4.1 Il primo anno a Berlino
Ancor prima che Karl Marx si fidanzasse, suo padre aveva deciso che
avrebbe proseguito gli studi a Berlino; la dichiarazione, tuttora
conservataci, con la quale Heinrich Marx non solo dà il
benestare, ma anzi dichiara esser sua volontà che il figlio
Karl frequenti per il trimestre seguente l’Università di
Berlino per proseguirvi gli studi di scienze giuridiche e
amministrative, porta la data del 1◦ luglio 1836.
E’ verosimile che il fidanzamento stesso abbia piuttosto rafforzato
che indebolito questa decisione del padre; la sua natura riflessiva,
mirando lontano, può avergli fatto considerare consigliabile
per il momento una lunga separazione dei due innamorati. E
d’altronde può anche darsi che nella scelta di Berlino egli
sia stato spinto dal suo patriottismo prussiano, e anche dal fatto
che l’Università di Berlino non conosceva quegli antichi
fasti studenteschi dei quali, a giudizio del provvido vecchio, Karl
Marx aveva goduto a sufficienza a Bonn; «le altre
Università non sono altro che birrerie in confronto a questa
casa di lavoro», diceva Ludwig Feuerbach.
Comunque, non è stato il giovane studente a decidersi da
sé per Berlino. Karl Marx amava il suo paese e la capitale
prussiana gli è stata antipatica per tutta la vita. Tanto
meno la filosofia di Hegel, dominatrice incontrastata
all’Università di Berlino dopo la morte ancor più che
durante la vita del suo fondatore, poteva averlo attratto
poiché gli era del tutto sconosciuta. A ciò si
aggiungeva la grande lontananza dall’amata. Egli aveva, sì,
promesso di contentarsi per il futuro dell’assenso di lei, e di
rinunciare per il presente a tutte le manifestazioni esteriori
dell’amore. Ma anche tra persone come loro questi giuramenti da
innamorati hanno il singolare privilegio di esser scritti
sull’acqua; più tardi Karl Marx racconterà ai suoi
figli, di essere stato allora, nell’amore per la loro madre, un vero
Orlando furioso, e così il suo giovane e ardente cuore non
ebbe pace finché non gli fu permesso di scambiare delle
lettere con la fidanzata.
Soltanto, egli ricevette la prima lettera di lei quando si trovava a
Berlino già da un anno, e su quest’anno noi siamo per un
certo aspetto informati più esattamente che su qualsiasi
altro degli anni della sua gioventù o della sua vecchiaia: e
ciò grazie a una lettera che egli scrisse ai suoi genitori il
30 novembre 1837 per fornir loro, «alla fine di un anno
trascorso qui, uno sguardo sulla situazione di esso». Questo
notevole documento ci mostra già nel giovane l’uomo intero,
che lotta per la verità fino al completo esaurimento delle
sue energie fisiche e spirituali: la sua insaziabile sete di sapere,
la sua inesauribile capacità di lavoro, la sua spietata
autocritica e quello spirito di lotta che, quando pareva averli del
tutto vinti, in realtà aveva soltanto soffocato i battiti del
cuore.
Karl Marx si immatricolò il 22 ottobre 1836. Delle lezioni
accademiche non si curò troppo; in nove semestri non
seguì più di dodici corsi, soprattutto corsi
obbligatori di diritto, e anche di questi presumibilmente ha
ascoltato poche lezioni. Degli insegnanti ordinari
dell’Università, soltanto Eduard Gans ha esercitato un
qualche influsso sulla sua evoluzione spirituale. Di Gans
seguì le lezioni di diritto penale e di diritto civile
prussiano, e lo stesso Gans attestò «l’eccellente
diligenza» con cui Karl Marx seguì i due corsi. A
questo proposito ha un valore di prova maggiore di tali attestati,
che di solito si danno con molta indulgenza, la polemica spietata
condotta da Marx nei suoi primi scritti contro la scuola storica del
diritto, contro la cui angustia e ottusità, contro la cui
dannosa influenza sulla legislazione e sullo sviluppo del diritto
aveva già levato la sua voce eloquente il Gans, giurista
ricco di cultura filosofica.
Tuttavia, per sua stessa ammissione, Marx si occupò dello
studio regolare della giurisprudenza soltanto come di una disciplina
secondaria dopo la storia e la filosofia, e in queste due materie
non si preoccupò minimamente delle lezioni, ma si iscrisse
soltanto al normale corso obbligatorio di logica, con Gabler,
successore ufficiale di Hegel, ma il più mediocre tra i suoi
mediocri ripetitori. Abituato a pensare con la sua testa, già
all’Università Marx lavorava in maniera indipendente, e in
due semestri si impadronì di tante cognizioni quante venti
semestri non sarebbero bastati a elaborare col lento imbottimento
delle lezioni accademiche.
Dopo il suo arrivo a Berlino, fu «il nuovo mondo dell’amore
» a rivendicare per primo i propri diritti. «Ebbro di
nostalgia e vuoto di speme», esso si riversò in tre
quaderni di poesie, tutti dedicati «alla mia cara,
eternamente amata Jenny von Westphalen». Tra le cui mani si
trovarono nel dicembre 1836, salutati, come gli annunciava a Berlino
la sorella Sophie, «con lacrime di voluttà e di dolore
». Il poeta stesso, un anno più tardi, nella lunga
lettera ai genitori, giudicava con molto poco riguardo questi parti
della sua musa.
«Sentimento espresso con prolissità e senza forma,
nulla di naturale, tutto campato in aria, contrasto assoluto tra
quello che è e quello che dev’essere, riflessioni retoriche
invece di un pensiero poetico»: tutto questo elenco di
peccati era il giovane poeta stesso a formularlo, e anche se poteva
far valere come circostanza attenuante «magari un certo
calore di sentimento e e un certo tentativo d’estro»,
però queste qualità più lodevoli colpivano nel
segno forse soltanto nel senso e nei limiti dei Canti a Laura di
Schiller.
In generale le sue poesie giovanili hanno un tono romantico di
maniera, in mezzo al quale raramente risuona una voce schietta.
Inoltre la tecnica del verso è impacciata e rigida in un modo
in verità non più ammissibile dopo che Heine e Platen
avevano fatto sentire il loro canto. Le capacità artistiche
che Marx possedeva in notevole misura, e che rivelò per
l’appunto anche nelle sue opere scientifiche, cominciarono a
svilupparsi attraverso così strani errori. Come
nell’espressività del suo linguaggio egli si avvicinò
ai primi maestri della letteratura tedesca, così attribuiva
grande valore all’equilibrio estetico dei suoi scritti, diversamente
da quegli spiriti meschini per i quali la noia più pesante
costituisce il titolo fondamentale del lavoro erudito. Ma tra le
molteplici doti che le muse gli avevano posto nella culla, non si
trovava la dote dell’eloquio poetico.
Tutt’al più, come scriveva ai suoi genitori nella lunga
lettera del 10 novembre 1837, la poesia poteva essere soltanto un
accompagnamento; lui doveva studiare giurisprudenza e sentiva
soprattutto l’impulso a cimen tarsi con la filosofia. Aveva
studiato a fondo Heineccius, Thibaut e le fonti, tradotto in tedesco
i due primi libri delle Pandette e cercato di fondare una filosofia
del diritto sul terreno del diritto. Questa’ «opus
infelice» egli scriveva di averlo portato avanti fino alla
trecentesima pagina, se pur non si tratta di un lapsus calami. Alla
fine si accorse della «erroneità dell’insieme»
e si gettò tra le braccia della filosofia, per progettare un
nuovo sistema metafisico, al cui termine però fu di nuovo
costretto a prender atto della assurdità di tutti gli sforzi
compiuti. A parte ciò, aveva l’abitudine di farsi estratti da
tutti i libri che leggeva, come dal Laocoonte di Lessing, alla
Storia dell’arte del Wicckelman, dalla Storia tedesca di Luden; e di
scribacchiarvi accanto delle riflessioni. Contemporaneamente
traduceva la Germania di Tacito e i Tristia di Ovidio, e
cominciò a studiare per conto proprio, cioè sulle
grammatiche, l’inglese e l’italiano, senza arrivare per il momento a
nessun risultato concreto; leggeva il Diritto penale di Klein e i
suoi Annali e tutte le novità letterarie, que st’ultime
soltanto di sfuggita. La chiusura del semestre fu però
costituita di nuovo da «danze di muse e musica di satiri
», ma d’improvviso il regno della vera poesia gli apparve
lontano come un palazzo incantato, e tutte le sue creature svanirono
nel nulla.
E infine il risultato di questo primo semestre era stato che egli
«aveva vegliato molte notti, affrontato molte lotte, subito
molte agitazioni interne ed esterne», ma senza ottenere
molto, e che natura, arte, il mondo stesso erano stati trascurati e
gli amici tenuti lontani. Inoltre il fisico d’adolescente
risentì dello sforzo eccessivo, e per consiglio del medico
Marx si trasferì a Stralau, che allora era ancora un
tranquillo villaggio di pescatori. Qui egli si riprese subito, e
così ricominciò l’attività intellettuale.
Anche nel secondo semestre affrontò lo studio dei più
vari argomenti, ma la filosofia di Hegel si mostrò sempre
più chiaramente come il polo immobile nel flusso dei
fenomeni. Quando Marx la conobbe per la prima volta in maniera
frammentaria,
la sua «grottesca musica rupestre» non riuscì a
piacergli, ma durante una nuova malattia la studiò da capo a
fondo, e capitò inoltre in un «Doktorklub» di
Giovani hegeliani, dove, nelle continue discussioni, si legò
sempre più saldamente «alla attuale filosofia del
mondo» a dire il vero non senza che ogni voce in lui si
ammutolisse e lo assalisse «una vera smania di ironia dopo
tutte quelle negazioni».
Karl Marx rivelava tutto ciò ai suoi genitori e chiudeva con
la preghiera di lasciarlo tornare a casa subito, e non soltanto per
la Pasqua dell’anno seguente come il padre gli aveva già
consentito. Voleva discutere col padre sulle «condizioni del
suo spirito così disperso e disorientato»; soltanto
nella «cara vicinanza» dei genitori avrebbe potuto
acquietare questi «agitati fantasmi».
Quanto questa lettera è oggi preziosa per noi come specchio
nel quale contempliamo l’immagine vivente del giovane Marx, tanto
male fu accolta nella casa paterna. Il padre, già malandato,
si vide davanti il «demone» che aveva sempre temuto nel figlio, che temeva doppiamente
da quando amava «una certa persona» come una figlia
sua propria, da quando una famiglia molto degna era stata
sollecitata ad approvare una relazione che, stando alle apparenze e
coi tempi che correvano, era piena di pericoli e cupe prospettive
per questa cara fanciulla. Egli non era stato mai così
ostinato da prescrivere al figlio il cammino da percorrere a meno
che ciò servisse soltanto a far rispettare dei «sacri
impegni»; ma quello che ora si vedeva davanti era un mare
tempestoso senza nessun ancoraggio sicuro.
Così, nonostante la sua «debolezza», di cui era
ben consapevole, si decise ad essere «duro almeno per una
volta», e nella sua risposta del 1◦ dicembre fu «duro
» alla sua maniera, ingrandendo esageratamente le cose e
intercalando dolorosi sospiri. Chiedeva in che modo il figlio avesse
compiuto il suo dovere, e rispondeva lui stesso: «Lo
giudichi Iddio! Disordine assoluto, balordo vagabondaggio in tutti
i campi del sapere, balorde sgobbate al fioco lume della lucerna;
abbrutimento nello studio in veste da camera e coi capelli
arruffati, invece che abbrutimento nel bere in una birreria;
repellente mancanza di socievolezza e di ogni decoro e perfino di
ogni riguardo verso tuo padre; l’arte di frequentare il mondo
limitata alla sporca stanza, dove forse le lettere d’amore di una
Jenny e le amichevoli esortazioni paterne, scritte magari tra le
lacrime, vengono adoperate per accender la pipa, il che del resto
è sempre meglio che vederle capitare, grazie a un disordine
anche più irresponsabile, in mano di terzi».
Poi il
dolore lo sopraffa e, per restare spietato, egli si fa forza con le
pillole che il medico gli ha ordinato. Biasima severamente Karl per
i suoi sprechi incontrollati. «Come se fossimo pieni d’oro,
il signor figlio consuma in un anno quasi 700 talleri, contro ogni
accordo, contro ogni usanza, mentre i più ricchi non ne
spendono 500». Certo Karl non è un crapulone né
un dissipatore, ma chi ogni settimana o al massimo ogni due
settimane è costretto a trovare nuovi sistemi e disfare gli
antichi, come può occuparsi di tali piccolezze? Tutti
attingono alla sua tasca, e tutti lo ingannano.
Dopo aver proseguito un pezzo in questa maniera, alla fine il padre
rifiutò inesorabilmente la visita di Karl.
«Venire qui in questo momento sarebbe una sciocchezza. Certo
io so che tu fai poco conto delle lezioni — e magari paghi —, ma io
voglio almeno salvare il decoro. Io non sono certamente schiavo di
quel che dice la gente, ma non mi piace neppure che si chiacchieri
sul mio conto». Karl sarebbe potuto venire per le vacanze di
Pasqua, o anche dieci giorni prima, dato che il padre non voleva
essere così pittima.
Tra tutte le sue lamentele risuonava il rimprovero che il figlio non
aveva cuore, e poiché questo rimprovero è stato tante
e tante volte mosso a Karl Marx, è bene, qui che esso risuona
per la prima volta e forse con più ragione che altrove, dire
subito quel poco che se ne può dire. Con la frase sul «diritto di godere la vita», trovata da una civiltà
rammollita per giustificare un vile egoismo, naturalmente non si
spiega nulla; né molto di più si spiega con la frase
più antica sui «diritti del genio», il quale
potrebbe permettersi più che i comuni mortali. In Karl Marx,
piuttosto, la lotta indefessa per acquistare piena coscienza delle
cose scaturiva dal sentimento più profondo del cuore; egli
non era, secondo una rude espressione da lui stesso usata una volta,
abbastanza bue da voltare le spalle ai «dolori
dell’umanità», o, per dirla con le parole con cui
Hutten aveva già espresso questo pensiero, Dio lo aveva
condannato a sentir più male e a esser colpito più
profondamente degli altri per un dolore comune. Nessun altro mai ha
fatto tanto quanto Karl Marx per estirpare le radici dei «dolori dell’umanità». Quando la nave della sua vita
navigava in alto mare, tra venti e tempeste e sotto il sibilare dei
proiettili nemici, la sua bandiera ha continuato a sventolare
sull’albero maestro, ma a bordo la vita non era comoda né per
il comandante né per l’equipaggio.
Non perciò Marx era privo di sentimento per i suoi. Il suo
animo di lottatore poteva sì far tacere i sentimenti del cuore, ma non soffocarli, e spesso, già avanti negli
anni, egli si dolse amaramente, che quelli che gli erano più
vicini dovessero soffrire della dura sorte della sua vita più
di lui stesso. Anche da giovane studente non era sordo alle grida di
allarme del padre; rinunciò non solo a tornare subito a
Treviri, ma al viaggio per Pasqua, con dispiacere della madre, ma
con grande soddisfazione del padre, la cui collera cominciò a
calmarsi rapidamente. Questi seguitò, è vero, con le
sue lagnanze, ma lasciò andare le esagerazioni; nell’arte del
ragionamento astratto non poteva del resto tener testa a Karl, e in
quanto a studiare anche la terminologia, era troppo vecchio per
poter sia pure affacciarsi nel suo santuario. In un punto tutto il
trascendente non serviva a nulla, e il figlio osservò
saggiamente un dignitoso silenzio. Ma il padre voleva deporre le
armi per stanchezza, e la parola aveva un senso più serio di
quel che sembrava a giudicare dal sottile umorismo che tornava a
giocare tra le righe di questa lettera. Essa porta ti data del 10
febbraio 1838, quando Heinrich Marx si era appena alzato dopo una
malattia che lo aveva tenuto a letto per cinque settimane. Non era
una guarigione definitiva; la malattia, a quanto pare al fegato,
ricomparve e si aggravò, fino a che, proprio tre mesi dopo,
il 10 maggio 1838, sopravvenne la morte. E giunse a tempo opportuno
per risparmiare al suo cuore paterno le delusioni di fronte alle
quali esso si sarebbe spezzato un poco alla volta.
Ma Karl Marx ha sempre riconosciuto con gratitudine quel che suo
padre era stato per lui. Come il padre lo aveva portato nell’intimo
del cuore, così lui portò nel cuore l’immagine
paterna, fin nella tomba.
