CAPITOLO 17
L’ultimo decennio
17.1 Marx nella sua casa
Alla fine del 1873, dopo gli ultimi sussulti dell’Internazionale,
Marx si ritirò nella sua stanza da lavoro, così come
aveva fatto nel 1853, dopo gli ultimi sussulti della Lega dei
Comunisti. Ma questa volta fu per tutto il resto della sua vita.
Il suo ultimo decennio è stato definito «una lenta
morte», ma con molta esagerazione. E’ vero che le lotte
sostenute dopo la caduta della Comune avevano inferto nuovi, duri
colpi alla sua salute: nell’autunno del 1873 egli soffrì
molto di emicrania e corse il grave rischio di un colpo apoplettico.
Questo stato di oppressione cronica al capo lo rese incapace di
lavorare e gli tolse la voglia di scrivere: a lungo andare
ciò avrebbe potuto avere brutte conseguenze. Ma Marx si
riprese sotto le cure del medico Gumpert di Manchester, amico suo e
di Engels, nel quale riponeva piena fiducia.
Nel 1874, per consiglio di Gumpert, si decise ad andare a Karlsbad,
e altrettanto fece i due anni seguenti; nel 1877, per cambiare,
scelse Neuenahr, dopo di che, nel 1878, i due attentati contro
l’imperatore tedesco e la caccia ai socialisti gli chiusero
l’accesso al continente. Tuttavia le cure, e soprattutto i tre
soggiorni a Karlsbad, gli avevano giovato «meravigliosamente» e lo avevano liberato quasi del tutto del suo mal di fegato.
Restavano ancora i dolori di stomaco e la tensione nervosa, che si
manifestava nel dolor di capo e soprattutto in un’ostinata insonnia.
Ma queste infermità più o meno scomparivano d’estate,
dopo un soggiorno in una stazione balneare o climatica, per
ricomparire più fastidiose dopo il principio dell’anno
successivo.
Un completo ristabilimento della sua salute sarebbe stato certamente
possibile soltanto se Marx si fosse concesso il riposo che avrebbe
ben potuto pretendere all’avvicinarsi dei sessantanni, dopo una vita
di lavoro e di sacrifici. Ma per lui non c era neppur da pensarci.
Per terminare il suo capolavoro scientifico, si gettò con
tutto l’ardore negli studi, il cui campo nel frattempo si era molto
allargato. «Per un uomo che esaminava ogni oggetto nella sua
origine storica e nelle sue condizioni prime», dice in
proposito Engels, «da ogni singola questione scaturiva naturalmente tutta una
serie di nuove questioni. Storia primitiva, agronomia, rapporti di
proprietà fondiaria russi e americani, geologia ecc. furono
presi in esame, per portare particolarmente la sezione sulla rendita
fondiaria del terzo volume a una completezza finora mai tentata.
Oltre a tutte le lingue germaniche e romanze, che leggeva con
facilità, imparò anche l’antico slavo, il russo e il
serbo». E questo non era che la metà del suo lavoro
quotidiano. Per quanto si fosse ritirato dall’agitazione politica,
Marx non sì occupava meno attivamente del movimento operaio
europeo e americano. Era in corrispondenza con quasi tutti i
dirigenti dei diversi paesi, che nelle occasioni importanti gli
chiedevano il suo personale consiglio: era sempre più il
consigliere più ricercato e sempre pronto del proletariato
combattivo.
Come Liebknecht aveva ritratto in maniera suggestiva Marx
cinquantenne, così Lafargue ha ritratto Marx
sessantenne. Egli afferma che il fisico di suo suocero doveva essere
di costituzione ben robusta, per essere adatto a un tenore di vita
inconsueto e a un lavoro intellettuale estenuante. «Infatti
era assai robusto, di statura superiore alla media, le spalle
larghe, il torace ben sviluppato, le membra ben proporzionate,
sebbene la spina dorsale fosse un po’ troppo lunga in confronto alla
gambe, come spesso si nota nella razza ebraica». E non
soltanto nella razza ebraica; il fisico di Goethe era costruito
nella stessa maniera: anche lui era uno di quei «giganti
seduti», come la voce popolare suole chiamare quelle figure
che, per la lunghezza relativa della loro spina dorsale, sedute
appaiono più alte di quello che sono.
Lafargue riteneva che se Marx in giovinezza avesse fatto molta
ginnastica sarebbe diventato un uomo straordinariamente forte.
Invece l’unico esercizio fisico che avesse fatto regolarmente era
quello di cam minare a piedi, oppure di salire sulle colline, senza
avvertire la benché minima stanchezza. Ma di solito
esercitava questa capacità solo nella sua stanza da lavoro
per ordinare le idee: dalla porta alla finestra il tappeto
presentava una striscia completamente logora, come il sentiero di
un prato.
Nonostante che andasse a riposare sempre a ora avanzata, al mattino
fra le otto e le nove era in piedi, beveva il suo caffè nero,
leggeva i giornali e andava nella sua stanza da lavoro che fino a
mezzanotte o più tardi non lasciava che per prendere i pasti
o, se dia sera il tempo lo permetteva, per fare una passeggiata fino
a Hampsteed Heath; durante il giorno dormiva un’ora o due sul suo
divano. Lavorare era diventata la sua passione a tal punto che
spesso dimenticava di mangiare. Il suo stomaco doveva pagare per il
suo straordinario lavorio cerebrale. Era un mangiatore molto debole,
e soffriva di disappetenza, che cercava di vincere facendo uso di
cibi molto salati, prosciutto, pesci affumicati, caviale e aringhe.
Debole mangiatore, non era però un forte bevitore, per quanto
non sia mai stato un apostolo della temperanza e, come figlio della
Renania, sapesse apprezzare un buon goccio. Invece era un fumatore
accanito e grande sciupone di fiammiferi: diceva che il Capitale non
gli avrebbe reso tanto quanto gli erano costati i sigari che aveva
fumato mentre lo scriveva. Poiché nei lunghi anni della
miseria aveva dovuto contentarsi di tabacco di qualità molto
dubbia, questa passione non giovò alla sua salute, e il
dottore dovette vietargli più volte di fumare.
Marx trovava ristoro e sollievo nella letteratura, che per tutta la
vita ha servito efficacemente a confortarlo. In questo campo aveva
le conoscenze più vaste, senza che mai ne facesse mostra: le
sue opere ne lasciano apparire poco, con la sola eccezione dello
scritto polemico contro Vogt, nel quale egli fece uso, per i propri
fini artistici, di numerose citazioni da tutte le letterature
europee. Come il suo capolavoro scientifico rispecchia tutta
un’epoca, così anche i suoi autori preferiti erano quei
grandi poeti mondiali delle cui creazioni si può dire la
stessa cosa: da Eschilo e Omero fino a Dante, Shakespeare, Cervantes
e Goethe. Come racconta Lafargue, ogni anno leggeva Eschilo nel
testo originale; restò sempre fedele ai suoi antichi greci e
avrebbe voluto cacciare dal tempio con la verga quelle meschine
anime di mercanti che avrebbero voluto togliere agli operai
l’interesse per la cultura antica.
Conosceva la letteratura tedesca ben addentro fin nel Medio Evo. Dei
moderni, accanto a Goethe, egli si sentiva vicino soprattutto a
Heine; di Schiller sembra si sia disgustato da giovane, al tempo in
cui il filisteo tedesco si entusiasmava per l’«idealismo» più o meno frainteso di questo poeta, nel che Marx
vedeva la miseria della grettezza sostituita dalla miseria
dell’enfasi. Dopo la sua definitiva partenza dalla Germania, Marx
non si curò più molto della letteratura tedesca; non
nomina mai neppure quei pochi che avrebbero meritato la sua
attenzione, come Hebbel o Schopenhauer; occasionalmente critica
aspramente il modo in cui Richard Wagner deformava la mitologia
tedesca.
Fra i francesi aveva in alta considerazione Diderot: definiva un
capolavoro unico Il nipote di Rameau. Questa predilezione si
estendeva alla letteratura francese dell’illuminismo del
diciottesimo secolo, di cui En gels dice una volta che in essa lo
spirito francese ha creato le sue cose più alte, per forma e
contenuto; che per il contenuto, tenendo conto dello stato della
scienza del tempo, essa occupa una posizione infinitamente elevata,
per la forma non è stata mai più uguagliata. A questa
predilezione corrispondeva l’avversione di Marx per i romantici
francesi; specialmente Chateaubriand non gli andò mai a
genio, con la sua falsa profondità, i suoi eccessi bizantini,
la sua variopinta civetteria sentimentale, e insomma il suo
intruglio inaudito di ipocrisia. Era molto entusiasta della Commedia
umana di Balzac, che riflette nello specchio della poesia una intera
epoca: dopo aver terminato la sua grande opera, voleva scrivere in
proposito, ma questo progetto, come molti altri, non è mai
stato tradotto in pratica.
Dopo che egli si fu stabilito a Londra, la letteratura inglese
passò in primo piano nei suoi interessi letterari, e qui
sopravanzava tutti gli altri la figura potente di Shakespeare, che
per tutta la famiglia era oggetto di un vero culto. Purtroppo Marx
non ha mai espresso il suo parere sulla posizione di Shakespeare
rispetto ai problemi centrali della sua epoca. A proposito di Byron
e di Shelley invece affermò che chi amava e capiva questi
poeti doveva considerare una fortuna che Byron fosse morto a
trentasei anni, perché se fosse vissuto più a lungo
sarebbe diventato un borghese reazionario, e al contrario
rammaricarsi che Shelley avesse perduto la vita a soli ventinove
anni: era stato profondamente rivoluzionario e avrebbe sempre
appartenuto all’avanguardia del socialismo. I romanzi inglesi del
diciottesimo secolo piacevano molto a Marx, specialmente Tom Jones
di Fielding, che a suo modo è anch’esso un’immagine di un
mondo e di un’epoca, ma anche in singoli romanzi di Walter Scott
riconosceva dei modelli nel loro genere.
Nei suoi giudizi letterari Marx era libero da ogni pregiudizio
politico, come dimostra già la sua predilezione per
Shakespeare e Walter Scott, ma non accettava neppure quella «
pura estetica» che spesso e volentieri va unita
all’indifferenza politica o anche al servilismo. Anche in questo era
appunto un uomo intero, uno spirito indipendente e originale, che
non si poteva misurare con metro comune; anche perché non era
affatto di palato difficile, e non disprezzava nemmeno di gustare
quei prodotti letterari di fronte ai quali gli estetici di scuola si
fanno tre volte il segno della croce. Marx era un gran lettore di
romanzi, come Darwin e Bismarck; aveva una speciale predilezione per
i racconti avventurosi e umoristici: dai suoi Balzac, Cervantes e
Fielding scendeva a Paul de Kock e a Dumas padre, che ha sulla
coscienza il Conte di Montecristo.
