteva aver di mira l’aristocratico
russo sul cui sviluppo spirituale egli esercitava in quel tempo un
notevole influsso: cioè Mikhail Bakunin. Questo influsso
Bakunin lo ammetteva ancora quando le loro due strade si erano
già da tempo separate; anche nella polemica tra Marx e Ruge,
Bakunin prese decisamente partito per Marx contro Ruge, che era
stato suo protettore fino a quel momento.
Questa polemica divampò ancora una volta nell’estate del
1844, e ormai pubblicamente. Dal capodanno del 1844 usciva a Parigi,
due volte alla settimana, il Vorwärts, la cui origine non fu
una delle più pulite. Un certo Heinrich Bornstein, che si
occupava di teatro e di altri affari di pubblicità del
genere, lo aveva fondato per i fini della sua attività
commerciale, e invero con un discreto sussidio offertogli dal
compositore Meyerbeer; sappiamo anzi, grazie a Heine, quanto questo
regio direttore d’orchestra prussiano, che viveva di preferenza a
Parigi, smaniasse per procurarsi la più intensa reclame e
quanto dovesse contarci. Ma, da consumato uomo d’affari, Bornstein
rivestì il Vorwärts di un manto patriottico e ne
affidò la direzione a Adalbert von Bornstedt, ex ufficiale
prussiano e ormai spia internazionale, che era sia «confidente» di Metternich che agente pagato dal governo di
Berlino. In realtà i Deutsch-Französische Jahrbücher,
subito al loro apparire, furono salutati dal Vorwärts con una
salva d’ingiurie, delle quali è difficile dire se fossero
più idiote o più volgari.
Ciò nondimeno, l’affare non doveva riuscir bene. Bornstein,
nell’interesse di una fabbrica di traduzioni in serie, messa su da
lui per fornire con incredibile disinvoltura le novità della
scena parigina alle imprese teatrali tedesche, doveva cercare di
soppiantare i drammaturghi giovani-tedeschi nel favore dei
benpensanti che si atteggiavano ormai a ribelli, e per raggiungere
questo scopo dovette prendere un atteggiamento di «moderato
progresso» e rinunciare alle posizioni «ultra»
non soltanto a sinistra ma anche a destra. Nella stessa
necessità si trovava Bornstedt, se non voleva insospettire i
circoli degli emigrati, il libero accesso ai quali era condizione
preliminare per poter ricevere il prezzo del suo sporco mestiere.
Soltanto, il governo prussiano era così accecato da non
comprendere le stesse necessità della propria salvezza, e
proibì il Vorwàrts nei suoi territori, dopo di che
altri governi tedeschi fecero lo stesso.
E allora, al principio di maggio, Bornstedt abbandonò il
gioco ormai senza prospettive di successo, ma non così fece
Bornstein. Egli voleva fare i suoi affari, in un modo o nell’altro,
e col sangue freddo di uno speculatore consumato si disse che il
Vorwàrts, una volta che doveva esser proibito in Prussia,
doveva avere anche tutto l’aroma di un giornale proibito, in modo
che per il borghesuccio prussiano valesse la pena di riceverlo per
vie proibite. Fu perciò per lui una manna quando quella
giovane testa calda di Bernays gli offrì per il
Vorwàrts un articolo pepato, e dopo qualche scaramuccia
Bernays ebbe la direzione del giornale al posto di Bornstedt. Ormai
anche altri emigrati lavoravano al giornale, data la totale mancanza
di un altro organo, indipendentemente dalla redazione e ciascuno
sotto la propria responsabilità.
