CAPITOLO 16
Il tramonto dell’Internazionale
16.1 Fino a Sedan
Molto è stato scritto sulla posizione assunta da Marx ed
Engels di fronte alla guerra, per quanto in sostanza vi sia assai
poco da dire in proposito. Nella guerra essi non vedevano un
elemento dell’ordine divino, come Moltke, ma un elemento
dell’ordine diabolico, un fenomeno che si accompagna
inseparabilmente alla società classista, e in modo del tutto
particolare alla società capitalistica.
Come persone che ragionavano storicamente,. essi non accettavano il
punto di vista antistorico: la guerra è la guerra, e tutte le
guerre sono da misurare con lo stesso metro. Per loro ogni guerra
aveva i suoi definiti presupposti e le sue conseguenze, da cui
dipendeva l’atteggiamento che di fronte ad essa la classe operaia
doveva assumere. Questa era anche la concezione di Lassalle, con
cui si erano trovati in contrasto, nel 1859, nel giudicare le
condizioni di fatto della guerra di quell’anno, ma tutti e tre
muovendo dalla considera zione decisiva: come quella guerra si
poteva sfruttare più a fondo in favore della lotta di
emancipazione del proletariato.
Dalla stessa considerazione fu determinato il loro atteggiamento di
fronte alla guerra del 1866. Dopo che la rivoluzione tedesca del
1848 non era riuscita a creare un’unità nazionale, il governo
prussiano si sforza va di sfruttare per proprio conto il movimento
per l’unità tedesca, che era sempre ridestato dallo sviluppo
economico, e di creare una Prussia più estesa (come diceva
il vecchio Kaiser Guglielmo) invece di una Germania unita. Marx ed
Engels, Lassalle e Schweitzer, Liebknecht e Bebel erano
completamente d’accor do nel ritenere che all’unità tedesca,
di cui il proletariato tedesco aveva bisogno come primo passo della
sua lotta di emancipazione, si doveva arrivare soltanto attraverso
una rivoluzione nazionale, e per conseguenza combatterono col
massimo vigore gli sforzi dinastico-particolaristici della politica
grande-prussiana. Sol tanto dopo la decisione di Sadowa, presto o
tardi, ciascuno secondo la propria perspicacia nel giudicare i «presupposti di fatto», essi si adattarono a questa
amara constatazione: era ormai chiaro che una rivolu zione
nazionale era da escludere per la viltà della borghesia e per
la debolezza del proletariato, e che la grande Prussia cementata
«dal ferro e dal sangue» offriva alla lotta di classe
del proletariato prospettive più favorevoli di quelle che
gli avrebbe mai potuto offrire la restaurazione (naturalmente
impossibile, del resto) della dieta della Confederazione germanica
con i suoi intrighi meschini. Marx ed Engels arrivarono subito a
questa conclusione, e anche Schweitzer, come successore di
Lassalle; essi accettarono la Confe derazione della Germania del
Nord, nella sua forma contraffatta e atrofica, non certo come
qualche cosa di gradito o di entusiasmante, ma come un dato di
fatto, che offriva alla lotta della classe operaia tedesca
più solidi appigli di quelli che le aveva offerto lo
sciagurato sistema della dieta confederale. Liebknecht e Bebel, al
contrario, restarono fermi sulla concezione rivoluzionaria
grande-tedesca della situazione, e negli anni che seguirono il 1866
lavorarono instancabilmente per la distruzione della Confederazione
della Germania del Nord.
Dopo la risoluzione presa da Marx ed Engels nel 1866, la loro
posizione di fronte alla guerra del 1870 era fino a un certo punto
già decisa. Sulle sue cause immediate non hanno mai espresso
giudizi, né sulla candidatura del principe di Hohenzollern al
trono di Spagna, sostenuta da Bismarck, né sull’alleanza
franco-austro-italiana contro Bismarck, tentata da Bonaparte; sulla
base di quel che allora si sapeva sulla situazione non era
possibile dare un giudizio adeguato né sul primo né
sul secondo punto. Ma in quanto la politica bonapartista di guerra
era diretta contro l’unità nazionale tedesca, Marx ed Engels
riconobbero che la Germania si trovava in stato di difesa.
Marx motivò nei suoi particolari questo giudizio
nell’Indirizzo, da lui redatto, che il 23 luglio fu diramato dal
Consiglio Generale dell’Internazionale. Definiva «il
complotto di guerra del luglio 1870» come «un’edi
zione riveduta e corretta del colpo di Stato del dicembre
1851», e affermava che già suonava il rintocco funebre
del Secondo Impero, che sarebbe finito come era cominciato: con una
parodia. Ma non si doveva dimenticare che proprio i governi e le
classi dominanti avevano reso possibile a Bonaparte di rappresentare
per diciotto anni la crudele farsa della restaurazione dell’Impero.
Se da parte della Germania la guerra era una guerra di difesa, chi
aveva messo la Germania nella necessità di doversi difendere?
Chi aveva reso possibile a Luigi Bonaparte di condurre una guerra
contro la Germania? La Prussia. Era stato Bismarck a cospirare con
lo stesso Luigi Bonaparte prima di Sadowa, e dopo Sadowa non aveva
contrapposto alla Francia schiava una Germania libera, ma a tutte
le bellezze indigene del suo antico sistema aveva ag giunto tutti i
trucchi del Secondo Impero, così che il regime bonapartista
fioriva dall’una e dall’altra parte del Reno. Che poteva derivarne,
se non la guerra? «Se la classe operaia tedesca permette alla
guerra attuale di perdere il suo carattere strettamente difensivo e
di degenerare in una guerra contro il popolo francese, tanto una
vittoria che una sconfitta saranno ugualmente disastrose. Tutte le
sciagure piombate sulla Germania dopo la sua guerra di indipendenza,
risorgeranno con accresciuta intensità». L’Indirizzo
ricordava le dimostrazioni degli operai tedeschi e francesi contro
la guerra, che permettevano di non teme re un esito così
funesto. Poi rilevava che sullo sfondo di quella lotta suicida
spuntava la torva figura della Russia. Tutte le simpatie che i
tedeschi potevano giustamente pretendere in una guerra di difesa
centro un’aggressione bonapartista, essi le avrebbero perse
immediatamente se avessero permesso al governo prussiano di invocare
o soltanto accettare l’aiuto del cosacco.
Due giorni prima che fosse diramato questo Indirizzo, il 21 luglio,
il Reichstag della Germania del Nord aveva approvato un credito di
guerra di 120 milioni di talleri. I rappresentanti parlamentari dei
lassalliani, in omaggio alla politica da loro seguita dal 1866,
votarono a favore. Invece Liebknecht e Bebel, rappresentanti degli
eisenachiani, si erano astenuti dal voto perché un loro
consenso tributato al governo prussiano, che con la sua condotta nel
1866 aveva preparato questa guerra, sarebbe stato come un voto di
fiducia, mentre un voto contrario avrebbe potuto essere considerato
come un’approvazione per la politica scellerata e criminale di
Bonaparte. Liebknecht e Bebel consideravano la guerra
sostanzialmente da un punto di vista morale, ciò che
corrispondeva perfettamente alla convinzione manifestata da
Liebknecht, anche più tardi, nel suo scritto sul telegramma
di Ems e da Bebel nei suoi ricordi.
Essi incontrarono però una decisa opposizione nella loro
stessa frazione, e soprattutto da parte della sua direzione, il
comitato di Brunswick. In realtà l’astensione di Liebknecht
e Bebel non era un atto di politica pratica, ma una dimostrazione
morale che, per quanto potesse essere in sé giustificata, non
corrispondeva alle esigenze della situazione. Quel che è
possibile nella vita privata, e sufficiente secondo le circostanze,
il dire cioè a due litiganti: avete torto tutti e due e io
non mi immischio nella vostra lite, non è possibile invece
nella vita degli Stati, in cui i popoli devono pagare per le contese
dei re. Le conseguenze pratiche di una neutralità
impossibile si videro nell’atteggiamento tutt’altro che chiaro e
conseguente assunto nelle prime settimane di guerra dal Volksstaat
di Lipsia, organo degli eisenachiani. In tal modo si aggravò
il conflitto fra la direzione del giornale, cioè Liebknecht,
e il comitato di Brunswick, che da parte sua si rivolse a Marx per
averne appoggio e consiglio.
Subito dopo l’inizio della guerra, il 20 luglio, dunque prima della
astensione di Liebknecht e Bebel, Marx aveva già scritto a
Engels quanto segue, dopo aver duramente criticato gli «
sciovinisti repubblicani»: «I francesi hanno bisogno di bastonate. Se vincono i
prussiani, l’accentramento dello state power sarà utile per
l’accentramento della classe operaia. La preponderanza tedesca
sposterebbe inoltre il centro di gravità del movimento
operaio dell’Europa occidentale dalla Francia in Germania e
basterà paragonare il movimento nei due paesi dal 1866 fino
ad ora per vedere che la classe operaia tedesca è superiore a
quella
francese sia dal punto di vista teorico, sia da quello
organizzativo. La sua preponderanza nei confronti di quella francese
sulla scena universale sarebbe allo stesso tempo la preponderanza
della nostra teoria su quella di Proudhon ecc.». Ma quando
ricevette la richiesta del comitato di Brunswick, Marx si rivolse a
Engels, come faceva sempre per le questioni importanti, pregandolo
di dargli il suo consiglio e, come nel 1866, Engels stabilì
nei suoi particolari la tattica che fu seguita dai due amici.
Nella sua risposta del 15 agosto egli scrisse: «Secondo me il
caso sta in questi termini: la Germania è stata costretta da
Badinguet [Bonaparte] a una guerra per la sua esistenza come
nazione. Se essa soc combe nella lotta contro Badinguet, il
bonapartismo è consolidato per anni e la Germania è
finita per anni, forse per generazioni. E allora non ce neanche da
pensare a un movimento operaio tedesco autonomo, la lotta per creare
l’esistenza nazionale assorbirà tutto, allora, e nel migliore
dei casi gli operai tedeschi andranno a finir? a rimorchio di quelli
francesi. Se vince la Germania, il bonapartismo francese è
ad ogni modo finito, l’eterno litigio per la creazione
dell’unità tedesca è eliminato, gli operai tedeschi
potranno organizzarsi su scala ben diversamente nazionale che non
prima, e quelli francesi avranno certo un campo più libero
che non sotto il bonapartismo qualunque sia il governo che gli
succederà. L’intera massa del popolo tedesco di tutte le
classi ha capito che si tratta per l’appunto in prima linea
dell’esistenza nazionale, e per questo si è impegnata
subito. Che un partito politico tedesco in queste circostanze, possa
predicare, à la Wilhelm [Liebknecht], l’ostruzionismo totale
e porre considerazioni secondarie di ogni genere al di sopra della
considerazione principale, mi sembra impossibile».
Engels condannava con una asprezza pari a quella di Marx lo
sciovinismo francese, che si faceva sentire profondamente fin negli
ambienti di tendenza repubblicana. «Badinguet non avrebbe
potuto fare que sta guerra senza lo sciovinismo della massa della
popolazione francese, dei borghesi, piccoli borghesi, contadini e
del proletariato edilizio imperialista, haussmanniano[ii]2,
proveniente dal ceto contadino, che Bonaparte ha creato nelle
grandi città. Fintantoché questo sciovinismo non
sarà colpito alla testa e come si deve, la pace fra Germania
e Francia è impossibile. Ci si poteva aspettare che questo
lavoro sarebbe stato assunto da una rivoluzione proletaria, ma dal
momento che c’è la guerra, ai tedeschi non rimane altro che
farlo loro stessi e subito».
Quanto alle «considerazioni secondarie», al fatto
cioè che la guerra era comandata da Bismarck e compa gnia,
e che se l’avessero condotta con successo ne avrebbero tratto una
gloria immediata, ciò era dovuto alla meschinità della
borghesia tedesca. Era molto spiacevole ma non c’era nulla da fare.
«Ma sarebbe assurdo per questa ragione elevare
l’antibismarckismo a unico principio direttivo. Primo, Bismarck ora,
come nel 1866, fa sempre un pezzo del nostro lavoro; a modo suo e
senza volerlo, ma lo fa. Ci procura un terreno più libero di
prima. E poi non siamo più nell’anno 1815. I tedeschi
meridionali entreranno ora necessariamente nel Reichstag e in questo
modo si crea un contrappeso al prussianesismo... In genere voler
annullare, à la Liebknecht, tutta la storia dal 1866 in poi,
perché non piace a lui, è una scemenza. Ma li
conosciamo i nostri tedeschi meridionali modello».
Nel corso della lettera Engels tornava ancora una volta a parlare
della politica di Liebknecht. «In Wilhelm è divertente
l’osservazione che, essendo Bismaick un ex complice di Badinguet, il
vero punto di vista è quello della neutralità. Se
questa fosse l’opinione generale in Germania, avremmo presto di
nuovo la Lega renana, e il nobile Wilhelm vedrebbe che parte
toccherebbe a lui in essa e ’dove finirebbe il movi mento operaio
Un popolo che riceve sempre nient’altro che botte e calci, certo
è il vero popolo per fare una rivoluzione sociale, e per
giunta negli innumerevoli Stati piccoli, tanto cari a Wilhelm!...
Wilhelm ha contato evidentemente sulla vittoria di Bonaparte,
soltanto perché ci si rompa il collo il suo Bismarck. Ti
ricordi, come lo minacciava sempre con i francesi. Anche tu sei
naturalmente dalla parte di Wilhelm». L’ultima frase era
ironica: Liebknecht aveva affermato che Marx era d’accordo con lui e
Bebel, per l’astensione nella questione dei crediti di guerra.
Marx ammise di avere approvato la «dichiarazione» di
Liebknecht: era stato un «momento» in cui la
pedanteria dei princìpi era stata un ade de courage: ma
aggiunse che non ne seguiva affatto che questo momento durasse a
lungo, e meno che mai che la posizione del proletariato in una
guerra che era diventata nazionale si riassumesse nella antipatia di
Liebknecht contro i prussiani. Marx parlava a buon diritto di una «dichiarazione», e non dell’astensione dal voto come
tale. Mentre ì lassalliani avevano approvato i crediti di
guerra confondendosi con la maggioranza borghese, senza
differenziare in nessun modo la loro posizione socialista,
Liebknecht e Bebel avevano dato un «voto motivato», in
cui non solo avevano esposto le ragioni della loro astensione, ma
«nella loro qualità di repubblicani sociali e membri
dell’Internazionale, che al di là di ogni differenza di
nazionalità combatte contro tutti gli oppressori e cerca di
unificare tutti gli oppressi in una comune lega fraterna»
avevano unito all’astensione una protesta di principio contro questa
guerra, come contro ogni guerra dinastica, e avevano espresso la
speranza che tutti i popoli d’Europa, ammaestrati dai funesti
avvenimenti del presente, avrebbero fatto di tutto per conquistare
il diritto di disporre di se stessi e per eliminare il dominio della
spada e delle classi, quale causa di tutti i mali nazionali e
sociali. Marx poteva certo esser molto contento di questa «
dichiarazione» che per la prima volra spiegava senza ambagi
la bandiera dell’Internazionale in un parlamento europeo, e per di
più mentre si trattava una questione storica d’importanza
mondiale.