4.2 I Giovani hegeliani
Dopo la primavera del 1838, quando perdette il padre, Karl Marx
visse ancora tre anni a Berlino, nell’ambiente del Doktorklub, la
cui vita intellettuale gli aveva dischiuso i segreti della filosofia
hegeliana.
Allora questa filosofia passava ancora come la filosofia ufficiale
dello Stato prussiano. Il ministro del culto Altenstein e il suo
consigliere segreto Johannes Schulze l’avevano presa sotto la loro
personale protezione. Hegel esaltava lo Stato come la realtà
dell’idea morale, come il razionale assoluto e l’assoluto fine a se
stesso, e perciò come il diritto supremo nei confronti dei
singoli, supremo dovere dei quali è quello di essere membri
dello Stato. Questa dottrina dello Stato era estremamente suasiva
per la burocrazia prussiana; gettava perfino una luce trasfigurante
sulle colpe della caccia ai «demagoghi» !
Né Hegel aveva in alcun modo compiuto un’ipocrisia con questa
dottrina, perché dalla sua evoluzione politica si vide che la
monarchia, nella quale i servitori dello Stato dovevano agire nel
modo migliore, era per lui la forma ideale dello Stato; se mai egli
riteneva necessario accanto ad essa un certo condominio moderato
delle classi dominanti, ma soltanto nei limiti della divisione in
«stati»; di una rappresentanza generale del popolo
in senso moderno costituzionale, ne voleva sapere tanto poco quanto
il re di Prussia e il suo oracolo Metternich.
Ma il sistema che Hegel si era confezionato per la propria persona,
era in contraddizione insanabile col metodo dialettico di cui egli
era il rappresentante in quanto filosofo. Col concetto dell’essere
è dato anche il concetto del nulla, e dalla loro lotta sorge
il più alto concetto del divenire. Tutto è e insieme
non è, poiché tutto scorre ed è concepito in
continuo mutamento, in un continuo divenire e trapassare.
Così la storia era un processo di sviluppo ascendente
dall’inferiore al superiore, concepito in perpetua rivoluzione, ed
Hegel con la sua cultura universale nei più diversi campi
della scienza storica, si accinse a dimostrarlo, anche se soltanto
nella forma, corrispondente alla sua concezione idealistica, secondo
cui l’idea assoluta — che Hegel, senza precisar
altro di essa, definiva l’anima vivificante di tutto l’universo — si
attua in ogni accadimento storico.
Perciò l’alleanza tra la filosofia di Hegel e lo Stato dei
Federici Guglielmi poteva essere soltanto un matri monio di
convenienza, che durò appunto finché le due parti lo
trovarono conveniente: cioè all’incirca fino ai giorni delle
decisioni di Karlsbad e delle persecuzioni contro i
«demagoghi». Ma già la rivoluzione del luglio
1830 dette all’evoluzione europea una così energica spinta in
avanti, che il metodo di Hegel si rivelò incom parabilmente
più genuino del suo sistema. Non appena le pur sempre deboli
ripercussioni della rivoluzione di luglio sulla Germania furono
soffocate e la pace del sepolcro tornò a pesare sul popolo
dei poeti e dei pensatori, la nobiltà prussiana degli Junker
si affrettò a far giocare un’altra volta contro la filosofia
moderna la vecchia merce avariata del romanticismo medievalizzante.
E la cosa le fu tanto più facile in quanto l’ammirazione per
Hegel più che di quella nobiltà era stata propria
della mezzo illuminata burocrazia, e in quanto Hegel, con tutta
l’esaltazione dello Stato dei funzionari, non aveva però
fatto nulla per mantenere nel popolo la religione, che ormai era
l’Alfa e l’Omega della tradizione feudale, come lo è in
ultima analisi di tutte le classi sfruttatrici.
E proprio sul terreno della religione si ebbe il primo urto. Se
Hegel aveva ritenuto che le storie sacre della Bibbia dovessero
essere considerate come storie profane, e che la conoscenza storica
di fatti normali e reali non avesse nulla a che fare con la fede, un
giovane svevo, David Strauss1, prese sul serio le parole del
maestro. Egli pretese che i racconti degli Evangeli fossero
sottoposti alla critica storica, e dimostrò la fondatezza di
questa pretesa con la sua Vita di Gesù, che apparve nel 1835
e sollevò un enorme scalpore. Con ciò Strauss si
ricollegava all’illuminismo borghese, sulla cui
«illuminazione» Hegel si era espresso in modo anche
troppo sdegnoso. Ma il dono del pensiero dialettico gli Consentiva
di affrontare la questione in modo incomparabilmente più
profondo di come l’avesse affrontata il vecchio Reimarus, l’«Anonimo» di Lessing. Strauss non vedeva più nella
religione cristiana un prodotto dell’inganno, e negli apostoli una
masnada di imbroglioni, e spiegava invece gli elementi mitici degli
Evangeli con l’inconsapevole creazione delle comunità
cristiane primitive. Ma in molte cose degli Evangeli riconosceva
ancora delle notizie stori che sulla vita di Gesù, e in
Gesù stesso riconosceva un personaggio storico, come del
resto in generale presupponeva ancora un nocciolo storico nei punti
principali.
Politicamente Strauss era del tutto innocuo, e lo è rimasto
per tutta la sua vita. Un carattere alquanto più politico
ebbero gli Hallische Jahrbücher, fondati daArnold Ruge e da
Theodor Echtermeyer nel 1838 come organo dei Giovani hegeliani. Essi
pure, a dire il vero, muovevano dalla letteratura e dalla filosofia,
e inizialmente non volevano essere altro che il contraltare dei
Berliner Jahrbücher für wissenschaftliche Kritik, che
erano l’arrugginito organo dei Vecchi hegeliani. Ma Arnold Ruge, di
fronte al quale Echtermeyer, che morì poco dopo, passò
presto in seconda linea, era già stato attivo nella
Associazione studentesca e aveva passato sei anni in prigione a
Köpenick e Kolberg, vittima della caccia ai demagoghi. A dire
il vero non aveva preso tragicamente questa sua disgrazia, e
attraverso un matrimonio fortunato si era procurato come libero
docente a Halle una comoda esistenza che gli consentiva di definire
la forma di Stato prussiana, nonostante tutto, libera e giusta. Non
avrebbe avuto nulla da eccepire contro di essa se si fosse avverato
in lui quanto malignamente dicevano i mandarini della vecchia
Prussia, e cioè che in Prussia nessuno fa una carriera tanto
rapida quanto un demagogo convertito. Ma proprio qui le cose non
funzionarono.
Ruge non era un pensatore originale e tanto meno uno spirito
rivoluzionario, ma aveva per l’appunto cul tura, orgoglio, zelo e
combattività sufficienti per dirigere bene una rivista
culturale. Una volta si definì lui stesso, e non senza
colpire nel segno, un grande commerciante dello spirito. I suoi
Hallische Jahrbücher divennero, grazie a lui, il punto di
incontro di tutti gli spiriti irrequieti che possiedono la
prerogativa — fu nesta all’interesse di ogni ordine statale — di
dare in pasto alla stampa quasi tutti i fatti della vita. Come
collaboratore, David Strauss avvinceva i lettori incomparabilmente
di più di quanto avrebbero potuto farlo tutti quanti i
teologi che combattevano a spada tratta per la divina
infallibilità degli Evangeli. E Ruge assicurava, sì,
che i suoi Jahrbücher restavano «cristiani hegeliani e
prussiani hegeliani», ma il ministro del culto Altenstein,
che del resto era già stato messo con le spalle al muro dalla
reazione romantica, non cessò per questo di sospettare e non
accondiscese alle imploranti preghiere di Ruge che chiedeva un
impiego statale in riconoscimento della sua attività,
Così agli Hallische Jahrbücher balenò l’idea
che bisognasse sciogliere i legami che tenevano legata la
libertà e la giustizia in Prussia.
Tra i collaboratori degli Hallische Jahrbücher c’erano anche
i Giovani hegeliani di Berlino, in mezzo ai quali Karl Marx
passò tre anni della sua giovinezza. Il Doktorklub era
formato da docenti, insegnanti, scrittori nel primo fiorire
dell’età virile. Rutenberg, che Karl Marx da principio
in una lettera al padre chiamava il più «intimo
» dei suoi amici berlinesi, aveva insegnato geografia al corpo
dei cadetti di Berlino, ma era stato licenziato, ufficialmente
perché un mattino s’era sdraiato ubriaco sull’orlo della
strada, in realtà perché si sospettava che avesse
pubblicato in giornali di Amburgo o di Lipsia degli articoli
«malevoli». Eduard Meyen aveva collaborato a una
rivista di breve vita, nella quale Marx pubblicò due delle
sue poesie, fortunatamente le sole che abbiano mai visto la luce del
giorno.
Non è possibile stabilire se appartenesse a
questa associazione anche Max Stirner, che insegnava in una scuola
femminile da quando Marx studiava a Berlino. Non abbiamo prove che i
due si siano conosciuti personalmente, né la questione
presenta un interesse troppo profondo, dato che tra Marx e Stirner
non ci sono stati contatti spirituali di nessun genere. Tanto
più forte però è stata l’influenza che hanno
esercitato su Marx i membri spiritualmente più dotati del
Doktorklub. Bruno Bauer2, libero docente all’Università
di Berlino, e Karl Friedrich Köppen, insegnante alla scuola
tecnica comunale Dorothea.
Karl Marx contava appena venti anni quando entrò nel
Doktorklub, ma, come gli avvenne spesso anche in seguito, quando
entrava in un nuovo ambiente, ne diventava l’anima e il centro.
Anche Bauer e Köppen, maggiori di una decina d’anni,
riconobbero ben presto la sua superiorità intellettuale, e
preferirono a tutti i compagni di lotta questo giovane che pure
poteva ancora imparare e imparò molto da loro. Köppen
dedicò
«al suo amico Karl Heinrich Marx di Treviri»
l’impetuoso libello che pubblicò nel 1840 per il centenario
della nascita di re Federico di Prussia.
Köppen possedeva un talento storico non comune, come
testimoniano ancor oggi i suoi articoli negli Hallische
Jahrbücher, a lui dobbiamo la prima valutazione veramente
storica del terrore rosso nella grande Rivoluzione francese. Egli
seppe sottoporre i rappresentanti della storiografia del tempo, i
Leo, i Ranke, i Raumer, gli Schlosser, alla critica più
felice e più precisa. Si cimentò personalmente nei
campi più vari della ricerca storica, da una introduzione
letteraria alla mitologia nordica, che meritò di essere posta
accanto alle ricerche di Jakob Grimm e di Ludwig Uhland, a un grosso
lavoro su Budda, che ebbe perfino il riconosci mento di
Schopenhauer, di solito poco tenero col vecchio pensatore hegeliano,
Se si pensa che una mente come Köppen auspicava il peggior
despota della storia prussiana, quasi «spirito risorto
», per «sterminare con la spada fiammeggiante tutti gli
avversari che ci impediscono l’accesso alla terra promessa»,
siamo trasportati immediatamente nell’ambiente particolare in cui
vivevano questi Giovani hegeliani di Berlino.
Certo, non bisogna trascurare due cose. La reazione romantica e
tutto ciò che le si ricollegava si adoperava con tutte le
forze a tinger di nero la memoria del vecchio Fritz. Era, come
pensava Köppen, un «orribile baccano: trombe del
vecchio e del nuovo Testamento, ocarine morali, edificanti
cornamuse, storiche pive e altre fanfaluche, e in mezzo inni alla
libertà, urlati con teutoniche voci da ubriachi». Ma
fuori di questo non c’era ancora nessuna ricerca
critico=scientifica, che fosse in certo modo all’altezza della vita
e delle imprese del re prussiano, né poteva ancora esserci,
dal momento che le fonti essenziali per una sua storia non erano
state ancora rese pubbliche. Aveva fama di essere stato un «illuminista», e perciò gli uni lo odiavano e gli altri
lo ammiravano.
In realtà, col suo scritto, Köppen voleva rivalutare
l’illuminismo del secolo decimottavo; Ruge diceva di Bauer,
Köppen e Marx che era una loro caratteristica questo
richiamarsi all’illuminismo borghese; essi, una specie di partito
della Montagna in filosofia, scrivevano il loro Mane, Thecel, Phares
sul cielo tempestoso della Germania. Köppen respingeva le
«scipite declamazioni» contro la filosofia del secolo
decimottavo affermando che nonostante la loro pesantezza noi
dovevamo molto agli illuministi tedeschi: il loro difetto era
soltanto di non essere stati abbastanza illuminati. Con ciò
Köppen dava ottimi spunti di riflessione ai ripetitori di
Hegel privi di pensiero, «solitari penitenti del concetto>,
«vecchi bramini della logica», che, seduti eternamente
immobili con le gambe incrociate, leggono e rileggono con monotono
borbottio i tre Veda, e gettano soltanto di quando in quando uno
sguardo lascivo verso il mondo dove danzano le baia dere.
Nell’organo dei Vecchi hegeliani Varnhagen respinse lo scritto di
Köppen, definendolo «schifoso» e
«ripugnante»; probabilmente si sentiva toccato
particolarmente dalle aspre parole di Kòppen sui «rospi della palude», vermi senza religione, senza patria, senza
convinzioni, senza coscienza, senza cuore, senza caldo né
freddo, senza gioia né dolore, senza amore né odio,
senza dio né diavolo, miserabili che si aggiravano dinanzi
alle porte dell’inferno e valevano troppo poco perfino per esso.
Köppen celebrava il «gran re» soltanto in
quanto «grande filosofo». Ma in questo colpiva a
vuoto, più ancora di quel che fosse lecito per lo stato delle
cognizioni di allora. Egli diceva: «Federico non aveva, come
Kant, una doppia ragione, una teoretica, che si mostra abbastanza
sinceramente e arditamente coi suoi scrupoli e dubbi e negazioni, ed
una pratica, paternalistica, al servizio dello Stato, che rimedia
alle colpe dell’altra e ne mette a tacere le scappatelle giovanili.
Soltanto il più immaturo scolaretto può affermare che
nel vecchio Fritz la ragione teoretica del filosofo appaia molto
trascendente di fronte a quella pratica
del re, e che egli si sia ricordato troppo di rado dell’eremita di
Sans=souci. Anzi, in lui il re non è mai rimasto addietro
rispetto al filosofo». Oggi proprio chi osasse ripetere
queste affermazioni di Köppen si attirerebbe nella
storiografia prussiana il rimprovero di essere il più
immaturo scolaretto, ma anche per l’anno 1840 era già un po’
troppo porre l’opera illuminatrice di un uomo come Kant al di sotto
degli scherzi «illuministici » che il despota borussico soleva imbastire coi begli spiriti
francesi che si prestavano a fargli da buffoni di corte.
In questa posizione si manifestava la singolare meschinità e
vuotaggine della vita berlinese, che fu in generale fatale per i
Giovani hegeliani di quella città. Proprio in Köppen,
che infine avrebbe dovuto tenersene lontano al massimo, essa si
manifestò nel modo più vistoso, tanto più che
si trattava di un’opera polemi ca scritta con tutta l’anima. In
Berlino mancava ancora quel potente sostegno che l’industria renana,
già considerevolmente sviluppata, offriva alla coscienza
borghese, ma la capitale prussiana restò indietro non
soltanto a Colonia, ma anche a Lipsia e perfino a Königsberg
non appena la lotta dell’epoca cominciò a combattersi sul
terreno pratico. «Credono di essere enormemente liberi»,
scriveva dei berlinesi di allora Walesrode, nativo della Prussia
orientale, «quando nei caffé dicono freddure su Cerf,
la Hagen, il re, gli avvenimenti del giorno ecc. ecc., alla ben nota
maniera dei fannulloni». Berlino era anzitutto una
città sede del monarca e di una guarnigione e la sua
popolazione piccolo=borghese si ripagava in pettegolezzi me schini
della vile sottomissione che manifestava pubblicamente davanti ad
ogni corteo reale. Degno ritrovo di questa opposizione era il
salotto dello stesso Varnhagen, che davanti all’illuminismo di
Federico, così come lo intendeva Kòppen, si faceva il
segno della croce.
Non c’è alcun motivo di dubitare che il giovane Marx
condividesse il contenuto dello scritto che per la prima volta
faceva onorevolmente il suo nome davanti al pubblico. Egli era
intimo amico di Kòppen e molto ha preso dallo stile del
compagno più anziano. Rimasero buoni amici, sebbene le loro
strade divergessero presto; quando, venti anni dopo, Marx
tornò a Berlino, ritrovò in lui «tutto il
vecchio Kòppen», e passarono ore liete ritrovandosi
senza ombre. Non molto tempo dopo, nel 1863, Köppen
morì.