Tra i primi si trovò anche Ruge. Anche luì da
principio sostenne qualche scaramuccia con Bornstein fir mando col
proprio nome, e, come se fosse ancora del tutto d’accordo con Marx,
difese i suoi articoli usciti sui Deutsch-Französische
Jahrbücher. Un paio di mesi dopo pubblicò due nuovi articoli,
alcune brevi an notazioni sulla politica prussiana e un lungo
articolo sulla dinastia prussiana, nella quale si parlava del
«re beone», della «regina zoppicante»,
del loro matrimonio «puramente spirituale» e
così via, ma tutte due non più firmati col suo nome,
ma firmati «Un prussiano», il che faceva pensare a Marx
come loro autore. Ruge era consigliere comunale di Dresda e come
tale era registrato alla ambasciata sassone a Parigi; Bernays era
del Palatinato renano bavarese, e Bornstein, che poi visse molto in
Austria, ma mai in Prussia, era nativo di Amburgo.
A che cosa Ruge mirasse con quella firma dei suoi articoli che
confondeva le idee, non si può stabilire oggi. Nel frattempo,
come dimostrano le sue lettere ai suoi amici e ai suoi parenti, era
passato a un odio rabbioso contro Marx, «volgarissimo
individuo» ed «ebreo svergognato», ed è
anche indiscutibile che due anni dopo in una contrita supplica al
ministro prussiano degli interni tradì i suoi compagni
d’esilio a Parigi e contro coscienza accollò a questi «giovani indefinibili» i peccati che egli stesso aveva
commesso nel Vorwärts. Ma è tuttavia possibile che
Ruge, per dare maggiore efficacia agli articoli che trattavano di
affari prussiani, li abbia fatti passare come scritti da un
prussiano. Ma agì con una leggerezza estrema, e fu
comprensibilissimo che Marx si affrettasse a parare il colpo del
preteso «prussiano».
Naturalmente lo fece in maniera molto dignitosa. Si ricollegò
a quel paio di osservazioni per così dire concrete di Ruge
sulla politica prussiana e si sbrigò del lungo articolo sulla
dinastia prussiana con questa nota a pie di pagina, che egli appose
alla sua replica: «Motivi particolari mi inducono a dichiarare
che il presente articolo è il primo che io ho fatto pervenire
al Vorwàrts». Per il momento restò anche
l’ultimo.
Quanto all’argomento, si trattava dell’insurrezione dei tessitori
slesiani del 1844, che Ruge aveva trattato come cosa indifferente:
le era mancata l’anima politica, e senza un’anima politica una
rivoluzione sociale era impossibile. Quello che Marx ribatteva,
nella sostanza lo aveva già detto nella Questione ebraica. Il
potere politico non può sanare nessun male sociale,
perché lo Stato non può abolire situazioni di cui esso
è il prodotto. Marx si volgeva duramente contro l’utopismo,
dicendo che il socialismo non si può attuare senza
rivoluzione, ma non meno duramente si volgeva contro il blanquismo,
spiegando che l’intelletto po litico inganna l’istinto sociale
quando cerca di farsi avanti per mezzo di piccoli vani colpi di
mano. Marx delineava con acutezza epigrammatica l’essenza della
rivoluzione: «Ogni rivoluzione dissolve l’antica so
cietà; in questo essa è sociale. Ogni rivoluzione
rovescia l’antico potere; in questo essa è politica».
La rivoluzione sociale con un’anima politica, come Ruge pretende,
non aveva senso, mentre era. razionale una rivoluzione politica con
un’anima sociale. La rivoluzione in generale — il rovesciamento del
potere co stituito e la dissoluzione degli antichi rapporti — era
un atto politico. Il socialismo aveva bisogno di questo atto
politico, in quanto aveva bisogno della distruzione e della
dissoluzione. Ma dove cominciava la sua attività
organizzatrice, dove comparivano il suo fine ultimo e la sua anima,
il socialismo buttava via il suo velo politico.
Se con questi pensieri Marx si ricollegava alla Questione ebraica,
l’insurrezione dei tessitori slesiani aveva presto confermato quanto
egli aveva detto sulla fiacchezza della lotta di classe in Germania.