Marx soleva prender ristoro spirituale anche in un campo del tutto
diverso dalla letteratura: soprattutto in giorni di sofferenze
morali e di gravi dolori si rifugiava volentieri nella matematica,
che aveva su di lui un effetto distensivo. Non si può dire
con certezza, qui, se in questo campo abbia fatto delle scoperte
indipendenti, come sostengono Engels e Lafargue: i matematici che
hanno esaminato i manoscritti da lui lasciati sono di diverso
parere.
Con tutto ciò Marx non era un Wagner, che, segregato nel suo
museo, non vedesse mai il mondo neppur da lontano, né un
Faust, che avesse due anime in petto. «Lavorare per il mondo» era una delle sue frasi preferite: e chi era così
fortunato da potersi dedicare a fini scientifici, doveva anche
porre le sue conoscenze al servizio dell’umanità. In tal modo
Marx conservava fresco il sangue nelle vene e il vigore nelle
membra. Nell’ambiente familiare e fra gli amici era il compagno
più lieto e scherzoso, cui il riso cordiale prorompeva dal
largo petto, e chi cercava il «dottore del terrore rosso», come Marx era chiamato dai giorni della Comune, non si
trovava davanti un cupo fanatico o un orso trasognato, ma un uomo di
mondo che si trovava a suo agio in qualunque conversazione sensata.
Quella maniera di passare insensibilmente dall’esuberante tensione
dell’ira impetuosa al mare profondo ma tranquillo della
considerazione filosofica, che sembra spesso così
meravigliosa al lettore delle sue lettere, pare che avesse un
effetto non meno forte sui suoi ascoltatori. Scrive Hyndman dei suoi
colloqui con Marx: «Quando parlava con violenta collera della politica del
partito liberale, specialmente della sua politica ir landese, i
piccoli occhi infossati del vecchio guerriero s’infiammavano, le
sopracciglia folte si aggrottavano, il naso largo e forte e il volto
erano visibilmente agitati dalla passione, e lasciava prorompere un
torrente di violente accuse, che rivelavano insieme il fuoco del suo
temperamento e la sua meravigliosa capacità di padroneggiare
la nostra lingua. Era straordinario il contrasto fra il suo
atteggiamento quando era pro fondamente agitato dalla collera, e il
suo contegno quando passava ad esporre i suoi giudizi sui processi
economici del nostro tempo. Senza sforzo visibile passava dalla
parte del profeta e del violento accusatore alla parte del
tranquillo filosofo, e fin da principio sentii che sarebbero potuti
passare parecchi anni prima che io potessi cessare di stare di
fronte a lui come uno scolaro di fronte al maestro».
Marx continuò sempre ad astenersi dal frequentare la
cosiddetta società, nonostante che negli ambienti borghesi
fosse diventato molto più noto che ventanni prima; per
esempio era stato indicato a Hyndman da un membro conservatore del
parlamento. Ma nei primi anni dopo il 70 la sua stessa casa era
diventata centro di un movimento molto attivo, un altro «
rifugio dei giusti» per i profughi della Comune, che vi
trovavano sempre consiglio e aiuto. Tutta questa gente irrequieta
portò certamente con sé anche molti dispiaceri e
preoccupazioni; quando a poco a poco scomparve, nonostante tutta la
sua premura ospitale la signora Marx non poté reprimere un
sospiro: ne avevamo abbastanza.
Ma vi furono anche delle eccezioni. Nel 1872 Charles Longuet, che
aveva fatto parte del Consiglio della
Comune e che ne aveva diretto il giornale ufficiale sposò
Jenny Marx. Nella famiglia non entrò, né perso
nalmente né politicamente, nella stessa intimità di
Lafargue, ma era anche lui un tipo in gamba; una volta la signora
Marx scrisse di lui: «Si agita, grida e argomenta come prima,
ma devo dire a suo onore che ha fatto le sue lezioni al King’s
College regolarmente e con soddisfazione dei suoi superiori».
Il matrimonio felice fu turbato dalla morte precoce del primo
bambino, ma poi crebbe un «grasso, robusto e splendido
ragazzo» per la gioia di tutta la famiglia e, non da ultimo,
del nonno.
Anche i Lafargue erano fra i profughi della Comune, e abitavano
nelle vicinanze. Avevano avuto la sventura di perdere due figli in
giovane età; oppresso da questo colpo della sorte, Lafargue
aveva smesso di fare il medico, perché gli pareva di non
poterlo fare senza una certa dose di ciarlataneria. «E’ un
peccato che sia stato infedele al vecchio padre Esculapio»,
diceva la signora Marx; infatti con lo studio fotografico e
litografico le cose andavano avanti a stento, nonostante che
Lafargue, che vedeva sempre tutto color rosa, stesse «sulla
breccia con un lavoro veramente da negro» e avesse nella
moglie un’aiutante coraggiosa e instancabile. Ma era
diffìcile lottare contro la concorrenza del grande capitale.
In questo periodo anche la terza figlia trovò un pretendente
francese in Lissagaray, che più tardi scrisse la storia della
Comune, alle cui lotte aveva partecipato. Sembra che Eleanor Marx
fosse favorevolmente disposta verso di lui, ma il padre faceva
delle riserve sulla solidità di questo partito; dopo molte
esitazioni non se ne fece nulla.
Nella primavera del 1875 la famiglia cambiò ancora una volta
residenza, ma sempre nella stessa parte della città: si
trasferì al 41 Maitland Park, Haverstock Hill. Qui Marx visse
gli ultimi anni, e qui morì.
17.2 La socialdemocrazia
tedesca
Poiché fin dagli inizi si era sviluppata in una cornice
nazionale, la socialdemocrazia tedesca evitò la crisi che
tutti gli altri rami dell’Internazionale attraversarono nel
trasformarsi in partiti operai nazionali. Pochi mesi dopo il fiasco
del Congresso di Ginevra, il 10 gennaio 1874, essa riportò la
sua prima vittoria elettorale: furono ottenuti 350.000 voti e nove
mandati, di cui tre spettarono ai lassalliani e sei agli
eisenachiani.
Le cause che provocarono il tramonto della vecchia Internazionale
diventano definitivamente e completa mente chiare se si pensa che
Marx ed Engels, le menti che dirigevano il suo Consiglio Generale,
riuscivano soltanto con difficoltà a intendersi persino con
quel nascente partito operaio che per loro avrebbe dovuto essere il
più familiare per la sua origine, e il più vicino per
le sue posizioni teoriche. Anch’essi dovevano risentire della loro
posizione: l’osservatorio internazionale da cui guardavano le cose
impedì loro di com prendere sino in fondo la situazione
delle singole nazioni. Ammiratori entusiasti che essi hanno avuto
in Inghilterra e in Francia hanno pure convenuto che essi non hanno
mai penetrato fino in fondo la situa2Ìone inglese e francese.
Da quando avevano lasciato la loro patria, non avevano più
avuto uno stretto contatto con la situazione tedesca: neppure nelle
questioni strettamente di partito, perché il loro giudizio
era turbato dalla invincibile sfiducia per Lassalle e tutto
ciò che sapeva di Lassalle.
Ciò si vide in maniera assai indicativa quando si
riunì per la prima volta il nuovo Reichstag. Due dei sei
rappresentanti eisenachiani, Bebel e Liebknecht, erano ancora in
carcere; l’atteggiamento degli altri quattro, Geib, Most, Motteler e
Vahlteich, provocò una grande delusione fra i loro stessi
seguaci; nelle sue memorie Bebel riferisce che da molte parti aveva
ricevuto aspre lagnanze perché i quattro nell’attività
parlamentare erano rimasti indietro ai tre lassalliani, Hasenclever,
Hasselmann e Reimer. Engels giudicava le cose in modo del tutto
diverso: «i lassalliani — scriveva a Sorge — sono talmente
screditati dai loro rappresentanti al Reichstag, che il governo deve
mettere in atto delle persecuzioni contro di loro, per dare a questo
movimento l’apparenza di qualche cosa di serio. Del resto dopo le
elezioni i lassalliani si sono trovati nella necessità di
stare al seguito dei nostri. Una vera fortuna, che Hasselmann e
Hasenclever siano stati eletti al Reichstag. Si screditano a vista
d’occhio». Era impossibile fraintendere le cose più di
così.
I rappresentanti parlamentari delle due frazioni andavano
ottimamente d’accordo, e non si davano gran pensiero che gli uni o
gli altri facessero una prova migliore o peggiore sulla tribuna. Le
due frazioni avevano condotto la campagna elettorale in modo tale
che non si poteva muovere agli eisenachiani il rimprovero di
semisocialismo, né ai lassalliani quello di civettare col
governo; gli uni e gli altri avevano avuto un numero quasi uguale di voti; nel Reichstag gli uni e gli altri si trovavano
opposti agli stessi avversari con le stes se rivendicazioni, e dopo
il loro successo elettorale si trovavano esposti a una persecuzione
egualmente violenta da parte del governo. L’unica vera divergenza
che esisteva fra loro era sulla questione dell’orga nizzazione, ma
anche quest’ultimo ostacolo fu eliminato dallo zelo ambizioso del
procuratore Tessendorff, che da tribunali volenterosi ottenne dei
verdetti che distrussero tanto l’organizzazione più blanda
degli eisenachiani che quella più rigida dei lassalliani.
In tal modo l’unificazione delle due frazioni era avviata da
sé. Quando, nell’ottobre del 1874, Tòlke portò
l’offerta di pace dei lassalliani a Liebknecht, che frattanto era
stato rilasciato dal carcere, Liebknecht l’ac cettò subito,
forse un po’ arbitrariamente ma con una premura che non tornava meno
a suo merito anche se a Londra veniva presa molto male. Per Marx ed
Engels i lassalliani restavano sempre una setta in via di estinzione
che presto o tardi avrebbe dovuto arrendersi a discrezione. Trattare
con loro su un piede di piena parità sembrava a Marx ed
Engels uno sciocco errore contro gli interessi della classe operaia
tedesca, e quando, nella primavera del 1875, fu pubblicato il
progetto del programma comune, su cui i rappresentanti delle due
frazioni si erano accordati, essi furono presi da collera furiosa.