4.3 La filosofia
dell’autocoscienza
Il vero capo dei Giovani hegeliani di Berlino non era però
Kòppen, ma Bruno Bauer. E fu anche riconosciuto per il vero
discepolo del maestro specialmente quando con orgoglio speculativo
si dichiarò contro la sveva Vita di Gesù di Strauss,
da cui si ebbe una dura risposta. Il ministro del culto Altenstein
tenne la sua mano protettrice su questo promettente ingegno.
Con tutto ciò Bruno Bauer non era un arrivista, e Strauss
s’era sbagliato quando aveva predetto che avrebbe approdato alla
«fossilizzata scolastica» del capo degli ortodossi,
Hengstenberg. Anzi, nell’estate del 1839, Bauer entrò in
guerra letteraria con Hengstenberg, che voleva innalzare a dio del
cristianesimo il dio della vendetta e della collera del Vecchio
Testamento; guerra che si mantenne ancora a dire il vero nei limiti
di una disputa accademica, ma che tuttavia indusse Altenstein,
indebolito dagli anni e gravemente preoccupato, a sottrarre il suo
protetto agli sguardi sospettosi dell’ortodossia, tanto vendicativa
quanto gelosa della sua fede. Nell’autunno del 1839 egli
mandò Bruno Bauer nell’Università di Bonn, dapprima
come libero docente, ma con l’intenzione di farlo assumere come
professore nel termine di un anno.
3http://www.marxpedia.org/“biblioteca/“vitadimarx/“#_ednref1
4http://www.marxpedia.org/“biblioteca/“vitadimarx/“#_ednref2
Ma in questo periodo Bruno Bauer, come risulta particolarmente dalle
sue lettere a Marx, stava già attra versando un’evoluzione
spirituale che doveva portarlo molto più avanti di Strauss.
Egli mise mano a una critica degli Evangeli che lo condusse a far
piazza pulita degli ultimi frantumi che Strauss aveva ancora
conservato. Bruno Bauer dimostrava che negli Evangeli non è
contenuto neanche un atomo di storia, che in essi tutto è
libera produzione letteraria degli evangelisti; dimostrava che la
religione cristiana non è stata imposta come religione
universale all’antico mondo greco=romano, ma era il prodotto
specifico di questo mondo. Così egli si incamminava per
l’unica strada sulla quale si poteva indagare scientificamente il
sor gere del cristianesimo. E’ già sufficientemente
indicativo che Harnack, il teologo di corte, oggi alla moda e
celebrato in tutti i salotti, che acconcia gli Evangeli
nell’interesse della classe dominante, abbia cercato di condannare
seccamente come «cosa miserabile» il procedere sulla
via aperta da Bruno Bauer.
Quando questi pensieri cominciavano a maturare in Bruno Bauer, Karl
Marx era il suo compagno insepa rabile, e Bauer stesso vedeva
nell’amico, di nove anni più giovane di lui, il suo
più valente compagno di lotta. Egli si era appena ambientato
a Bonn, quando cercò di attrarvi Marx con lettere affettuose.
Un club di professori a Bonn era la più «schietta
filisteria» in confronto al Doktorklub a Berlino, nel quale
era stato sempre vivo un interesse spirituale; e a Bonn egli rideva
anche molto, per quel che si dice ridere, ma non aveva più
riso come a Berlino, quando andava per le strade con Marx. Marx
doveva soltanto liberarsi dello «sporco esame di laurea
», per il quale bastavano Aristotele, Spinoza, Leibniz e
nient’altro; doveva insomma smettere di tirar per le lunghe una
sciocchezza del genere, una pura e semplice farsa. Coi filosofi di
Bonn sarebbe stato uno scherzo per lui; ma era improrogabile
soprattutto una rivista radicale, che avrebbero do vuto pubblicare
insieme. Non erano più sopportabili le baie berlinesi e la
fiacca degli Hallische Jahrbùcher; per Ruge gli dispiaceva,
ma perché non cacciava fuori dalla sua rivista tutti quei
vermi?
Talvolta queste lettere hanno un tono abbastanza rivoluzionario, ma
si trattava sempre di una rivoluzione filosofica, per la quale Bauer
contava molto di più sull’aiuto che sulla resistenza
dell’autorità statale. Aveva appena scritto a Marx, nel
dicembre 1839, che la Prussia sembrava destinata a progredire
soltanto grazie a una battaglia di Jena, da non combattersi
necessariamente proprio su un campo di cadaveri, quando pochi mesi
dopo — nel momento in cui, quasi contemporaneamente, erano morti il
suo protettore Altenstein e il vecchio re — evocava la più
alta idea della nostra vita statale, cioè lo spirito
familiare della dinastia principe sca degli Hohenzollern, che da
quattro secoli aveva impegnato le sue forze migliori a sistemare i
rapporti tra Stato e Chiesa. Nello stesso tempo Bauer prometteva
che la scienza non si sarebbe stancata di difendere l’idea dello
Stato contro le pretese della Chiesa; lo Stato poteva bene
sbagliarsi una volta, divenire sospet toso contro la scienza e
prendere misure repressive, ma la ragione gli apparteneva troppo
intimamente perché potesse sbagliarsi a lungo. A questo
omaggio il nuovo re rispose nominando successore di Alten stein
l’ortodosso reazionario Eichhorn, che si adoperava a sacrificare
alle pretese della Chiesa la libertà della scienza, là
dove essa era legata all’idea dello Stato, cioè la
libertà accademica d’insegnamento.
L’inconsistenza politica di Bauer era molto maggiore di quella di
Kòppen, che si poteva magari sbagliare sul conto di uno degli
Hohenzollern che superasse il livello medio della famiglia, ma non
sul conto dello «spirito familiare» di questa dinastia
di sovrani. Kòppen aveva approfondito molto meno di Bauer lo
studio della ideologia di Hegel. Ma non si deve trascurare il fatto
che la miopia politica di quest’ultimo non era altro che la
contropartita della sua perspicacia filosofica. Egli aveva scoperto
negli Evangeli il sedimento spirituale dell’epoca nella quale essi
erano sorti, e così, in modo non proprio ingiustificato
perché muoveva da una posizione meramente ideologica, pensava
che, se era già stato possibile alla religione cristiana col
suo torbido fermento di filosofia greco=romana superare l’antica
cultura, sarebbe riuscito tanto più facile alla libera e
chiara critica della dialettica moderna scuoter via l’incubo della
cultura cristiano=germanica.
Quel che gli dava questa impressionante sicurezza era la filosofia
dell’autocoscienza. Sotto questo nome si erano comprese una volta
quelle scuole filosofiche greche che erano sorte dalla decadenza
nazionale della vita greca e che avevano contribuito in massima
parte a fecondare la religione cristiana; gli scettici, gli epicurei
e gli stoici. Essi non potevano misurarsi per la profondità
speculativa con Platone, né per l’universalità del
sapere con Aristotele, ed erano stati trattati con sufficiente
disprezzo da Hegel Loro scopo comune era di rendere indipendente da
ogni cosa esteriore il singolo individuo, che era stato separato per
un crollo terribile da tutto ciò che fino ad allora lo aveva
legato e sorretto, e di ricondurlo alla sua vita interiore, a
cercare la sua felicità nella pace dello spirito, che
resiste impavido, anche se un mondo gli precipiti addosso.
Ma, così concludeva Bauer, sui frantumi di un mondo scomparso
l’Io, quasi svuotato, aveva avuto orrore di se stesso come unica
forza esistente; esso aveva allora alienato ed estraniato la propria
autocoscienza, ponendo la propria forza universale di fronte a
sé come qualcosa di estraneo, e aveva creato per il signore
del mondo in Roma, che assommava in sé tutti i diritti e
sulle cui labbra risiedeva il diritto di vita e di mor te, un
fratello ostile, ma pur sempre un fratello, nel Signore del racconto
evangelico, che col proprio alito piega la resistenza della natura o
abbatte i suoi nemici, e che già sulla terra si annuncia come
il Signore e il Giudice del mondo. Ma, tuttavia, sotto la
servitù della religione cristiana l’umanità era stata
educata per preparare tanto più radicalmente la
libertà e per abbracciarla tanto più intimamente
quando l’avesse finalmente conquistata; l’autocoscienza infinita,
giunta a sé stessa, che intende sé stessa e comprende
il proprio essere, avrebbe avuto il potere sulle creature della sua
auto alienazione. Se si rinuncia al rivesti mento filosofico del
tempo, si può esprimere in maniera più semplice e
comprensiva quello che avvinceva Bauer, Kòppen e Marx alla
filosofia greca dell’autocoscienza. In fondo, anche in questo essi
si collegavano all’illuminismo borghese. Le antiche scuole greche
dell’autocoscienza non avevano davvero avuto espo nenti così
geniali come i più antichi filosofi della natura li avevano
avuti in Democrito o in Eraclito, o i più tardi filosofi del
concetto in Platone e in Aristotele, ma anche esse avevano avuto una
grande importanza storica. Esse avevano aperto allo spirito umano
nuove prospettive, spezzato i limiti nazionali della grecità
e i limiti sociali della schiavitù nei quali Platone e
Aristotele erano ancora rimasti del tutto impigliati; es se avevano
fecondato in modo decisivo il cristianesimo primitivo, religione dei
sofferenti e degli oppressi che, soltanto dopo esser divenuta la
Chiesa sfruttatrice e oppressiva dei dominatori, passò a
Platone e ad Aristotele. Per quanto Hegel avesse parlato con durezza
della filosofia dell’autocoscienza, aveva però anche lui
sottolineato l’importanza che la libertà interiore del
soggetto aveva avuto nella perfetta infelicità dell’Impero
romano, quando ogni nobiltà e bellezza
dell’individualità spirituale era stata cancellata da rozza
mano. E così, anche l’Illuminismo borghese del secolo
decimottavo aveva mobilitato le filosofie greche del
l’autocoscienza, il dubbio degli scettici, l’odio degli epicurei
contro la religione, l’atteggiamento repubblicano degli stoici.
Kòppen toccava gli stessi motivi, quando nel suo scritto sul
re Federico, il suo eroe dell’Illuminismo, diceva
: «Epicureismo, stoicismo e scetticismo, sono i nervi e i
muscoli e le interiora dell’organismo antico, la cui unità
immediata e naturale condizionava la bellezza e la moralità
dell’antichità, e che si disgregarono al suo morire. Federico
li ha accolti in sé e realizzati tutti e tre con forza
meravigliosa. Essi sono divenuti caratte ristiche essenziali della
sua concezione del mondo, del suo carattere, della sua vita».
Marx riconobbe il «profondo significato» almeno di
quello che Kòppen diceva in queste frasi sul rapporto dei tre
sistemi con la vita greca.
Quanto a lui, egli affrontò il problema, che non lo
occupò meno dei suoi amici più anziani, in modo
diverso. Egli non cercò di riconoscere la «
autocoscienza umana come divinità suprema» accanto a
cui non poteva esserci nessuno, né nello specchio deformante
della religione, né nelle divagazioni filosofiche di un
despota, ma risali alle fonti storiche di questa filosofia, i cui
sistemi erano anche per lui le chiavi per la vera storia dello
spirito greco.
4.4 La dissertazione di
laurea
Bruno Bauer, quando, nell’autunno del 1839, stimolava Marx a
liberarsi una buona volta dello «sporco esame di laurea
», aveva un certo motivo di essere impaziente, in quanto Marx
aveva dietro di sé ormai otto semestri. Ma tuttavia non
supponeva in Marx una paura dell’esame nel vero senso della parola,
altrimenti non lo avrebbe ritenuto capace di mandare a gambe
all’aria al primo urto i professori di filosofia di Bonn.
Era nello stile di Marx, e lo è rimasto fino alla fine della
sua vita, che la insaziabile brama di sapere lo costringesse ad
affrontare rapidamente i problemi più difficili, e che
d’altra parte l’inesorabile autocritica gli impedisse di venirne
altrettanto rapidamente a capo. Dato il suo modo di lavorare, si
sarà buttato a capofitto nella filosofia greca, ma lo studio
anche soltanto di quei tre sistemi dell’autocoscienza non era cosa
da potersi sbrigare in un paio di semestri. In cambio, Bruno Bauer,
che confezionava i suoi lavori con non comune rapidità, anche
troppa perché durassero, poteva comprendere poco, molto meno
di quanto non lo potrà poi Friedrich Engels — che pure
qualche volta si mostrò impaziente — che Marx non riuscisse
a trovare né un limite né una meta alla sua
autocritica.
Lo «sporco esame di laurea» del resto aveva le sue
difficoltà anche senza di ciò, se non per Bauer, certo
per Marx. Quando ancora era vivo suo padre, egli si era deciso per
la carriera accademica, senza però che la scelta di una
professione pratica fosse per questo del tutto esclusa dalla sua
visuale. Ma ora, con la morte di Altenstein, cominciava a scomparire
il lato più attraente del «mestiere di professore
», quello che poteva principalmente aiutare a superarne i
molteplici lati oscuri: cioè la relativa libertà
consentita al filosofare dalle cattedre dell’Università.
Quanto poco si potesse del resto combinare con le parrucche
ademiche, Bauer non sapeva descrivere da Bonn con sufficiente
vivezza.
Ben presto Bauer stesso doveva fare la prima esperienza di come per
un professore prussiano non ci fosse più molto da fare con la
ricerca scientifica. Dopo la morte di Altenstein, nel maggio del
1840, per alcuni mesi fu al ministero del culto il direttore
generale Ladenberg, che aveva sufficiente rispetto per la memoria
del suo antico superiore per adempirne le promesse e cercare di fare
entrare in ruolo Bauer a Bonn, Ma appena fu nominato ministro del
culto Eichhorn, la facoltà di teologia di Bonn respinse la
nomina di Bauer a professore col pretesto che egli avrebbe turbato
la sua unità, in realtà con quell’eroismo che il
professore tedesco ritrova sempre ogni volta che può esser
sicuro del segreto consenso dei suoi alti superiori.
Bauer apprese la decisione proprio quando stava per ritornare a Bonn
dalle vacanze autunnali che aveva trascorso a Berlino. E allora nel
circolo dei suoi amici si discusse se non esistesse già una
frattura insanabile tra la tendenza religiosa e quella scientifica,
se un seguace di questa tendenza potesse ancora metter d’accordo con
la sua coscienza l’appartenenza a una facoltà teologica. Ma
Bauer stesso insisté nella sua ottimistica concezione della
natura dello Stato prussiano, e respinse anche la proposta
ufficiosa di dedicarsi alla produzione scientifica, per la quale
avrebbe goduto di un aiuto statale. Tornò, pieno di ardore
battagliero, a Bonn dove sperava di provocare la crisi in una forma
sostanziale, insieme a Marx, che avrebbe dovuto presto
raggiungerlo.
Essi tenevano ancora al progetto di una rivista radicale che
volevano pubblicare insieme, ma quanto alla carriera accademica di
Marx nell’Università renana, le cose si mettevano molto
male. Come amico e collaboratore di Bauer egli doveva contare sulla
più ostile accoglienza da parte della cricca dei professori
di Bonn, e nulla era più lontano dalle sue intenzioni che
mettersi ad adulare Eichhorn o Ladenberg, come gli consigliava
Bauer, nella previsione assolutamente verosimile che poi a Bonn
sarebbe stato «tutto caduco
». In cose del genere Marx è sempre stato di una
rigidezza estrema. Ma, anche se fosse stato incline a incamminarsi
per questo lubrico sentiero, era sempre da prevedere con certezza
che ci sarebbe scivolato sopra. Infatti Eichhorn non aspettò
molto a mostrare come la pensasse. Per finire di demolire la
schiera, già indebolita dalla vecchiaia, degli arrugginiti
Vecchi hegeliani, egli chiamò all’Università di
Berlino il vecchio Schelling, che era divenuto un credente nella
rivelazione, e prese provvedimenti contro gli studenti di Halle, che
in un rispettoso ricorso al re, in qualità di loro rettore,
avevano chiesto la nomina di Strauss a Halle.
Con tali prospettive, Marx, date le sue concezioni da Giovane
hegeliano, rinunciò totalmente a prendere una laurea
prussiana. Se però non gli sorrideva l’idea di farsi
maltrattare dai volenterosi aiutanti di un Eichhorn, non per questo
si ritirò dalla lotta. Anzi! Egli decise di guadagnarsi il
cappello di dottore in una piccola università, di pubblicare
nello stesso tempo la sua dissertazione, come prova delle sue
capacità e del suo impegno con una ardita prefazione di
sfida, e di stabilirsi poi a Bonn, per pubblicare con Bauer la
progettata rivista. Né l’Università gli era del tutto
sbarrata; secondo gli statuti universitari nella sua qualità
di Doctor ppromotus egli avrebbe dovuto soltanto adempiere alcune
formalità per essere ammesso come libero docente in una
università «straniera».