C’era più comunismo ora nella Kölnische Zeitung che
prima nella Rheinische Zeitung, gli aveva scritto da Colonia il suo
amico Jung; essa apriva una sottoscrizione per le famiglie dei
tessitori caduti o arrestati; per lo stesso scopo, ad un pranzo
d’addio al presidente del governo, erano stati raccolti tra i
più alti funzionari e tra i più ricchi commercianti
della città cento talleri; dappertutto tra la borghesia c’era
simpatia per i pericolosi ribelli; «quella che pochi mesi fa era per essi una idea ardita e del
tutto nuova, ha acquistato quasi la certezza del luogo
comune». Marx faceva valere la universale presa di posizione a
favore dei tessitori contro la sottovalutazione dell’insurrezione
fatta da Ruge, «ma la scarsa resistenza della borghesia a
tendenze e idee sociali» non lo illudeva minimamente. Egli
prevedeva che il movimento operaio avrebbe soffocato le antipatie e
le contraddizioni politiche entro le classi dominanti, e che avrebbe
attirato su di sé tutta l’ostilità della politica
appena avesse acquistato una forza decisa. Marx svelava la profonda
differenza tra l’eman cipazione borghese e l’emancipazione
proletaria, indicando in quella il prodotto del benessere sociale,
in questa il prodotto della miseria sociale. L’isolamento dalla
comunità politica, dallo Stato era la causa della rivoluzione
borghese, l’isolamento dall’umanità, dalla vera
comunità degli uomini, era la causa della rivo luzione
proletaria. Come l’isolamento da questa era incomparabilmente
più universale, più insopportabile, più
terribile, più contraddittorio dell’isolamento dalla
comunità politica, così la sua eliminazione, anche
come fenomeno parziale, come nella insurrezione dei tessitori
slesiani, era tanto più infinita quanto l’uomo è
più infinito del cittadino e la vita umana della vita
politica.
Da qui risulta che Marx giudicava questa insurrezione in maniera del
tutto diversa da Ruge. «Anzitutto ci si ricordi del canto dei
tessitori, di questa audace parola d’ordine di lotta, in cui il
proletariato grida subito la sua opposizione alla società
della proprietà privata, in maniera evidente, acuta, ardita,
possente. L’insurrezione slesiana comincia proprio di là dove
terminano le insurrezioni francese ed inglese, con la coscienza
della natura del proletariato. Gli avvenimenti stessi hanno questo
carattere di superiorità. Non soltanto si distruggono le
macchine, queste rivali degli operai, ma anche i libri contabili,
questi titoli di
proprietà, e mentre tutti gli altri movimenti si rivolsero
inizialmente soltanto contro i signori dell’industria, cioè
contro il nemico visibile, questo movimento si rivolge nello stesso
tempo contro il banchiere, cioè contro il nemico nascosto.
Infine nessuna insurrezione operaia inglese è stata condotta
con uguale valore, ponderazione e resistenza».
Facendo seguito a questo, Marx ricordava gli scritti geniali di
Weitling, che per l’aspetto teorico spesso su peravano quelli dello
stesso Proudhon, di tanto di quanto gli rimanevano addietro per
l’esecuzione. «Dove mai potrebbe la borghesia — compresi i
suoi filosofi e i suoi dotti — mostrare un’opera concernente l’eman
cipazione della borghesia, cioè l’emancipazione politica, che
sia all’altezza delle Garanzie dell’armonia e della libertà
di Weitling ? Se si confronta la insulsa, meschina
mediocrità della letteratura politica tedesca con questo
enorme e brillante debutto degli operai tedeschi; se si confrontano
questi giganteschi stivali delle sette leghe del proletariato con
la piccolezza delle logore scarpe politiche della borghesia, si deve
presagire che questo paria tedesco farà molta strada».
Marx dice che il proletariato tedesco è il teorico del
proletariato europeo, come il proletariato inglese è il suo
economista e il proletariato francese il suo politico.
Quel che egli dice sugli scritti di Weitling è stato
confermato dal giudizio dei posteri. Erano per il suo tempo lavori
geniali, tanto più geniali in quanto il lavorante sarto
tedesco aveva aperto la strada, ancor prima di Louis Blanc, Cabet e
Proudhon, all’intesa tra il movimento operaio e il socialismo.