Il 5 maggio Marx mandò ai capi degli eisenachiani la
cosiddetta lettera del programma, dopo che Engels si era già
rivolto a Bebel con una protesta particolareggiata. Nella lettera
Marx trattava Lassalle in modo più che mai duro: diceva che
Lassalle sapeva a memoria il Manifesto comunista, ma lo aveva
falsato in modo grossolano per giustificare la sua alleanza con gli
avversari assolutisti e feudali contro h borghesia, affermando che
tutte le altre classi erano una massa reazionaria rispetto alla
classe operaia. Questa formula di «massa reazionari!»
non era stata affatto creata da Lassalle, ma da Schweitzer, dopo la
morte di Lassalle, e quando Schweitzer l’aveva coniata ne era stato
espressamente lodato da Engels. Lassalle aveva realmente preso dal
Manifesti quella che egli aveva battezzato «legge bronzea del
salario»: per essa dovette subire il rimprovero di essere
seguace della teoria malthusiana della popolazione, che egli aveva
rifiutato come la rifiutavano Marx ed Engels.
Ma a parte questa pagina assai spiacevole, le Glosse erano una
trattazione molto istruttiva sui princìpi fondamentali del
socialismo scientifico, e non lasciavano pietra su pietra del
programma di coalizione. Tut tavia l’importante lettera non ebbe
altro effetto, come noto, che quello di indurre i destinatari a fare
un paio di piccole e insignificanti correzioni al loro progetto. Un
paio di decenni dopo Liebknecht disse che i più, se non
tutti, erano stati d’accordo con Marx, e che in questo senso forse
si sarebbe potuta raggiungere la maggioranza al congresso
d’unificazione, ma una minoranza sarebbe rimasta scontenta,
ciò che doveva essere evitato, dal momento che si trattava
non di formulare dei princìpi scientifici, ma
dell’unificazione delle due frazioni.
Del fatto che le Glosse furono passate sotto silenzio si può
dare una spiegazione meno solenne, ma in compenso più
plausibile, osservando che esse andavano di là
dall’orizzonte spirituale degli eisenachiani, e più ancora di
là dall’orizzonte spirituale dei lassalliani. E’ vero che
pochi mesi prima Marx aveva deplorato che di quando in quando
sull’organo degli eisenachiani uscissero fantasie di filistei
semidotti: quella roba proveniva da maestri di scuola, dottori,
studenti, e perciò occorreva dare una lavata di capo a
Liebknecht. Tuttavia riteneva che l’orientamento realistico, che con
tanta fatica era stato dato al partito ma che ora aveva messo le sue
radici, sarebbe stato cancellato dalla setta dei lassalliani con le
sue corbellerie giuridiche e con altre bubbole familiari ai
democratici e ai socialisti francesi.
In questo Marx si sbagliava completamente. Nelle questioni teoriche
le due frazioni si trovavano all’inarca allo stesso livello, oppure,
se differenza vi era, i lassalliani in certo modo erano in
vantaggio. Fra gli eise nachiani il progetto del programma di
unificazione non suscitò obiezioni, mentre invece un
congresso degli operai della Germania occidentale, a cui
parteciparono quasi esclusivamente delegati lassalliani, lo sotto
pose a una critica che molti punti di contatto aveva con la critica
fatta alcune settimane dopo da Marx. Su questo fatto tuttavia non
bisogna insistere: tanto luna che l’altra parte erano ancora lontane
dal socialismo scientifico, così come era stato fondato da
Marx ed Engels; non avevano alcuna idea del metodo del ma
terialismo storico, e anche il segreto del modo di produzione
capitalistico restò precluso per loro. Ne dà la prova
più evidente il modo con cui C. A. Schramm, che allora era il
teorico più rinomato degli eisenachiani, non si raccapezzava
nella teoria del valore.
In pratica l’unificazione fu raggiunta, ed anche Marx ed Engels non
ebbero niente da dire in contrario, a
parte il fatto che essi ritenevano che gli eisenachiani si fossero
lasciati gabbare dai lassalliani. Anche Marx però nella
Critica del programma di Gotha aveva detto: «Ogni passo di
movimento reale è più importante di una dozzina di
programmi». Ma poiché nel nuovo partito unificato la
mancanza di chiarezza teorica aumentava più che non
diminuisse, in questo fatto essi vedevano un effetto dell’innaturale
fusione, e la loro insoddisfazione assunse forme piuttosto rudi che
indulgenti.
Ma essi avrebbero dovuto notare con sorpresa che quel che li faceva
indignare proveniva assai più dagli ex eisenachiani che dagli
ex lassalliani, dei quali Engels all’occasione disse che ben presto
sarebbero stati le menti più chiare, perché nel loro
giornale (che esisteva ancora un anno dopo l’unificazione)
accoglievano meno scemenze di tutti gli altri. Diceva anche che la
maledizione degli agitatori pagati, degli individui dall’istruzione
fatta a metà colpiva gravemente anche il loro partito. Lo
irritava soprattutto Most, che «è riuscito a fare
degli estratti di tutto il Capitale e malgrado ciò a non
capirne niente» e che si dava un gran da fare in favore del
socialismo di Dühring. Il 24 maggio 1876 Engels scriveva a Marx:
«E’ chiaro: nell’idea di quella gente Dühring, con i
volgarissimi suoi attacchi contro di te, si è reso
inviolabile nei nostri confronti, giacché, se noi attiriamo
le risa sulle sue scemenze teoriche, si tratterebbe di vendetta per
quelle cose personali!». Ma anche Liebknecht aveva il fatto
suo: «E’ la manìa di W. [Liebknecht], di colmare le
lacune della nostra teoria, di avere una risposta a ogni obiezione
de filistei, e di avere pronto un quadro della società
futura, giacché su questo lo interpella anche il filisteo, e
inoltre di essere anche nel campo teorico il più possibile
indipendente da noi, il che gli è sempre riuscito molto
meglio di quel che lui stesso sappia, data la sua totale mancanza di
ogni teoria». Tutto ciò non aveva niente a che fare
con Lassalle e le sue tradizioni.
Fu il rapido aumento dei suoi successi pratici e rendere il nuovo
partito indifferente verso la teoria, e anche così si
è ietto troppo. Esso non disprezzava la teoria come tale, ma
ciò che esso, nella foga della sua marcia in avanti,
considerava pedanteria teorica. Attorno al suo astro in ascesa si
raccoglievano inventori incompresi, avversari della vaccinazione,
naturisti e simili teste bizzarre, che speravamo di trovare nelle
classi lavoratrici, nel loro movimento così potente, quel
riconoscimento che altrove era loro negato. Solo che uno portasse la
sua buona volontà o un qualche rimedio per il corpo malato
della società, era il benvenuto, e per giunta dagli ambienti
accademici affluivano coloro che promettevano di suggellare
l’alleanza fra il proletariato e la scienza. Un professore
universitario che era o sembrava amico del socialismo, in qualsiasi
sfumatura di questa parola dai molti significati, non aveva da
temere una critica troppo severa delle sue doti intellettuali.
Da questa critica più di tutti era immune Dühring,
perché in lui molte qualità, personali e obiettive,
dovevano attrarre gli elementi intellettualmente vivaci della
socialdemocrazia berlinese. Aveva indubbiamente grandi doti e
capacità, e non poteva non essere simpatico agli operai per
il modo in cui, povero e del tutto cieco in età non ancora
avanzata, seppe restare nella posizione di Privatdozent senza fare
alcuna concessione alle classi dominanti, professando anche dalla
cattedra il suo radicalismo politico, celebrando senza paura Marat,
Babeuf e gli uomini della Comune. Gli aspetti negativi della sua
personalità, la presunzione con cui pretendeva di dominare da
sovrano una mezza dozzina di campi della scienza, nessuno dei quali
gli era realmente familiare se non altro per la sua minorazione
fisica, e la manìa di grandezza sempre crescente, con cui
liquidava i suoi predecessori, nel campo filosofico Fichte e anche
Hegel, nel campo economico Marx e Lassalle, restavano in secondo
piano o erano da scusare come deviazioni comprensibili per
l’isolamento spirituale e per le dure lotte da lui sostenute per la
vita.
Marx non aveva affatto notato gli attacchi «volgarissimi» di Dühring, e per il loro contenuto essi non erano neppure
tali da poterlo provocare. Anche il nascente entusiasmo per Dühring
dei compagni di partito berlinesi lo lasciò indifferente per
molto tempo, nonostante che con la sua presunzione di essere
infallibile e col suo sistema di «verità di ultima
istanza» Dühring avesse tutte le tendenze del perfetto
fondatore di setta. Anche quando Liebknecht, che in questo caso
stava alle vedette, li mise sull’avviso, inviando loro delle lettere
contro il pericolo dell’involgarimento della propaganda nel partito,
Marx ed Engels rifiutarono di fare una critica a Dühring, come
«lavoro troppo inferiore», e solo una lettera
provocatoria, che Most inviò a Engels nel maggio del 1876,
sembra sia stata la goccia che fece traboccare il vaso.
Da allora Engels si occupò a fondo di quel che Dühring
chiamava le sue «verità creatrici di un sistema», e pubblicò la sua critica in una serie di articoli
che, a partire dal principio del 1877, cominciarono a uscire sul
Vorwàrts, che allora era l’organo centrale del partito
unificato. Essi finirono col diventare il documento più importante e più efficace (se si eccettua il Capitale) del
socialismo scientifico, ma l’accoglienza che riservò loro il
partito dimostrò che un ritardo sarebbe stato pericoloso.
Poco mancò che il congresso annuale del partito, che ’si
tenne a Gotha nel maggio 1877, sottoponesse Engels a un processo da
Inquisizione, come accadeva contemporaneamente a Dühring per opera
della fazione ufficiale dell’università. Most propose che gli
articoli contro Dühring fossero banditi dall’organo centrale,
poiché essi «erano del tutto privi di interesse o
persino estremamente offensivi per la stragrande maggioranza dei
lettori del Vorwàrts», e Valhlteich, che per il resto
era nemico acerrimo di Most, gli tenne dietro affermando che il tono
usato da Engels avrebbe portato a un pervertimento del gusto e
avrebbe fatto diventare intollerabile il nutrimento spirituale del
Vorwàrts. Per fortuna la peggior vergogna fu evitata
mediante l’approvazione della proposta conciliativa di far
continuare quella polemica scientifica, per motivi di agitazione
pratica, non più sul giornale principale, ma su un
supplemento scientifico del Vonvàrts.
Nello stesso tempo questo congresso decise di pubblicare, a partire
dall’ottobre di quell’anno, un quindicina le per iniziativa e con
l’appoggio finanziario di Karl Hòchberg, uno di quegli adepti
borghesi del socialismo che a quel tempo erano tanto numerosi in
Germania. Era figlio di un ricevitore del lotto di Francoforte, ed
era un uomo ancor giovane ma assai facoltoso, pronto a sacrificarsi
e disinteressato; tutti quelli che l’hanno conosciuto danno ottime
testimonianze delle sue qualità personali. Con meno favore va
giudicata la sua personalità politico-letteraria, quale
è rispecchiata nelle sue pubblicazioni: qui Hòchberg
appare uno spiri to incolore e arido, cui erano sconosciute la
storia e la teoria del socialismo, e completamente estranee le
teorie scientifiche che Marc ed Engels avevano elaborato. Non
vedeva nella lotta di classe del proletariato la leva per
l’emancipazione della classe operaia, ma voleva conquistare alla
causa degli operai, attraverso un’evoluzione pacifica e legale, le
classi possidenti e in particolare i loro elementi colti.