Dalla scelta delle sue parole, risulta già che la sua «
approvazione» andava intesa in questo senso. L’a stensione
dal voto non era affatto una «pedanteria dei princìpi», ma piuttosto un compromesso: infatti Liebknecht avrebbe
voluto addirittura votare contro i crediti di guerra, e soltanto
Bebel l’aveva convinto a limitarsi all’astensione. Inoltre, nelle
intenzioni di Liebknecht e Bebel, l’astensione non doveva essere
limitata soltanto a quel «momento», come dimostrava
anche il Volksstaat in tutti i numeri. Infine essa non rappresentava
neppure un «atto di coraggio» nel senso che
ciò bastasse di per sé a giustificarla. Se Marx avesse
inteso Xacte de courage in questo senso, avrebbe dovuto accordare
la stessa lode, in misura anche maggiore, al bravo Thiers che alla
Camera francese aveva parlato con energia contro la guerra,
nonostante che i fedeli dell’Impero tumultuassero intorno a lui
coprendolo di insulti, o ai democratici borghesi dello stampo di
Favre e Grevy, che nella votazione sui crediti di guerra non si
erano astenuti ma avevano addirittura votato contro, nonostante che
a Parigi il tumulto patriottico fosse per lo meno altrettanto
pericoloso quanto a Berlino.
Le conclusioni finali che Engels traeva dal suo giudizio sulla
situazione, per la politica degli operai tedeschi, si riassumevano
in questi punti: unirsi al movimento nazionale, in quanto e fin
tanto che si limitasse alla difesa della Germania (ciò che
non escludeva l’offensiva fino alla pace senza condizioni); mettere
in evidenza nello stesso tempo la differenza fra gli interessi
nazionali tedeschi e gli interessi dinastici prussiani; opporsi
all’annessione dell’Alsazia e della Lorena; appena a Parigi fosse al
potere un governo repubblicano non sciovinista, adoprarsi per
arrivare a una pace onorevole con esso; insistere continuamente
sull’unità di interessi fra gli operai tedeschi e francesi,
che non avevano approvato la guerra e che non combattevano fra loro.
Marx si dichiarò completamente d’accordo e in questo senso
rispose al Comitato di Brunswick.
16.2 Dopo Sedan
Ma prima che il Comitato potesse fare uso pratico dei suggerimenti
che gli erano pervenuti da Londra, la situazione aveva subito un
capovolgimento completo. La battaglia di Sedan era stata
combattuta, Bona parte catturato, l’Impero crollato, e a Parigi era
sorta una repubblica borghese. A capo di essa stavano quelli che
fino allora erano stati deputati della capitale francese, che si
proclamarono «governo di difesa nazionale».
Da parte tedesca, si era arrivati alla fine della guerra di difesa.
Come capo della Confederazione della Germania del Nord, il re di
Prussia aveva dichiarato più volte, con la massima
solennità, che non combat teva il popolo francese ma solo il
governo dell’imperatore francese; a Parigi i nuovi rappresentanti
del potere si dichiararono anche disposti a pagare ogni possibile
somma per le riparazioni di guerra. Soltanto Bismarck chiedeva una
cessione di territorio: per conquistare l’Alsazia-Lorena
continuò la guerra, anche se in tal modo la guerra di difesa
diventava una beffa.
Bismarck seguiva in questo le tracce di Bonaparte, e le seguì
anche organizzando una specie di plebiscito che doveva servire a
sciogliere il re di Prussia dai suoi impegni solenni. Sin dalla
vigilia di Sedan, «notabili» di tutte le specie si rivolsero al re con «dimostrazioni di massa», reclamando dei «confini
protetti». Gli «unanimi voti del popolo tedesco» fecero una tale
impressione al vecchio signore che il 6 settembre egli scriveva a
casa: «Se i prìncipi vogliono resistere al generale
sentimento, rischiano il loro trono», e il 14 settembre la
semiufficiale Corrispondenza provinciale dichiarò che era una
«sciocca pretesa» il presumere che il capo della
Confederazione della Germania del Nord dovesse ritenersi legato dai
suoi propri impegni, formalmente e liberamente assunti.
Ma perché si vedesse che gli «unanimi voti del popolo
tedesco» erano assolutamente unanimi, furono repressi con la
violenza tutti i segni di opposizione. Il 5 settembre il Comitato di
Brunswick aveva diramato un appello, invitando la classe operaia a
manifestare pubblicamente in favore di una pace onorevole con la
repubblica francese e contro l’annessione dell’Alsazia-Lorena;
nell’appello erano inserite letteralmente delle parti della lettera
in cui Marx aveva esposto i suoi suggerimenti al Comitato. Ma il 9
settembre i firma tari dell’appello furono arrestati
dall’autorità militare e gettati nella fortezza di
Lòtzen. Qui fu portato anche Johann Jacoby, come prigioniero
politico, per avere anche lui parlato, in una assemblea di
Kònigsberg, contro ogni annessione violenta di territorio
francese e per essersi permesso quest’espressione eretica: «
Pochi giorni fa conducevamo una guerra di difesa, una sacra lotta
per l’amata patria; oggi è una guerra di conquista, una lotta
per il predominio della razza germanica in Europa». Una
quantità di sequestri e di divieti, di persecuzioni e
arresti completarono il regime di terrore militare che doveva
togliere ogni dubbio sull’unanimità dei «voti del
popolo tedesco».
Lo stesso giorno in cui furono arrestati i membri del Comitato di
Brunswick, il Consiglio Generale dell’Inter nazionale prese di
nuovo la parola, per mettere in chiaro la nuova situazione, in un
Secondo Indirizzo[i]7 redatto da Marx e in parte da Engels. Il
Consiglio Generale poteva far notare quanto presto si fosse av
verata la sua previsione, secondo cui all’inizio della guerra era
suonato il rintocco funebre del Secondo Impero, ma anche quanto
presto fossero stati confermati i suoi dubbi circa la
possibilità che da parte te desca la guerra conservasse il
carattere di guerra difensiva. La camarilla militare prussiana si
era decisa per la conquista, e come liberare il re dagli impegni, da
lui stesso presi, di condurre una guerra difensiva?
«I direttori di scena dovevano esibirlo nella parte di colui
che cede riluttante al comando irresistibile della nazione tedesca.
Essi dettero immediatamente questa parola d’ordine alla classe
media tedesca liberale, coi suoi professori, coi suoi capitalisti,
coi suoi borgomastri e pennaioli. Questa classe media, che nelle sue
lotte per la libertà civile dal 1846 al 1870 aveva dato un
esempio inaudito di irrisolutezza, di incapacità e di
vigliaccheria, si sentì naturalmente assai lusingata di
rappresentare sulla scena europea la parte di ruggente leone del
patriottismo tedesco. Rivendicò la propria indipendenza
civica affettando di imporre al governo i segreti disegni di questo
stesso governo. Fece ammenda della sua lunga e quasi religiosa fede
nell’infallibilità di Luigi Bonaparte, reclamando ad alta
voce lo smembramento della repubblica francese».
L’Indirizzo esaminava poi i «singolari pretesti» che
«questi coraggiosi patrioti» adducevano per l’annes
sione dell’Alsazia-Lorena. Essi non osavano certo sostenere che il
popolo dell’Alsazia-Lorena bramasse l’amplesso della Germania, ma
il suolo di queste province, essi dicevano, aveva fatto parte in
tempi re moti dell’ormai morto impero tedesco. «Se la carta
dell’Europa deve essere rifatta secondo i capricci degli antiquari,
non si dimentichi per nessuna ragione che il principe elettore di
Brandeburgo era, per i suoi possedimenti prussiani, vassallo della
repubblica polacca».
Gli «astuti patrioti» avevano turbato «molta
gente dalla mente debole» soprattutto reclamando l’Alsazia-Lorena come «garanzia materiale» contro
un’aggressione francese. In un esame scientifico della questione
militare (che era opera di Engels) l’Indirizzo dimostrava che la
Germania non aveva affatto biso gno di questo rafforzamento dei
suoi confini verso la Francia, come avevano dimostrato per l’appunto
anche le esperienze della guerra in corso. «Se la campagna
attuale ha dimostrato qualche cosa, ha dimostrato la facilità
con la quale la Francia può essere invasa dalla Germania». Ma infine non era un assurdo e un anacronismo far delle
considerazioni militari il principio secondo il quale si devono
stabilire i confini delle nazioni? «Se questa regola dovesse
prevalere, l’Austria avrebbe tuttora titoli sul Veneto e sulla
linea del Mincio, e la Francia sulla linea del Reno, per proteggere
Parigi, la quale certamente è più esposta a un attacco
da nord-est che non sia Berlino da sud-ovest. Se i confini devono
essere determinati da interessi militari, le pretese non avranno
mai termine, perché ogni linea militare è
necessariamente difettosa e può venir migliorata
coll’annessione di un territorio più avanzato; e oltre a
ciò non potrebbe mai essere stabilita in un modo giusto e
definitivo perché verrebbe sempre imposta dal vincitore al
vinto, e quindi porterebbe sempre in sé il germe di nuove
guerre».
L’Indirizzo ricordava le «garanzie materiali» che
Napoleone aveva preso con il trattato di Tilsit. Eppure pochi
anni dopo la sua potenza gigantesca si era infranta come una canna
fradicia contro il popolo te desco. «Che cosa sono la
‘garanzie materiali’ che la Prussia può o osa, anche nei suoi
sogni più audaci, imporre alla Francia, in confronto con
quelle che il primo Napoleone aveva estorto alla Prussia stessa? Il
risultato non sarà meno disastroso».
Ma i campioni del patriottismo teutonico dicevano che non si
dovevano scambiare i tedeschi coi francesi; che i tedeschi non
volevano la gloria, ma la sicurezza; che erano un popolo
eminentemente pacifico. «Na turalmente, non furono i tedeschi
che invasero la Francia nel 1792, col sublime scopo di domare a
colpi di baionette la rivoluzione del secolo decimottavo! Non furono
i tedeschi a macchiarsi le mani soggiogando l’Italia, opprimendo
l’Ungheria e smembrando la Polonia!
Il loro sistema militare attuale, che divide tutta la popolazione
maschile atta alle armi in due parti — un esercito permanente in
servizio e un altro esercito permanente in licenza, l’uno e l’altro
tenuti egualmente all’obbedienza passiva ai governanti per diritto
divino — un sistema militare simile è, naturalmente, una
‘garanzia materiale’ della pace, ed è il fine ultimo delle
tendenze all’incivilimento! In Germania, come dappertutto altrove,
i sicofanti del potere costituito avvelenano l’opinione popolare
con l’incenso di bugiardi autoelogi. Questi patrioti tedeschi
sembrano pieni di sdegno allo spettacolo delle fortezze francesi di
Metz e Strasburgo; ma non trovano niente di male nel vasto sistema
di fortificazioni moscovite a Varsavia, Modlin e Ivangorod. Mentre
sbarrano gli occhi ai terrori cella invasione bonapartistica, li
abbassano davanti all’infamia della tutela autocratica».
Ricollegandosi a queste affermazioni, l’Indirizzo indicava come
l’annessione dell’Alsazia-Lorena avrebbe gettato la Francia in
braccio allo zarismo. Credevano davvero i patrioti teutonici che
così si sarebbero assicurate la libertà e la pace alla
Germania? «Se la fortuna delle sue armi, l’arroganza del
successo e l’intrigo dinastico porteranno la Germania a una rapina
di territorio francese, le rimarranno aperte solo due vie. O
dovrà diventare, ad ogni rischio, strumento dichiarato
dell’espansionismo russo, o; dopo una breve tregua, si dovrà
preparare di nuovo a una nuova guerra ‘difensiva’, e non a una delle
guerre ‘localizzate’ di nuovo conio, bensì a una guerra di
razze, contro le razze alleate degli slavi e dei latini».
La classe operaia tedesca aveva appoggiato risolutamente la guerra —
che non aveva la possibilità di impedire — come guerra per
l’indipendenza della Germania e per la liberazione della Germania e
del l’Europa dall’incubo pestilenziale del Secondo Impero. «
Sono stati gli operai industriali tedeschi che, assieme agli operai
agricoli, hanno fornito i nervi e i muscoli di eserciti eroici,
lasciando dietro di sé le loro famiglie quasi prive del pane». Decimati dalle battaglie, essi sarebbero stati decimati
ancora una volta dalla miseria nelle loro case. A loro volta essi
ora si facevano avanti per esigere garanzie; garanzie che i loro
sacrifici immensi non fossero stati fatti invano, garanzie d’aver
conquistato la libertà, e che la vittoria riportata sugli
eserciti di Bonaparte non si trasformasse in una sconfitta del
popolo tedesco, come nel 1815. E la prima di queste garanzie che
essi esigevano era una «pace dignitosa per la Francia»
e il «riconoscimento della repubblica francese».
L’Indirizzo rinviava al manifesto del Comitato di Brunswick e
osservava che sventuratamente non si potevano avere molte speranze
sul suo successo immediato; ma la storia avrebbe provato che gli
operai tedeschi non eran fatti della stessa materia malleabile di
cui era fatta la classe media tedesca. Essi avrebbero compiuto il
loro dovere, l’Indirizzo esaminava poi la nuova
situazione dalla parte della Francia. La repubblica non aveva
rovesciato il trono, ma aveva solo preso il suo posto rimasto
vacante. Era stata proclamata non come conquista sociale, ma come
misura nazionale di difesa. Essa era nelle mani di un governo
provvisorio composto in parte di orleanisti notori, in parte di
repubblicani borghesi, in alcuni dei quali l’insurrezione del 1848
aveva lasciato il suo marchio indelebile. La divisione del lavoro
fra i membri di quel governo non prometteva niente di buono. Gli
orleanisti si erano impadroniti delle posizioni più forti —
l’esercito e la polizia — lasciando ai repubblicani dichiarati i
posti dove c’era solo da chiacchierare. Alcuni dei loro primi atti
provavano abbastanza chiaramente che essi avevano ereditato
dall’Impero non solo un mucchio di rovine, ma anche la sua paura
della classe operaia.
«La classe operaia francese si muove dunque in circostanze
estremamente difficili. Ogni tentativo di rovesciare il nuovo
governo, nella crisi presente, mentre il nemico batte quasi alle
porte di Parigi, sarebbe una disperata follia. Gli operai francesi
devono compiere il loro dovere di cittadini; ma nello stesso tempo
non si devono lasciar sviare dalle memorie nazionali del 1792, come
i contadini francesi si lasciarono in gannare dai souvenirs
nazionali del Primo Impero. Essi non devono ricapitolare il passato,
ma costruire il futuro. Migliorino con calma e risolutamente tutte
le possibilità offerte dalla libertà repubblicana, per
lavorare alla loro organizzazione di classe. Ciò darà
loro nuove forze erculee, per la rinascita della Francia e per il
nostro compito comune, l’emancipazione del lavoro. Dalla loro forza
e dalla loro saggezza dipendono le sorti della repubblica».
Questo Indirizzo ebbe viva risonanza fra gli operai francesi. Essi
rinunciarono alla lotta contro il governo provvisorio e fecero il
loro dovere di cittadini, soprattutto il proletariato parigino che,
armato come guardia nazionale, ebbe la parte principale nella
valorosa difesa delia capitale francese, e non si lasciò
accecare dalle memorie nazionali del 1792, ma lavorò
attivamente alla propria organizzazione di classe. Gli operai te
deschi si dimostrarono alla stessa altezza. Nonostante tutte le
minacce e le persecuzioni, tanto i lassalliani che gli eisenachiani
reclamarono la pace onorevole con la repubblica; quando il Reichstag
della Germania del Nord tornò a riunirsi, nel dicembre, per
approvare nuovi crediti di guerra, i rappresentanti parlamentari
delle due frazioni votarono con un bel no. Liebknecht e Bebel
condussero in prima linea questa lotta, con un impegno così
ardente e con un coraggio così entusiastico che proprio per
questo (e non, come vuole una leggenda molto diffusa, per la loro
astensione del luglio) la fama di questi giorni è legata ai
loro nomi. Dopo il termine dei lavori del Reichstag essi furono
arrestati sotto l’accusa di alto tradimento.