Marx eseguì questo progetto; il 15 aprile 1841, in sua
assenza, gli fu conferito a Jena il titolo di dottore, per il suo
lavoro Differenza tra la filosofia della natura di Democrito e di
Epicuro. Era un’anticipazione di un’opera maggiore nella quale Marx
voleva studiare l’intero ciclo della filosofia epicurea, stoica e
scettica nei suoi rapporti con tutta la speculazione greca.
Inizialmente questo rapporto doveva essere sviluppato soltanto con
un esempio, e soltanto in relazione alla speculazione più
antica.
Tra i più antichi filosofi greci della natura, Democrito
aveva sviluppato più conseguentemente il materialismo. Nulla
nasce dal nulla; nulla di quello che è può essere
annullato. Ogni variazione è soltanto unione e separazione di
parti. Nulla accade a caso, ma tutto per un motivo e di
necessità. Nulla esiste, se non gli atomi e lo spazio vuoto;
tutto il resto è opinione. Gli atomi sono infiniti di numero
e hanno una infinità diversa
di forme. In eterno moto di caduta attraverso lo spazio infinito, i
più grossi, che cadono più rapidamente, si urtano coi
più piccoli; il moto laterale che ne risulta, e il vortice,
sono l’inizio della formazione del mondo. Infiniti mondi si formano
e scompaiono di nuovo l’uno accanto all’altro e l’uno dopo l’altro.
Ora, Epicuro aveva accettato questa concezione della natura di
Democrito, ma con certi mutamenti. Il più decisivo di questi
mutamenti consisteva nella cosiddetta «declinazione degli
atomi»; Epicuro sosteneva che gli atomi, nella loro caduta,
«declinano», cioè non cadono perpendicolarmente,
ma deviano un po’ dalla linea retta. Egli fu molto deriso, per
questa assurdità fisica, da Cicerone e Plutarco fino a
Leibniz e Kant, come un ripetitore di Democrito, che aveva saputo
soltanto peggiorare il proprio modello. Ma ci fu anche un’altra
corrente, che riconosceva nella filosofia di Epicuro il più
compiuto sistema materialistico dell’antichità, grazie alla
circostanza che essa ci è stata tramandata nel poema
didascalico di Lucrezio, mentre della filosofia di Democrito
soltanto pochi frammenti si sono salvati dalla tempesta dei secoli.
Lo stesso Kant, che liquidò la declinazione degli atomi come
una «sfrontata» invenzione, vedeva ugualmente in
Epicuro il più eminente filosofo del senso, in contrasto con
Platone, il più eminente filosofo dell’intelletto.
Ora, Marx non contestò in nessun modo l’irrazionalità
fisica di Epicuro; egli ammise la sua «illimitata
avventatezza nella spiegazione dei fenomeni fisici»;
spiegò che per Epicuro la percezione sensibile’ era stata
l’unica prova della verità; il sole lo riteneva largo due
piedi, perché pareva largo due piedi. Ma Marx non si
accontentò di liquidare con un qualche epiteto queste
evidenti pazzie; piuttosto, cercò la ragione filosofica in
questa irrazionalità fisica. Egli procedette conformemente
alla bella osservazione da lui scritta in una nota del lavoro in
onore del suo maestro Hegel, e cioè che la scuola di un
filosofo che ha fatto ricorso a un accomodamento, non deve incolpare
il maestro, ma chiarire l’accomodamento con l’insufficienza del
principio dal quale esso aveva radice, e così doveva
trasformare in un progresso della scienza quello che appariva
progresso della coscienza.
Quello che per Democrito era il fine, per Epicuro era soltanto il
mezzo in vista del fine. Per lui non si trattava della conoscenza
della natura, ma di una concezione della natura, che potesse
convalidare il suo sistema. Se la filosofia dell’autocoscienza,
così come l’antichità la conobbe, si era divisa in tre
scuole, per Hegel gli epicurei rappresentavano una coscienza
astratta=individuale e gli stoici la coscienza astratta=universale,
gli uni e gli altri in quanto dogmatismi unilaterali, ai quali a
causa di questa unilateralità, si era subito con trapposto
lo scetticismo. Anche, come espresse lo stesso rapporto uno storico
più recente della filosofia greca, nello stoicismo e
nell’epicureismo si contrapponevano inconciliabilmente con pari
pretese i lati in dividuali e universali dello spirito soggettivo,
l’isolamento atomistico dell’individuo e la sua sommissione al
tutto, mentre nello scetticismo questa contrapposizione si risolveva
nella neutralità.
Nonostante il loro fine comune, epicurei e stoici furono portati
molto lontani gli uni dagli altri per la diversità dei loro
punti di partenza. La sommissione al tutto rendeva gli stoici in
filosofia dei deterministi per i quali andava da sé la
necessità di ogni accadere, e in politica dei repubblicani
decisi, mentre sul terreno religioso non riuscirono a liberarsi da
un misticismo superstizioso e non libero. Essi si rifacevano a
Eraclito, per il quale la sommissione al tutto aveva assunto la
forma della più rigida autocoscienza, e col quale essi del
resto procedevano tanto disinvoltamente quanto gli epicurei con
Democrito. Al contrario, il principio dell’individuo isolato rendeva
gli epicurei in filosofia degli indeterministi, degli assertori
della libertà del volere per ogni singolo individuo, e in
politica delle vittime rassegnate — il detto biblico “siate soggetti
all’autorità che ha potere su di voi”, è
un’eredità di Epicuro — mentre li liberava da tutti gli
impacci della religione.
Ora, in una serie di sottili ricerche, Marx mostrò come si
spiegava la «differenza fra la filosofia della natura di
Democrito e di Epicuro». Per Democrito si trattava soltanto
dell’esistenza materiale dell’atomo, mentre Epicuro aveva messo in
luce accanto ad essa il concetto dell’atomo, accanto alla sua
materia anche la sua forma, accanto alla sua esistenza anche la sua
essenza; egli aveva scorto nell’atomo non soltanto il fondamento
materiale del mondo dei fenomeni, ma anche il simbolo dell’individuo
isolato, il principio formale dell’autocoscienza
astratta=individuale. Se Democrito dalla caduta perpendicolare degli
atomi arguiva la necessità di ogni accadere, Epicuro li
faceva deviare un po’ dalla linea retta, perché — come dice
nel suo poema didascalico Lucrezio, il più elevato
divulgatore della filosofia di Epicuro — dove sarebbe rimasta
altrimenti la libera volontà, la volontà dell’essere
vivente sottratta al fato? Questa contraddizione tra l’atomo in
quanto fenomeno e in quanto essenza si trascina attraverso tutta la
filosofia di Epicuro e la spinge a quella infinitamente arbitraria
spiegazione dei fenomeni fisici, che fu derisa già nei tempi
antichi. Soltanto
nei corpi celesti si risolvono tutte le contraddizioni della
filosofia della natura di Epicuro, ma nella loro esistenza
universale ed eterna vien meno anche il principio
dell’autocoscienza astratta=individuale. Così esso respinge
lontano da sé ogni travestimento materiale, ed Epicuro,
«il più grande illuminista greco», come lo
chiama Marx, lotta contro la religione, che col suo sguardo
minaccioso atterrisce dall’alto dei cieli i mortali.
Nel suo primo scritto Marx si rivelava già uno spirito
creatore, anche quando, anzi proprio quando si do vrebbero muovere
obiezioni ai particolari del suo commento a Epicuro. Contro di esso
infatti si potrebbe muovere soltanto l’appunto che Marx ha
approfondito il principio di Epicuro e ne ha dedotto delle conclu
sioni più chiare di quanto non abbia fatto Epicuro stesso.
Hegel aveva definito la filosofia di Epicuro come l’assenza di
pensiero nel principio, e sicuramente il suo fondatore, che, in
quanto autodidatta, riponeva sempre grande importanza nel linguaggio
usuale di tutti i giorni, non la fondò sulle espressioni
speculative della filosofia hegeliana, con le quali Marx la
spiegava. E la prova di maturità che l’allievo di Hegel ha
supe rato con questa sua trattazione; con mano sicura egli domina
il metodo dialettico, e il linguaggio annuncia quella forza vigorosa
che, nonostante tutto, era stata propria al maestro Hegel, ma che
era andata perduta da parecchio per il seguito dei suoi discepoli.
Tuttavia, in questo suo scritto, Marx resta del tutto sul terreno
idealistico della filosofia hegeliana. Quello che sorprende al primo
sguardo il lettore odierno è il suo giudizio sfavorevole su
Democrito. Di lui si dice che ha solo affacciato un’ipotesi la quale
è il risultato dell’esperienza e non il suo energico
principio, e perciò resta senza attuazione tanto quanto la
concreta indagine della natura non viene ulteriormente determinata
da essa. In contrasto con Democrito, si celebra di Epicuro il fatto
che egli ha creato la scienza dell’ato mistica, nonostante il suo
arbitrio nella spiegazione dei fenomeni naturali e nonostante la sua
coscienza astratta=individuale, che, come lo stesso Marx ammette,
elimina ogni scienza vera ed effettiva, in quanto non domina la
singolarità nella natura delle cose.
Oggi non occorre neppure mettersi a dimostrare che, se esiste una
scienza degli atomi, se la dottrina dei corpi elementari e del
sorgere di tutti i fenomeni per il loro movimento è diventata
la base della moderna indagine scientifica, se le leggi
dell’acustica, dell’ottica, del calore, dei mutamenti chimici e
fisici sono state spiegate grazie ad essa, il pioniere ne è
stato Democrito, e non Epicuro. Soltanto, per il Marx di allora la
filosofia o, più esattamente, la filosofia del concetto
coincideva ancora a tal punto con la scienza, che egli poteva
pervenire a una concezione che noi oggi potremmo appena comprendere
se in essa non si fosse anche rivelata l’essenza stessa del suo
essere.
Vivere era per lui sempre lavorare, e lavorare era per lui sempre
lottare. Quello che lo allontanava da Democrito era la mancanza di
un «principio energico», era, come egli si espresse in
seguito, «il difetto fondamentale di ogni materialismo
passato», il fatto che l’oggetto, la realtà, il senso
veniva concepito soltanto sotto forma di oggetto o di intuizione,
non soggettivamente, non come prassi, non come attività umana
sensibile. Quello che in Epicuro lo attirava era l’«energico
principio» con cui questo filosofo si levava contro il grave
fardello della religione e osava contrastarla, “Non atterrito dai
fulmini, né da mormorio di dei, o dal cupo brontolio del
cielo....”. Nella prefazione con la quale Marx pensava di pubblicare
la sua Dissertazione e di dedicarla al suocero, erompe prepotente
un’indomabile volontà di lotta. «La filosofia,
finché una goccia di sangue pulsa nel suo cuore dominatore
del mondo e assolutamente libero, griderà sempre agli
avversari, con Epicuro: ateo non è colui che disprezza gli
dei della massa, ma chi aderisce alle opinioni della massa sugli dei
». La filosofia non cela la professione di fede di Prometeo:
“A dirla franca, nutro odio contro tutti gli dei”. Ma a quelli che
si lamentano della posizione borghese apparentemente peggiorata,
essa risponde quello che Prometeo rispondeva a Hermes senatore degli
dei: “Non cambierei mai la mia sorte infelice, siine ben certo, con
la tua vita di schiavo”. Prometeo è il santo ed il martire
più alto del calendario filosofico: così Marx
concludeva questa fiera prefazione, che spaventò perfino il
suo amico Bauer. Quello che sembrava a costui «una
temerità superflua», era invece soltanto una semplice
professione di fede dell’uomo che doveva diventare un nuovo
Prometeo, nella lotta come nel dolore.
4.5 Gli
«Anecdota» e la «Rheinische Zeitung»
Marx aveva appena messo in tasca il diploma della sua nuova
dignità accademica, quando i progetti ad essa collegati
caddero di fronte ai nuovi colpi della reazione romantica. Anzitutto
Eichhorn, nell’estate del 1841, mobilitò le facoltà
teologiche per una infame battuta in grande stile contro Bruno
Bauer, a causa della sua critica degli Evangeli; ad eccezione di
quelle di Halle e di Kònigsberg tutte tradirono il principio
protestante della libertà d’insegnamento, e Bauer dovette
ritirarsi. Ma con questo era esclusa anche per Marx ogni prospettiva
di porre piede stabilmente nell’Università di Bonn.
E nello stesso tempo andava a monte il progetto di una rivista
radicale. Il nuovo re era un fautore della libertà di stampa,
e fece preparare un’istruzione più moderata sulla censura,
che vide poi la luce alla fine del 1841. Ma insieme pose la
condizione che la libertà di stampa si compiacesse di restare
nell’ambito degli umori romantici. E come egli intendesse la cosa lo
dimostrò, appunto nell’estate del 1841, con un’ordinanza del
Gabinetto con la quale si ordinava a Ruge di sottoporre alla censura
prussiana i suoi Jahrbùcher, editi e stampati da Wigand a
Lipsia, o di aspettarsi di vederli proibiti nello Stato prussiano. E
così Ruge si chiarì sufficientemente le idee sulla sua
«libera e giusta Prussia» e si trasferì a Dresda,
dove dal 1◦ luglio 1841 pubblicò la sua rivista col titolo di
Deutsche Jahrbùcher. E ora assunse da sé quel tono
più polemico di cui Bauer e Marx avevano finora sentito la
mancanza in lui, e tutte due si decisero a divenire suoi
collaboratori invece di fondare una loro rivista. Marx non
pubblicò la sua dissertazione di laurea. Il suo scopo
immediato era venuto a mancare, e, secondo quanto accennò
più tardi, essa avrebbe ormai dovuto attendere di trovare
posto nello studio d’insieme della filosofia epicurea, stoica e
scettica, al cui compimento «attività politiche e
filosofiche di tutt’altro genere» non gli consentirono di
pensare.
Tra queste attività c’era in prima linea la dimostrazione che
non soltanto il vecchio Epicuro, ma anche il vecchio Hegel era stato
un ateo perfetto. Nel novembre 1841 uscì presso Wigand un
«ultimatum» sotto il titolo: La tromba del giudizio
universale contro Hegel ateo e anticristo. Sotto la maschera di un
credente ortodosso, l’autore di questo pamphlet anonimo, col tono
dei profeti della Bibbia, gemeva sull’ateismo di Hegel, ma intanto
dimostrava nel modo più convincente questo ateismo attraverso
l’esame delle opere stesse di Hegel. La cosa suscitò grande
scalpore, tanto più che da principio nessuno, nemmeno Ruge,
si accorse che l’ortodossia era una maschera. Effettivamente la
«Tromba» era stata composta da Bauer, che ora pensava
di proseguirla insieme con Marx, per dedurre anche dall’estetica,
dalla filosofia del diritto ecc. di Hegel la prova che i veri eredi
dello spirito del maestro erano non i Vecchi, ma i Giovani
hegeliani.
Nel frattempo la Tromba era stata proibita, e Wigand fece delle
difficoltà per proseguirla; inoltre Marx cadde ammalato e,
per di più, il 3 marzo 1842, il suocero dopo tre mesi di
letto morì. Così per Marx fu «impossibile
combinare alcunché». Tuttavia il 10 febbraio 1842 egli
inviò un «breve scritto» a Ruge, e si mise a
disposizione dei Deutsche Jahrbùcher per quanto glielo
consentivano le sue forze. Lo scritto riguardava la recente
istruzione sulla censura, con la quale il re aveva disposto una
mitigazione della censura. Con questo articolo Marx cominciò
la sua carriera politica; con critica tagliente e in netto contrasto
col giubilo dei filistei che si atteggiavano a liberali e perfino di
qualche Giovane hegeliano, che «vedeva già il sole
raggiare alto nel cielo» per la «buona disposizione
» che il re manifestava nell’istruzione, egli scopriva punto
per punto la contraddizione logica che l’istruzione nascondeva sotto
un vago velo romantico. Nella sua lettera di accompagnamento Marx
pregava di affrettare la stampa, «se la censura non censura
la mia censura»; ma il brutto presentimento non lo
ingannò. Ruge rispose il 25 febbraio che sui Deutsche
Jahrbùcher si era abbattuta la più grave sorveglianza
della censura: «Il suo articolo è divenuto
impossibile
». Ed egli aveva ammassato «una élite di cose
così graziose e piccanti» tra gli articoli respinti
dalla censura, che aveva l’intenzione di pubblicarli in Svizzera
come Anecdota philosophica. Marx, il 5 marzo, accettò con
grande entusiasmo questo progetto. «Data l’improvvisa
resurrezione» della censura sassone, era divenuto
assolutamente impossibile stampare il suo studio sull’arte
cristiana, che doveva uscire come seconda parte della Tromba. Egli
lo offriva in una nuova redazione per gli Anecdota, insieme a una
critica del diritto naturale di Hegel, per quel che si riferiva alla
costituzione interna, tendente a combattere la monarchia
costituzionale come un ibrido contraddittorio destinato a
neutralizzarsi da sé. Ruge fu d’accordo su tutto, ma, a parte
l’articolo riguardante l’istruzione sulla censura, non ricevette
altro.