Marx ed Engels però non sapevano di lui nient’altro, se non
che rifiutavano di collaborare alla Zukunft (così fu
battezzati la nuova rivista); del resto erano stati invitati a
collaborare, come anche molti altri, per mezzo di una semplice
circolare anonima. Engels affermò che le risoluzioni di un
congresso, per quanto potessero essere rispettabili sul piano
dell’agitazione pratica, non valevano nulla dal punto di vista
scientifico e non bastavano per dare a una rivista un carattere
scientifico, che non poteva essere oggetto di decreti; che una
rivista socialista scientifica senza una tendenza scientifica ben
determinata era una cosa assurda, e nella grande differenza o
incertezza di tendenze che a quel tempo imperversava in Germania
mancava ogni garanzia che si adattasse loro la tendenza da
prendersi.
Il primo numero della Zukunft dimostrò subito quanto fossero
giuste le loro riserve. L’articolo introduttivo di Hòchberg
era, per così dire, un decotto di tutto ciò che essi
avevano combattuto, come mortificante e debili tante, nel
socialismo degli anni fra il ’40 e il ’50. Così fu
risparmiata loro ogni penosa spiegazione. Quando un compagno di
partito chiese se essi serbassero rancore a causa della discussione
del Congresso di Go tha, Marx rispose: «Non ho rancore, come
dice Heine, e neppure Engels. Noi non diamo un centesimo per la
popolarità. Prova ne sia, per esempio, il fatto che al tempo
dell’Internazionale, in contrasto con ogni culto personale, non
lasciai mai trapelare in pubblico numerose manovre tendenti a
tributarmi dei riconoscimenti, con cui da diversi paesi ero
molestato, né mai vi ho risposto se non, di quando in quando,
con dei rimproveri». E aggiungeva ancora: «Ma dei fatti come quelli
successi all’ultimo congresso del partito (essi vengono
adeguatamente sfruttati all’estero dai nemici del partito) ci hanno
in ogni caso insegnato la prudenza verso i compagni di partito della
Germania». Ma ciò era detto senza cattive intenzioni,
perché Engels continuò tranquillamente a pubblicare i
suoi articoli contro Dühring sul supplemento scientifico del
Vorwàrts.
Ma per le questioni pratiche Marx era seriamente colpito dallo
«spirito putrido» che predominava non tanto tra le
masse quanto fra i capi. Il 19 settembre scrisse a Sorge: «Il
compromesso coi lassalliani ha portato al compromesso con altre
mediocrità, a Berlino (pel tramite di Most) con Dühring e coi
suoi ammiratori e inoltre con tutta una banda di studenti immaturi e
di sapientissimi dottori, che vogliono dare al socialismo un
indirizzo ‘ideale superiore’, cioè vogliono sostituire alla
base materialistica (che, se si vuole operare su di essa, esige un
serio studio oggettivo) una mitologia moderna con le sue idee di
giustizia, libertà, eguaglianza e fraternità. Uno dei
rappresentanti di questa tendenza è il signor dottor
Hòchberg, che pubblica la rivista Zukunft e si è
‘comprato’ un posto nel partito con le ‘più nobili
intenzioni, suppongo, ma io me ne infischio delle intenzioni . Di
rado è apparso alla luce del sole con ‘più modesta
presunzione’ qualcosa di più miserabile del suo programma per
la rivista Zukunft».
In verità Marx ed Engels avrebbero dovuto rinnegare tutto il
loro passato, se si fossero conciliati con questa «tendenza».
17.3 Anarchismo e guerra
d’Oriente
Al Congresso di Gotha fu deciso anche di inviare delegati al
congresso socialista mondiale, che doveva aver luogo a Gand. Come
rappresentante del partito tedesco fu eletto Liebknecht.
L’iniziativa di questo congresso era stata presa dai belgi, nei
quali frattanto era sorta ripugnanza per le teorie anarchiche e che
desideravano che tornassero a riunirsi le due tendenze che si erano
scisse al Congresso dell’Aia. La corrente bakuninista, come nel
1873 a Ginevra, aveva tenuto i suoi congressi a Bruxelles nel 1874 e
a Berna nel 1876, ma con forze sempre decrescenti; essa era in
declino di fronte alle necessità pratiche della lotta di
emancipazione del proletariato, dalle quali essa era sorta.
Proprio alla fonte di queste complicazioni, nella contesa ginevrina
fra la fabrique e i gros métiers, si rivelava no i reali
antagonismi. Qui un ceto operaio ben pagato, con diritti politici
che gli consentivano di partecipare alla lotta parlamentare, ma che
lo attiravano anche in ogni sorta di discutibili alleanze con
partiti borghesi; là uno strato operaio mal pagato, privo di
diritti politici, che poteva contare soltanto sulla sua nuda for
za. Si trattava di questi antagonismi pratici e non, come suole
raccontare la tradizione leggendaria, di un antagonismo teorico: qui
la ragione, là mancanza di ragione!
Le cose non erano così semplici, e non lo sono neppure oggi,
come indica il sempre nuovo risorgere del l’anarchismo, ogni volta
che è stato dato per morto e sepolto. Non significa davvero
professarlo, se ci si guarda dal disconoscerne il significato;
proprio come non significa rifiutare il dovuto riconoscimento
all’atti vità politico-parlamentare se non si disconosce che
essa, con la sue riforme, certo accertabili, può portare il
movimento operaio a un punto morto, dove cessa il suo respiro
rivoluzionario. Non era un caso che Bakunin contasse un certo
numero di seguaci che si sono acquistati grandi meriti nella lotta
di emancipa zione del proletariato. Liebknecht non apparteneva
certo al numero degli amici di Bakunin, ma al tempo del Congresso di
Basilea si pronunciò per l’astensione politica almeno con lo
stesso fervore di Bakunin. Altri invece erano i più fervidi
bakuninisti al tempo del Congresso di Basilea e anche per molto
tempo dopo, come Jules Guesde in Francia, Carlo Cafiero in Italia,
Cesar de Paepe, Pavel Axelrod in Russia; se essi poi diventarono
altrettanto fervidi marxisti, ciò accadde, come taluno di
loro ha espressamente affermato, non perché essi si siano
sbarazzati delle loro precedenti convinzioni, ma solo perché
erano legati a ciò che Bakunin aveva in comune con Marx.
Gli uni e gli altri volevano un movimento proletario di massa, e vi
era fra loro contrasto solo a proposito della strada maestra che
tale movimento doveva prendere. Ma i congressi dell’Internazionale
bakuninista indicarono che la strada degli anarchici era
impraticabile.
Porterebbe troppo lontano, in questa sede, seguire la rapida
decadenza dell’anarchismo nel corso di cia scuno dei suoi
congressi. Il lavoro distruttivo si svolse con successo e
radicalmente: fu abolito il Consiglio Generale e il contributo
annuale, fu vietato ai congressi di votare su questioni di
principio, e fu respinto a fatica il nuovo tentativo di escludere
dall’Internazionale i lavoratori della mente. Ma nel lavoro
costruttivo, nel progetto di un nuovo programma e di una nuova
tattica, vi fu assai più confusione. Al Congresso di Ginevra
si era discusso soprattutto sulla questione dello sciopero generale
come mezzo unico e infallibile della rivoluzione sociale, ma non si
era giunti a nessun accordo; ancor più lontani dall’accordo
si restò, al successivo Congresso di Bruxelles;, sulla
questione dei servizi pubblici, principale oggetto delle discus
sione, su cui de Paepe tenne una relazione tale che gli
attirò il rimprovero», non ingiustificato, di avere
abbandonato del tutto il terreno dell’anarchismo. E’ evidente quanto
fosse necessaria questa deviazione di de Paepe, se proprio su
quella questione si voleva dire qualche cosa di concreto. Dopo
vivaci discus sioni anch’essa fu rimandata al congresso successivo,
ma neppure allora fu risolta. Gli italiani dichiararono addirittura
che «l’era dei congressi era chiusa», e chiesero
«la propaganda dell’azione»; in due anni essi
organizzarono sessanta piccoli moti rivoluzionari, approfittando
della fame che infieriva tra la popolazione, ma alla loro causa
ciò non giovò niente.
Ancor più che per la disperata confusione delle sue posizioni
teoriche, l’anarchismo finì per irrigidirsi in setta per il
suo atteggiamento negativo di fronte a tutte le questioni pratiche
che toccavano gli interessi
immediati del proletariato moderno. Quando in Svizzera si
sviluppò un movimento di massa per la gior nata legale di
dieci ore, gli anarchici rifiutarono di prendervi parte;
altrettanto fecero quando i socialisti fiamminghi intrapresero una
campagna con una petizione intesa a ottenere la proibizione legale
del lavoro dei fanciulli nelle fabbriche. Naturalmente essi
respinsero anche ogni lotta per il suffragio universale o per
metterlo in pratica dove esisteva. Di fronte a questa politica
sterile e senza prospettive, i successi della socialdemocrazia
tedesca brillavano di luce tanto maggiore, e dappertutto
provocavano l’allontanamento delle masse dalla propaganda
anarchica.
La convocazione di un congresso socialista mondiale a Gand, decisa
dal congresso anarchico di Berna del 1876 per l’anno seguente, era
già un risultato del riconoscimento che l’anarchismo non era
riuscito a guadagnare a sé le masse. Il Congresso tenne le
sue sedute a Gand dal 9 al 15 settembre. Erano presenti 42 delegati;
gli anarchici non disponevano più che di un solido nucleo di
11 membri, sotto la guida di Guillaume e Kropotkin; molti dei loro
aderenti di prima, fra cui la maggioranza dei delegati belgi e
l’inglese Hales, passarono all’ala socialista, che era capeggiata
da Liebknecht, Greulich e Frankel. Fra Liebknecht e Guillaume si
arrivò a un violento scontro, quando questo ultimo
accusò la socialdemocrazia tedesca di aver messo da parte il
suo programma delle elezioni per il Reichstag. Ma in generale le
discussioni si svolsero in maniera del tutto pacifica: gli
anarchici avevano perso il gusto delle parole grosse e tenevano i
loro discorsi in tono minore, pacato, ciò che rese possibile
un contegno conciliante ai loro avversari. Ma non si giunse al
progettato «patto di solidarietà»: su questo
le opinioni erano troppo discordi.