In quest’inverno Marx era di nuovo sovraccarico di lavoro. In agosto
i medici lo avevano mandato al mare, ma là una violenta
infreddatura lo aveva «stroncato», ed era tornato a
Londra soltanto alla fine del mese, senza essersi per niente
ristabilito. Nonostante ciò dovette occuparsi di tutta la
corrispondenza interna zionale del Consiglio Generale,
perché la maggior parte dei corrispondenti per l’estero era
andata a Parigi. Scrisse a Kugelmann, il 14 settembre, lamentandosi
di non andare a letto prima delle tre. Per il futuro poteva contare
almeno sul soccorso di Engels, che proprio in questi giorni si
trasferì stabilmente a Londra.
Senza dubbio Marx ormai sperava nella resistenza vittoriosa della
repubblica francese contro la guerra prussiana di conquista. La
situazione tedesca (che ormai era tale da suggerire perfino al
guelfo ultra montano Windthorst il motto pungente che se Bismarck
voleva assolutamente fare annessioni poteva pun tare sulla
Caienna, che sarebbe stato l’acquisto più adatto per la sua
politica), colmava Marx di grande amarezza; il 13 dicembre scrisse a
Kugelmann: «Pare che in Germania non solo abbiano acchiappato
il Bonaparte, i suoi generali e la sua armata, ma che con lui
abbiano acclimatato nel paese delle querce e dei tigli l’intero
imperialismo con tutti i suoi acciacchi»[iv]10. In questa
lettera sottolineava con evidente soddisfazione che l’opinione
pubblica inglese, ultraprussiana al principio della guerra, era
diventata tutto l’opposto. A parte la decisa simpatia delle masse
popolari per la repubblica e altre circostanze, «il modo con
cui fu condotta la guerra — il sistema delle requisizioni,
l’incendio dei villaggi, la fucilazione dei franchi tiratori, il
sistema degli ostaggi e simili reminiscenze della guerra dei
trentanni — ha suscitato qui grande indignazione. Naturalmente gli
inglesi hanno fatto cose del genere in India, Giamaica, ecc., ma i
francesi non sono né indù, né cinesi,
né negri, e i prussiani non sono degli inglesi dal ciel
venuti. E’ un’idea degna degli Hohenzollern che un popolo commetta
un delitto se continua a difendersi quando il suo esercito per
manente si è sfasciato». Questa idea aveva già
fatto soffrire il buon Federico Guglielmo III, nella guerra
popolare prussiana contro Napoleone I.
La minaccia di Bismarck di un bombardamento su Parigi era definita
«solo un trucco» da Marx. «Se condo tutte le
regole del calcolo delle probabilità, esso non può
assolutamente avere alcun serio effetto sulla città di Parigi
stessa.. Se venissero abbattute alcune opere avanzate, se venisse
fatta una breccia, che gioverebbe tutto ciò nel caso in cui
il numero degli assediati è maggiore di quello degli
assedianti?... L’affamamento di Parigi è l’unico mezzo reale». Sia detto di passaggio, è un bel quadro! Questo
«senza patria», che si asteneva dal pronunciare
qualsiasi giudizio personale su questioni militari, definiva «
solo un trucco» il bombardamento della capitale francese,
chiesto da Bismarck, per gli stessi motivi per cui tutti i
più ragguardevoli generali dell’esercito tedesco, con la
sola eccezione di Roon, lo respingevano come un «colpo da
caporale», nel corso di una violenta contesa che
infuriò per settimane dietro le quinte del quartier generale
tedesco; mentre tutta la moltitudine dei patriottici professori e
giornalisti si lasciava trascinare dal le comunicazioni ufficiose
di Bismarck all’indignazione morale contro la regina prussiana e la
principessa ereditaria perché queste signore per motivi o
sentimentali o antipatriottici, a quanto si diceva, impedivano ai
loro succubi mariti di bombardare Parigi.
Quando Bismarck oltre tutto se ne uscì con la frase
burbanzosa, che il governo francese rendeva impossi bile alla
stampa e ai deputati la libertà di parola, Marx
illustrò questa «freddura berlinese»
pubblicando sul Daily News del 16 gennaio 1871 una mordace
descrizione del regime poliziesco che a quel tempo im perversava a
Berlino. La descrizione terminava con queste parole: «La
Francia — e la sua causa per buona sorte è ben lungi
dall’essere disperata — combatte in questo momento non soltanto per
la sua indi pendenza nazionale, ma anche per la libertà
della Germania e dell’Europa». In questa frase e riassunta la
posizione che Marx ed Engels assunsero, dopo Sedan, di fronte alla
guerra franco-tedesca.
16.3 La guerra civile in
Francia
Il 28 gennaio Parigi capitolò. Nel patto che fu concluso fra
Bismarck e Jules Favre era stabilito espressamente che la guardia
nazionale parigina avrebbe conservato le armi.
Le elezioni per l’Assemblea nazionale dettero una maggioranza
monarchico-reazionaria, che elesse pre sidente della repubblica il
vecchio intrigante Thiers. Il suo primo pensiero, dopo che
l’Assemblea nazionale ebbe accettato le condizioni preliminari di
pace (cessione dell’Alsazia-Lorena e cinque miliardi di ripara
zioni di guerra), fu il disarmo di Parigi. Per questo borghese fino
al midollo, come anche per i «rurali» dell’assemblea,
Parigi in armi infatti non significava altro che la rivoluzione.
Il 18 marzo Thiers tentò per prima cosa di portar via i
cannoni alla guardia nazionale di Parigi, con la sfacciata menzogna
che essi sarebbero stati proprietà dello Stato, mentre erano
stati fatti a spese della guardia nazionale nel corso dell’assedio
ed erano stati riconosciuti come sua proprietà anche nel
patto di resa del 28 gennaio. La guardia nazionale però si
oppose e le truppe incaricate di impadronirsene pas sarono dalla
sua parte. La guerra civile così era scoppiata. Il 26 marzo
Parigi elesse la sua Comune, la cui storia è piena delle
lotte eroiche e dei dolori degli operai parigini e delle vili
crudeltà e delle perfidie dei partiti versagliesi
dell’ordine.
E’ superfluo ricordare con quale interesse Marx seguiva questi
sviluppi della situazione. Il 12 aprile egli scriveva a Kugelmann:
«Quale duttilità, quale iniziativa storica, quale
capacità di sacrificio in questi parigini!
Dopo sei mesi di fame e di rovine, causate dal tradimento interno
ancora ’ più che dal nemico esterno, insorgono mentre
dominano le baionette prussiane come se non ci fosse mai stata una
guerra fra la Francia e la Germania e come se il nemico non fosse
tuttora davanti alle porte di Parigi! La storia non ha nessun simile
esempio di simile grandezza! Se soccomberanno, la colpa sarà
soltanto della loro ‘bonarietà’. Occorreva marciare subito su
Versailles, dopo che prima Vinoy e poi la parte reazionaria della
guardia nazionale di Parigi avevano da sé sgombrato il
terreno. Per scrupoli di coscienza si è lasciato passare il
momento opportuno. Non si è voluto incominciare la guerra
civile, come se quel maligno aborto di Thiers non avesse già
iniziato la guerra civile col suo tentativo di disarmare Parigi!». Ma anche se avessero dovuto soccombere, l’insurrezione di
Parigi sarebbe stata «la azione più gloriosa del
nostro partito dopo l’insurrezione di giugno. Si confrontino questi
titani parigini con gli schiavi celesti del Sacro Romano Imparo
tedesco-prussiano con le sue postume mascherate, che puzzano di
caserma, di chiesa, di nobiltà rurale e soprattutto di
filisteismo».
Marx poteva parlare dell’insurrezione parigina come di un’azione
«del nostro partito» tanto in senso gene rale in
quanto la classe operaia parigina era la spina dorsale del
movimento, quanto in senso particolare, poiché i membri
parigini dell’Internazionale erano fra i combattenti più
intelligenti e più coraggiosi della Co mune, anche se nel
suo Consiglio essi formavano soltanto una minoranza.
L’Internazionale aveva già una tale fama di spauracchio
universale, e doveva servire alle classi dominanti come capro
espiatorio per tutti gli avvenimenti ad essa sgraditi, che anche
l’insurrezione parigina doveva essere imputata alle sue istigazioni.
Ma un organo di stampa della polizia parigina volle, cosa strana,
scagionare il «grand chef» dell’Interna zionale da
ogni partecipazione all’insurrezione: il 19 marzo pubblicò
una lettera attribuita a Marx, in cui egli avrebbe rimproverato
alle sezioni parigine di essersi occupate troppo di questioni
politiche e troppo poco di questioni sociali. Marx si
affrettò a smentire sul Times la lettera come «
sfacciata falsificazione».
Nessuno sapeva meglio di Marx che l’Internazionale non aveva fatto
la Comune, ma egli la considerò sem pre carne della sua
carne, sangue del suo sangue. Naturalmente solo nel quadro tracciato
dal programma e dagli statuti dell’Internazionale, secondo cui ogni
movimento operaio che mirasse all’emancipazione del proletariato era
cosa sua. Marx non poteva comprendere nel numero dei suoi più
stretti compagni d’idee né la maggioranza blanquista del
Consiglio della Comune, né la stessa minoranza che pur
appartenendo all’Internazionale viveva e si muoveva sostanzialmente
nell’ambito delle idee di Proudhon. Durante la Co mune Marx, per
quanto era possibile nelle circostanze di allora, si tenne in
stretto contatto di idee con essa, ma purtroppo ne avanzano soltanto
dei documenti molto scarsi. In risposta a una sua lettera andata
per duta, il 25 aprile Leo Frankel, delegato per il dipartimento
dei lavori pubblici, gli scriveva fra l’altro: «Sarei molto
contento se Lei volesse in qualche modo aiutarmi col Suo consiglio,
perché attualmente io sono per così dire solo, ma sono
anche il solo responsabile per tutte le riforme che voglio
introdurre nel dipartimento dei lavori pubblici Poche righe della
Sua ultima lettera lasciano già intendere che Lei farà
tutto il possibile per far capire a tutti i popoli, a tutti gli
operai e in particolar modo a quelli tedeschi che la Comune di
Parigi non ha niente a che fare con gli ammuffiti comuni tedeschi.
Facendo questo Lei renderà in ogni caso un grande servigio
alla nostra causa». Non si ha notizia di un’eventuale lettera
o consiglio con cui Marx abbia risposto a Frankel.
E’ andata perduta invece una lettera inviata da Frankel e Vari in a
Marx, a cui questi il 13 maggio rispose: «Ho parlato col
latore della vostra lettera. Non sarebbe raccomandabile mettere in
un luogo sicuro carte così compromettenti per le canaglie di
Versailles? Queste misure di prudenza non nuocciono mai. Mi hanno
scritto da Bordeaux che nelle ultime elezioni per il consiglio
comunale sono stati eletti quattro internaziona listi. Nelle
provincie comincia il fermento. Purtroppo la loro azione è
localmente limitata e pacifica. Per la vostra causa ho scritto
diverse centinaia di lettere in tutti i punti della terra dove
abbiamo relazioni. Del resto la classe operaia era fin da principio
per la Comune. Persino i giornali borghesi inglesi hanno abbandonato
il loro atteggiamento iniziale, che era del tutto avverso. Ogni
tanto mi è riuscito farci passare un articolo favorevole. La
Comune perde molto tempo, mi sembra, in piccolezze e in dispute
personali. Evidentemente agiscono anche altre influenze, oltre a
quella degli operai. Ma tutto ciò non importerebbe niente, se
vi riuscisse ricuperare il tempo perduto». Marx faceva
notare infine che era necessaria un’azione quanto più rapida
possibile, anche perché tre giorni prima era stata conclusa a
Francoforte sul Meno la pace definitiva fra la Francia e la
Germania, e ora Bismarck aveva lo stesso interesse di Thiers ad
abbattere la Comune, soprattutto perché da quel momento
doveva cominciare il pagamento dei cinque miliardi di riparazioni di
guerra.
Nei consigli contenuti in questa lettera si sente un cauto ritegno,
e senza dubbio tutto ciò che Marx scrisse a membri della
Comune deve essere stato tenuto sullo stesso tono. Non perché
avesse paura di addossarsi la responsabilità di tutta la
condotta della Comune (giacché questo egli fece subito dopo
la sconfitta, di fronte a tutta l’opinione pubblica e senza
riserve), ma perché non aveva proprio nessun desiderio di
osten tare maniere dittatoriali e di prescrivere dal di fuori
ciò che si doveva fare sul posto, dove le cose potevano
essere giudicate meglio che altrove.
Il 28 maggio gli ultimi difensori della Comune erano caduti, e
subito due giorni dopo Marx presentò al Con siglio Generale
l’Indirizzo sulla «guerra civile in Francia», uno dei
più splendidi documenti che siano mai usciti dalla sua penna,
e tutto considerato, la pagina ancor oggi più luminosa
dell’enorme bibliografia che da allora è uscita sulla Comune
di Parigi. Anche questa volta, in un problema difficile e
intricato, Marx dette una nuova prova della sua stupefacente
capacità di individuare il nucleo storico dei fatti sotto
l’ingannevole superficie di una confusione inestricabile, in mezzo a
una farragine di notizie che si intrecciavano e si con traddicevano
in mille modi. Laddove concerne i dati di fatto (e le due prime
parti di esso, come la quarta ed ultima parte, espongono lo
svolgimento degli avvenimenti), 1 Indirizzo ha sempre visto giusto
in tutto, e in seguito non è mai stato contraddetto su nessun
punto.
L’Indirizzo non fornisce certo una storia critica della Comune, ma
questo non era il suo compito. Doveva mettere in chiara luce l’onore
e il diritto della Comune contro gli oltraggi e le ingiustizie dei
suoi nemici: doveva essere uno scritto di combattimento, e non una
trattazione storica. Gli errori e le colpe della Comune sono stati
assai spesso oggetto di una critica aspra, e talvolta anche troppo
aspra, da parte socialista. Marx si limitò a questo cenno:
«In tutte le rivoluzioni si intrufolano, accanto ai loro
rappresentanti autentici, individui di altro conio; alcuni sono
superstiti e devoti di rivoluzioni passate, che non comprendono il
movimento presente, ma conservano un’influenza sul popolo per la
loro nota onestà e per il loro coraggio, o per la semplice
forza della tradizione; altri non sono che schiamazzatori i quali, a
forza di ripetere anno per anno la stessa serie di stereotipe
declamazioni contro il governo del giorno, si sono procacciata la
fama di rivoluzionari della più bell’acqua. Anche dopo il 18
marzo vennero a galla alcun: tipi di questo genere, e in qualche
caso riuscirono a rappresentare le parti di primo piano. Nella
misura del loro potere, essi furono di ostacolo all’azione reale
della classe operaia, esattamente come uomini di tale specie avevano
ostacolato lo sviluppo di ogni precedente rivoluzione. Questi
elementi sono un male inevitabile; col tempo ci si sbarazza di loro;
ma alla Comune non fu concesso tempo».