Più strano appare oggi quanto Marx dice sai significato
storico dell’insurrezione dei tessitori slesiani. Egli le
attribuisce tendenze che certamente le sono state del tutto
estranee, e sembra che Ruge abbia valutato molto più
esattamente la ribellione dei tessitori come una semplice
insurrezione per fame, priva di un più profondo significato.
Tuttavia, come nella loro precedente polemica a proposito di
Herwegh, si mostrò anche qui, e in modo anche più
lampante, che tutto il torto dei filistei di fronte al genio
consiste nell’aver ragione. Solo che alla fin fine un grande cuore
riporta sempre la vittoria su di un piccolo intelletto !
Quei «quattro gatti di artigiani» che Ruge guardava
sdegnosamente dall’alto in basso, mentre Marx li stu diava con
impegno, erano organizzati nella Lega dei Giusti, che si era
sviluppata nel quarto decennio del secolo in collegamento con le
società segrete francesi, e nella cui ultima disfatta del
1839 era stata coinvol ta. La cosa era stata per essa salutare in
quanto i suoi elementi dispersi non soltanto erano tornati a
riunirsi nell’antico centro di Parigi, ma avevano anche diffuso la
Lega in Inghilterra e in Svizzera, dove la libertà di
riunione e di associazione le offriva un campo più vasto, di
modo che queste propaggini si svilupparono più potentemente
del vecchio ceppo. L’organizzazione parigina era sotto la direzione
di Hermann Ewerbeck, di Danzica, che, come aveva tradotto in tedesco
l’utopia di Cabet, così era tuttora impigliato nell’utopismo
moraleggiante di Cabet. Weitling, che guidava l’agitazione nella
Svizzera, gli si dimostrò intellettualmente superiore, ed
Ewerbeck era superato almeno in decisione rivoluzionaria anche dai
capi della Lega di Londra, l’orologiaio Josef Moli, il calzolaio
Heinrich Bauer, e Karl Schapper, un ex studente di silvicultura, che
tirava avanti ora facendo il tipografo, ora l’insegnante di lingue.
Marx deve aver sentito parlare della «impressione di forza
» che facevano questi «tre veri uomini» per la
prima volta da Friedrich Engels, che gli fece visita a Parigi,
dov’era di passaggio, nel settembre del 1844 e trascorse dieci
giorni con lui. Ora essi trovarono pienamente confermato l’accordo
dei loro pensieri, già rivelatosi nella loro collaborazione
ai Deutsch-Franzòsische Jahrbucher. Nel frattempo il loro
vecchio amico Bruno Bauer si era volto contro questa concezione in
una rivista letteraria da lui fondata, e la sua critica giunse a
loro conoscenza proprio mentre erano insieme. Essi decisero
immediatamente di rispondergli, ed Engels buttò subito
giù quello che aveva da dire. Ma Marx, secondo il suo solito,
affrontò la cosa più a fondo di quanto non fosse stato
originariamente previsto, e con un lavoro accanito durante i mesi
seguenti scrisse venti fogli di stampa finiti i quali, nel gennaio
1845, finì anche il suo soggiorno a Parigi.
Da quando aveva assunto la direzione del Vorwärts, Bernays
prese direttamente di petto i «balordi cristiano-germanici» di Berlino, e non si peritò nemmeno di
commettere reati di «lesa maestà». Specialmente
Heine lanciava le sue frecce incendiarie, una dietro l’altra, contro
il «nuovo Alessandro» nel castello di Berlino. La
monarchia legittima rivolse perciò una petizione al
manganello della polizia della illegittima monarchia borghese
chiedendo un colpo di forza contro il Vorwärts. Ma Guizot si
mostrò duro d’orecchie; con tutti i suoi sentimenti
reazionari egli era un uomo di cultura e sapeva inoltre che gioia
avrebbe dato all’opposizione interna se si fosse mostrato un
tirapiedi del despota prussiano. Divenne un po’ più
condiscendente soltanto quando il Vorwärts pubblicò un
«articolo infame» sull’attentato del borgomastro
Tschech contro Federico Guglielmo IV. Dopo una discussione nel
consiglio dei ministri, Guizot si dichiarò pronto a intervenire contro il Vorwärts, e in due maniere:
una prima con la polizia correzionale, citando il direttore
responsabile per mancato deposito cauzionale, e una seconda in via
penale, rinviandolo davanti ai giurati per istigazione al regicidio.