Marx non si era aspettato nient’altro; la sua attenzione era tutta
tesa verso un altro punto dell’orizzonte, dal quale si aspettava una
tempesta rivoluzionaria. Di due lettere in cui cava dei consigli a
Liebknecht, la pri ma, del 4 febbraio 1878, cominciava: «Noi
parteggiamo decisamente per la Turchia per due ragioni: primo,
perché abbiamo studiato il contadino turco (quindi la massa
del popolo turco) e abbiamo incondizionata mente riconosciuto in
lui uno dei rappresentanti più capaci e più morali
della classe contadina europea; secondo, perché la disfatta
dei russi accelererebbe la rivoluzione sociale in Russia, di cui
numerosi ele menti esistono già, e quindi accelererebbe la
rivoluzione in tutta Europa». Tre mesi prima Marx aveva
già scritto a Sorge: «Questa crisi è un nuovo
momento di svolta della storia europea. La Russia — e io ne ho
studiato la situazione su fonti originali russe, non ufficiali e
ufficiali (queste ultime, accessibili soltanto a poche persone, mi
sono state procurate da amici di Pietroburgo) — si trovava
già da lungo tempo alla vigilia di una rivoluzione: tutti gli
elementi erano pronti. I bravi turchi hanno accelerato di anni
l’esplosione, con le legnate che hanno assestato non soltanto
all’esercito russo e alle finanze russe, ma anche, in via del tutto
personale, alla dinastia che comanda l’esercito (zar, successore al
trono e altri sei Romanoff). Le sciocchezze che fanno gli studenti
russi sono solo un sintomo, di per sé privo di valore. Ma
sono un sintomo. Tutti gli strati della società russa sono
economicamente, moralmente, intellettualmente in piena
decomposizione». Queste osservazioni si sono dimostrate
perfettamente giuste ma, come gli è spesso accaduto nella sua
impazienza rivoluzionaria, pur vedendo chiaramente la strada che
prendevano le cose, Marx sottovalutava la lunghezza della strada
stessa.
Le sconfitte iniziali dei russi si trasformarono in successi;
ciò avvenne, come riteneva Marx, per il segreto appoggio di
Bismarck, per il tradimento dell’Inghilterra e dell’Austria e, non
da ultimo, per colpa degli stessi turchi, che avevano trascurato di
rovesciare, con una rivoluzione a Costantinopoli, il vecchio
governo del saltano, che era stato la miglior truppa di difesa dello
zar. Un popolo che in simili momenti di estrema crisi non sa
intervenire con un’azione rivoluzionaria, è perduto.
Così la guerra russo-turca finì non con una
rivoluzione europea, ma con un congresso diplomatico, nello stesso
luogo e nello stesso tempo in cui la socialdemocrazia tedesca
sembrò esser distrutta da un terribile colpo.
17.4 Luci dell’alba
Nonostante tutto una nuova aurora stava spuntando sull’orizzonte
mondiale. La legge contro i socialisti con cui Bismarck pensava di
distruggere la socialdemocrazia tedesca, servì solo ad aprire
il suo periodo eroico, e così sgombrò anche il
terreno da tutti gli errori e i malintesi che esistevano fra di
essa e i due vecchi di Londra.
Ma ciò avvenne soltanto dopo una lotta mortale. Il partito
tedesco aveva superato con onore, nell’estate del 1878, la caccia
ai socialisti e le elezioni che seguirono i due attentati. Ma nel
prepararsi al colpo che lo minacciava esso non aveva valutato a
sufficienza con quale somma di odio accanito avrebbe avuto a che
fare. La legge era appena entrata in vigore che furono completamente
dimenticate tutte le promesse della sua «leale applicazione» con cui i rappresentanti del governo avevano messo a tacere
gli scrupoli del Reichstag, e tutta la struttura del partito fu
colpita così spietatamente che centinaia di persone furono
messe in mezzo a una strada. Subito dopo poche settimane, in
evidente contraddizione col tenore della legge, fu proclamato il
cosiddetto piccolo stato d’assedio a Berlino e dintorni, e circa
sessanta padri di famiglia ricevettero subito l’ordine di
espulsione, che costò loro non solo il pane, ma anche la
casa.
Ciò era sufficiente a far nascere una comprensibile e
inevitabile confusione. Se dopo la caduta della Comune di Parigi il
Consiglio Generale dell’Internazionale aveva già lamentato
che il provvedere ai profughi della Comune gli aveva impedito per
mesi di sbrigare i suoi lavori ordinari, ora la direzione del
partito tedesco doveva risolvere un compito molto più
difficile, ostacolata com’era ad ogni pie sospinto dalla polizia e
in mezzo a una terribile crisi economica. Non può essere
neppur contestato che la tempesta sceverò il grano dal
loglio, che gli elementi borghesi, che negli ultimi anni erano
affluiti verso il partito, si dimostrarono spesso infidi, che molti
capi non dettero buona prova di sé, che altri, anche uomini
capaci, si sentirono mancare il coraggio sotto i colpi della
reazione, ed ebbero paura che un’energica resistenza non avrebbe
fatto che irritare maggiormente i nemici.
Da tutti questi fatti Marx ed Engels si sentivano ben poco edificati
anche se sottovalutavano le difficoltà che bisognava
superare. Ma essi potevano muovere critiche giustificate anche
all’atteggiamento della frazione socialdemocratica del Reichstag,
che in seguito alle elezioni tenute dopo l’attentato era risultata
di nove membri. Nella discussione di una nuova tariffa doganale, uno
di costoro, Max Kayser, ritenne op portuno parlare in favore di un
aumento dei dazi sul ferro, ciò che dovette fare
un’impressione penosa. Infatti tutti sapevano che la nuova tariffa
doganale aveva il compito di procurare due milioni annuali in
più alle casse del Reich, di proteggere le rendite della
grande proprietà fondiaria contro la concorrenza americana e
permettere alla grande industria di sanare le ferite che essa si
era inferta da sé negli anni del Grundertaumel[i]1, e che la
legge contro i socialisti era stata promulgata fra l’altro per
infrangere la resistenza delle masse contro l’impoverimento che le
minacciava.
Quando Bebel cercò di giustificare il voto di Kayser con i
suoi accurati studi sulla questione dei dazi sul ferro, Engels gli
rispose breve e conciso: «Se i suoi studi valessero un
soldo, dorrebbero insegnargli che in Germania esistono due ferriere,
Dortmunder Union e quelle di Kònigshùtte e Laurahutte,
ciascuna delle quali è in grado di coprire l’intero
fabbisogno del paese, e inoltre le molte piccole, e che dunque il
dazio protettivo è pura assurdità, e solo la conquista
del mercato estero può aiutare, quindi libero commercio
assoluto, oppure bancarotta. Che gli stessi produttori di ferro
possono desiderare il dazio protettivo sol tanto nel caso che
abbiano formato un’unione, un complotto, per imporre al mercato
interno prezzi di monopolio, e per disfarsi invece all’estero, a
prezzi bassissimi, dei prodotti eccedenti, come già fanno in
questo momento in misura considerevole. Kayser ha parlato
nell’interesse di questa unione, di questo complotto di monopolisti,
e votando per i dazi sul ferro ha votato nel loro interesse».
Quando anche Karl Hirsch, sulla Laterne, criticò piuttosto
ruvidamente la tattica di Kayser, i membri della frazione
parlamentare ebbero l’idea infelice di far la parte degli offesi,
perché Kayser aveva parlato con la loro approvazione.
Così essi persero completamente il favore di Marx ed Engels;
Marx disse: «Sono già tanto infetti da cretinismo
parlamentare che credono di stare al di sopra delle critiche, e
condannano la critica come delitto di lesa maestà».
Karl Hirsch era un giovane scrittore che si era guadagnato i galloni
come vicedirettore del Volksstaat durante gli anni della detenzione
di Liebknecht, e in seguito aveva vissuto a Parigi, ma poi ne era
stato espulso dopo la promulgazione della legge eccezionale tedesca.
Allora aveva fatto quello che la direzione del partito tedesco
avrebbe dovuto fare fin da principio: a partire dalla metà di
dicembre del 1878 pubblicò a Breda, in Belgio, la Laterne, un
piccolo foglio settimanale del formato e dello stile della Laterne
di Rochefort, così che potesse essere spedito in Germania in
una semplice busta da lettera, per diventare qui un punto di
raccolta e di appoggio per il movimento socialdemocratico.
L’intenzione era buona, e Hirsch in linea di massima era una testa
assolutamente chiara, ma la forma da lui scelta, epigrammi brevi,
formulati con spirito, conveniva poco alle esigenze di un giornale operaio. Per questa ragione era
più felice la Freiheit. un settimanale che poche settimane
dopo Most cominciò a pubblicare a Londra con l’aiuto
dell’Associazione comunista operaia di cultura; solo che dopo inizi
passabilmente ragionevoli si perdette in un vano rivoluzionarismo.
Per la direzione del partito tedesco la comparsa di questi due
giornali, nati in un certo senso spontanea mente e
indipendentemente da essa, rese scottante la questione di un organo
di stampa all’estero. Bebel e Liebknecht vi insistettero con tutta
la loro energia, e riuscì loro anche di superare la
resistenza ancora molto tenace di gruppi influenti del partito che
volevano restar fermi sulla tattica del prudente riserbo. Con Most
non era più possibile alcun accordo, ma Hirsch sospese la
Laterne e si disse disposto ad assumere la direzione del nuovo
organo; anche Marx ed Engels, che in Hirsch riponevano piena
fiducia, erano di sposti a collaborare. Il nuovo foglio doveva
uscire settimanalmente a Zurigo, e dei suoi preparativi furono
incaricati tre compagni di partito che vivevano a Zurigo:
l’impiegato delle assicurazioni Schramm, che era stato espulso da
Berlino, Karl Hòchberg e Eduard Bernstein, che
Hòchberg aveva chiamato come direttore letterario.
Ma evidentemente non si dettero gran premura per l’incarico che era
stato loro assegnato, e il motivo del loro ritardo fu chiaro quando,
nel luglio del 1879, vennero fuori con certi loro ]ahrbucher fur
Sozialwissenschaft und Soziapolitik che dovevano uscire due volte
l’anno. Lo spirito con cui erano diretti si rivelava soprattutto in
un articolo che gettava Sguardi retrospettivi sul movimento
socialista e che era siglato con tre stelle. Ma i veri autori erano
Hòchberg e Schramm; Bernstein vi aveva contribuito con poche
righe.