Un particolare interesse merita la terza parte dell’Indirizzo, che
tratta dell’essenza storica della Comune. Con grandissima acutezza
essa viene distinta da formazioni storiche precedenti che potevano
somigliarle superficialmente, dal comune medievale alla
costituzione municipale prussiana. «Soltanto nella testa di
Bismarck — il quale, quando non è preso dai suoi intrighi di
sangue e di ferro, ama sempre ritornare ai vecchio mestiere
così adatto al suo calibro mentale di collaboratore del
Kladderadatsch — soltanto in una testa cesi fatta poteva entrare
l’idea di. attribuire alla Comune di Parigi l’aspirazione a quella
caricatura della vecchia organizzazione municipale francese del 1791
che è la costituzione municipale prussiana, la quale riduce
le amministrazioni cittadine alla funzione di ruote puramente
secondarie della macchina poliziesca dello Stato prussiano».
Nella molteplicità delle interpretazioni che si davano ,
della Comune, e nella molteplicità degli interessi che in
essa avevano trovato la loro espressione, l’Indirizzo riconosceva
come essa fosse stata una forma politica fondamentalmente
espansiva. «Il suo vero segreto fu questo: che essa fu
essenzialmente un governo della classe operaia, il prodotto della
lotta dei produttori contro la classe appropriatrice, la forma
politica finalmente scoperta, nella quale si poteva compiere
l’emancipazione economica del lavoro».
Come prova di questo giudizio l’Indirizzo non poteva produrre un
dettagliato programma di governo della Comune, perché essa
non era arrivata a formularlo e neppure vi poteva arrivare,
impegnata com’era, dal primo all’ultimo giorno della sua esistenza,
in una lotta per la vita e per la morte. Quella prova l’Indirizzo la
dava sulla base della politica pratica che la Comune aveva seguito,
e vedeva il carattere più intimo di questa politica nello
strangolamento dello Stato che nella sua forma più
prostituita, il Secondo Impero, non rappresentava ormai più
che una «escrescenza parassitaria» sul corpo della
società, della quale dis sanguava le forze e impediva il
libero sviluppo. Il primo decreto della Comune dispose la
soppressione dell’esercito permanente e la sua ostinazione col
popolo armato. La Comune spogliò la polizia, che fino allora
era stata lo strumento del governo dello Stato, di tutte le funzioni
politiche, e la trasformò nel suo strumento responsabile. Dopo aver abolito l’esercito permanente e
la polizia, strumenti della potenza materiale del vecchio governo,
la Comune spezzò lo strumento della repressione spirituale,
il potere dei preti, disciogliendo ed espropriando tutte le chiese
in quanto enti possidenti. La Comune aprì gratuitamente al
popolo tutti gli istituti di istruzione e li liberò in pari
tempo da ogni ingerenza della Chiesa e dello Stato. La Comune
estirpò fin dalla radice la burocrazia statale, rendendo
elettivi tutti i funzionari, compresi i giudici, dichiarandoli
revocabili in ogni tempo e limitando i loro stipendi a un massimo
di 6.000 franchi.
Per quanto geniali fossero queste realizzazioni, nei loro
particolari, tuttavia erano in un certo contrasto con i
princìpi che Marx ed Engels sostenevano da un quarto di
secolo e che avevano già proclamato nel Manifesto comunista.
Secondo la loro concezione, fra le ultime conseguenze della futura
rivoluzione pro letaria c’era, è vero, l’abolizione di
quell’organizzazione politica che viene designata col nome di
Stato, ma solo come abolizione graduale. Lo scopo principale di
questa organizzazione era sempre stato quello di assicurare con la
forza delle armi l’oppressione economica della maggioranza
lavoratrice da parte della minoranza esclusivamente possidente. Con
la scomparsa di una minoranza esclusivamente possidente scompare
anche la necessità di un potere oppressivo o statale armato.
Ma in pari tempo Marx ed Engels misero in rilievo che per arrivare a
questo e ad altri obiettivi, molto più importanti, della
futura rivoluzione, la classe operaia doveva prima di tutto
impossessarsi del potere politico organizzato dello Stato, schiac
ciare, valendosi di esso, la resistenza della classe dei
capitalisti, e dare una nuova organizzazione alla società.
Con questa concezione esposta nel Manifesto comunista però
non andava d’accordo la lode, che l’Indirizzo del Consiglio
Generale tributò alla Comune di Parigi, di aver cominciato
con lo sradicare fin dalle fondamenta lo Stato parassitario.
Marx ed Engels, è naturale, ne erano perfettamente
consapevoli; nella prefazione a una nuova edizione del Manifesto
comunista, uscita nel giugno del 1872, sotto l’impressione ancora
fresca della Comune, si corressero su questo punto, rinviando
espressamente all’Indirizzo, là dove è detto che la
classe operaia non può impossessarsi puramente e
semplicemente della macchina statale già pronta e metterla in
moto per i suoi propri fini. Ma almeno Engels più tardi, dopo
la morte di Marx, nella lotta contro tendenze anarchiche
lasciò cadere di nuovo questa riserva e riprese esattamente
il vecchio punto di vista del Mani festo. E’ abbastanza
comprensibile che i seguaci di Bakunin traessero partito a loro modo
dall’Indirizzo del Consiglio Generale. Lo stesso Bakunin osservava
ironicamente che Marx, le cui idee erano state messe sottosopra
dalla Comune, doveva renderle omaggio contro ogni logica e far suoi
il suo programma e il suo fine, E difatti, se un’insurrezione neppur
minimamente preparata, e provocata invece all’improvviso da una
brutale aggressione, poteva levar di mezzo con un paio di semplici
decreti l’apparato oppressivo dello Stato, non veniva allora
confermato ciò che Bakunin non si stancava di ripetere?
Questa conclusione si poteva dedurre con un po’ di buona o di
cattiva volontà dall’Indirizzo del Consiglio Generale che
dava troppa realtà a ciò che esisteva soltanto come
possibilità nella natura della Comune. Ma in ogni caso se
l’agitazione di Bakunin dell’anno 1871 prese uno slancio senza
precedenti, ciò si doveva alla profonda impressione che la
Comune di Parigi aveva fatto sulla classe operaia europea.
L’Indirizzo si chiudeva con queste parole: «Parigi operaia,
con la sua Comune, sarà celebrata in eterno come l’araldo
glorioso di una nuova società. I suoi martiri hanno per urna
il grande cuore della classe operaia. I suoi sterminatori, la storia
li ha già inchiodati a quella gogna eterna dalla quale non
riusciranno a riscattarli tutte le preghiere dei loro preti».
Subito dopo la sua apparizione l’Indirizzo suscitò enorme
impressione. «Esso solleva un chiasso del diavolo e io ho
l’onore di essere in questo momento l’uomo più calunniato e
più minacciato di Londra», scrisse Marx a Kugelmann.
«Ciò fa veramente bene dopo quel noioso idillio
ventennale nel pantano. Il foglio governativo — The Observer — mi
minaccia di persecu2Ìone legale. Che osino! Mi rido di queste
canaglie». Appena cominciato il chiasso, Marx aveva reso noto
di essere l’autore dell’Indirizzo.
Parecchi anni dopo Marx fu biasimato anche da parte
socialdemocratica, sia pure da voci isolate, perché avrebbe
messo in pericolo l’Internazionale addossandole il peso della
responsabilità della Comune, che essa non avrebbe dovuto
sopportare. Avrebbe sì potuto difenderla da attacchi
ingiusti, ma tenersi alla larga dai suoi errori e dalle sue colpe.
Questa sarebbe stata la tattica da «uomini di Stato»
liberali, che Marx non poteva seguire, appunto perché era
Marx. Egli non ha mai pensato a sacrificare l’avvenire della sua
causa nella speranza ingannevole di diminuire così i pericoli
che nel presente la minacciavano.
16.4 L’Internazionale e la
Comune
Per aver raccolto l’eredità della Comune tutta intera, senza
togliervi nulla, l’Internazionale si trovò di fronte a una
quantità di nemici.
La cosa di minor conto erano gli attacchi calunniosi che su di essa
riversava la stampa borghese di tutti i paesi. Al contrario, essi in
un certo senso e fino a un certo punto si trasformavano in un mezzo
di propaganda, perché il Consiglio Generale respingeva questi
attacchi con dichiarazioni pubbliche e così trovava ascolto
almeno sulla grande stampa inglese.
A un peso più grave il Consiglio Generale si sobbarcò
per provvedere ai profughi della Comune, che in parte si erano
rifugiati in Belgio e in Svizzera, ma soprattutto a Londra. Date le
sue condizioni finanziarie sempre cattive, poté raccogliere
i mezzi necessari soltanto a gran fatica e a questo scopo dovette
spendere per lunghi mesi attività e tempo, trascurando i
suoi compiti ordinari che avrebbero dovuto essere sbrigati con tanto
maggiore urgenza in quanto quasi tutti i governi erano mobilitati
contro l’Internazionale.
Ma neppure questa guerra da parte dei governi era la preoccupazione
più grave. Essa dapprima fu con dotta, con maggiore o minore
energia, nei singoli S:ati del continente; ma i tentativi di unire
tutti i governi in una battuta di caccia contro il proletariato
armato della propria coscienza di classe, per il momento falli
rono. La prima azione di questo genere fu intrapresa dal governo
francese sin dal 6 giugno 1871 con una circolare di Jules Favre, ma
questo documento era talmente idiota e falso che non incontrò
il favore degli altri governi, neppure di Bismarck, il quale, di
solito dispostissimo a ogni iniziativa reazionaria e in ispecie
antioperaia, era stato riscosso dalla sua baldanza in seguito alla
presa di posizione della socialdemocrazia tedesca (tanto dei
lassalliani che degli eisenachiani) in favore della Comune.
Qualche tempo dopo il governo spagnolo, mediante una circolare del
suo ministro degli esteri, fece un secondo tentativo per unire i
governi europei contro l’Internazionale. Non basta — diceva la
circolare — che un governo prenda isolatamente le più severe
misure contro l’Internazionale e ne sopprima le sezioni sul proprio
territorio; tutti i governi devono unire i loro sforzi per eliminare
il male. Questo richiamo avrebbe avuto maggiore risonanza se il
governo inglese non lo avesse messo subito a tacere. Lord Granville
rispose che l’Internazionale «qui nel nostro paese»
aveva limitato le sue operazioni principalmente a consigli in fatto
di scioperi e che per appoggiarli non aveva a disposizioni che
somme modeste, mentre i piani rivoluzionari, che formavano parte del
suo programma, rispecchiavano piuttosto le idee dei membri stranieri
che quelle degli operai inglesi, i quali dedicavano la loro
attenzione più che altro a questioni di salario; ma che
anche gli stranieri, come i sudditi inglesi, erano protetti dalle
leggi: se essi le avessero violate, partecipando a operazioni di
guerra contro qualsiasi Stato che vivesse in rapporti amichevoli con
la Gian Bretagna, sarebbero stati puniti, ma non vi era alcun motivo
di prendere misure preventive straordinarie contro gli stranieri in
Inghilterra. Questo sensato rifiuto di fronte ad una pretesa
insensata indusse il foglio ufficioso personale di Bismarck a
osservare ruvidamente che le misure di sicurezza per difendersi dal
l’Internazionale sarebbero rimaste sostanzialmente inefficaci,
finché il territorio inglese costituiva un campo franco da
cui, sotto la protezione delle leggi inglesi, si potevano
impunemente disturbare gli altri Stati europei.
Ma anche se in tal modo non poté essere messa in atto una
generale crociata dei governi contro l’Interna zionale, essa da
parte sua non riuscì a formare una falange serrata contro le
persecuzioni alle quali erano esposte le sue sezioni nei singoli
Stati del continente. Questa era la più grave preoccupazione
dell’Interna zionale, tanto più grave in quanto essa si
sentiva mancare il terreno sotto i piedi proprio in quei paesi le
cui classi operaie erano state i suoi più sicuri punti
d’appoggio: in Inghilterra, in Francia e in Germania, dove la grande
industria era, in maggiore o minore misura, largamente sviluppata e
dove gli operai godevano di un diritto di voto, sia pure più
o meno limitato, per le assemblee legislative. Una prova esterna
dell’importanza di questi paesi per l’Internazionale era data dalla
composizione del Consiglio Generale, che comprendeva 20 inglesi, 15
francesi, 7 tedeschi, e invece soltanto due svizzeri e due
ungheresi, e un polacco, un belga, un irlandese, un danese e un
italiano.
In Germania, Lassalle aveva impostato fin da principio su terreno
nazionale l’agitazione operaia, ciò che Marx gli aveva
aspramente rimproverato; ma questo fatto, come ben presto si
sarebbe visto, salvò il partito operaio tedesco da una crisi
che il movimento socialista dovette superare in tutti gli altri
paesi del continente. Frattanto la guerra aveva provocato una stasi momentanea nel
movimento operaio tedesco; le sue due frazioni avevano abbastanza da
fare tra di loro, così che non potevano darsi gran pensiero
dell’Interna zionale. Inoltre, pur essendosi pronunciate, tutte e
due le frazioni, contro l’annessione dell’Alsazia-Lorena e in favore
della Comune di Parigi, gli eisenachiani, che erano i soli
riconosciuti dal Consiglio Generale come ramo dell’Internazionale,
avevano assunto posizioni così avanzate da essere vessati
ancor più dei lassalliani con accuse di alto tradimento e
altre belle cose di questo genere. Secondo quanto confessa lo stesso
Bismarck, Bebel era stato il primo, con i suoi infocati discorsi al
Reichstag in cui dichiarava che i socialdemocratici tedeschi erano
solidali con i comunardi francesi, a destare i sospetti di Bismarck,
che si sfogarono in colpi sempre più violenti contro il
movimento operaio tedesco. Ma un fatto molto più decisi vo
per l’atteggiamento degli eisenachiani verso l’Internazionale fu il
loro crescente estraniarsi da essa, da quando cominciarono a
costituire un partito indipendente all’interno dei confini
nazionali.
In Francia, Thiers e Favre avevano fatto approvare dall’assemblea
composta di nobilucci di provincia una severa legge eccezionale
contro l’Internazionale, che paralizzò completamente la
classe operaia già mor talmente esausta per lo spaventoso
salasso dei massacri di Versailles. Nella loro sete di vendetta gli
eroi dell’ordine arrivarono fino al punto di chiedere alla Svizzera
e anche all’Inghilterra l’estradizione dei profughi della Comune,
come se fossero delinquenti comuni, e con la Svizzera la loro
richiesta fu quasi sul punto d’aver successo! Per il Consiglio
Generale tutti i rapporti con la Francia furono così
interrotti. Onde avere fra i suoi membri qualche rappresentante
francese, esso accolse un certo numero di esuli della Comune, alcuni
dei quali avevano appartenuto già prima all’Internazionale,
altri si erano fatti conoscere per la loro energia rivoluzionaria:
questo doveva essere un omaggio reso alla Comune di Parigi.
Ciò era molto giusto, ma invece di rafforzare il Consiglio
Generale lo indebolì, perché anche i profughi della
Comune incorsero nell’inevitabile destino di tutti gli emigrati, di
logorarsi in litigi interni. Con gli emigrati francesi Marx dovette
tollerare delle meschinità simili a quelle sperimentate
ventanni prima con i tedeschi. Egli era sicuramente l’ultimo a
pretendere una qualsiasi riconoscenza per ciò che
considerava suo dovere, ma le eterne beghe degli esuli francesi nel
novembre 1871 gli strapparono un sospiro: «Questo è il
ringraziamento per aver perso quasi cinque mesi a lavorare per gli
esuli, e per aver fatto il loro paladino con l’Indirizzo !».