Il 20 marzo Marx scriveva di voler liberare l’articolo sull’arte
cristiana dal tono della Tromba e dalla gravosa schiavitù
dell’impostazione hegeliana, e di volergli dare un’impostazione
più libera e perciò più approfondita,
e prometteva di finirlo per la metà di aprile. Il 27 aprile
era «quasi pronto»; Ruge doveva «pazientare
soltanto qualche giorno»; avrebbe ricevuto l’articolo
sull’arte cristiana soltanto in compendio, dato che la cosa gli era
cresciuta tra mano fino a diventare quasi un volume. Poi, il 9
luglio, Marx diceva che se non lo scusavano gli avvenimenti
cioè, «spiacevoli ragioni intrinseche»,
rinunciava a scusarsi anche lui; tuttavia non voleva accingersi a
nulla finché non avesse terminato la collaborazione per gli
Anecdota. Finalmente, il 21 ottobre, Ruge annunciava che gli
Anecdota erano ormai completi e che sarebbero stati pubblicati dal
Literarisches Kontor di Zurigo; aveva sempre spazio a disposizione
per Marx, anche se lui finora gli aveva concesso più speranze
che realizzazioni; vedeva molto bene quanto Marx avrebbe potuto
compiere di buono, se ci si fosse messo sul serio.
Come Bruno Bauer e Kòppen, anche Ruge, più anziano di
sedici anni, aveva la più grande stima di questo giovane
ingegno che aveva messo a così dura prova la sua pazienza di
redattore. Marx non è mai stato un autore comodo né
per i suoi collaboratori né per i suoi editori, ma nessuno di
loro ha mai pensato di addebitare a trascurataggine o a
infingardaggine ciò che era dovuto soltanto alla piena
irrompente dei pensieri e a una autocritica che non si accontentava
mai.
In questo caso particolare si aggiunse anche un’altra circostanza
per giustificare Marx anche agli occhi di Ruge; egli cominciava
allora a sentirsi attratto da un interesse incomparabilmente
maggiore di quello filosofico. Col suo articolo sull’istruzione
sulla censura egli si era gettato nella lotta politica, e la
continuava ora nella Rheinische Zeitung, invece di seguitare a
filare il filo della filosofia negli Anecdota.
La Rheinische Zeitung uscì il 1◦ gennaio 1842 a Colonia. In
origine non era un giornale d’opposizione, ma piuttosto un foglio
governativo. Sin dal quarto decennio del secolo, al tempo dei
torbidi di Colonia per la questione del vescovo, la Kòlnische
Zeitung coi suoi ottomila abbonati aveva rappresentato le pretese
del partito ultramontano, che era potentissimo in Renania, e che
dava molto da fare alla politica poliziesca del governo. Essa non lo
faceva per un sacro entusiasmo per la causa cattolica, ma per
considerazioni com merciali nei riguardi dei lettori, che ormai non
volevano saperne più delle benedizioni del controllo
berlinese. Il monopolio della Kòlnische Zeitung era talmente
forte che il suo proprietario riusciva regolarmente ad eli minare,
acquistandoli, tutti i giornali concorrenti che comparissero, anche
se erano sostenuti da Berlino. Lo stesso destino minacciava la
Rheinische Allgemeine Zeitung, che nel dicembre 1839, appunto per
spezzare il monopolio della Kòlnische Zeitung, aveva ricevuto
dai censori l’autorizzazione allora occorrente. Tuttavia, all’ultimo
momento si costituì una società di borghesi benestanti
che fornì un capitale per azioni per una completa
trasformazione del giornale. Il governo favoriva queste intenzioni e
confermò provvisoriamente alla nuova Rheinische Zeitung
l’autorizzazione già concessa al giornale che essa
continuava.
In realtà la borghesia di Colonia era lontana le mille miglia
dal procurare fastidi di qualsiasi genere al dominio prussiano, che
tra le masse della popolazione renana seguitava ad esser considerato
come un dominio straniero. Siccome gli affari andavano bene, essa
aveva rinunciato alle sue simpatie per la Francia, e dopo la
costituzione dello zollverein auspicava addirittura il predominio
prussiano sulla Germania. Le sue rivendicazioni politiche erano
estremamente moderate e restavano addietro rispetto alle sue
esigenze economiche, che miravano a ottenere agevolazioni per il
modo di produzione capitalistico, già sviluppato in Renania:
e cioè amministrazione parsimoniosa delle finanze statali,
costruzione di una rete ferroviaria, ridu zione delle spese
giudiziarie e delle tariffe postali, una bandiera comune e consoli
Comuni per lo Zollverein, e tutto quel che suole stare scritto tra i
desiderata della borghesia.
Ma ora si vide che i due giovani borghesi a cui essa aveva dato
l’incarico di costituire la redazione, il refe rendario Georg Jung
e l’assessore Dagobert Oppenheim, erano accesi Giovani hegeliani, e
in particolare che stavano sotto l’influsso di Moses Hess, figlio
anche lui di un commerciante renano, che oltre alla filo sofia
hegeliana conosceva a fondo il socialismo francese. Essi assunsero i
collaboratori del giornale tra i loro compagni di idee, e
particolarmente anche tra i Giovani hegeliani di Berlino, tra i
quali Rutenberg ebbe addirittura l’incarico della redazione
dell’articolo sui problemi tedeschi: su raccomandazione di Marx, che
con ciò non si acquistò davvero un merito speciale.
Certamente anche Marx dovette essere fin da principio nell’impresa.
Alla fine di marzo egli voleva trasferirsi da Treviri a Colonia, ma
la vita era troppo tumultuosa per lui laggiù;
provvisoriamente piantò le tende a Bonn, da dove nel
frattempo Bruno Bauer era scomparso
: «sarebbe anche un peccato se non rimanesse nessuno qui per
far arrabbiare i Santi». Da qui cominciò a mandare
alla Rheinische Zeitung quella sua collaborazione con la quale
doveva presto superare tutti gli altri collaboratori. Anche se le
relazioni personali di Jung e Oppenheim possano aver dato la prima
spinta
a fare del giornale una palestra dei Giovani hegeliani, è
però difficile ammettere che questa svolta possa essersi
compiuta senza consenso o addirittura all’insaputa dei veri e propri
azionisti. Essi dovevano essere abbastanza furbi da riconoscere che
nella Germania di allora non avrebbero potuto trovare dei lavoratori
della mente più capaci di questi. Anche i Giovani hegeliani
erano filo prussiani fino all’esaltazione, e tutto quello che nella
loro attività poteva essere incomprensibile o sospetto per
la borghesia di Colonia, questa lo avrà considerato alla
stregua di fisime innocue. Comunque, essa non intervenne quando,
già dalle pri me settimane, da Berlino giunsero lamentele
sulla «tendenza sovversiva» del giornale, e si
minacciò di proibirlo per la fine del primo trimestre. I
censori di Berlino erano stati particolarmente allarmati per la no
mina di Rutenberg; egli passava per un terribile rivoluzionario, ed
era tenuto sotto una severa sorveglianza politica; ancora nelle
giornate del marzo 1848, Federico Guglielmo IV tremava di fronte a
lui come davanti al vero istigatore della rivoluzione. Se la folgore
mortale per il momento non si abbatté sul giornale la cosa si
dovette in prima linea al ministro del culto; con tutti i suoi
sentimenti reazionari Eichhorn avvertiva la necessità di
contrastare la tendenza ultramontana della Kòlnische Zeitung;
infatti, per quanto la tendenza della Rheinische Zeitung potesse
essere «quasi ancora più preoccupante», essa
però giocava con idee, che non potevano presentare alcun
interesse per chiunque tenesse in qualche modo i piedi sulla terra.
Se no sarebbe incomprensibile il fatto che essi, nell’ottobre 1842,
pochi mesi dopo che lui aveva mandato la sua prima collaborazione,
lo chiamarono alla direzione del giornale. Marx dimostrò qui
per la prima volta la sua incomparabile capacità di legarsi
alla realtà così com’essa era, e di far ballare al
suono della sua musica situazioni di fatto ormai cristallizzate.
4.6 Il Landtag renano
Marx si accinse a illustrare in una serie di cinque lunghe
trattazioni le discussioni del Landtag provinciale re nano, che
proprio un anno prima aveva tenuto le sue riunioni per nove
settimane a Dusseldorf. I parlamenti provinciali erano delle
impotenti assemblee solo apparentemente rappresentative, con la cui
istituzione la corona prussiana aveva cercato di nascondere la
violazione delle promesse di concedere una costituzione, da essa
fatte nel 1815; essi si riunivano a porte chiuse e potevano metter
bocca al massimo in piccole que stioni locali. Da quando, nel 1837,
erano scoppiati i torbidi con la chiesa cattolica a Colonia e i
Posen, essi non furono nemmeno più convocati; dai parlamenti
provinciali della Renania e della Posnania ci si poteva attendere
prevalentemente un’opposizione, anche se soltanto di tendenza
ultramontana.
Questi degni corpi rappresentativi erano sufficientemente protetti
dal pericolo di prendere una tendenza liberale, dal fatto che
condizione indispensabile per appartenervi era la proprietà,
e, più esattamente, la proprietà fondiaria di origine
feudale doveva fornire la metà di tutti i membri, quella
cittadina un terzo, e quella contadina un sesto. Questo edificante
principio non si potè realizzare in tutta la sua bellezza in
tutte le province, e soprattutto nelle province renane, recentemente
annesse, dovettero fare delle concessioni allo spirito moderno;
tuttavia restava sempre il fatto che la proprietà di origine
feudale possedeva più di un n i/o di tutti i voti, di modo
che, siccome le decisioni dovevano esser prese con due terzi di
maggioranza, non si poteva fare nulla contro la sua volontà.
Inoltre alla proprietà fondiaria cittadina era imposta li
limitazione, che, per dar diritto all’eleggibilità, essa
doveva essere stata dieci anni nelle stesse mani, e per giunta il
governo poteva respingete l’elezione di qualsiasi funzionario
cittadino.
Questi parlamenti provinciali erano universalmente disprezzati, ma
tuttavia Federico Guglielmo IV li aveva riconvocati per il 1841,
dopo l’entrata in carica del suo governo. Egli aveva addirittura un
po’ esteso i loro diritti, anche se soltanto con lo scopo di far
vedere bianco invece che nero ai creditori dello Stato, coi quali la
corona si era impegnata nel 1820 a contrarre nuovi prestiti soltanto
con l’approvazione e la garanzia della futura assemblea
rappresentativa. In un suo famoso opuscolo Johann Jacoby sollecitava
i parlamenti provinciali a esigere come un loro diritto il
mantenimento delle promesse regie di una costituzione; ma era come
se parlasse ai sordi.
Anche il Landtag renano fallì e proprio anche nelle questioni
di politica ecclesiastica, a proposito delle quali il governo lo
aveva temuto di più. Esso respinse con due terzi di
maggioranza la proposta, ugualmente comprensibile sia da un punto di
vista liberale che da un punto di vista ultramontano, di portare
davanti a un tribunale o di restituire al suo ufficio l’arcivescovo
di Colonia illegalmente arrestato. La questione della
costituzione non fu nemmeno toccata dal Landtag e di fronte a una
petizione firmata da più di mille persone, che veniva da
Colonia ed esigeva libero accesso alle sedute del Landtag, il
resoconto quotidiano completo delle sue discussioni, il libero
dibattito sui giornali di tutte le questioni sue e del paese, e
infine una legge sulla stampa invece della censura, esso se la
cavò nella maniera più pietosa. Si limitò
cioè a pregare il re di poter pubblicare il nome ,degli
oratori nei verbali del Landtag e rivendicò insieme non una
legge sulla stampa che abolisse la censura, ma soltanto una legge
sulla censura che prevenisse gli arbitri dei censori. Com’è
destino per ogni atto vile, anche questa richiesta non sortì
alcun effetto davanti alla corona.
Questo Landtag si ravvivò un poco soltanto quando si
trattò di sostenere gli interessi della proprietà fon
diaria. Certo esso non poteva pensare a ristabilire il dominio
feudale. Ogni tentativo in questo senso era avversato così
mortalmente dai renani, che su questo punto essi non stavano
assolutamente allo scherzo, come comunicavano a Berlino anche i
funzionari inviati in Renania dalle province orientali. In
particolare la popolazione renana non lasciava che si attentasse
alla libera suddivisibilità delle terre, né a favore
del «ceto nobiliare» né a favore del «
ceto contadino», anche se la parcellizzazione della
proprietà fondiaria, continuata all’infinito, portava, come
non a torto diceva il governo, a un polverizzamento vero e proprio.
Ma la proposta del governo di porre certi limiti alla
parcellizzazione «per conservare un solido ceto contadino
», fu respinta con 49 voti contro 8 dal Landtag, che in questo
era d’accordo con la provincia. Tanto più esso si
risvegliò a proposito di alcune leggi sui furti di legna, sui
reati riguardanti la caccia, le foreste, i campi che gli erano state
sottoposte dal governo; qui di fronte all’interesse privato della
proprietà fondiaria, il potere legislativo si
prostituì senza più pudori.
Secondo un suo vasto piano, Marx sottopose il Landtag a una vera e
propria inchiesta. Nel primo scritto, che abbracciava sei lunghi
articoli, egli affrontò i dibattiti sulla libertà di
stampa e sulla pubblicazione delle discussioni parlamentari.
L’autorizzazione a questa pubblicazione, senza che si potessero fare
i nomi degli oratori, era stata una di quelle piccole riforme per
mezzo delle quali il re aveva tentato di di rianimare i parlamenti
provinciali, incontrando tuttavia su questo punto una violenta
resistenza da parte dei parlamenti stessi. A dire il vero il Landtag
renano non arrivò fino al punto di quelli del Brandeburgo o
della Pomera nia, che si erano semplicemente rifiutati di
pubblicare i loro verbali, ma anche in esso si rispecchiò
quella balorda presunzione che considera gli eletti una specie di
esseri superiori, che devono essere soprattutto protetti dalla
critica dei propri elettori. «Il Landtag non tollera la luce
del giorno. Noi ci sentiamo molto più a nostro agio nella
notte della vita privata. Se l’intera provincia si fida di affidare
i suoi diritti a singoli individui, va da sé che questi
singoli individui sono tanto condiscendenti da accettare la fiducia
della provincia, ma sarebbe una vera e propria stravaganza
pretendere che essi debbano contraccambiare con la stessa mi sura e
abbandonare se stessi, la loro esistenza, la loro personalità
al giudizio della provincia, che ha dato loro soltanto un giudizio
di coerenza». Sin dal suo primo entrare in campo Marx derideva
con gustoso umo rismo quello che poi egli avrebbe battezzato come
«cretinismo parlamentare» e che non avrebbe potuto
sopportare per tutta la vita.
Ma per la libertà di stampa colpì con tale maestria
quale non si vide più né prima né poi. Ruge
confessò onestamente: «Non era stato finora detto e
nemmeno si potrà poi dire nulla di più profondo a
proposito e in difesa della libertà di stampa. Possiamo
felicitarci per la cultura, la genialità e il sovrano dominio
di idee, ordinariatamente confuse, che fa ora la sua apparizione
nella nostra pubblicistica». In questi articoli Marx
parlò una volta del clima aperto e sereno della tua patria, e
ancor oggi aleggia su di essi uno splendore luminoso, come la luce
del sole sui colli del Reno ricchi di vigneti. Se Hegel aveva
parlato della «miserabile soggettività della cattiva
stampa che vuoi tutto dissolvere», Marx ritornava
all’Illuminismo borghese, quando appunto sulla Rheinische Zeitung
riconobbe nella filosofia di Kant la teoria tedesca della
rivoluzione francese, ma vi ritornava arricchito di tutte le
prospettive politiche e sociali che gli erano state dischiuse dalla
dialettica della storia di Hegel. Basta confrontare i suoi articoli
nella Rheinische Zeitung con le Quattro questioni di Jacoby per
riconoscere quanto egli fosse andato avanti: la promessa regia di
una costituzione, del 1815, alla quale Jacoby continuava pur sempre
a richiamarsi come all’Alfa e all’Omega di tutto il problema
costituzionale, Marx non l’ha ritenuta nemmeno degna di una
citazione incidentale.