A Berlino si era d’accordo con la prima proposta, ma la sua
attuazione si risolse in un buco nell’acqua: Bernays fu condannato a
due mesi di carcere e a trecento franchi di multa, perché non
aveva sborsato la cauzione richiesta dalla legge, tuttavia il
Vorwàrts dichiarò subito che avrebbe seguitato a
uscire come rivista mensile, per il che non si richiedeva alcuna
cauzione. Della seconda proposta di Guizot, a Berlino non se ne
voleva assolutamente sapere, nel timore, presumibilmente molto
giustificato, che dei giurati parigini non avrebbero fatto violenza
alla propria coscienza per amore del re di Prussia. Si provò
dunque ancora, affinché Guizot espellesse i redattori e i
collaboratori del Vorwärts.
Alla fine, dopo prolungate trattative, il ministro francese si
lasciò convincere, come allora si suppose, e come Engels
ripetè ancora nel suo discorso funebre per la moglie di Marx,
grazie all’opera poco nobile di mediazione di Alexander von
Humboldt, cognato del ministro prussiano degli esteri. Recentemente
si è cercato di alleggerire di questo peso la memoria di
Humboldt, con la constatazione che gli archivi prussiani non
contengono nulla in proposito. Ma questo non dimostra nulla in
contrario, perché anzitutto gli atti su questa trista
faccenda ci sono pervenuti incompleti, e in secondo luogo faccende
del genere non vengono mai trattate per iscritto. Quello che di
veramente nuovo è stato tratto dagli archivi dimostra anzi
soltanto che dietro le quinte si è svolta una azione
decisiva. A Berlino si era su tutte le furie contro Heine, che aveva
pubblicato nel Vorwärts undici delle sue satire più
taglienti sul regime prussiano e particolarmente anche contro il re.
Ma d’altra parte Heine era per Guizot il punto più delicato
della delicata faccenda. Era un poeta di fama europea e per i
francesi era quasi un poeta nazionale. Questa grave considerazione
di Guizot — dato che lui in persona non poteva parlare — deve essere
stata sussurrata all’orecchio dell’ambasciatore prussiano a Parigi
da qualche spia, perché il 4 ottobre egli annunciò
improvvisamente a Berlino che era molto dubbio se Heine, di cui
soltanto due poesie erano state pubblicate sul Vorwàrts,
appartenesse alla redazione del giornale; e allora anche a Berlino
si comprese.
Heine non fu importunato, ma contro una serie di altri emigrati
tedeschi, che avevano scritto per il Vorwàrts o erano in
sospetto di averlo fatto, l’ 11 gennaio 1845, fu emanato l’ordine di
espulsione; tra loro Marx, Ruge, Bakunin, Bornstein e Bernays. Una
parte di loro si salvò: Bornstein, impegnandosi a rinunciare
a pubblicare il Vorwärts, e Ruge, consumandosi le scarpe a
recarsi dall’ambasciatore sassone e da deputati francesi, per
assicurarli di quanto egli fosse un cittadino leale. Marx,
naturalmente, non era di questo stampo: e si trasferì a
Bruxelles.
Il suo esilio a Parigi era durato meno di un anno, ma era stato il
periodo più importante dei suoi anni di noviziato e di
pellegrinaggio: ricco di suggestioni e di esperienze, più
ricco per l’acquisto di un compagno d’armi che, col passare degli
anni, gli divenne sempre più necessario per completare la
grande opera della sua vita.