L’Internazionale perse infine l’appoggio che fino allora aveva avuto
negli operai inglesi. In apparenza la rottura avvenne quando due
eminenti capi del tradunionismo, Lucraft e Odger, che avevano
appartenuto fin da principio al Consiglio Generale, e Lucraft anzi
ne era stato presidente finché questa carica era esistita,
annunciarono le loro dimissioni, a causa dell’Indirizzo sulla
guerra civile. Di qui è nata la leggenda che le Trade Unions
si sarebbero staccate dall’Internazionale per l’orrore in esse
suscitato dalla presa di posizione in favore della Comune. La
piccola parte di verità che c’è in questo non tiene
conto però del motivo decisivo. La cosa aveva ragioni
più complesse e più profonde.
L’alleanza fra l’Internazionale e le Trade Unions era stata fin da
principio come un matrimonio di convenien za. Le due parti avevano
bisogno luna dell’altra, ma nessuna delle due pensava di legarsi
all’altra per la buona e la cattiva sorte. Nell’Indirizzo inaugurale
e negli statuti dell’Internazionale Marx aveva saputo crea re, con
magistrale abilità, un programma comune, ma le Trade Unions,
anche se potevano sottoscrivere quel programma, ne traevano in
pratica soltanto ciò che faceva loro comodo. Nel suo
dispaccio di risposta al governo spagnolo lord Gran-ville
delineò con molta esattezza questi rapporti. Scopo delle
Trade Unions era il miglioramento delle condizioni di lavoro sul
terreno della società capitalistica, e per conseguire o as
sicurare questo scopo esse non disdegnavano l’attività
politica, ma nella scelta dei mezzi e dei compagni di lotta non
avevano affatto riserve di principio, a meno che la cosa non avesse
importanza proprio per raggiungere il loro scopo.
Marx dovette accorgersi subito che questa spiacevole caratteristica
delle Trade Unions, profondamente radicata nella storia e
nell’essenza del proletariato inglese, non era facile da vincere. Le
Trade Unions ebbero bisogno dell’Internazionale per riuscire ad
ottenere la riforma elettorale, ma quando la riforma fu ottenuta
cominciarono ad amoreggiare con i liberali, senza il cui aiuto non
potevano sperare di conquistare seggi in parlamento. Sin dal 1868
Marx inveiva contro questi «intriganti», fra i quali
già nominava anche Odger, che si presentò più
volte candidato al parlamento. Un’altra volta Marx giustificò
il fatto che del Consiglio facevano parte alcuni seguaci del
caposetta Bronterre O’ Brien, con queste significative parole:
«Nonostante le loro pazzie questi O’ Brienniti nel Consiglio
Generale costituiscono un contrappeso spesso necessario contro i
tradunionisti. Sono più rivoluzionari, più
decisi sulla questione della proprietà, meno
nazionalisti e inaccessibili a qualsiasi forma di corruzione.
Altrimenti li avremmo messi alla porta da un pezzo». Alla
proposta, presentata a più riprese, di formare un consiglio
federale per l’Inghilterra, Marx si oppose, come spiegava fra
l’altro nella circolare del V gennaio 1870, affermando che agli
inglesi mancava il genio della generalizzazione e la passione
rivoluzionaria, tanto che un consiglio federale inglese sarebbe
diventato un trastullo per i membri radicali del parlamento.
Dopo il loro distacco, Marx sollevò contro i dirigenti operai
inglesi, nella forma più aspra, l’accusa di essersi venduti
al ministero liberale. Per alcuni di essi l’accusa può essere
vera, per altri invece non è vera neppure se si ritiene che
la corruzione possa avvenire anche in «forma diversa»
dal pagamento in contanti. Come tradunionista, Applegarth aveva una
posizione almeno altrettanto eminente quanto Odger e Lucraft, e
anzi nei due rami del parlamento era considerato rappresentante
ufficiale del tradunionismo. Subito dopo il Congresso di Basilea, i
suoi protettori parlamentari gli avevano chiesto quale posizione
prendesse di fronte alle risoluzioni di questo Congresso sulla
proprietà collettiva, ma non si era lasciato intimorire dalle
non dissimulate minacce. E nel 1870, anno in cui era stato eletto
nella regia commissione per la discussione delle leggi contro le
malattie veneree e aveva ottenuto con ciò, primo fra gli
operai, il privilegio di ricevere dal sovrano il titolo di
«nostro fedele e beneamato», egli firmò
ugualmente l’Indirizzo sulla guerra civile in Francia e fino alla
fine rimase fedele in tutto al Consiglio Generale.
Ma proprio nel caso di quest’uomo personalmente inattaccabile, che
anche più tardi rifiutò la nomina al ministero del
commercio, si vedono i motivi del distacco dei dirigenti operai
inglesi. Il primo obiettivo delle Trade Unions era la protezione
legale delle loro leghe e delle loro casse. Nella primavera del 1871
questo obiettivo parve raggiunto, quando il governo presentò
un progetto di legge secondo cui le Trade Unions avrebbero avuto
diritto alla registrazione e alla protezione legale, solo che i loro
statuti non andassero contro la legge. Ma il governo concedeva con
una mano mentre toglieva con l’altra.
In una seconda parte della legge infatti veniva abolita la
libertà di coalizione, con la conferma e anche l’inasprimento
di tutte quelle disposizioni elastiche che erano state escogitate
contro gli scioperi, il divieto di «ricorso alla violenza», «minacce», «intimidazioni»,
«molestie», «ostruzionismo» ecc. Era una
vera legge eccezionale; le stesse azioni venivano punite se erano
compiute dalle Trade Unions o se dovevano servire al conseguimento
dei loro fini, mentre restavano impunite se compiute da altre
associazioni. Nella loro maniera sempre garbata gli storici del
tradunionismo inglese dicono: «Era di poca utilità
dichiarare legale l’esistenza di associazioni sindacali, se la legge
penale era tanto estesa da comprendere anche gli usuali mezzi
pacifici mediante i quali queste associazioni sono solite
raggiungere i loro obiettivi». Per la prima volta i
sindacati diventarono enti legalmente riconosciuti e protetti, ma le
disposizioni di legge dirette contro l’azione sindacale furono
espressamente confermate e anche inasprite.
Le Trade Unions e i loro dirigenti rifiutarono naturalmente questi
doni ingannatori. Ma con la loro resistenza ottennero soltanto
questa concessione, che il governo divise il suo disegno di legge in
due parti: una legge che dichiarava legali i sindacati, e una legge
penale supplementare che minacciava di grave punizione ogni azione
sindacale. Questo non era affatto un reale successo, ma una trappola
nella quale dovevano essere attirati i dirigenti sindacali, che
infatti vi caddero. Le loro casse premevano loro più dei loro
princìpi sindacali; tutti i dirigenti, compreso Applegarth
che anzi era in testa a tutti, fecero registrare le loro
associazioni in base alla nuova legge, e nel settembre 1871 la
Conferenza dei sindacati riuniti, rappresentante il «Nuovo
Unionismo» che in passato aveva servito da collegamento fra
l’Internazionale e le Trade Unions, si sciolse perché «
erano stati assolti i compiti per la cui soluzione essa era stata
costituita».
I dirigenti della Trade Unions poterono mettere a tacere la loro
coscienza perché nel loro progressivo im borghesimento si
erano abituati a vedere negli scioperi forme ancora rudimentali del
lavoro sindacale. Sin dal 1867 uno di loro aveva dichiarato davanti
a una regia commissione che gli scioperi significavano un assoluto
sperpero di denaro tanto per gli operai che per gli imprenditori.
Essi quindi si opposero con tutte le forze, nel 1871, quando un
movimento impetuoso per la giornata di nove ore si diffuse fra le
masse del proletariato inglese, che non erano d’accordo col nuovo
orientamento «diplomatico» dei loro capi e che erano
estremamente indignate dalla nuova legge penale supplementare. Il
movimento cominciò il 1◦ aprile con uno sciopero degli operai
meccanici di Sunderland, si estese rapidamente nei distretti della
industria meccanica e culminò nello sciopero di Newcastle,
che dopo cinque mesi finì con la completa vittoria degli
operai. Ma di fronte a questo movimento di massa la grande
associazione degli operai meccanici tenne un atteggiamento
assolutamente negativo; soltanto dopo quattordici settimane gli
operai scioperanti che erano membri dell’associazione ottennero un sussidio di sciopero di
cinque scellini settimanali, oltre all’ordinario sussidio di
disoccupazione. Il movimento, che si estese rapidamente a un gran
numero di altre categorie, fu sostenuto quasi esclusivamente dalla
Lega per le nove ore, che si era costituita per questa lotta e aveva
trovato in John Burnett una guida molto capace.
La Lega per le nove ore trovò il massimo consenso nel
Consiglio Generale dell’Internazionale, che man dò in
Danimarca e in Belgio i suoi membri Cohen e Eccarius per impedire
che gli agenti degli industriali reclutassero operai stranieri.
Essi vi riuscirono anche in larga misura. Nelle discussioni con
Burnett Marx non poté trattenersi dal constatare con amarezza
che era veramente un avverso destino, che le società
organizzate degli operai si tenessero lontane dall’Internazionale
fino al momento che si trovavano in dif ficoltà: se fossero
venute al momento opportuno, si sarebbero potute prendere in tempo
tutte le misure preventive. Si ebbe tuttavia la piena impressione
che l’Internazionale avesse conquistato presso le masse di che
sostituire largamente ciò che aveva perso per la defezione
dei dirigenti: si formavano sempre nuove sezioni e le sezioni
già esistenti acquistavano un numero sempre crescente di
nuovi membri. Ma in pari tempo si chiedeva con sempre maggiore
insistenza che l’Inghilterra avesse un proprio consiglio federale.
Marx acconsentì finalmente a questa concessione che aveva
sempre rifiutato di fare; dato che dopo la caduta della Comune non
era più prevedibile a breve scadenza una nuova rivoluzione,
pare che egli non abbia più ritenuto molto importante che il
Consiglio Generale tenesse direttamente in mano la leva più
forte della rivoluzione. Ma i suoi vecchi timori si dimostrarono
giustificati: l’istituzione del consiglio federale doveva rivelare
che in Inghilterra le tracce dell’Internazionale svanivano prima che
in qualsiasi altro paese.
16.5 L’opposizione
bakuninista
Se dopo la caduta della Comune di Parigi l’Internazionale dovette
combattere contro grandi difficoltà in Germania, in Francia e
in Inghilterra, ciò accadde più che mai in altri
paesi, dove essa aveva preso piede in misura molto limitata. Il
piccolo focolaio di crisi che già prima della guerra
franco-tedesca si era formato nella Svizzera romanza si estese alla
Italia, alla Spagna, al Belgio e ad altri paesi; parve che le
tendenze di Bakunin dovessero vincerla sulle tendenze del Consiglio
Generale.
Non che questa evoluzione fosse dovuta all’attività
agitatoria di Bakunin o ai suoi intrighi, come credeva il Consiglio
Generale. E’ vero che sin dai primi giorni del 1871 Bakunin
interruppe il suo lavoro di traduzione del Capitale per dedicarsi a
una nuova attività politica, ma questa attività non
aveva niente a che fare con l’Internazionale, e i. suo esito fu tale
da scuotere gravemente la reputazione politica di Bakunin. Si
trattava del famoso affare Neciaiev, che non si può mettere
da parte con tanta facilità, come hanno tentato di fare gli
apologeti entusiasti di Bakunin, limitandosi a rimproverargli
«troppa intimità per troppa bontà».
Neciaiev era un giovane sulla ventina, cresciuto come servo della
gleba, ma che per la benevolenza di persone liberali aveva studiato
in seminario per diventare insegnante. Entrò nel movimento
studentesco russo di quei tempo, nel quale raggiunse una certa
posizione non per la sua scarsa cultura e nemmeno per la sua modesta
intelligenza, ma per la sua indomabile energia e per il suo odio
sfrenato contro l’oppressione zarista. Ma la sua qualità
preminente era ia mancanza di qualsiasi scrupolo morale, quando
ciò serviva a favorire la sua causa. Personalmente non
chiedeva nulla, e faceva a meno di tutto ciò che era
necessario, ma non rifuggiva da nessuna azione, anche la più
riprovevole, se in questo modo immaginava di agire da
rivoluzionario.
Nella primavera del 1869 era comparso a Ginevra, dove brillava nella
sua duplice qualità di condannato politico evaso dalla
Fortezza di Pietro e Paolo e di delegato di un comitato onnipotente
che, a quanto si. diceva, preparava in segreto la rivoluzione in
tutta la Russia. Erano due invenzioni: quel comitato non esi steva
e Neciaiev non era mai stato nella Fortezza di Pietro e Paolo. Dopo
l’arresto di alcuni suoi compagni, era andato all’estero, secondo
quanto diceva lui stesso, per indurre i vecchi emigrati a
entusiasmare la gioventù russa con i loro nomi e i loro
scritti. Con Bakunin raggiunse questo scopo in misura quasi
inverosi mile. Il «giovane selvaggio», la
«piccola tigre», come Bakunin soleva chiamare Neciaiev,
si impose su di lui come rappresentante di una nuova progenie che
col suo vigor rivoluzionario avrebbe messo sottosopra la vecchia
Russia. Bakunin credeva senza riserve al «comitato», a
tal punto da impegnarsi a sottomettersi senza obiezioni ai suoi ordini, e fu subito disposto a pubblicare
insieme con Neciaiev una serie di violenti scritti rivoluzionari e a
lanciarli oltre i confini russi.
Bakunin ha indubbiamente una parte di responsabilità in
questi scritti, e non è di decisivo interesse indagare se
talune delle prestazioni peggiori sono da attribuire a lui o a
Neciaiev. Per di più è incontestato che sono opera sua
tanto l’appello che esortava gli ufficiali russi a prestare al
«comitato» quell’obbedienza incondizionata alla quale
lo stesso Bakunin si era impegnato, quanto l’opuscolo che idealizzava il
brigantaggio russo, e il catechismo rivolu zionario in cui Bakunin
sfogava la propria predilezione per le immagini spaventose e le
parole truci. Non è dimostrato invece che Bakunin abbia avuto
una parte qualsiasi nella attività demagogica di Neciaiev, di
cui egli stesso doveva restare vittima, sì che quando, troppo
tardi, se ne accorse, egli allontanò da sé la «
piccola tigre». Bakunin e Neciaiev furono accusati dal
Consiglio Generale dell’Internazionale di avere ro vinato delle
persone innocenti in Russia, inviando loro lettere, stampe,
telegrammi in una forma che doveva necessariamente richiamare
l’attenzione della polizia russa, ma un uomo come Bakunin avrebbe
dovuto a buon diritto andare immune da simili accuse. I reali
termini in cui si trovava la cosa furono ammessi dalla stesso
Neciaiev dopo che fu smascherato: egli confessò
sfrontatamente il suo metodo infame, consistente nel compromettere
tutti quelli che non erano del tutto solidali con lui, in modo da
annientarli o da trascinarli a forza nel movimento. Con lo stesso
metodo egli faceva firmare a persone che avevano fiducia in lui, in
momenti di esaltazione, dichiarazioni compromettenti, o rubava loro
lettere riservate di cui approfittava per esercitare su di loro una
pressione ricattatoria.