Soltanto, per quanto celebrasse la libera stampa come l’occhio
aperto dello spirito del popolo — in confronto alla stampa
sottoposta a censura col suo vizio fondamentale dell’ipocrisia, dal
quale derivavano tutti gli altri suoi delitti e i suoi vizi schifosi
anche soltanto a considerarli dal lato estetico — egli non
misconosceva però i pericoli che minacciavano anche la libera
stampa. Un oratore del ceto cittadino aveva rivendicato
la libertà di stampa come una parte della libertà di
industria; al che Marx rispondeva: «È libera la stampa
che si degrada a industria? Lo scrittore è costretto comunque
a guadagnare, per poter esistere e vivere, ma non è costretto
in nessun modo a esistere e scrivere per guadagnare... La prima
libertà di stampa consiste nel fatto che essa non è
un’industria. Allo scrittore che la abbassa a strumento materiale,
tocca, come punizione per questa interna mancanza di libertà,
quella esterna, cioè la censura, o piuttosto, già la
sua esistenza è la sua punizione». E Marx ha confermato
con tutta la sua vita ciò che egli pretendeva dallo
scrittore, cioè che i suoi lavori siano sempre fine a se
stessi; essi sono così poco strumenti per lui stesso e per
gli altri, che egli, se è necessario, sacrifica la propria
esistenza alla loro esistenza.
Il secondo scritto sul Landtag renano si occupava della «faccenda dell’arcivescovo», come scriveva Marx a Jung. Esso
fu soppresso dalla censura e non fu pubblicato nemmeno in seguito,
sebbene Ruge si offrisse di accoglierlo negli Anecdota. A Ruge Marx
scriveva il 9 luglio 1842: «Non creda che qui sul Reno noi si
viva in un Eldorado politico. Ci vuole la più coerente
tenacia per tirare avanti un giornale come la Rheinische Zeitung. Il
mio secondo articolo sul Landtag, che trattava dei torbidi
ecclesiastici, è stato censurato. Io vi avevo dimostrato come
i difensori dello Stato si sian posti dal punto di vista della
Chiesa, e i difensori della Chiesa da quello dello Stato. Questo
incidente è tanto più spiacevole per la Rheinische in
quanto quegli stupidi dei cattolici di Colonia sarebbero caduti in
trappola, e la difesa dell’arcivescovo avrebbe procurato
abbonamenti. Del resto è difficile che Lei possa immaginare
quanto siano abbiette le autorità e nello stesso tempo quanto
stupidamente abbiano trattato con questi testoni di ortodossi. Ma il
successo ha coronato l’opera; la Prussia ha baciato la pantofola del
Papa davanti agli occhi di tutto il mondo, e le nostre macchine
governative camminano per la strada senza arrossire». La frase
finale si riferisce al fatto che Federico Guglielmo IV,
conformemente alle sue tendenze romantiche, aveva iniziato
trattative di pacificazione con la Curia, che per tutto
ringraziamento, secondo le regole dell’arte vaticana, rispondeva a
schiaffi.
Quello che Marx scriveva a Ruge su questo articolo non deve essere
frainteso al punto di pensare che egli avesse seriamente preso le
difese dell’arcivescovo per attrarre in trappola i cattolici di
Colonia. Anzi, egli restava del tutto coerente con se stesso quando
commentava l’arresto, assolutamente illegale, dell’arcive scovo per
le sue attività ecclesiastiche è la richiesta,
avanzata dai cattolici, di un procedimento giudiziario nei riguardi
del vescovo illegalmente arrestato, osservando che i difensori dello
Stato si erano posti sul terreno della Chiesa e quelli della Chiesa
sul terreno dello Stato. Prendere la giusta posizione in questo
mondo a rovescio era comunque una questione decisiva per la
Rheinische Zeitung, proprio anche per le ragioni che Marx adduceva
più avanti nella lettera a Ruge, perché il partito
ultramontano, che veniva vivacemente combattuto dal giornale, era
il più pericoloso in Renania, e l’opposizione si era troppo
abituata a far l’opposizione all’interno della Chiesa.
Il terzo scritto, che comprendeva cinque lunghi articoli, gettava
luce sui dibattiti svoltisi al Landtag sulla legge sui furti di
legna. Con esso Marx metteva «i piedi in terra», o,
com’egli espresse in altra Occasione lo stesso pensiero, si
trovò nell’imbarazzo di dover parlare di interessi materiali
che non erano previsti nel sistema ideologico di Hegel. In
realtà egli non affrontò il problema posto da queste
leggi con quel rigore che avrebbe avuto ormai in anni successivi. Si
trattava della lotta dell’era capitalistica avanzante contro gli
ultimi resti della proprietà comune del suolo, di una crudele
guerra per espropriare le masse popolari; su
207.478 procedimenti penali svoltisi in Prussia nel 1826, circa
150.000, cioè circa i tre quarti, si riferivano a furti di
legna e reati concernenti la caccia, le foreste e i pascoli.
Nella discussione della legge sui furti di legna si era imposto nel
Landtag renano l’interesse esoso della proprietà fondiaria
privata nella miniera più sfrontata, anche più in
là del progetto governativo. Contro di questo Marx intervenne
con la sua critica tagliente «in favore della massa povera,
politicamente e socialmente nul latenente», non ancora
però con ragioni economiche, bensì per ragioni
giuridiche. Egli rivendicava per i poveri, gravemente minacciati, il
mantenimento dei loro diritti consuetudinari, i cui fondamenti egli
trovava nel carattere oscillante di una determinata proprietà
non caratterizzata decisamente né come privata né come
comune, in un miscuglio di diritto privato e di diritto pubblico,
quale ci si presenta in tutte le istituzioni del medioevo.
L’intelletto aveva eliminato queste formazioni ibride e oscillanti
della proprietà, applicando ad esse le categorie del diritto
privato astratto derivate dal diritto romano, ma nel diritto
consuetudinario della classe povera viveva un senso giuridico
istintivo; la sua radice era positiva e legittima.
Se in questo scritto la comprensione storica conserva un
«certo carattere oscillante», tuttavia, o piuttosto
proprio per questo, esso mostra che cos’è che in ultima
analisi ha sollecitato questo grande campione delle «classi povere». Dalla descrizione delle
furfanterie con cui l’interesse privato dei proprietari di foreste
calpestava logica e ragione, legge e diritto e, non ultimi, gli
interessi dello Stato, per soddisfarsi ai danni dei poveri e dei
miseri, si avverte ovunque come tutto l’uomo reagisca indignato.
«Per garantirsi dai reati riguardanti la proprietà
forestale, il Landtag non soltanto ha fatto a pezzi il diritto, ma
gli ha trafitto il cuore». Con questo esempio Marx volle
dimostrare che cosa ci si potesse attendere da un’assemblea
rappresentativa di interessi di ceti particolari, una volta che essa
fosse chiamata sul serio a legiferare.
In questo Marx si atteneva ancora alla filosofia del diritto e dello
Stato di Hegel. E non in quanto egli celebrasse lo Stato prussiano
come lo Stato ideale, a somiglianza dei ripetitori letterali di
Hegel, ma in quanto commisurava lo Stato prussiano allo Stato ideale
quale risultava dalle premesse filosofiche di Hegel. Marx
considerava lo Stato come il grande organismo in cui doveva trovare
attuazione la libertà giuridica, morale e politica, e in cui
il singolo cittadino, obbedendo alle leggi dello Stato, obbedisce
alle leggi naturali della sua stessa ragione, della ragione umana.
Muovendo da questa posizione Marx potè sì venire a
capo dei dibattiti del Landtag intorno alla legge sui furti di
legna, e sarebbe venuto a capo anche del quarto scritto che doveva
affrontare una legge sui reati riguardanti la caccia, le foreste e i
campi, ma non sarebbe venuto a capo del quinto scritto, che avrebbe
dovuto coronare tutto l’edificio e discutere la «questione
terrena alla grandezza naturale», cioè la questione
della parcellizzazione.
Come la borghesia renana, Marx sosteneva la libera
suddivisibilità del suolo; limitare la libertà del
contadino di creare nuove parcelle significava aggiungere alla sua
povertà fisica la povertà giuridica. Ma su questa base
giuridica la questione non era risolta; il socialismo francese aveva
già da tempo indicato che la libera suddivisibilità
del suolo creava un proletariato inerme, e l’aveva posta sullo
stesso piano dell’isolamento atomistico dell’artigianato. Se Marx
voleva trattarne, doveva venire a una spiegazione col socialismo.
Certamente egli aveva avvertito questa necessità e non le si
sarebbe davvero sottratto se avesse portato a termine la serie
progettata dei suoi studi. Ma non arrivò a tanto. Quando fu
pubblicato nella Rheinische Zeitung il terzo scritto, Marx era
già il suo direttore, e l’enigma socialista gli si
presentò ancor prima che egli potesse risolverlo.
4.7 Cinque mesi di lotta
Nel corso dell’estate la Rheinische Zeitung si era permessa un paio
di piccoli excursus nel campo sociale; è da supporre che
l’iniziativa risalga a Moses Hess. Una volta essa ristampò da
una rivista di Weitling un articolo sulle case d’abitazione di
Berlino, come contributo a una «questione scottante»,
e aggiunse a una sua corrispondenza da Strasburgo su un congresso
di scienziati, nel quale si erano trattate anche questioni di
socialismo, l’osservazione del tutto innocua che, se il ceto non
abbiente mirava alle ricchezze della classe media, la cosa poteva
esser paragonata alla lotta della classe media contro la
nobiltà del 1789, ma che questa volta si sarebbe trovata una
soluzione pacifica.
Queste occasioni in sé innocue bastarono alla Allgemeine
Zeitung di Augusta per accusare la Rheinische Zeitung di far
l’occhiolino al comunismo. Su questo punto neanche quel giornale
aveva la coscienza a posto, e aveva pubblicato sul socialismo e sul
comunismo francese molte Cose di mano di Heine che sapevano alquanto
di bruciaticcio, ma era l’unico giornale tedesco di importanza
nazionale o addirittura internazionale, e questa posizione
cominciava ad essere minacciata dalla Rheinische Zeitung. Per quanto
dunque il suo violento attacco avesse poco degni motivi, pure era
scagliato non senza una maligna abilità; accanto ad allusioni
di ogni genere ai figli di ricchi commercianti che giocavano Con
innocente ingenuità con le idee socialiste, senza darsi alcun
pensiero di come dividere i loro averi con i lavoranti del duomo o
gli scaricatori del porto di Colonia, essa dimostrava trionfalmente
che in un paese come la Germania, economicamente ancora tanto
arretrato da osare appena di respirare liberamente, era proprio un
errore da bambini minacciare alla classe media la sorte della
nobiltà francese del 1789.
La difesa contro questo acido attacco fu il primo compito
redazionale che si presentò a Marx, ed era abbastanza
incomodo per lui. Egli non voleva farsi paladino di cose che lui
stesso riteneva «balordaggini», ma non poteva nemmeno esprimere una sua opinione sul
comunismo. Così considerò la possibilità di
portare la guerra nel campo dell’avversario, attribuendogli
velleità comuniste, ma confessò onestamente che alla Rheinische Zeitung non era concesso liquidare con una sola
frase problemi alla cui soluzione lavoravano due popoli. Essa
avrebbe sottoposto a una critica radicale le idee comuniste — alle
quali nella loro forma attuale non poteva nemmeno attribuire
realtà teoretica, delle quali tanto meno poteva perciò
auspicare la pratica attuazione, o che anche soltanto non poteva
ritenere possibili — «facendo precedere studi estesi e
approfonditi», perché scritti come quelli di Leroax,
Considérant e soprattutto l’acuta opera di Proudhon non
potevano essere liquidati accontentandosi di uno sguardo
superficiale.
Più tardi Marx può aver pensato di aver preso in uggia
il lavoro alla Rheinische Zeitung in seguito a questa polemica e di
aver afferrato «avidamente» l’occasione di ritirarsi
nel suo studio. Ma, come suole accadere nel ricordo, causa ed
effetto gli si sono presentati confusi. Per il momento Marx era
ancora preso anima e corpo dalla cosa, che gli appariva tanto
importante da romperla per amore suo con i vecchi compagni di
Berlino. Di loro infatti non c’era più da gloriarsi, da
quando la irruzione mitigata sulla censura aveva tra sformato il
Doktorklub, nel quale era stato pur sempre vivo «un interesse
spirituale», in una associazione di cosiddetti «Liberi
», dove quasi tutti i letterati della capitale prussiana del
periodo pre=quarantottesco si erano dati convegno per recitare la
parte di rivoluzionari politici e sociali sotto forma di filistei
inselvatichiti. Già nell’estate Marx era alquanto allarmato
da questo atteggiamento; diceva che altro era proclamare la propria
emancipazione, che era coscienziosità, e altro screditarsi in
anticipo come dei tromboni da propa ganda. Ma pensava che
fortunatamente Bruno Bauer era a Berlino; lui avrebbe fatto
sì che almeno non si commettessero «sciocchezze».
Ma in questo Marx, purtroppo, si sbagliava. Secondo un’informazione
degna di fede, Kòppen si tenne lontano dall’atteggiamento dei
Liberi, ma non così Bruno Bauer, che non si vergognava
nemmeno di fare il capo in testa delle loro buffonate. Il loro
bighellonare per le strade, le loro scene scandalose in bordelli e
birrerie, il loro insulso farsi beffe di un prete indifeso, a cui
Bruno Bauer, al matrimonio di Stirner, porgeva gli anelli d’ottone
del suo portamonete di maglia, facendo notare che come anelli
matrimoniali potevano anche servire, tutto ciò faceva dei
Liberi l’oggetto un po’ dell’ammirazione e un po’ del terrore di
tutti i mansueti filistei, ma comprometteva irrimediabilmente la
causa che essi dicevano di rappresentare.
Naturalmente questi atteggiamenti da ragazzacci di strada
esercitavano un’influenza desolante anche sulla produzione culturale
dei Liberi, e Marx aveva un bel da fare con la loro collaborazione
alla Rheinische Zeitung. Molte loro cose cadevano sotto il lapis
rosso del censore, ma — così scriveva Marx a Ruge — «
io mi permettevo di annullarne tante quante il censore, dal momento
che Meyen e consorti ci mandavano mucchi di sudicerie piene di
velleità rivoluzionarie e vuote di pensiero, in uno stile
indecente, condito con un pizzico di ateismo e di comunismo (che i
signori non hanno mai studiato), e dal momento che, data l’assoluta
mancanza in Rutenberg di spirito critico, di indipendenza e di
capacità, si erano abituati a considerare la Rheinische
Zeitung come un loro organo, privo di volontà propria; ma io
ho creduto di non dover più permettere che seguitassero a
farvi come prima le loro pisciatine». Questa fu la prima
ragione dell’«oscuramento del cielo di Berlino», come
diceva Marx.
Alla rottura si venne quando, nel novembre del 1842, Herwegh e Ruge
si recarono a Berlino. Herwegh si trovava allora nel suo famoso giro
trionfale per la Germania, durante il quale aveva anche fatto
rapidamente amicizia con Marx a Colonia; a Dresda si era incontrato
con Ruge, ed era andato insieme con lui a Berlino. Qui, com’era
prevedibile, essi non riuscirono a prender gusto agli eccessi dei
Liberi: Ruge ebbe un duro scambio di parole col suo collaboratore
Bruno Bauer, perché costui voleva «fargli passar per
buone le cose più ridicole», come per esempio che
bisognava risolvere nel concetto lo Stato, la proprietà e la
famiglia, senza doversi ulteriormente dar pensiero dell’aspetto
concreto della faccenda. Altrettanto scarso interesse
dimostrò Herwegh per i Liberi, che si vendicarono di questo
disprezzo prendendo in giro nel loro (ile la nota udienza che il
poeta aveva ottenuto dal re e il suo fidanzamento con una ricca
fanciulla. Le parti in lite si rivolsero tutte due alla Rheinische
Zeitung. Herwegh, d’accordo con Ruge, chiese ospitalità per
una nota nella quale si concedeva, sì, ai Liberi che, presi
uno per uno, essi erano per lo più persone, ma si aggiungeva
che, come Herwegh e Ruge avevano loro dichiarato apertamente, col
loro romanticismo politico, le loro pose genialoidi e reclamistiche
compromettevano la causa e il partito della libertà. Marx
pubblicò questa nota, ma fu tempestato da Meyen che si faceva
portavoce dei Liberi, con lettere ingiuriose.