Il contenuto dell’articolo era una tirata grossolana, priva di gusto
e di tatto, sopra le colpe del partito, sulla sua mancanza di
«buone maniere», sulla sua mania di insultare, sul suo
civettare con le masse e il suo disprezzo per le classi colte, e su
tutto ciò che nei movimenti proletari ha sempre mosso a
sdegno la vigliaccheria del filisteo. L’ultima conclusione della sua
sapienza pratica era che si doveva approfittare dell’ozio forzato,
in conseguenza della legge contro: socialisti, per la penitenza e
il riposo. Marx ed Engels furono indignati di questo pasticcio; in
una circolare privata diretta ai dirigenti del partito chiesero che
se si voleva sopportare nel partito, per motivi pratici, della gente
con simili opinioni, per lo meno non la si lasciasse parlare da una
posizione eminente. Questo diritto del resto non era staro neppure
accordato a Hòchberg, ma egli se l’era preso semplicemente
da sé, e pare che abbia agito di proprio arbitrio anche
quando chiese per i «tre astri»[ii]2 di Zurigo il
diritto di controllo sulla redazione di Hirsch, e non tollerò
per il giornale una direzione sullo stile di quella della Laterne.
In conseguenza di ciò Hirsch e i due vecchi di Londra
ritirarono l’impegno a collaborare.
Di tutto ciò che allora fu scritto in proposito non sono
rimasti che frammenti. Ne risulta però che Bebel e Liebknecht
non erano affatto d’accordo con le pretese dei «tre astri», ma non si vede bene perché non siano intervenuti a
tempo. Lo stesso Hòchberg era andato a Londra, dove
però si incontrò soltanto con En gels, che
riportò una pessima impressione delle sue opinioni confuse,
per quanto lui o Marx potessero non dubitare delle sue buone
intenzioni. Anche la reciproca irritazione era poco adatta a
favorire un’opportuna comprensione; il 19 settembre Marx scrisse a
Sorge che se il nuovo settimanale fosse stato diretto con lo stile
di Hòchberg, essi sarebbero stati costretti a intervenire
pubblicamente contro un simile «scempio» del partito
e della teoria. «I signori sono avvertiti, e ci conoscono
abbastanza per sapere che ciò vuol dire: o piegarsi o
spezzarsi! Se si vogliono compromettere, tanto peggio! In nessun
caso sarà permesso a loro di compromettere noi».
Per fortuna non si arrivò agli estremi. Vollmar assunse la
direzione del Sozialdemokrat di Zurigo, e la tenne in maniera
abbastanza «miserabile», come dissero Marx ed Engels,
ma non tale da dar loro motivo di protestare pubblicamente. Vi
furono soltanto «continue controversie epistolari con quelli
di Lipsia, che spesso si facevano aspre». I «tre astri» dimostrarono di essere innocui. Schramm si tenne
completamente in disparte, Hòchberg partiva spesso per dei
viaggi e Bernstein, sotto la spinta degli avvenimenti, si
liberò dai suo stato di depressione come accadde, nella
stessa misura e nello stesso tempo, anche a molti com pagni di
partito, che fino allora avevano un po’ lasciato che le cose
seguissero il loro corso. Poté contribuire non poco a
placare gli animi il fatto che Marx ed Engels con l’andar del tempo
resero giustizia, più di quanto avessero fatto da principio,
alle immense difficoltà con cui la direzione del partito
doveva lottare. Il 5 novembre 1880 Marx scrisse a Sorge: «A
coloro che stanno relativamente tranquilli all’estero non conviene render più grave, con gaudio della borghesia e del governo,
la posizione di quelli che all’interno operano in condizioni
difficili e con grandi sacrifici personali». Poche settimane
dopo fu addirittura conclusa una pace formale.
Per il 31 dicembre 1880 Vollmar si era congedato dal suo posto di
direttore, e la direzione del partito decise allora di chiamare
Hirsch, per compiere un gesto conciliante. Poiché Hirsch in
quel periodo viveva a Londra, Bebel decise di recarsi là per
trattare con lui; nello stesso tempo voleva spiegarsi
esaurientemente con Marx ed Engels, ciò che era nelle sue
intenzioni da molto tempo, e portò con sé anche
Bernstein, che nel frattempo aveva dato ottima prova di sé,
per distruggere la prevenzione che a Londra esisteva ancora contro
di lui. Questo pellegrinaggio a Canossa, come fu chiamato in certi
ambienti del partito, raggiunse in pieno i suoi diversi scopi;
soltanto Karl Hirsch, dopo avere accettato, pose in un secondo tempo
questa condizione, che voleva dirigere da Londra il Sozialdemokrat.
Questa proposta fu respinta, e la fine di tutta la storia fu che
Bernstein fu incaricato, in un primo tempo in via provvisoria e poi
definitivamente, della direzione; egli assolse il suo compito con
onore e con soddisfazione, più che di altri, dei londinesi. E
quando, un anno dopo, si svolsero le prime elezioni sotto la legge
contro i socialisti, Engels esultò: nessun proletariato si
è mai battuto in modo così mirabile.
Anche la Francia si trovava sotto una buona stella. Dopo la
settimana di sangue del maggio 1871, Thiers aveva annunciato ai
borghesi versagliesi ancora tremanti che per la Francia il
socialismo era morto, senza darsi pensiero del fatto che già
una volta, dopo le giornate del giugno 1848, si era dimostrato falso
profeta dando la stessa assicurazione. Voleva credere che quanto
maggiore era stato il salasso (nel 1871 si cal colava che le
perdite della classe operaia parigina, in conseguenza delle lotte
per le strade, le esecuzioni, le deportazioni, le condanne al
carcere e l’emigrazione ammontassero a 100300 persone), tanto
maggiore ne sarebbe stato l’effetto. Tanto maggiore, invece, fu
l’abbaglio di Thiers. Dopo il 1848 il socialismo aveva richiesti)
due decenni, per ridestarsi dal suo stordimento e dal suo silenzio;
mi dopo il 1871 richiese solo mezzo decennio per tornare a farsi
vivo. Nel 1876, mentre i tribunali militari attendevano ancora alla
loro opera sanguinosa e i difensori della Comune venivano fucilati,
si riuniva già il primo congresso operaio a Parigi.
Esso, certo, in primo luogo non fu altro che un annuncio. Stava
sotto la protezione dei repubblicani borghe si, che cercavano negli
operai un appoggio contro i nobilucci di campagna monarchici, e le
sue risoluzioni restavano sul piano dell’innocuo sistema
cooperativo, quale era rappresentato, in Germania, da Schul
ze-Delitzsch. Ma si poteva prevedere che non si sarebbe rimasti a
questo punto. Dopo il 1870 la grande industria meccanica, che dopo
il trattato commerciale con l’Inghilterra del 1803 si era sviluppata
lentamente, ricevette un impulso incomparabilmente più
rapido. Essa doveva supplire a parecchie esigenze: riparare i danni
causati dalla guerra a un terzo della Francia; creare i mezzi per
dar vita a un nuovo gigantesco appa rato militaristico, e infine
colmare il vuoto che si era creato per la perdita dell’Alsazia, la
provincia francese che fino al 1870 era stata la più
progredita industrialmente. La grande industria seppe fare
ciò che da essa si pretendeva. In tutte le parti del paese
sorsero fabbriche, si formò un proletariato industriale, che
ai tempi migliori della vecchia Internazionale esisteva soltanto in
alcune città della Francia nord-occidentale.
Questo presupposto spiega i rapidi successi riportati da Jules
Guesde, quando si gettò con la sua oratoria infocata nel
movimento operaio, che aveva preso l’avvio dal congresso di Parigi
del 1876. Distaccatosi recentemente dall’anarchismo, Guesde non
brillava per troppa chiarezza teorica, come si può vedere
ancor oggi nell’Egalité da lui fondata nel 1877; nonostante
che il Capitale fosse già stato tradotto e pub blicato in
francese, non sapeva niente di Marx, le cui teorie egli aveva
appreso soltanto da Karl Hirsch. Ma aveva afferrato con gran
decisione e chiarezza l’idea della proprietà collettiva della
terra e dei mezzi di produzione prodotti, e con questa parola
d’ordine avanzata della lotta proletaria di emancipazione, che nei
congressi della vecchia Internazionale aveva sempre urtato contro
la violenta resistenza dei delegati francesi, Guesde, che era
un’oratore di prim’ordine e un acuto polemista, seppe scuotere gli
operai francesi.
Sin dal secondo congresso operaio, riunitosi nel febbraio 1878 a
Lione, che, nelle intenzioni degli orga nizzatori, avrebbe dovuto
essere soltanto una nuova edizione del congresso di Parigi, Guesde
riuscì a raccogliere sotto la sua bandiera una minoranza di
dodici delegati. A questo punto la cosa cominciava a diventare
preoccupante per il governo e per la borghesia: si iniziarono le
persecuzioni contro il movimento operaio, e si riuscì anche a
sopprimere l’Egalité mediante multe e condanne al carcere
contro i suoi redat tori. Ma Guesde e i suoi compagni non si
lasciarono scoraggiare: continuarono a lavorare instancabilmente e al terzo congresso operaio, che si riunì a Marsiglia
nell’ottobre del 1879, ebbero con sé la maggioranza, che si
costituì in partito socialista e si organizzò per la
lotta politica. L’Egalité risorse e trovò in Lafargue
un attivo collaboratore, che scriveva quasi tutti gli articoli
teorici; poco più tardi Malon, anche lui ex bakuninista,
cominciò a pubblicare la Revue Socialiste, che Marx ed Engels
sostennero con alcuni loro articoli.
Nella primavera del 1880, Guesde si recò a Londra, per
stendere insieme con Marx, Engels e Lafargue un programma elettorale
per il giovane partito. Si accordarono sul cosiddetto programma
minimo che, dopo una breve introduzione che esponeva il fine
comunista, nella sua parte economica consisteva solo di
rivendicazioni immediate del movimento operaio. Non ci fu accordo
però su ogni singolo punto: quando Guesde insisté per
inserire nel programma la rivendicazione di un salario minimo
legale, Marx disse che se il proletariato francese era ancora
così infantile da aver bisogno di una simile esca, non valeva
neppure la pena di stabilire un programma.
Ma ciò non era detto con malanimo: in complesso Marx
considerava il programma come un enorme pas so avanti, per far
discendere gli operai francesi dalle loro frasi nebulose sul terreno
della realtà, e tanto dall’opposizione che dal consenso che
esso incontrò, Marx concluse che sorgeva in Francia il primo
vero movimento operaio. Fino allora erano esistite soltanto delle
sette, che naturalmente avevano ricevuto la loro parola d’ordine da
fondatori di sette, mentre la massa del proletariato seguiva i
borghesi radicali o radicaleggianti e il giorno delle decisioni si
batteva per loro, per poi venire massacrata, deportata ecc., il
giorno dopo, dalla gente che essa aveva portato al potere.