Bakunin non era ancora a conoscenza di questo metodo quando,
nell’autunno del 1869, Neciaiev tornò in Russia. Portava con
sé un mandato scritto di Bakunin, che lo qualificava «
rappresentante accreditato», non dell’Internazionale
naturalmente, e neppure dell’Alleanza della Democrazia Socialista,
ma di una Al leanza Rivoluzionaria Europea che lo spirito
fantasioso di Bakunin aveva fondato come propaggine, per così
dire, dell’Alleanza per gli affari russi. Essa presumibilmente
esisteva soltanto sulla carta, ma il nome di Bakunin era abbastanza
efficace per dare una certa importanza all’agitazione di Neciaiev
fra la gioven tù studentesca. Egli continuava principalmente
a servirsi dell’imbroglio del «comitato», e quando
uno dei suoi nuovi seguaci, lo studente Ivanov, cominciò a
dubitare dell’esistenza di questa autorità segreta, tolse di
mezzo questo incomodo scettico assassinandolo a tradimento. La
scoperta del cadavere portò a numerosi arresti, ma Neciaiev
fuggì oltre la frontiera.
Nei primi giorni del gennaio 1870 ricomparve a Ginevra, e
ricominciò il vecchio gioco. Bakunin si levò a
sostenere con grande ardore che l’uccisione di Ivanov era un delitto
politico, e non un delitto comune, per cui la Svizzera non doveva
concedere l’estradizione di Neciaiev, chiesta dal governo russo.
Intanto Neciaiev si teneva così ben nascosto che la polizia
svizzera non riuscì a catturarlo. Ma lui stesso giocò
un brutto tiro al suo difensore: indusse Bakunin a rinunciare alla
traduzione del Capitale per dedicare tutte le sue forze alla
propaganda rivoluzionaria, e gli promise di accordarsi con
l’editore per la questione dell’anticipo già pagato.
Bakunin, che allora viveva nelle più gravi ristrettezze, non
poteva intendere questa promessa se non nel senso che Neciaiev c il
suo misterioso «comitato» avrebbero restituito
all’editore i 300 rubli di anticipo. Ma Neciaiev spedì non
all’editore, ma a Liubavin, che aveva fatto da intermediario con
l’editore, una «risoluzione ufficiale» del «
comitato». scritta su un foglio che ne portava l’intestazione
e per di più era fregiato di una scure, un pugnale e un
revolver. Essa proibiva a Liubavin di chiedere a Bakunin la
restituzione dell’acconto, se non voleva esporsi al pericolo di
morte. Bakunin venne a conoscenza di tutte ciò solo in
seguito a una lettera oltraggiosa di Liubavin. Si affrettò a
riconoscere il suo debito con una nuova ricevuta e a impegnarsi a
pagarlo appena ne avesse avuto i mezzi, ma ruppe le relazioni con
Neciaiev, sul cui conto frattanto aveva saputo altre cose gravi,
come il progetto di assalire e svaligiare il corriere del Sempione.
La credulità, inverosimile e imperdonabile in un uomo
politico, dimostrata da Bakunin in questo episodio, eie fu il
più avventuroso della sua vita, ebbe per lui conseguenze
assai spiacevoli. Marx ne ebbe notizia già nel luglio del
1870, e questa volta la sua fonte era molto sicura: era il bravo
Lopatin che nel maggio, durante un suo soggiorno a Ginevra, aveva
cercato inutilmente di convincere Bakunin che in Russia non esisteva
nessun «comitato», che Neciaiev non era mai stato
nella Fortezza di Pietro e Paolo, che lo strangolamento di Ivanov
era stato un assassinio assolutamente ingiustificato, e se vi era
uno bene infor mato di queste cose, questi non poteva essere che
Lopatin. L’opinione sfavorevole che Marx ormai si era fatta di Bakunin dovette essere decisamente rafforzata da queste
notizie. Ma il governo russo approfittò dell’ occasione
favorevole quando, in seguito ai numerosi arresti che seguirono
l’assassinio di Ivanov, fu messo sulle tracce dell’attività
di Neciaiev. Per compromettere i rivoluzionari russi di tutto il
mondo, esso fece inscenare per la prima volta in pubblico e davanti
a giurati un processo politico; nel luglio del 1871 cominciarono a
Pietroburgo le udienze del cosiddetto processo Neciaiev, condotto
contro più di ottanta imputati, per lo più studenti,
che nella massima parte riportarono gravi condanne al carcere o
anche ai lavori forzati nelle miniere della Siberia.
In questo tempo Neciaiev era ancora in libertà, e
soggiornò alternativamente in Svizzera, a Londra e a Parigi,
dove restò al tempo dell’assedio e della Comune; solo
nell’autunno del 1872, a Zurigo, fu tradito da una spia. Allora
Bakunin con i suoi amici pubblicò presso Schabelitz a Zurigo
un opuscolo, per impedire l’estradizione di Neciaiev, arrestato per
omicidio comune; ciò non torna a suo disonore, e neppure
torna a suo disonore l’aver egli scritto, dopo l’estradizione, a
Ogarev, che si era lasciato ingannare anche lui da Neciaiev e gli
aveva addirittura consegnato tutto o in parte il fondo Batmetjev,
di cui poteva disporre dopo la morte di Herzen: «Una voce
interna mi dice che Neciaiev, che è irreparabilmente perduto
e senza dubbio lo sa, richiamerà questa volta tutta la sua
originaria energia e la sua fermezza dal profondo del suo essere,
che è traviato, corrotto, ma non ignobile. Finirà da
eroe e questa volta non tradirà nulla e nessuno». Nei
dieci anni spaventosi del carcere, fino alla morte, Neciaiev
corrispose a questa aspettativa; cercò, per quanto era
possibile, di riparare le sue colpe passate, e dimostrò una
ferrea energia che piegava al suo volere le guardie che lo
sorvegliavano.
Nello stesso tempo in cui avveniva la rottura fra Bakunin e
Neciaiev, scoppiò la guerra franco-tedesca. Essa dette subito
ai pensieri di Bakunin un’altra direzione: il vecchio rivoluzionario
ora contava che l’ingresso dell’esercito tedesco avrebbe dato in
Francia il segnale della rivoluzione sociale. Pensava che di fronte
a un’invasione aristocratica, monarchica e militarista, gli operai
francesi non potevano restare inattivi, se non volevano tradire non
solo la loro stessa causa, ma anche la causa del socialismo: la
vittoria della Germania era la vittoria della reazione europea.
Bakunin aveva ragione nel sostenere che una rivoluzione all’interno
non avrebbe paralizzato la resistenza del popolo verso l’esterno, e
a sostegno di questa tesi poteva richiamarsi proprio alla storia
francese, ma le sue proposte di far sollevare la classe contadina,
di tendenza bonapartista e reazionaria, e di indurla a una comune
azione rivoluzionaria insieme con gli operai delle città era
un puro sogno. Diceva che non bisognava rivolgersi ai contadini con
decreti di nessun genere o con proposte comunistiche o con formule
organizzative, che avrebbero soltanto provocato la loro rivolta
contro le città, ma che si doveva far scaturire piuttosto la
rivoluzione dalla loro anima; e altre belle frasi fantastiche di
questo genere.
Dopo la caduta dell’Impero, Guillaume pubblicò sulla
Solidarité un appello ad accorrere in aiuto della repub
blica francese con corpi di volontari armati. Era un’uscita
realmente buffonesca, soprattutto da parte di un uomo che predicava
con vero fanatismo che l’Internazionale doveva astenersi da
qualsiasi politica; e non ebbe altro effetto che di far ridere.
Però non si può considerare dallo stesso punto di
vista il tentativo di Ba kunin di proclamare a Lione, il 26
settembre, una Comune rivoluzionaria. Bakunin vi era stato chiamato
da elementi rivoluzionari. Essi si erano impadroniti del municipio,
avevano abolito «l’apparato amministrativo e governativo
dello Stato», e in cambio avevano proclamato la «
Federazione rivoluzionaria del comune», quando il tradimento
del generale Cluseret e la viltà di alcune altre persone
permise alla guardia nazionale di riportare una facile vittoria sul
movimento. Inutilmente Bakunin aveva insistito perché si
prendessero delle misure energiche e aveva chiesto prima di tutto
che si arrestassero i rappresentanti dei governo. Lui stesso fu
preso prigioniero, ma venne liberato da un reparto di franchi
tiratori. Si trattenne ancora qualche settimana a Marsiglia, con la
speranza che il movimento si ridestasse, e quando questa speranza fu
delusa, alla fine di ottobre, tornò a Locarno.
Le beffe per questo tentativo fallito avrebbero potuto esser
riservate alla reazione. Un avversario di Ba kunin, al quale
l’avversione per l’anarchismo non ha tolto l’imparzialità
del giudizio, scrive giustamente: «Purtroppo anche nella
stampa socialdemocratica si sentono dei giudizi ironici, che
veramente Bakunin non si è meritato. Coloro che non
condividono le idee anarchiche di Bakunin e dei suoi seguaci
possono e devono naturalmente mantenere un atteggiamento critico di
fronte alle sue speranze infondate. Ma a parte questo, la sua
condotta di allora fu un coraggioso tentativo di ridestare l’energia
assopita del proletariato francese, e di rivolgerla in pari tempo
contro il nemico esterno e l’ordinamento capitalistico della
società.
Pressa poco lo stesso tentò di fare più tardi la
Comune, che Marx, come è noto, salutò con entusiasmo». Questo giudizio in ogni caso è più realistico
e ragionevole dell’atteggiamento del Volksstaat di Lipsia, che
salutò con la solita musica il proclama emanato a Lione da
Bakunin: quel proclama — scriveva il giornale — non avrebbe potuto
essere più appropriato agli interessi di Bismarck neppure se
fosse stato fatto dall’ufficio stampa di Berlino.
Il fallimento di Lione scoraggiò profondamente Bakunin.
Vedeva dileguarsi a gran distanza la rivoluzione, che aveva
già creduto di poter afferrare con le mani, e più che
mai quando fu schiacciata anche l’insur rezione della Comune, che
per un momento aveva ridestato in lui nuove speranze. Il suo odio
contro la propaganda rivoluzionaria come la conduceva Marx, tanto
più cresceva in quanto ad essa egli attribuiva la colpa
principale dell’atteggiamento, a parer suo fiacco, del proletariato.
Per di più la sua situazione materiale era estremamente
precaria; i suoi fratelli non lo aiutavano, e vi erano giorni in cui
non aveva in tasca più di cinque centesimi e non poteva bere
nemmeno la solita tazza di tè. Sua moglie temeva che avrebbe
perso l’abituale energia e che si sarebbe rovinato moralmente. Ma
egli decise di sviluppare in un’opera, che stendeva nei momenti
liberi, le sue idee sull’evoluzione dell’umanità sulla
filosofia, sulla religione, sullo Stato e sull’anarchia. Doveva
essere il suo testamento.
Quell’opera non fu terminata; a questo spirito irrequieto un lungo
riposo non era concesso. Utin aveva continuato i suoi attacchi a
Ginevra e nell’agosto del 1870 aveva ottenuto che Bakunin e alcuni
suoi amici fossero espulsi dalla sezione centrale di Ginevra
perché appartenevano alla sezione dell’Alleanza. Poi Utin
aveva inventato la fandonia che la sezione dell’Alleanza non sarebbe
mai stata ammessa nell’Internazionale dal Consiglio Generale, e che
i documenti che essa sosteneva di aver ricevuto da Eccarius e da
Jung sarebbero stati falsi. Intanto Robin si era trasferito a Londra
ed era stato ammesso nel Consiglio Generale, che egli aveva
attaccato violentemente sull’Egalité. Il Consiglio Generale
dette in questa occasione una prova della sua imparzialità,
perché Robin non aveva cessato di essere un seguace
dichiarato dell’Alleanza. Già il 14 marzo 1871, Robin aveva
proposto di convocare una conferenza privata dell’Internazionale per
risolvere i contrasti di Ginevra. Alla vigilia della Comune il
Consiglio Generale credette bene di respingere questa proposta, ma
il 25 luglio decise di sottoporre la questione di Ginevra a una
conferenza che doveva essere convocata nel settembre. Nella stessa
seduta, a richiesta di Robin, esso confermò
l’autenticità dei documenti con cui Eccarius e Jung avevano
comunicato alla sezione ginevrina dell’Alleanza la sua ammissione
nell’Internazionale.
Questa lettera era appena arrivata a Ginevra che il 6 agosto la
sezione dell’Alleanza si sciolse volonta riamente e
comunicò subito questa decisione al Consiglio Generale. La
cosa doveva apparire come un atto generosissimo: dopo aver avuto
soddisfazione dal Consiglio Generale contro le menzogne di Utin, la
sezione si sacrificava nell’interesse della pace e della
riconciliazione. In realtà furono decisivi altri motivi,
più tardi ammessi apertamente da Guillaume. La sezione non
aveva più alcun senso, e soprattutto ai pro fughi della
Comune rifugiati a Ginevra essa appariva come un avanzo di beghe
personali. Proprio in questi profughi Guillaume vide degli elementi
adatti per condurre su base più larga la lotta contro il
Consiglio federale di Ginevra. Per questo motivo la sezione
dell’Alleanza fu sciolta, e infatti poche settimane dopo i suoi
resti si unirono con i comunardi in una nuova «Sezione della
propaganda e dell’azione socialista rivoluzionaria», che si
dichiarava d’accordo con i princìpi dell’Internazionale, ma
che si riservava la piena libertà che le accordavano gli
statuti e i congressi dell’Internazionale.
Bakunin dapprima non ebbe nulla a che fare con tutto ciò. La
sua pretesa onnipotenza come capo dell’Al leanza può essere
giudicata dal fatto che la sezione di Ginevra, prima di
sciogliersi, non ritenne neppure necessario interpellare lui a
Locarno. Se protestò contro di essa in una dura lettera, non
fu per suscettibi lità offesa, ma perché riteneva che
date le circostanze lo scioglimento della sezione fosse un colpo
vile e e sleale: «Non commettiamo atti di viltà,
sotto il pretesto di salvare l’unità dell’Internazionale». Ma nello stesso tempo, per tracciare ai suoi seguaci una
linea da seguire al Congresso di Londra, s: preoccupò di
mettere in chiaro in un’ampia esposizione dei contrasti ginevrini i
princìpi che secondo lui erano in gioco nella contesa.
Di questo lavoro sono rimasti dei frammenti notevoli, diversi e
assai migliori degli opuscoli russi che l’anno prima Bakunin aveva
fabbricato con Neciaiev. A parte qualche espressione forte, essi
sono scritti in tono pacato e oggettivo e, comunque si giudichino le
particolari idee di Bakunin, essi dimostrano in modo con vincente
che i contrasti ginevrini avevano radici più profonde dei
fugaci litigi personali e che, se questi vi avevano parte, la responsabilità principale ricadeva su Utin
e consorti.