Da principio Marx rispose molto concretamente, cercando di riportare
sulla giusta via la collaborazione dei Liberi. «Esigevo che
mettessero in mostra meno vaghi ragionamenti, meno frasi
altisonanti, meno allusioni compiaciute, e più
determinatezza, più aderenza alle situazioni concrete,
più cognizioni specifiche. Dichiaravo di ritenere sconveniente, anzi immorale, far passare di
contrabbando dogmi socialisti e comunisti, cioè una nuova
concezione del mondo, in occasionali critiche teatrali, ecc., e di
pretendere sul comunismo, se una volta lo si doveva discutere, una
discussione del tutto diversa e approfondita. Chiedevo poi che si
criticasse la religione nella critica della situazione politica,
piuttosto che la situazione politica nella religione, perché
questo modo di impostare le cose corrispondeva di più al
carattere di un giornale e alla cultura del pubblico, dal momento
che la religione, priva di per sé di contenuto, si nutre non
del cielo, ma della terra, e cade da sé una volta risolto il
rovesciamento della realtà di cui essa è la teoria.
Infine volevo che, se si par lava di filosofia, ci si baloccasse
meno con l’etichetta Ateismo (quasi come fanno i bambini, che
assicurano chiunque li voglia stare a sentire che loro non hanno
paura dell’uomo nero) e se ne divulgasse piuttosto il contenuto tra
il pubblico». Queste dichiarazioni consentono anche di
gettare uno sguardo istruttivo ai criteri coi quali Marx dirigeva la
Rheinische Zeitung.
Ma ancor prima che i suoi consigli fossero giunti a destinazione,
egli ricevette da Meyen una «lettera insolente», nella
quale costui pretendeva né più né meno che il
giornale non «temperasse la polemica», ma «
prendesse posizioni estreme», cioè si facesse
sopprimere per amore dei Liberi. E allora anche Marx perse la
pazienza e scrisse a Ruge: «Da tutta la faccenda traspare
una enorme dose di vanità, che non comprende come, per
salvare un organo politico, si debbano sacrificare alcune vesciche
gonfiate di Berlino, e che non sa pensare ad altro che alle faccende
della sua cricca... Dato che noi dobbiamo sopportare dal mattino
alla sera le più orribili torture della censura, le pratiche
ministeriali, le lagnanze della prefettura, le lamentele del
Landtag, le grida degli azionisti ecc. ecc., ed io resto al mio
posto soltanto perché ritengo mio dovere di far fallire, per
quanto è in me, la realizzazione degli scopi che le
autorità si prefiggono, Lei può immaginarsi che sono
alquanto irritato e che ho risposto alquanto duramente a Meyen
». In realtà era la rottura coi Liberi, che
politicamente hanno fatto tutti più o meno una brutta fine;
da Bruno Bauer, più tardi collaboratore della Kreuzzeitung e
della Post, fino a Eduard Meyen, che morì direttore della
Danziger Zeitung e metteva il punto alla sua vita sprecata con la
pietosa freddura che gli era consentito di deridere soltanto i
protestanti ortodossi, dato che il proprietario liberale del
giornale gli aveva proibito di criticare il Sillabo per riguardo gli
abbonati cattolici. Altri dei Liberi si sono insinuati nella stampa
ufficiosa o addirittura ufficiale, come Rutenberg, che qualche
decennio dopo morì direttore del Preussicher Staatsanzeiger.
Ma allora, nell’autunno 1842, costui era ancora l’uomo più
temuto, e il governo pretese il suo allontana mento. A dire il
vero, quest’ultimo durante l’estate aveva tormentato il giornale con
la censura, ma gli aveva ancora concesso di vivere, nella speranza
che morisse da sé; l’8 agosto il prefetto renano von Schaper
co municava a Berlino che il numero degli abbonati ammontava
soltanto a 885. Ma il 15 ottobre aveva assunto la direzione Marx, e
il 10 novembre Schaper annunciava che il numero degli abbonati
cresceva incessan temente; da 885 si era elevato a 1820, e la
evidenza del giornale diveniva sempre più ostile e insolente.
A ciò si aggiunse che sul tavolo della Rheinische Zeitung era
capitato un progetto di legge sul matrimonio estremamente
reazionario, la cui pubblicazione anticipata inasprì il re
tanto più in quanto le difficoltà che esso frapponeva
il divorzio trovarono una violenta resistenza tra la popolazione.
Egli pretendeva che si minacciasse al giornale l’immediata
soppressione se non denunciava chi aveva fornito il progetto, ma i
mi nistri non vollero Intrecciare la corona del martirio per
l’odiato giornale, che prevedevano avrebbe respinto una così
infame pretesa. Si contentarono di allontanare Kuicnberg da Colonia
e di pretendere, sotto pena di divieto, la nomina di un direttore
responsabile che avrebbe firmato il giornale invece dell’editore
Renard. Nello stesso tempo, al posto del censore Dolleschall, Caduto
in discredito per la sua scarsa intelligenza, fu nominato un tale
assessore Wiethaus.
Il 30 novembre Marx comunicava a Ruge: «Rutenberg, al quale
era già stato disdetto l’articolo tedesco (per il quale la
sua attività consisteva principalmente nel mettere la
punteggiatura), al quale soltanto per opera mia era stato affidato
quello francese, Rutenberg, data l’immensa stupidità delle
nostre autorità sta tali di controllo, aveva la fortuna di
passare per Un individuo pericoloso, sebbene per nessuno fosse
più pericoloso che per la Rheinische Zeitung e per se stesso.
Ci è stato imposto d’autorità l’allontanamento di
Rutenberg. L’autorità prussiana di controllo, questo
despotisme prussien, le plus hypocrite, le plus fourbe, ha
risparmiato al gerente [Renard] un passo spiacevole, e il nuovo
martire, che sa già rappresentare la coscienza del martirio
con un certo virtuosismo nella fisionomia, nell’atteggiamento e nel
linguaggio, Ru tenberg insomma, sfrutta questa occasione, scrive a
tutto il mondo, scrive a Berlino dicendo di essere il principio
della Rheinische Zeitung in esilio, che assume ora un’altra
posizione verso il governo». Marx com menta l’incidente
osservando che il suo dissidio coi Liberi di Berlino si è
così acuito, ma sembra quasi che prendendo in giro il «martire» Rutenberg abbia calcato
un po’ troppo la mano contro quel povero diavolo.
La sua osservazione che l’allontanamento di Rutenberg era stato
«imposto d’autorità» e che così era stato
risparmiato all’editore Renard un «passo spiacevole»,
non si può spiegare altrimenti se non pensando che ci si
adattò all’intervento d’autorità e che si
rinunciò a ogni tentativo di mantenere Rutenberg. Un
tentativo del genere sarebbe stato senza dubbio privo di
prospettive, e si aveva certamente motivo di risparmiare all’editore
ogni «passo spiacevole», cioè ogni
interrogatorio obbligato, per cui quell’editore assolutamente
apolitico non era all’altezza. Egli si limitò a firmare una
protesta scritta contro il minacciato divieto, ma, come dimostra la
copia a mano che si trova nell’archivio di Stato di Colonia, essa fu
stesa da Marx.
In essa, «cedendo all’imposizione», si accetta il
provvisorio allontanamento di Rutenberg e ci si impegna alla nomina
di un direttore responsabile. E si afferma che la Rheinische Zeitung
farà il possibile per evitare la fine, per quanto ciò
sia compatibile con la missione di un giornale indipendente. Essa si
imporrà nella forma una maggiore moderazione di quella
mostrata finora, naturalmente fin dove il contenuto lo consenta. Lo
scritto è redatto con una cautela diplomatica di cui non si
può portare altro esempio nella vita del suo autore, ma come
sarebbe ingiusto pesare ogni parola con la bilancia dell’orefice,
non meno ingiusto sareb be dire che il giovane Marx avesse proprio
fatto violenza alle sue convinzioni di allora. Nemmeno per quello
ch’egli dice sui sentimenti filoprussiani del giornale. Accanto ai
suoi articoli polemici contro l’agitazione antiprussiana condotta
dalla Allgemeine Zeitung di Augusta, e accanto alla sua azione per
l’estensione del lo Zollverein alla Germania nord=occidentale, le
sue simpatie prussiane si sarebbero mostrate soprattutto nel suo
continuo richiamo alla scienza della Germania settentrionale in
contrasto con la superficialità delle teorie francesi e anche
tedesche del sud. La Rheinische Zeitung era il primo «giornale
renano e in gene rale tedesco del sud» che introduceva nel
sud lo spirito nordico=tedesco e che contribuiva così
all’unione spirituale delle stirpi divise. A questo ricorso il
prefetto von Schaper rispose alquanto di malagrazia; anche se
Rutenberg fosse stato subito licenziato e se fosse stato nominato un
direttore assolutamente adatto, il rilascio di un’autorizzazione
definitiva sarebbe dipeso dal futuro atteggiamento del giornale.
Soltanto per l’incarico del nuovo direttore fu concesso un margine
di tempo fino al 12 dicembre. Ma non ci si arrivò, per
ché a metà dicembre era in atto già una nuova
guerra. Due corrispondenze al giornale da Bernkastel sulla
miserevole situazione dei contadini della Mosella dettero a Schaper
l’occasione a due rettifiche che erano altrettanto inconcludenti per
il contenuto quanto dure per la forma. La Rheinische Zeitung, da
principio, fece ancora buon viso a cattivo gioco e lodò la
«pacata dignità» di queste rettifiche, la quale
era tale da far arrossire idi uomini dello Stato di polizia segreta
e si prestava «tanto per toglier di mezzo la sfiducia quanto
per rafforzare la fiducia».
Ma dopo aver raccolto il materiale
necessario, essa, a cominciare dalla metà di gennaio,
portò in cinque articoli una quantità di prove
documentate di come il governo avesse soffocato con spietata
crudeltà le grida di soccorso dei contadini della Mosella. Il
più alto funzionario della Renania faceva così una
pessima figura. Tuttavia egli si ebbe la dolce consolazione di
apprendere che la soppressione del giornale era stata decisa dal
consiglio dei ministri, in presenza del re, già il 21 gennaio
1843. Verso la fine dell’anno la collera del re era stata eccitata
da una serie di avvenimenti: e cioè da una lettera tra
sentimen tale e insolente che Herwegh gli aveva indirizzata da
Konigsberg, e che la Leipziger Allgemeine Zeitung aveva pubblicato
ad insaputa e contro la volontà dell’autore, poi
dall’assoluzione di Johann Jacoby, da parte della Corte suprema,
dall’accusa di alto tradimento e di lesa maestà, e infine
anche una professione di fede «nella democrazia coi suoi problemi pratici» resa dai
Deutsche Jahrbùcher per l’anno nuovo. In seguito a ciò
essi vennero subito proibiti e così anche — per la Prussia —
la Leipziger Allgemeine Zeitung; ora, senza por tempo in mezzo,
anche «l’altra puitana del Reno» doveva fare la stessa
fine, tanto più che essa aveva duramente stigmatizzato la
soppressione degli altri due giornali.
Come pretesto formale del divieto servì la pretesa mancanza
di una autorizzazione («quasi che in Prussia, — diceva Marx — dove nemmeno un
cane può vivere senza il bravo bollo della polizia, la
Rheinische Zeitung avrebbe potuto uscire anche un sol giorno senza
le condizioni ufficiali per esistere») e come «motivo
concreto» fu ripetuto il chiacchierio antico e neo=prussiano
sulla scellerata tendenza («il vecchio ritornello — diceva Marx irridendo — sui
cattivi sentimenti, sulle buone teorie, sui trallalalà ecc.» ) Per un riguardo verso gli azionisti si consentì
l’uscita del giornale per tutto il trimestre. «Durante questa
dilazione accordata al condannato, essa è sottoposta a una
doppia censura. Il nostro censore, persona degna, è infatti
sottopo sto alla censura del locale presidente del governo, von
Gerlach, un testone che obbedisce passivamente; e, più
esattamente, il nostro giornale, una volta pronto, dev’essere posto
sotto il naso della polizia perché lo annusi, e se c’è
puzza appena un po’ di anticristiano o di antiprussiano, il giornale
non può uscire». Così Marx a Ruge. In realtà l’assessore Wiethaus fu abbastanza
dignitoso da rinunciare alla censura, cosa per cui la società
corale di Colonia lo onorò con una canzone. Al posto suo fu
mandato da Berlino il segretario ministeriale Saint=Paul, il quale
esercitò il mestiere del secondino con tanto zelo che
già il 18 febbraio si potè abolire la doppia censura.
Il divieto del giornale fu accolto da tutta la provincia del Reno
come un’onta inflitta ad essa medesima. Il numero degli abbonati
salì rapidamente a 3.200, e petizioni firmate da migliaia di
persone giunsero a Berlino per scongiurare il colpo imminente.
Perfino una delegazione di azionisti si mise in viaggio, ma non fu
ammessa alla presenza del re, come del resto le petizioni della
popolazione sarebbero scomparse senza lasciar segno nel cestino
della cartaccia, se non avessero occasionato energici rabbuffi ai
funzionari che le avevano firmate. Più preoccupante era il
fatto che gli azionisti cercassero di ottenere con un atteggiamento
più remissivo del giornale quello che non erano riuscite ad
ottenere le loro rappresentanze viaggianti; essenzialmente questa
circostanza indusse Marx a dimettersi dalla direzione sin dal 17
marzo, cosa che naturalmente non gli impedì di rendere fino
all’ultimo momento il più possibile amara la vita alla
censura.
Saint Paul era un giovane bohémien che a Berlino frequentava
le birrerie coi Liberi, e a Colonia si azzuffava coi guardiani
notturni davanti ai bordelli. Ma era un tipo scaltro, che
scoprì presto dove risiedeva il «centro dottrinale
» della Rheinische Zeitung e la «fonte viva»
delle sue teorie. Nelle sue relazioni a Berlino egli parlò
con involontario rispetto di Marx, di cui sia il carattere che
l’intelligenza gli avevano evidentemente fatto una grande
impressione, nonostante il «profondo errore speculativo
» che pretendeva di avere scoperto in lui. Il 2 marzo
Saint=Paul poteva annunciare a Berlino che Marx si era deciso,
«date le attuali circostanze», a rompere ogni rapporto
con la Rheinische Zeitung e a lasciare la Prussia, cosa che indusse
i furbi signori di Berlino notare nei loro atti che non era davvero
una perdita se Marx se ne andava all’estero, dato che i suoi
«sentimenti ultra democratici si trovano in assoluto contrasto
col principio dello Stato prussiano»; sul che non c’era
certamente nulla da obbiettare. Il 18, poi, il degno censore
giubilava: «Lo spiritus rector di tutta l’impresa, il dott.
Marx, se ne è andato ieri definitivamente, e Oppenheim, uomo
veramente moderato nel complesso e del resto insignificante, gli
è succeduto nella direzione... Io mi trovo molto
avvantaggiato, e oggi ho impiegato appena un quarto del tempo
abituale per la censura». A Marx che se ne andava egli faceva
il più lusinghiero complimento proponendo a Berlino di
lasciare ormai che la Rheinische Zeitung continuasse a vivere in
pace. Ma i suoi committenti lo superavano in viltà; gli fu
suggerito di comprare in segreto il direttore della Kölnische
Zeitung, un certo Hermes, e di spaventare l’editore di questo
giornale, al quale la Rheinische Zeitung aveva mostrato la
possibilità di una pericolosa concorrenza; e il colpo mancino
riuscì.
Marx stesso però scriveva già il 25 gennaio a Ruge,
nello stesso giorno cioè in cui era arrivato a Colonia il
divieto della Rheinische Zeitung: «Nulla mi ha sorpreso. Lei
sa che cosa io già pensassi dell’istruzione sulla censura. Io
vedo qui soltanto una conseguenza, io vedo nella soppressione della
Rheinische Zeitung un progresso della coscienza politica
perciò mi rassegno. Inoltre l’atmosfera era divenuta troppo
pesante per me. E’ brutto compiere lavori servili anche per la
libertà e combattere a colpi di spillo invece che di mazza.
Mi sono stancato dell’ipocrisia, della stupidità, della rozza
autorità e del nostro piegarci, curvarci, chinare le spalle e
sofisticare con le parole. Insomma il governo mi ha ridato la
libertà... In Germania non posso combinare più nulla.
Qui si falsifica sé stessi».