Perciò Marx fu anche d’accordo che i suoi ge neri, appena
l’amnistia per i comunardi, strappata al governo francese, avesse
permesso loro di ritornare, si trasferissero in Francia: Lafargue,
per lavorare insieme con Guesde, e Longuet, per assumere un posto
influente di redattore nella Justice di Clemenceau, che era a capo
dell’estrema sinistra.
In Russia la situazione era diversa e, nel giudizio di Marx,
più favorevole. Qui il suo capolavoro era letto con maggior
cura e apprezzato più vivamente che altrove; soprattutto fra
le generazioni colte Marx si era guadagnato molti seguaci e anche
amici personali. Ma la sua concezione e la sua dottrina erano ancora
completamente ignote alle due principali tendenze del movimento
russo di massa, almeno così come allora esisteva: il partito
della Volontà del popolo e il partito della Ripartizione
nera. Esse erano ancora in tutto su di un piano bakuninista, se non
altro perché la classe contadina importava loro più di
ogni altra cosa. La questione che prima di tutto importava loro era
formulata da Marx ed Engels in questi termini: la comunità
rurale russa, questa forma in gran parte già dissolta,
è vero, della originaria proprietà comune della terra,
potrà passare direttamente a una più alta forma
comunistica di proprietà terriera, o dovrà
attraversare prima lo stesso processo di dissoluzione che
costituisce lo sviluppo storico dell’occidente?
La «sola risposta oggi possibile» fu data da Marx e da
Engels nella prefazione a una nuova traduzione russa del Manifesto
comunista, opera di Vera Zasulic, con queste parole: «Se la
rivoluzione russa servirà di segnale a una rivoluzione
operaia in occidente, in modo che entrambe si completino, allora
l’odierna proprietà comune rurale russa potrà servire
di punto di partenza per una evoluzione comunista». Questa
affermazione spiega l’appassionata presa di posizione di Marx in
favore del partito della Volontà del popolo, la cui politica
terroristica aveva reso lo zar prigioniero della rivoluzione a
Gàcina, mentre egli biasimava con una certa durezza il
partito della Ripartizione nera, che respingeva ogni azione
politico-rivoluzionaria e si limitava alla propaganda. Ma proprio a
questo partito appartenevano uomini, come Axelrod e Plekhanov, che
tanto hanno contribuito a infondere lo spirito marxista nel
movimento operaio russo.
Anche in Inghilterra, infine, cominciava a spuntare il sole. Nel
giugno 1881 uscì un libretto: L’Inghilterra per tutti; era
stato scritto da Hyndman e doveva essere il programma della
Federazione democratica, un’as sociazione che si era appena
costituita, formata da diverse associazioni radicali inglesi e
scozzesi, parte di borghesi e parte di proletari. Il capitolo sul
lavoro e il capitale era fatto di estratti o parafrasi del Capitale
di Marx, ma Hyndman non nominava né l’opera né il suo
autore, e solo alla fine dell’introduzione osservava che doveva
molto all’opera di un grande pensatore e scrittore indipendente.
Questa singolare maniera di citare fu resa ancora molto più
offensiva da Hyndman con le scuse con cui cercava di giustificarsi
di fronte a Marx: il suo nome era troppo screditato, gli inglesi
accettavano malvolentieri consigli dagli stranieri, e via dicendo.
Allora Marx ruppe i rapporti con Hyndman, e lo gratificò per
giunta del titolo di «imbecille».
Grande soddisfazione gli procurò invece, nello stesso anno,
un articolo su di lui che Belfort Bax aveva pubblicato nel
fascicolo di dicembre di una rivista mensile inglese. Marx
trovava, è vero, che le notizie biografiche erano per lo più inesatte, e che anche
nell’esposizione dei suoi princìpi economici vi era molto di
falso e di confuso, ma dopotutto era la prima pubblicazione del
genere in Inghilterra, perfusa di un vero entusiasmo per le nuove
idee, che si levasse coraggiosamente contro il filisteismo inglese;
e* riteneva che nonostante tutto l’apparizione di questo articolo,
annunciato a grandi lettere in manifesti sui muri dell’West End di
Londra, aveva suscitato gran sensazione.
Se Marx scriveva così a Sorge, si può pensare che per
una volta l’uomo ferreo, così insensibile alla lode e al
biasimo, abbia avuto un piccolo attacco di vanità, e non vi
sarebbe stato niente di più perdonabile. Ma ciò che
scriveva era soltanto dettato da uno stato di animo profondamente
commosso, come risulta dalle frasi finali della lettera: «In
questo la cosa più importante per me è stata che ho
ricevuto quel numero sin dal 30 novembre, in modo che gli ultimi
giorni di vita della mia cara moglie sono stati rischiarati. Tu sai
che interesse appassionato prendeva per tutte queste cose».
La signora Marx era morta il 2 dicembre 1881.
17.5 Ombre del crepuscolo
Mentre l’orizzonte politico-sociale — che per Marx restava sempre la
cosa più importante — si rischia rava tutt’intorno, le ombre
del crepuscolo scendevano sempre più fonde su di lui e sulla
sua casa. Da quando gli era stato sbarrato l’accesso al continente,
con le sue benefiche stazioni termali, le sue soffe renze fisiche
erano sempre aumentate e lo avevano reso più o meno incapace
di lavorare; dal 1878 non lavorò più al compimento del
suo capolavoro, e circa nello stesso tempo o poco dopo
cominciò l’assillante preoccupazione per la salute della
moglie.
Essa aveva goduto dei giorni più tranquilli della vita con la
felice serenità di un’anima sempre in armonia, come lei
stessa diceva in una lettera scritta ai Sorge, per confortarli della
perdita di due figli in età fiorente:
«So troppo bene, com’è doloroso, e quanto tempo ci
vuole, dopo perdite come queste, prima di ritrovare il proprio
equilibrio; poi viene in nostro aiuto la vita con le sue piccole
gioie e con le sue grandi preoccupazioni, con tutte le sue piccole
contrarietà e tribolazioni di tutti i giorni, e la pena
più grande viene attutita, ora per ora, dai piccoli dolori e,
senza che noi ce ne accorgiamo, l’intenso tormento si attenua; non
che la ferita guarisca mai, specialmente in un cuore di madre, ma a
poco a poco rinasce nell’animo una nuova sensibilità e una
nuova capacità di avvertire nuovi dolori e nuove gioie, e
così si continua a vivere col cuore ferito e che tuttavia
spera sempre, finché alla fine si arresta del tutto e ce la
pace eterna». Nessuno, più di questa martire e
combattente, avrebbe meritato di spegnersi in una facile morte sotto
la mano placida della natura, ma non le fu concesso: essa dovette
sopportare pene sempre più gravi, prima dell’ultimo respiro.
Marx scrisse dapprima a Sorge, nell’autunno del 1878, che sua moglie
si sentiva «molto male»; un anno dopo già
scrisse: «Mia moglie è sempre gravemente malata, e
anch’io continuo a non star bene». Dopo lunga incertezza, a
quanto sembra, la malattia della signora Marx si rivelò un
cancro, che doveva portarla alla morte fra dolori tormentosi,
lentamente ma irreparabilmente. Ciò che Marx soffrì
per lei, si può capire soltanto se si pensa a ciò che
sua moglie era stata per lui durante tutta una lunga vita. Essa
restò più calma di suo marito e di tutta la famiglia:
con coraggio senza eguali dominava tutte le sofferenze per mostrare
ai suoi un viso sempre sereno. Quando il male era già
avanzato, nell’estate del 1881, essa trovò ancora la forza di
affrontare un viaggio a Parigi per rivedere le figlie sposate:
poiché nessun rimedio era più possibile, i medici si
rassegnarono al rischio. In una lettera del 22 giugno 1881 alla
signora Longuet, Marx annunciava la comune visita: «Rispondi
subito, per favore, perché la mamma non partirà
finché tu non scrivi che cosa ti deve portare da Londra. Tu
sai che questi incarichi le piacciono immensamente». Per la
malata la gita andò bene, per quanto era possibile in quelle
circostanze; invece Marx al ritorno fu colto da una violenta
pleurite, unita a una bronchite con principio di polmonite. La
malattia fu pericolosissima, ma fu superata grazie alle cure devote
di Eleanor e di Lenchen Demuth. Furono giorni tristi, di cui Eleanor
scrive: «Nella grande stanza anteriore giaceva la nostra mammina,
nella stanzetta attigua il Moro. E questi due, tanto abituati l’uno
all’altro talmente fatti per vivere uniti, non potevano stare nella
stessa stanza... Ancora una volta il Moro vinse il male. Mai
dimenticherò la mattina in cui si sentì abbastanza
forte per recarsi nella stanza della mammina. Erano ritornati
giovani — lei una fanciulla innamorata e lui un adolescente
innamorato che insieme si affacciavano alla vita, e non un vecchio,
roso dalla malattia, e una vecchia donna moribonda che prendono
congedo per sempre».
Quando la signora Marx morì, il 2 dicembre 1881, Marx era
ancora tanto debole che il medico gli vietò di seguire la
moglie amata nell’ultimo viaggio. «Mi sono sottomesso a
quest’ordine», scrisse Marx alla signora Longuet, «
perché ancora qualche giorno prima di morire la cara morta
espresse il desiderio che alla sua sepoltura non vi fosse alcuna
cerimonia: ‘noi non diamo alcun valore alle esteriorità’.
Perirne è una grande consolazione che le forze le siano
venute meno così rapidamente. Come il medico aveva predetto,
la malattia ha assunto il carattere di una morte generale, come se
fosse causata dalla vecchiaia. Persino nelle ultime ore, nessuna
lotta con la morte, un lento assopirsi, e anche gli occhi,
più grandi, più belli, più radiosi che
mai».
Sulla tomba di Jenny Marx parlò Engels. La elogiò come
la compagna fedelissima del marito, e concluse con queste parole:
«Non occorre che io parli delle sue qualità
personali. Gli amici la conoscono e non la dimenticheranno. Se
mai vi fu una donna la cui più grande felicità era di
rendere felici gli altri, essa fu questa donna».
17.6 L’ultimo anno
Marx sopravvisse alla moglie circa un anno e tre mesi. Ma in
realtà questa vita non fu altro che una «lenta morte», e l’impressione di Engels fu giusta quando, il giorno della
morte della signora Marx, disse:
«Anche il Moro è morto».
Poiché in questo breve tratto di tempo i due amici furono per
lo più separati, il loro carteggio riprende per l’ultima
volta, e in esso l’ultimo anno della vita di Marx scorre via nella
sua cupa grandezza, commovente per i particolari dolorosi fra i
quali l’inesorabile destino dell’uomo vinse anche questo spirito
possente.