Bakunin non negò mai il profondo contrasto che lo separava da
Marx e dal suo «comunismo di Stato», e non fu tenero
nel trattare l’avversario. Tuttavia non lo presentava come un
indegno soggetto, che non vedesse altro che i suoi propri,
riprovevoli fini. Dimostrando che l’Internazionale era nata dal seno
stesso delle masse e che poi era stata aiutata nel suo nascere da
uomini capaci e devoti alla causa del popolo, ag giungeva:
«Cogliamo questa occasione per rendere omaggio ai celebri capi
del partito comunista tedesco, prima di tutto ai cittadini Marx ed
Engels, e altresì al cittadino Ph. Becker, già nostro
amico e ora nostro avversario irriducibile, i quali, per quanto
è dato a singoli uomini di creare qualche cosa, sono stati i
veri creatori dell’Internazionale Rendiamo loro omaggio tanto
più volentieri in quanto presto saremo costretti a combattere
contro di loro. La nostra stima per loro è pura e profonda ma
non giunge fino all’idolatria, e non ci spingerà mai fino al
punto di assumere al loro cospetto un atteggiamento servile. E per
quanto noi rendiamo piena giustizia agli immensi servigi che essi
hanno reso e ancor oggi rendono all’Internazionale, combatteremo
tuttavia fino all’ultimo sangue le loro teorie false e autoritarie,
le loro pretese dittatoriali e quell’abitudine agli intrighi
sotterranei, alle vane macchinazioni, ai meschini personalismi, alle
sporche in giurie e alle infami calunnie, che del resto
caratterizzano sempre le lotte politiche di quasi tutti i tedeschi e
che essi disgraziatamente hanno introdotto
nell’Internazionale». Queste accuse sono abbastanza grosso
lane, ma Bakunin non si è mai lasciato indurre a contestare i
meriti immortali che Marx si è guadagnato come fondatore e
guida dell’Internazionale.
Ma neppure questo lavoro fu portato a termine da Bakunin. Lo stava
ancora scrivendo, quando Mazzini, in un settimanale da lui
pubblicato a Lugano, pubblicò dei duri attacchi contro la
Comune e l’Interna zionale. Bakunin rispose subito con la Risposta
di un internazionalista a Mazzini, alla quale fece seguire altri
opuscoli dello stesso tenore, quando Mazzini e il suo seguito
accettarono la polemica. Dopo tutti gli insuccessi degli ultimi
anni, Bakunin riportò finalmente un pieno successo:
l’Internazionale si estese rapidamente in Italia, dove fino allora
aveva campato stentatamente. Bakunin non dovette questo successo ai
suoi «intrighi», ma alle persuasive parole con cui
seppe risolvere la tensione rivoluzionaria che la Comune di Parigi
aveva suscitato specialmente nella gioventù italiana.
In Italia la grande industria era ancora poco sviluppata; nel
proletariato nascente la coscienza di classe si destava solo
lentamente, e gii mancavano tutte le armi legali per la difesa e
l’offesa. Invece le lotte di mezzo secolo per l’unità
nazionale avevano alimentato e mantenuto desta nelle classi borghesi
una tradizione rivoluzionaria; per l’unità si era lottato in
innumerevoli insurrezioni e congiure, finché alla fine essa
era stata raggiunta, in una forma che per tutti gli ambienti
rivoluzionari doveva essere una grande delusione: sotto la
protezione prima delle armi francesi e poi delle armi tedesche lo
Stato più reazionario della penisola aveva creato una
monarchia italiana. Le lotte eroiche della Comune di Parigi
strapparono la gioventù italiana da questo stato di
insoddisfazione. Mentre Mazzini, alle soglie della morte, voltava le
spalle con dispetto alla nuova luce, che irritava ancor più
il suo antico odio per i socialisti, Garibaldi invece, che con
maggior diritto era l’eroe nazionale, rendeva lealmente omaggio al
«sole dell’avvenire», all’Internazionale.
Bakunin sapeva benissimo da quali strati della nazione affluivano i
suoi seguaci. «Ciò che finora mancava all’Italia», scrisse nell’aprile del 1872, «non erano gli istinti,
ma proprio l’organizzazione e l’idea. Luna e l’altra si formano ora
a tal punto che in questo momento l’Italia dopo la Spagna, insieme
con la Spagna, è forse il paese più rivoluzionario. In
Italia esiste quel che manca agli altri paesi: una gioventù
ardente, energica, senza alcuna posizione, senza carriera, senza
prospettive, che nonostante la sua provenienza borghese non
è esaurita moralmente e intellettualmente come la
gioventù borghese di altri paesi. Oggi essa si getta a
capofitto nel socialismo rivoluzionario con tutto il nostro
programma, col programma dell’Al leanza». Queste righe di
Bakunin, dirette a un compagno di idee spagnolo, erano destinate ad
infiammarlo, ma se Bakunin affermava che i successi da lui riportati
in Spagna — dove non poteva neppure agire perso nalmente ma solo
per mezzo di alcuni amici — erano pari se non maggiori di quelli
riportati in Italia, questo non era un illusorio incoraggiamento, ma
l’espressione di un dato di fatto incontestabile.
Anche in Spagna lo sviluppo industriale era molto arretrato, e dove
già esisteva un proletariato moderno esso era legato mani e
piedi, privo di qualsiasi diritto, così che nella sua miseria
gli restava solo l’ultima ri sorsa dell’insurrezione armata; la
maggiore città industriale spagnola, Barcellona, contava
nella sua storia più lotte sulle barricate di qualsiasi altra
città del mondo. Per di più vi erano state le lunghe
guerre civili, che avevano dilaniato il paese, e l’enorme delusione
di tutti gli elementi rivoluzionari, che nell’autunno del 1868 avevano cacciato la dinastia borbonica per poi restare sotto la
dominazione, sia pure molto vacillante, di un re straniero. Anche in
Spagna le faville sparse dall’incendio di Parigi rivoluzionaria
caddero su materia infiammabile accumulata.
Diversamente che in Italia e in Spagna stavano le cose in Belgio, in
quanto qui esisteva già un movimento proletario di massa. Ma
era limitato quasi esclusivamente alla parte vallone del paese; la
sua spina dorsale era costituita dai minatori del Borinage, di
tendenze estremamente rivoluzionarie, nei quali il pensiero di
arrivare per vie legali a un miglioramento della situazione della
loro classe era stato soffocato già sul nascere dalle stragi
che anno per anno avevano annegato in un bagno di sangue i loro
scioperi. Ma i loro capi erano proudhoniani e già per questo
inclini alle idee di Bakunin.
16.6 La seconda Conferenza
di Londra
La conferenza che il Consiglio Generale aveva deciso di convocare a
Londra per il mese di settembre era destinata a sostituire il
congresso che doveva tenersi in quei giorni.
Nel 1869 a Basilea era stato deciso di tenere a Parigi il congresso
successivo. Ma la caccia furiosa, che il degno Ollivier aveva
scatenato, per celebrare il plebiscito, contro le sezioni francesi,
indusse il Consiglio Generale nel luglio del 1870 a fare uso della
sua facoltà di spostare la sede del congresso e a convocarlo
a Magonza. Il Consiglio Generale propose in pari tempo alle
federazioni nazionali di trasferire la sua sede da Londra in un
altro paese, ma questa proposta fu respinta all’unanimità.
Poi lo scoppio della guerra aveva mandato a monte anche il
Congresso di Magonza, e il Consiglio Generale fu incaricato dai
consigli federali di fissare in base agli avvenimenti la data del
successivo congresso.
Il decorso degli avvenimenti fu tale che non parve opportuno
convocare subito il congresso nell’autunno del 1871. C’era da
aspettarsi che la pressione sotto cui i membri dell’Internazionale
vivevano nei singoli paesi avrebbe permesso loro di mandare al
congresso solo un minimo numero di delegati, e che i pochi membri
che sarebbero potuti intervenire ugualmente sarebbero stati
senz’altro denunciati alla vendetta dei loro governi.
L’Internazionale non aveva nessun motivo di far crescere il numero
delle vittime, tanto più che ora la necessità di
provvedere ai suoi martiri esigeva assolutamente l’impiego di tutte
le sue forze e di tuta i suoi mezzi.
Il Consiglio Generale decise così di convocare intanto a
Londra una conferenza ristretta, come già nel 1865, invece di
un congresso pubblico; lo scarso numero dei partecipanti
confermò infatti le sue apprensioni. La Conferenza, che
tenne i suoi lavori dal 17 al 23 settembre, contava solo 23
delegati, fra cui 6 belgi, 2 svizzeri, uno spagnolo e 13 membri del
Consiglio Generale, di cui però sei avevano soltanto voto
consultivo.
Fra le ampie e numerose risoluzioni della Conferenza ve n’erano
alcune, come quelle che concernevano una statistica generale della
classe operaia, le relazioni internazionali dei sindacati e i
contadini, che date le circostanze avevano un significato puramente
accademico. Ciò che soprattutto premeva era la prepara zione
dell’Internazionale contro l’assalto furibondo dei nemici esterni e
il suo rafforzamento interno contro gli elementi disgregatori, due
compiti che sostanzialmente coincidevano.
La risoluzione più importante della Conferenza concerneva
l’azione politica dell’Internazionale[i]15. Prima di tutto essa si
richiamava all’Indirizzo inaugurale, agli statuti, alla risoluzione
del Congresso di Losanna e ad altre dichiarazioni ufficiali
dell’associazione in cui si affermava che la emancipazione politica
della classe operaia era inseparabile dalla sua emancipazione
sociale. Poi dichiarava che all’Internazionale si opponeva una
reazione sfrenata che soffocava ferocemente ogni sforzo di
emancipazione da parte degli operai e tendeva a mantenere con la
forza brutale la distinzione delle classi e la dominazione delle
classi possidenti, su di essa fondata; che contro questo potete
collettivo delle classi possidenti il proletariato poteva agire
come classe soltanto organizzandosi da se stesso in partito politico
distinto da tutti i vecchi partiti formati dalle classi possidenti e
opposto ad essi; che questa organizzazione del proletariato in
partito politico era indispensabile per assicurare il trionfo della
rivoluzione sociale e della sua meta finale, l’abolizione delle
classi; che la coalizione delle forze operaie già ottenuta
con le lotte economiche doveva servire al proletariato come leva nella sua lotta contro il potere politico dei
suoi sfruttatori. Per tutti questi motivi la Conferenza ricordava a
tutti i membri dell’Internazionale che il movimento economico e
l’azione politica della classe operaia in lotta erano
indissolubilmente legati tra di loro. Quanto alle questioni
organizzative, la Conferenza invitò il Consiglio Generale a
limitare il numero dei suoi membri suppletivi, e a non dare, nella
loro scelta, una preferenza troppo esclusiva alla stessa
nazionalità. Il nome di Consiglio Generale doveva spettare ad
esso soltanto; i consigli federali dei singoli paesi dovevano essere
chiamati con questo nome, e le sezioni locaii dovevano prendere il
nome delle rispettive località; la Conferenza vietò
tutti i nomi delle varie sette, come positivisti, mutualisti,
collettivisti, comunisti ecc. Ogni membro dell’Internazionale
doveva pagare, come in passato, un penny annuale per il Consiglio
Generale.
Per la Francia la Conferenza raccomandò una vivace agitazione
nelle fabbriche e la diffusione della stampa; per l’Inghilterra la
costituzione di un consiglio federale che sarebbe stato convalidato
dal Consiglio Generale appena fosse stato riconosciuto dalle sezioni
delle province e dalle Trade Unions. La Conferenza dichiarò
inoltre che durante la guerra franco-tedesca gli operai tedeschi
avevano compiuto il loro dovere. Respinse invece ogni
responsabilità per la cosiddetta congiura di Neciaiev e
incaricò Utin di pubblicare sull’Egalité di Ginevra un
succinto resoconto sul processo Neciaiev, sulla scorta delle fonti
russe, e di sottoporlo però al Consiglio Generale prima della
pubblicazione.
La questione dell’Alleanza fu dichiarata risolta dalla Conferenza,
dopo che la sezione ginevrina dell’Alleanza si era sciolta
volontariamente e dopo che era stato vietato di assumere nomi di
sette ecc. che preten dessero di rivendicare una missione speciale,
diversa dagli obiettivi comuni dell’Internazionale. Riguardo alle
sezioni del Giura, la Conferenza convalidò la risoluzione del
Consiglio Generale del 29 giugno 1870, che aveva riconosciuto il
Consiglio federale ginevrino della Svizzera romanza come l’unico
legittimo, ma in pari tempo faceva appello allo spirito di
unità e di solidarietà che doveva più che mai
penetrare negli operai, di fronte alle persecuzioni a cui in quel
tempo l’Internazionale era sottoposta. Consigliava quindi ai bravi
operai delle sezioni del Giura di aderire di nuovo al Consiglio
federale di Ginevra. Se questo non fosse stato possibile, la
Conferenza decise che le sezioni che si erano staccate avrebbero
preso il nome di Federazione giurassiana. Ma la Conferenza
dichiarò anche che il Consiglio Generale sarebbe stato tenuto
a ripudiare tutti quei sedicenti organi dell’Internazionale che
avessero dibattuto al cospetto del pubblico borghese delle questioni
interne dell’Internazionale, come avevano fatto nel Giura il
Progrès e la Solidarité.
Infine la Conferenza rimise al Consiglio Generale la facoltà
di fissare la sede e la data del successivo congresso, o della
conferenza che eventualmente lo avesse sostituito.
In complesso alle risoluzioni della Conferenza non si può
contestare uno spirito di obiettiva equità: la soluzione
proposta alle sezioni del Giura, di assumere il nome di Federazione
giurassiana, era già stata presa in considerazione da quelle
stesse sezioni. Soltanto la risoluzione su Neciaiev conteneva una
punta personale, che da un punto di vista obiettivo non era
giustificata. Le rivelazioni del processo Neciaiev erano state
sfruttate dalla stampa borghese contro l’Internazionale, ma questa
era una di quelle calunnie che allora venivano scagliate ogni giorno
a dozzine contro di essa, senza che per altro l’Internazionale si
sentisse obbligata a smentirle; in casi simili si limitava e gettare
sdegnosamente nell’immondizia quella lordura. E se per una volta
voleva fare un’eccezione alla regola, non doveva assumere come
relatore un odioso intrigante, da cui Bakunin si poteva aspettare
tanto amore per la verità quanto dalla stampa borghese.
Utin infatti, a mo’ di introduzione del lavoro a lui affidato,
raccontò un romanzacelo al tutto degno di lui. A Zurigo, dove
intendeva compiere il suo lavoro e dove credeva di non avere altri
nemici, tranne alcuni slavi membri dell’Alleanza e agli ordini di
Bakunin, un bel giorno, a quanto raccontava, egli era stato
aggredito in un luogo solitario, nei pressi di un canale, da otto
individui, che parlavano slavo, che lo ferirono, lo gettarono a
terra, e lo avrebbero finito e avrebbero buttato il suo cadavere
nel canale se non fossero passati di lì quattro studenti
tedeschi che salvarono questa vita preziosa per i futuri servigi che
avrebbe reso allo zar.
A parte questa eccezione, le risoluzioni della Conferenza offrivano
senza dubbio una base d’accordo, so prattutto in un periodo in cui
tutto il movimento operaio era circondato dai nemici. Invece il 20
ottobre la Sezione della propaganda e dell’azione socialista
rivoluzionaria, che si era formata a Ginevra coi resti dell’Alleanza
e con alcuni profughi della Comune si presentò subito al
Consiglio Generale con la richiesta di ammissione nell’Internazionale. La richiesta fu respinta dal
Consiglio Generale, dopo aver consultato il Consiglio federale di
Ginevra, e allora, da parte della Revolution Sociale, che aveva
preso il posto della scomparsa Solidarité, cominciò un
violento fuoco di fila contro il Consiglio Generale
dell’Internazionale, che secondo il parere di quell’egregio giornale
sarebbe stato un «comitato tedesco, diretto da un cervello
bismarckiano». Questa frase famigerata del resto ebbe subito
una larga risonanza, tanto che Marx poteva scrivere a un amico
americano: «Essa si riferisce al fatto imperdonabile che io
per nascita sono un tedesco e che in realtà esercito
un’influenza intellettuale decisiva sul Consiglio Generale. Nota
bene: l’elemento te desco nel Consiglio Generale è
numericamente inferiore di due terzi a quello inglese e altrettanto
inferiore a quello francese. La colpa dunque consiste nel fatto che
gli elementi inglesi e francesi sul piano teorico sono dominati (!)
dall’elemento tedesco e che essi trovano questo dominio,
cioè la scienza tedesca, molte utile e persino
indispensabile».