4.8 Ludwig Feuerbach3
Proprio in questa lettera Marx confermava di aver ricevuto la
raccolta nella quale aveva dato alla luce il suo primo parto
politico. Fu pubblicata al principio del marzo 1843 in due volumi,
sotto il titolo: Anecdota zur neuesten deutschen Philosophie und
Publizistik, a cura della rivista di Zurigo, che Julius
Fròbel aveva fon dato come rifugio dei tedeschi che
fuggivano la censura. In essi sfilava ancora una volta la vecchia
guardia dei Giovani hegeliani, ma già con le file
ondeggianti, e in mezzo a loro l’audace pensatore che decretava la
morte di tutta la filosofia di Hegel, che vedeva nello «
spirito assoluto» lo spirito defunto della teologia e con
ciò la pura credenza nei fantasmi, che vedeva risolti tutti i
segreti enigmi della filosofia nell’intuizione del l’uomo e della
natura. Le Tesi provvisorie per la riforma della filosofia, che
Ludwig Feuerbach pubblicava negli Anecdota, furono una rivelazione anche per Marx.
Più tardi Engels datò il grande influsso di Feuerbach
sull’evoluzione spirituale del giovane Marx a partire dall’Essenza
del Cristianesimo, il più famoso scritto di Feuerbach, uscito
già nel 1841. Dell’«effetto liberatore» di
questo libro, che bisognava aver provato personalmente per farsene
un’idea, Engels diceva:
«L’entusiasmo era generale, in quel momento eravamo tutti
feuerbachiani». Soltanto, in quello che Marx ha pubblicato
sulla Rheinische Zeitung non si avverte ancora l’influenza di
Feuerbach; Marx ha «salutato entusiasticamente» la
nuova concezione, nonostante tutte le riserve critiche, soltanto nei
Deutsch Französische Jahrbücher, che apparvero nel
febbraio 1844 e già nel titolo tradivano un certo
riecheggiamento del pensiero di Feuerbach.
Ora, le Tesi provvisorie sono certamente già contenute nella
Essenza del Cristianesimo, e in questo senso l’errore in cui Engels
è incorso nel ricordo, appare indifferente. Ma non lo
è in quanto esso nasconde il rapporto spirituale tra
Feuerbach e Marx. Feuerbach, per quanto si sentisse a suo agio
soltanto nella solitudine della campagna, era nondimeno un
lottatore. Egli pensava, con Galileo, che la città era simile
a una prigione per gli animi speculativi, e che invece la libera
vita della campagna fosse un libro della natura, aperto davanti agli
occhi di chiunque amasse leggervi col proprio intelletto. Con tali
parole Feuerbach difese sempre contro ogni tentazione la sua vita
solitaria a Bruckberg; egli amava la solitudine della campagna, non
nel senso del vecchio detto che proclama «beato chi vive in
solitudine», ma perché da essa attingeva le forze per
la lotta, nel bisogno che ha il pensatore di raccogliersi e di non
lasciare che i rumori del giorno lo strappino alla contemplazione
della natura, che era per lui la fonte prima di tutta la vita e dei
suoi segreti.
Nonostante la sua vita ritirata in campagna, Feuerbach partecipava
in prima linea alle grandi lotte del suo tempo. I suoi articoli
davano alla rivista di Ruge la mordacità e l’acutezza
più taglienti. Nell’Essenza del Cristianesimo egli dimostrava
che è l’uomo che fa la religione e non la religione che fa
l’uomo, e che gli esseri superiori creati dalla nostra fantasia sono
soltanto i riflessi fantastici del nostro stesso essere. Ma proprio
nel momento in cui usciva questo libro, Marx si volgeva alla lotta
politica che lo portava in mezzo al frastuono della pubblica piazza,
per quel tanto che si potesse in genere parlarne; per essa non
bastavano le armi che Feuerbach aveva approntato nel suo scritto. Ma
ora che la filosofia di Hegel gli si era rivelata incapace a
risolvere le questioni materiali, che gli si erano presentate alla
Rheinische Zeitung, apparivano per l’appunto le Tesi provvisorie per
la riforma della filosofia, che davano il colpo mortale alla
filosofia di Hegel, ultimo rifugio, ultimo sostegno razionale della
teologia. Così esse fecero una profonda impressione su Marx,
anche se egli si riservò subito il suo diritto di critica.
Nella sua lettera del 13 marzo egli scriveva a Ruge: «Gli
aforismi di Feuerbach mi paiono inadeguati soltanto per il fatto che
rimandano troppo alla natura e troppo poco alla politica. Ma questo
è l’unico legame attraverso il quale la filosofia attuale
può diventare una verità. Tuttavia avverrà
certamente come nel secolo decimosesto, quando agli entusiasti della
natura corrispose tutta un’altra serie di entusiasti dello
Stato». In realtà nelle sue Tesi Feuerbach sfiorava la
politica soltanto con una misera osservazione che era un passo
indietro piuttosto che in avanti rispetto a Hegel. In questo punto
si inserì Marx, per affrontare la filosofia del diritto e
dello Stato di Hegel altrettanto radicalmente quanto Feuerbach aveva
affrontato la filosofia della natura e della religione del maestro.
In un altro passo, la lettera a Ruge del 13 marzo rivelava quanto
Marx subisse allora l’influenza di Feuer bach. Non appena fu chiaro
per lui che non poteva scrivere sotto la censura prussiana né
respirare l’aria prussiana, fu presa insieme la decisione di non
lasciare la Germania senza la fidanzata. Il 25 gennaio aveva
già domandato a Ruge se avrebbe potuto trovare lavoro nel
Deutscher Bote, che Herwegh aveva intenzione di pubblicare a Zurigo,
ma le intenzioni di Herwegh andarono in fumo, ancor prima di
attuarsi, in seguito alla sua espulsione da Zurigo. Ruge fece allora
nuove proposte di lavoro in comune, tra l’altro quella della
direzione in comune degli Jahrbùcher trasformati e
ribattezzati; Marx avrebbe potuto recarsi a Lipsia, dopo sistemate
le lue «beghe redazionali» di Colonia, per concordare a
voce il «luogo «Iella nostra risurrezione».
Il 13 marzo Marx si dichiarava d’accordo, ma esprimeva
«provvisoriamente» la sua convinzione sul «nostro
progetto» con queste parole: «Quando Parigi fu
conquistata, alcuni proposero di dare il potere al figlio di
Napoleone con una reggenza, altri a Bernadotte, altri ancora a Luigi
Filippo. Ma Talleyrand rispose: Luigi XVIII o Napoleone.
Questo è un principio„ tutto il resto è intrigo.
E così anch’io potrei definire non un
principio ma un intrigo quasi tutte le città meno Strasburgo
(o al massimo la Svizzera). Libri di più di venti fogli di
stampa non sono letture per il popolo. Il massimo che si può
osare sono i quaderni mensili. Anche se si avesse di nuovo il
permesso per i Deutsche Jahrbùcher, nel caso migliore
potremmo arrivare a una scialba copia dei defunti, e oggi questo non
basta più. Invece: Deutsch=Franzósische
Jahrbùcher, questo sarebbe un principio, un avvenimento
fecondo di conseguenze, un’impresa per cui ci si può
entusiasmare
». Si avverte qui l’eco delle Tesi di Feuerbach, nelle quali
si dice che il filosofo vero, tutt’uno con la vita e con l’uomo,
deve essere di sangue gallo=germanico. Il cuore doveva essere
francese, la testa tedesca. La testa fa la riforma, ma il cuore la
rivoluzione. Soltanto dove c’è movimento, agitazione,
passione, sangue, sensi bilità, c’è anche lo spirito.
Soltanto l’esprit di Leibniz, il suo principio sanguigno,
materialistico=idealistico, ha strappato per la prima volta i
tedeschi dal loro pedantismo e dal loro scolasticismo.
Nella sua risposta del 19 marzo, Ruge si dichiarò
perfettamente d’accordo con questo «principio
gallo=germanico», ma la sistemazione commerciale della
faccenda si trascinò ancora per parecchi mesi.
4.9 Nozze ed esilio
Negli anni agitati delle sue prime lotte pubbliche, Marx ha dovuto
lottare anche con alcune difficoltà dome stiche. Di queste
non parlava volentieri e sempre soltanto se ve lo costringeva una
dura necessità; in netto contrasto con la misera sorte del
filisteo, che dimentica cielo e terra per le sue carabattole, a lui
era dato di sollevarsi anche al di sopra della più amara
miseria fino ai «grandi fatti dell’umanità». E la
vita gli ha offerto anche troppe occasioni di esercitarsi in questa
sua capacità.
Già nelle prime parole che si hanno di lui sulle sue «
miserie private», la sua concezione di queste cose si esprime
in modo molto significativo. Per scusarsi con Ruge del ritardo della
collaborazione promessa per gli Anecdota, egli scriveva il 9 luglio
1842, dopo aver elencato altri ostacoli: «Tutto il resto del
tempo è stato sempre interrotto e angustiato dalle più
spiacevoli controversie familiari. La mia famiglia mi ha creato
delle difficoltà che, nonostante la sua buona situazione, mi
hanno cacciato momentaneamente nella più deprimente
situazione. Non posso davvero annoiarLa col racconto di queste
miserie private; è una vera fortuna che le porcherie
pubbliche rendano impossibile a un uomo di carattere irritarsi
all’occasione per faccende private». E proprio questa
testimonianza di una inconsueta forza di carattere i filistei, con
la loro
«irritabilità per faccende private», hanno da
sempre rinfacciato a questo Marx «senza cuore».
D’altra parte non si conosce più esattamente che cosa fossero
queste «spiacevolissime controversie familiari»;
Marx ci tornò su soltanto un’altra volta, e tenendosi sempre
sulle generali, quando si trattò della fondazione dei
Deutsch-Französische Jahrbücher. Egli scriveva a Ruge che,
appena il progetto avesse preso forma concreta, si sarebbe recato a
Kreuznach, dove la madre della sua sposa viveva da quando le era
morto il marito, e là si sarebbe sposato, e vi sarebbe
restato poi qualche tempo dalla suocera, «dato che in ogni
caso, prima di accingerci all’opera, dovremmo aver finito certi
lavori... Posso assicurarLa, senza alcun romanticismo, che sono
innamorato da capo a piedi e con tutta serietà. Sono
fidanzato già da più di sette anni, e la mia fidanzata
ha affrontato per me le battaglie più dure, che sono state
quasi esiziali per la sua salute, in parte coi suoi parenti
pietisti=aristocratici, per i quali il ‘Signore che è nei
cieli’ e ‘il Signore che è a Berlino’ sono uguali oggetti di
culto, in parte con la mia stessa famiglia, nella «piale si
sono annidati alcuni preti e altri miei nemici. Perciò la mia
fidanzata ed io abbiamo combattuto per anni lotte inutili e
logoranti, più di certi altri, che sono tre volte più
vecchi e parlano continuamente della loro ‘esperienza di vita’
». Ma oltre queste parche allusioni, niente altro ci è
noto sulle lotte del periodo di fidanzamento.
Non senza fatica, ma relativamente presto, e anche senza che Marx li
locasse a Lipsia, l’uscita della nuova rivista fu assicurata.
Fröbel si decise ad assumersene l’edizione, dopo che Ruge,
che disponeva di un discreto patrimonio, si era dichiarato pronto a
entrare nel Literarisches Kontor come accomandatario con 6.000 talleri. Come stipendio di direttore per Marx furono stanziati
500 talleri. Con questa prospettiva egli sposò la sua Jenny
il 19 giugno 1843.
Restava ancora da stabilire il luogo dove i Deutsch-Franzosische
avrebbero dovuto uscire. La scelta on deggiava tra Bruxelles,
Parigi e Strasburgo. La città alsaziana avrebbe’‘corrisposto
al massimo ai desideri della giovane coppia Marx, ma alla fine la
decisione cadde su Parigi, dopo che Fròbel e Ruge si furono
personalmente recati là a Bruxelles. A Bruxelles, a dire il
vero, la stampa godeva di una maggiore libertà che a Parigi
con le sue cauzioni e le sue leggi di settembre, ma nella capitale
francese si era molto più a contatto con la vita tedesca che
in quella belga. A Parigi Marx poteva vivere con 3.000 franchi o
poco più, scriveva Ruge incoraggiandolo.
Secondo il suo progetto, Marx aveva trascorso i primi mesi del suo
matrimonio nella casa della suocera; a novembre egli si
trasferì con la moglie a Parigi. Come ultimo segno di vita in
patria si è conservata una lettera che egli mandò da
Kreuznac Feuerbach, il 23 ottobre 1843, per chiedergli un articolo,
e più precisamente uno studio su Schelling, per il primo
quaderno dei nuovi jahrbùcher: «Credo di poter quasi
concludere dalla sua prefazione alla seconda edizione dell’Essenza
del Cristianesimo che Lei avesse qualche cosa in petto su questa
vescica gonfiata. Vede, questo sarebbe uno stupendo debutto. Con
quanta abilità il signor Schelling ha saputo adescare i
francesi, prima il debole, eclettico Cousin, poi perfino il geniale
Leroux. Per Pierre Leroux e le persone come lui, Schelling passa
sempre come l’uomo che al posto dell’idealismo trascendentale ha
messo il realismo razionale, al posto del pensiero astratto il
pensiero in carne e ossa, al posto della filosofia degli
specialisti, la filosofia del mondo... Perciò Lei renderebbe
un grande servigio alla nostra iniziativa, ma anche più alla
verità, se ci procurasse subito per il primo quaderno una
monografia su Schelling. Lei è proprio l’uomo adatto per
questo, perché Lei è lo Schelling a rovescio. Lo
schietto pensiero giovanile di Schelling — noi dobbiamo credere a
quel che c’è di buono nei nostri avversari — questo pensiero
per la cui realizzazione egli non aveva tuttavia altro strumento che
l’immaginazione, altra energia che la vanità, altro incentivo
che l’oppio, altro organo che l’irritabilità di una
ricettività femminea, questo schietto pensiero giovanile di
Schelling che in lui è rimasto un fantastico sogno giovanile,
è divenuto in Lei verità, realtà, virile
serietà... Perciò io la ritengo l’avversario
necessario, naturale di Schelling, insomma, quegli a ciò
destinato dalle Loro Maestà la Natura e la Storia».
Con quanta amabilità è scritta questa lettera, e come
ne traspare luminosa la lieta speranza di una grossa battaglia!
Ma Feuerbach esitava. Egli aveva già lodato in un primo
momento, di fronte a Ruge, la nuova iniziativa, ma poi l’aveva
rifiutata; e nemmeno il richiamo al suo «principio
gallo=germanico» lo aveva fatto con vertire. I suoi scritti
avevano in prima linea contribuito ad accendere le ire dei potenti,
di modo che essi abbattevano col bastone della polizia quel che
ancora sopravviveva in Germania della libertà della
filosofia, e l’opposizione filosofica dovette fuggire all’estero, se
non voleva arrendersi vilmente.
Arrendersi non era cosa da Feuerbach, ma non era nemmeno da lui
slanciarsi arditamente nelle onde che si infrangevano intorno alla
morta terra tedesca. Il giorno in cui Feuerbach rispose alle ardenti
parole, con cui Marx lo sollecitava, con cordiale interessamento, ma
tuttavia con un rifiuto, fu il giorno più nero della sua
vita. Da quel momento egli si isolò anche spiritualmente.
Note
1 David Strauss (18081874), discepolo della filosofia Hegeliana,
sottopone i Vangeli ad una ricerca sto rica, seguendo il monito di
Hegel secondo cui la religione rivelata era in verità una
costruzione storica. Su questa base scrive “La vita di Gesù”,
che darà via ad un forte dibattito tra i giovani hegeliani e
in generale all’interno della filosofia tedesca.
2 Bruno Bauer (18091882). Professore di teologia, discepolo di
Hegel, fu uno dei principali esponenti della sinistra hegeliana. Fu
allontanato dall’insegnamento per i suoi scritti in cui aderisce
all’idea della storicità della figura di Gesù
3 Ludwig Feuerbach (18041872). Fu il primo esponente della
sinistra hegeliana a spingere le proprie concezioni oltre lo stesso
idealismo hegaliano. Feuerbach partiva dalla dialettica hegeliana
per sostenere che non poteva esistere sistema di pensiero definito e
immutato, arrivando ad affermare la necessità di tro vare
l’origine del pensiero umano all’interno della natura stessa. La
svolta materialista di Feuerbach tuttavia rimase incompleta, visto
che non individuò quale fosse la base materiale di formazione
della coscienza. Di conseguenza, l’idealismo negato a parole, faceva
il capolino di nuovo nelle sue tesi.