Quel che ancora lo teneva legato alla vita era il suo ardente
desiderio di dedicare le sue ultime forze alla grande causa cui era
stata dedicata tutta la sua vita. Il 15 dicembre 1881 scriveva a
Sorge: «Dall’ultima malattia io esco doppiamente troncato,
moralmente per la morte di mia moglie, fisicamente perché mi
son rimasti un ispessimento della pleura e una grande
irritabilità dei bronchi. Dovrò perdere completamente
un certo periodo di tempo a manovrare per ristabilire la mia
salute». Ma questo periodo durò fino alla morte,
perché tutti i tentativi per ristabilire la sua salute
fallirono.
I medici lo mandarono dapprima
a Ventnor, nell’isola di Wight, e poi ad Algeri. Qui arrivò
il 22 febbraio 1882, ma dopo un viaggio freddo e una nuova pleurite.
Un fatto ancora più grave fu che l’inverno e la primavera ad
Algeri furono piovosi e inclementi come mai erano stati.
Un’esperienza non migliore Marx fece a Montecarlo, dove si
trasferì il 2 maggio; anche qui, in conseguenza di un
viaggio freddo e umido, prese una pleurite, e anche qui trovò
sempre brutto tempo.
II suo stato di salute
migliorò soltanto al principio di giugno, quando
soggiornò ad Argenteuil dai Longuet. Vi dovette contribuire
non poco la vita di famiglia; contro la sua radicata bronchite
approfittò anche con buon esito delle sorgenti sulfuree della
vicina Enghien. Anche un soggiorno di sei settimane a Vevey sul lago
di Ginevra, con la figlia Laura, contribuì decisamente a
farlo migliorare. Quando tornò a Londra, in settembre, aveva
un aspetto sano e spesso senza risentirne disagio salì con
Engels sulla collina di Hampstead, circa trecento piedi più
alta della sua abitazione.
Marx pensò allora di riprendere i suoi lavori, perché
i medici gli avevano permesso di trascorrere l’inverno in
Inghilterra, non a Londra, ma sulla costa meridionale inglese.
Quando le nebbie di novembre cominciarono a minacciare, andò
a Ventnor, ma vi trovò quel che aveva trovato in primavera ad
Algeri e a Montecarlo: nebbia e umido, che gli tirarono addosso
nuove infreddature e invece di permettergli il movimento all’aria
aperta lo costrinsero a indebolirsi restando chiuso nella sua
stanza. Non c’era da pensare ai lavori scientifici, per quanto Marx dimostrasse un vivo interesse per tutte le
scoperte scientifiche, anche per quelle che erano lontane dal suo
stretto campo di lavoro, per esempio gli esperimenti di Deprez alla
mostra dell’elettri cità a Monaco. Nelle sue lettere
generalmente va prevalendo un umore depresso e scontento; quando nel
giovane partito operaio francese si manifestarono le inevitabili
malattie infantili, fu scontento di come le sue idee erano
rappresentate dai suoi generi: «Longuet ultimo proudhoniano
e Lafargue ultimo bakuninista. Il diavolo li porti!». In quel
tempo gli sfuggì quella frase che poi il mondo dei filistei
ha inteso in modo così singolare: che per suo conto, in ogni
caso, lui non era marxista.
Poi, l’11 gennaio 1883, venne il colpo decisivo: la morte improvvisa
della figlia Jenny. Il giorno dopo Marx tornava a Londra, con una
serie bronchite, alla quale presto si unì una laringite che
gli impediva quasi del tutto di inghiottire. «Lui che sapeva
sopportare con stoica impassibilità i più forti
dolori, preferiva bere un litro di latte (che per tutta la vita
aveva avuto in orrore) piuttosto di mangiare la corrispondente
quantità di nutrimento solido». In febbraio si
sviluppò un ascesso nel polmone. I rimedi non ebbero alcun
effetto sul corpo già saturo di medicine da quindici mesi:
riuscirono soltanto a indebolire l’appetito e a disturbare la
digestione. Il malato dimagriva visibilmente quasi giorno per
giorno. Ma i medici non avevano perduto ogni speranza, perché
la bronchite era quasi superata e inghiottire diventava più
facile. Così la fine giunse inaspettata. Il 14 marzo, verso
mezzogiorno, Karl Marx spirò placidamente e senza dolore
nella sua poltrona.
Nonostante tutto il dolore per la perdita irreparabile, Engels
trovò un motivo di conforto: «L’arte dei medici gli
avrebbe forse potuto assicurare ancora per alcuni anni un’esistenza
vegetativa, la vita di un essere impotente, il quale, per far
trionfare l’arte medica, anziché morire d’un sol colpo,
soccombe poco a poco. Questo Marx non lo avrebbe sopportato mai.
Vivere avendo dinanzi a sé i molti lavori incompiuti, col
supplizio di Tantalo di volerli completare e di non poterlo fare,
questo sarebbe stato per lui mille volte più amaro della
morte benigna che lo colse. La morte non è una disgrazia per
colui che muore, bensì per colui che sopravvive’, soleva dire
con Epicuro. E vedere questo possente uomo di genio vegetare come un
rudere per la maggior gloria della medicina, esposto allo scherno
dei filistei, tante volte fulminati da lui quando era nel pieno
possesso delle sue forze: no, mille volte meglio com’è mille
volte meglio se lo portiamo domani l’altro nella tomba dove riposa
sua moglie».
Il 17 marzo, un sabato, Karl Marx fu deposto nella tomba accanto a
sua moglie. Molto opportunamente la famiglia aveva rifiutato «
qualsiasi cerimonia», che avrebbe chiuso questa vita con una
stridente sto natura. Solo pochi intimi erano attorno alla fossa
aperta: Engels con Lessner e Lochner, i vecchi compagni del tempo
della Lega dei Comunisti; dalla Francia erano venuti Lafargue e
Longuet, dalla Germania Liebk necht; la scienza era rappresentata
da due uomni di prim’ordine, il chimico Schorlemmer e lo zoologo Ray
Lancaster
L’ultimo saluto che Engels rivolse in lingua inglese all’amico morto
riassume in semplici parole, con tanta sincerità e
verità ciò che Marx è stato e sarà per
l’umanità, che anche qui convien lasciargli l’ultima parola:
«Il 14 marzo, alle due e quarantacinque pomeridiane, ha
cessato di pensare la più grande mente dell’epoca nostra.
L’avevamo lasciato solo da appena due minuti, e al nostro ritorno
l’abbiamo trovato tranquillamente addormentato nella sua poltrona,
ma addormentato per sempre.
«Non è possibile misurare la gravità della
perditi che questa morte rappresenta per il proletariato militan te
d’Europa e d’America, nonché per la scienza storica. Non si
tarderà a sentire il vuoto lasciato dalla scomparsa di questo
titano.
«Così come Darwin ha scoperto la legge dello sviluppo
della natura organica, Marx ha scoperto la legge dello sviluppo
della storia umana cioè il fatto elementare, finora nascosto
sotto l’orpello ideologico, che gli uomini devono innanzi tutto
mangiare, bere, avere un tetto e vestirsi, prima di occuparsi di
politica, di scienza, d’arte, di religione, ecc.; e che, per
conseguenza, la produzione dei mezzi materiali immedia ti di
esistenza e, con essa, il grado di sviluppo economico di un popolo e
di un’epoca in ogni momento determinato costituiscono la base sulla
quale si sviluppano le istituzioni statali, le concezioni
giuridiche, l’arte ed anche le idee religiose degli uomini, e
partendo dalla quale esse devon venir spiegate, e non inversamente,
come si era fatto finora.
«Ma non è tutto. Marx ha anche scoperto la legge
peculiare dello sviluppo del moderno modo di produzione
capitalistico e della società borghese da esso generata. La
scoperta del plusvalore ha subitamente gettato
un fascio di luce nell’oscurità in cui brancolavano prima, in
tutte le loro ricerche, tanto gli economisti borghesi che i critici
socialisti.
«Due scoperte simili sarebbero più che sufficienti a
riempire tutta una vita. Fortunato chi avesse avuto la sorte di
farne anche una sola. Ma in ognuno dei campi in cui Marx ha svolto
le sue ricerche — e questi campi furono molti e nessuno fu toccato
da bui in modo superficiale — in ognuno di questi campi, compreso
quello delle matematiche, egli ha fatto delle scoperte originali.
«Tale era lo scienziato. Ma lo scienziato non era neppure la
metà di Marx. Per lui la scienza era una forza motrice della
storia, una forza rivoluzionaria. Per quanto grande fosse la gioia
che gli dava ogni scoperta in una qualunque disciplina teorica, e di
cui non si vedeva forse ancora l’applicazione pratica, una gioia ben
diversa gli dava ogni innovazione che determinasse un cambiamento
rivoluzionario immediato nell’industria e, in generale, nello
sviluppo storico. Così egli seguiva in tutti i particolari le
scoperte nel campo dell’elettricità e, ancora in questi
ultimi tempi, quelle di Marcel Deprez.
«Perché Marx era prima di tutto un rivoluzionario.
Contribuire in un modo o nell’altro all’abbattimento della
società capitalistica e delle istituzioni statali che essa ha
creato, contribuire all’emancipazione del proletaria to moderno al
quale Egli, per primo, aveva dato la coscienza delle condizioni
della propria situazione e dei propri bisogni, la coscienza delle
condizioni della propria liberazione: questa era la sua reale
vocazione. La lotta era il suo elemento. Ed ha combattuto con una
passione, con una tenacia e con un successo come pochi hanno
combattuto. La prima Rheinische Zeitung nel 1842, il Vorwàrts
di Parigi nel 1844, la Deutsche Brusseler Zeitung nel 1847, la Nette
Rheinische Zeitung nel 184849, la New York Tribune dal 1852 al 1861
e, inoltre, i numerosi opuscoli di propaganda, il lavoro a Parigi, a
Bruxelles, a Londra, il tutto coronato dalla grande Associazione
Internazionale degli Operai, ecco un altro risultato di cui colui
che lo ha raggiunto potrebbe esser fiero anche se non avesse fatto
nient’altro.
«Marx era perciò l’uomo più odiato e calunniato
del suo tempo. I governi, assoluti e repubblicani, lo espulsero, i
borghesi, conservatori e democratici radicali, lo coprirono a gara
di calunnie. Egli sdegnò tutte queste miserie, non
prestò loro nessuna attenzione, e non rispose se non in caso
di estrema necessità. E’ morto venerato, amato, rimpianto da
milioni di compagni di lavoro rivoluzionari in Europa e in America,
dalle miniere siberiane sino alla California. E posso aggiungere,
senza timore: poteva avere molti avversari, ma nessun nemico
personale.
«Il suo nome vivrà nei secoli, e così la sua
opera!».