Quindi le sezioni del Giura tentarono il gran colpo, in un congresso
da esse tenuto il 12 novembre a Sonvil lier. Veramente ve n’erano
rappresentate solo 9 su 22, con 16 delegati, e per giunta in questa
minoranza i più soffrivano di tisi galoppante; ma non per
questo gridavano meno forte. Essi si sentivano profondamente offesi
perché la Conferenza di Londra aveva imposto loro un nome che
loro stessi avevano già pensato di assumere, ma decisero
tuttavia di sottomettersi e di chiamarsi d’allora in poi Federazione
giurassiana. Di questo si vendicarono dichiarando sciolta la
Federazione romanza, e questo naturalmente era un colpo a vuoto. Il
risultato principale del congresso però fu l’estensione e
l’invio di una circolare a tutte le fede razioni
dell’Internazionale, che impugnava la legittimità della
Conferenza di Londra e faceva appello a un congresso generale, che
avrebbe dovuto essere convocato entro brevissimo termine.
Questa circolare, abbozzata da Guillaume, cominciava col dire che
l’Internazionale si trovava su una strada ripida e pericolosa; che
essa era nata per essere una «immensa protesta contro ogni
autorità»; che gli statuti garantivano l’indipendenza
a ogni sezione e a ogni gruppo di sezioni, e che il Consiglio
Generale era stato creato come comitato esecutivo con facoltà
limitatissime; ma che a poco a poco ci si era abi tuati a
prestargli cieca fiducia, ciò che a Basilea aveva portato
alla abdicazione spontanea del Congresso, quando si era accordato
al Consiglio Generale il diritto di accettare, respingere e
sciogliere le sezioni fino alle decisioni del congresso successivo.
Questa risoluzione del Congresso di Basilea per altro era stata
vivamente sostenuta da Bakunin e approvata da Guillaume.
La circolare continuava col dire che, per conseguenza, il Consiglio
Generale, che da cinque anni era compo sto degli stessi uomini e
risiedeva nello stesso luogo, si considerava «capo legittimo» dell’Internazionale; essendo diventati a loro credere una
specie di governo, essi naturalmente consideravano le loro
particolari idee come la teoria ufficiale e l’unica ammessa
nell’Internazionale; le opinioni dissidenti che comparivano in altri
gruppi sembravano loro semplicemente delle eresie; così si
era formata a poco a poco un’ortodossia che aveva sede a Londra ed
era rappresentata dai membri del Consiglio Generale; non occorreva
fare il processo alle loro intenzioni, perché essi agivano
secondo i princìpi della loro particolare scuola, ma biso
gnava combatterli con la massima decisione, perché la loro
onnipotenza aveva necessariamente un effetto corruttore; era del
tutto impossibile che un uomo che aveva un tal potere sui suoi
simili potesse restare un uomo morale.
La circolare proseguiva affermando che la Conferenza di Londra aveva
continuato l’opera del Congresso di Basilea e aveva preso delle
risoluzioni che dell’Internazionale, libera alleanza di sezioni
indipendenti, avevano fatto un’organizzazione autoritaria e
gerarchica nelle mani del Consiglio Generale, e, per coronare
l’opera, aveva stabilito che il Consiglio Generale avrebbe dovuto
fissare la sede e la data del succes sivo congresso o della
conferenza che avrebbe dovuto sostituirlo: in tal modo si rimetteva
all’arbitrio del Consiglio Generale di sostituire con conferenze
segrete i congressi generali, le grandi sedute pubbliche
dell’Internazionale; che quindi era necessario limitare il Consiglio
Generale alla sua funzione originaria, di semplice ufficio di
corrispondenza e statistica, e realizzare, mediante il libero
collegamento di gruppi indi pendenti, quell’unità che si
sarebbe voluto raggiungere con la dittatura e la centralizzazione:
in tal modo l’Internazionale sarebbe diventata un modello della
società futura.
Nonostante il nero quadro che essa dava della situazione, o magari
proprio a causa di esso, questa circolare dei giurassiani non
raggiunse il suo scopo precipuo; la sua richiesta di convocare un
congresso al più presto possibile non ebbe alcuna risonanza
neppure in Belgio, in Italia e in Spagna. In Spagna, dietro i
duri attacchi contro il Consiglio Generale si sospettò
qualche invidiuzza fra Bakunin e Marx, in Italia non si volevano subire imposizioni né dal Giura né da Londra,
e in Belgio si chiese una modifica degli statuti, nel senso che
l’Internazionale avrebbe dovuto essere espressamente definita come
un’unione di federazioni del tutto indipendenti, e il Consiglio
Generale come un «centro di corrispondenza e
d’informazione».
La circolare di Sonvillier incontrò un plauso molto
più caloroso presso la stampa borghese europea, che vi si
gettò sopra come su una rara ghiottoneria. Tutte le menzogne
che essa aveva diffuso sul sinistro potere del Consiglio Generale,
soprattutto dopo la caduta della Comune di Parigi, venivano ora
confermate dal se no stesso dell’Internazionale. II Bulletin
Jurasnen, che intanto aveva preso il posto della Revolution Sociale,
rapidamente defunta, aveva almeno la soddisfazione di ristampare
articoli di approvazione entusiastica della stampa borghese.
L’eco strepitosa della circolare di Sonvillier indusse il Consiglio
Generale a rispondere, in un’altra circolare dal titolo: Le pretese
scissioni dell’Internazionale.
16.7 Il bacillo della
scissione nell’Internazionale
Per quel che concerneva le accuse di violazione o addirittura di
falsificazione degli statuti, di intolleranza fanatica e simili, che
a Sonvillier e altrove erano state rivolte al Consiglio Generale,
questa circolare trion fava senz’altro nella polemica; si
può soltanto deplorare che questa polemica dovesse dilungarsi
tanto su cose in gran parte insignificanti.
Oggi costa realmente un certo sforzo occuparsi ancora di queste
piccolezze. Alla fondazione dell’Interna zionale, per esempio, i
membri francesi, per timore della polizia bonapartista, avevano
omesso nel testo francese le parole «come mezzo» in
quell’articolo degli statuti che affermava che ogni movimento
politico deve essere subordinato come mezzo all’emancipazione
economica della classe operaia; la cosa era sem plice e chiara,
eppure ora venne ripetuta fino alla sazietà la menzogna che
il Consiglio Generale avrebbe falsificato il testo con l’inserzione
posteriore delle parole «come mezzo». Oppure, dato che
la Conferenza di Londra aveva riconosciuto che gli operai tedeschi
avevano fatto il loro dovere durante la guerra, si prese di qui lo
spunto per denunciare il «pangermanismo» che avrebbe
dominato nel Consiglio Generale.
La sua circolare faceva piazza pulita di queste sciocchezze, e se si
pensa che esse erano state messe in giro per minare il centralismo
della organizzazione, che vacillava dalle fondamenta, e che soltanto
il centralismo poteva ancora salvarla dagli attacchi reazionari, si
capisce l’amarezza delle frasi finali, in cui l’Alleanza è
accusata di tener mano alla polizia internazionale. «Essa
proclama l’anarchia nelle file proleta rie come il mezzo
indispensabile per spezzare la possente concentrazione di forze
politiche e sociali che si trovano nelle mani degli sfruttatori.
Sotto questo pretesto essa chiede all’Internazionale, in un momento
in cui il vecchie mondo cerca di distruggerla, di sostituire la sua
organizzazione con l’anarchia». Quanto più grave era
la pressione che l’Internazionale subiva dall’esterno, tanto
più insensati apparivano gli attacchi dall’interno,
soprattutto quando erano senza fondamento.
Ma mentre quest’aspetto della questione era messo in piena luce, la
circolare non ne giudicava con al trettanta chiarezza un altro
aspetto Come già indicava il suo titolo, essa non voleva
ammettere altro che delle «pretese» scissioni
all’interno dell’Internazionale; come già aveva fatto Marx
nella Comunicazione confidenziale, essa riconduceva tutto il
conflitto alle manovre di «alcuni intriganti», in
particolar modo di Bakunin, metteva in risalto ancora una volta le
vecchie accuse rivolte contro di lui a causa dell’«ugua
gliamento delle classi», del Congresso di Basilea ecc., lo
incolpava di aver consegnato alla polizia russa, insieme con
Neciaiev, delle persone innocenti, e dedicava un paragrafo speciale
al fatto che due seguaci di Bakunin si erano smascherati come spie
bonapartiste, fatto che per Bakunin era stato indubbiamente as sai
spiacevole, ma non più compromettente di quello accaduto al
Consiglio Generale quando, pochi mesi dopo, gli era accaduto lo
stesso guaio con due dei suoi membri. Incolpando poi il «
giovane Guillaume» di avere diffamato come odiosi «
borghesi» gli «operai di fabbrica» di Ginevra,
la circolare non teneva il minimo conto del fatto che a Ginevra si chiamava fabrique un
ceto di operai di lusso ben pagati, che avevano concluso dei
compromessi più o meno discutibili con i partiti borghesi.
Ma la parte senz’altro più debole della circolare era la sua
difesa contro l’accusa di «ortodossia» che era stata
sollevata contro il Consiglio Generale. Essa si richiamava al fatto
che la Conferenza di Londra aveva proprio vietato alle sezioni di
assumere nomi di sette. Questo era certo giustificato, in quanto
l’Internazio nale formava un conglomerato parecchio variopinto di
unioni sindacali, associazioni, società di cultura e di
propaganda; ma la spiegazione che la circolare dava di questa
risoluzione del Consiglio Generale era estremamente discutibile.
Essa diceva letteralmente così: «Il primo periodo
della lotta del proletariato contro la borghesia è ca
ratterizzato dal movimento delle sette. Questo è giustificato
nel tempo in cui il proletariato non è ancora
sufficientemente sviluppato per agire come classe. Pensatori
isolati intraprendono la critica delle con traddizioni sociali e
vogliono eliminarle per mezzo di soluzioni fantastiche, che la massa
degli operai deve soltanto accettare, diffondere e mettere in
pratica. E nella natura delle sette, che si formano attorno a questi
precursori, di isolarsi e di estraniarsi da ogni attività
concreta, dalla politica, dagli scioperi, dai sindacati, in una
parola da ogni movimento di massa. La massa del proletariato resta
indifferente o addirittura ostile di fronte alla loro propaganda.
Gli operai di Parigi e di Lione non volevano sentir parlare dei
sansimoniani, dei fourieristi, degli icariani, come i cartisti e i
tradunionisti inglesi non volevano sentir parlare degli oweniani. Da
principio essi sono una leva del movimento e diventano un ostacolo,
quando il movimento li ha supe rati. Poi diventano reazionari. Ne
danno la prova le sette della Francia e dell’Inghilterra, e da
ultimo dei lassalliani in Germania che, dopo aver ostacolato per
anni l’organizzazione del proletariato, alla fine sono diventati
semplici strumenti della polizia». In un altro passo della
circolare i lassalliani erano ancora definiti «socialisti bismarckiani», che al di fuori del loro
organo di polizia, Der Neue Sozialdemokrat, facevano da scherani
all’impero prussiano-tedesco.
Non è mai stato espressamente dimostrato che Marx sia stato
l’autore di questo scritto; per il contenuto e lo stile, Engels
potrebbe avervi avuto una parte più o meno importante. Ma il
passo sulle sette è in ogni caso opera di Marx; gli stessi
pensieri si ritrovano esposti nello stesso modo nelle sue lettere
indirizzate in quel periodo a compagni di partito, e li aveva
già svolti per la prima volta nello scritto polemico contro
Proudhon. 11 significato storico delle sette socialdemocratiche vi
è anche caratterizzato con esattezza, ma Marx sbagliava nel
mettere in un sol mazzo i lassalliani con i fourieristi e gli
oweniani.
Dell’anarchismo si può pensare tutto il male che si vuole, e
anche considerarlo, ogni qual volta fa la sua ap parizione, come
una malattia del movimento operaio; ma non si può credere — e
tanto meno oggi, dopo le esperienze di mezzo secolo — che il bacillo
gli sia stato inoculato dall’esterno, che anzi la predisposizione a
questa malattia è innata e congenita nel movimento operaio,
per svilupparsi al momento buono o meglio al momento cattivo. Ma
anche nel 1872 un errore in proposito era difficilmente
comprensibile. Bakunin non era davvero l’uomo che avesse un modello
o un sistema belle fatto, che gli operai dovessero semplicemente
accettare e mettere in pratica; Marx stesso, anzi, non si stancava
mai di ripetere che Bakunin era uno zero come teorico e solo un
intrigante nel suo elemento, che il suo programma era un
guazzabuglio arraffato superficialmente a destra e a sinistra.
La caratteristica essenziale dei fondatori di sette è il loro
atteggiamento ostile contro qualsiasi movimento proletario di massa:
ostile in quanto non vogliono sentir parlare di un tale movimento e
anche in quanto un movimento di massa non vuol sentir parlare di
loro. Anche se fosse vero che Bakunin avrebbe voluto impadronirsi
dell’Internazionale soltanto per i suoi fini, avrebbe dimostrato
con ciò ancora una volta che come rivoluzionario faceva
assegnamento solo sulle masse. Per quanto accanita si facesse la
lotta fra lui e Marx, egli non cessò, quasi fino alla fine,
di ascrivere a merito immortale di Marx l’aver creato con
l’Internazionale il quadro di un movimento proletario di massa.
Ciò che lo divideva da Marx era la diversità delle
loro opinioni sulla tattica che questo movimento di massa doveva
seguire per raggiungere il suo fine; ma per quanto sbagliate fossero
le sue opinioni in proposito, esse non avevano niente in comune con
le sette.
E quanto ai lassalliani! Nel 1872 non erano certo ancora all’altezza
dei princìpi socialisti, ma per chiarezza teorica e per
vigore organizzativo erano superiori ad ogni altro partito operaio
di quel tempo, anche alla fra zione eisenachiana, che pure traeva
sempre il suo nutrimento spirituale dagli scritti d’agitazione
lassalliani.
Lassalle aveva impostato la sua agitazione sulla larga base della
lotta proletaria di classe, sbarrando così la porta a tutte
le sette; il suo successore Schweitzer era così penetrato
dall’idea dell’inseparabilità della lotta politica da quella
sociale che Liebknecht gli aveva rivolto l’accusa di «
parlamentarismo», e se nella questione sindacale Schweitzer
non aveva tenuto conto, per sua disgrazia, degli ammonimenti di
Marx, si era tagliato fuori da lungo tempo dal movimento e i
lassalliani cominciarono a eliminare quest’errore per proprio conto,
soprattutto con lo sciopero vittorioso degli operai edili di
Berlino. Avevano superato il breve turbamento recato dalla guerra
alla loro agitazione, e le masse affluivano verso di loro a schiere
sempre più fitte.
Non ci sarebbe stato bisogno di mettere in particolare rilievo gli
attacchi contro i lassalliani, dato che in Marx era radicata una
invincibile ostilità contro Lassalle e tutto ciò che
sapeva di Lassalle, ma la circolare del Consiglio Generale inseriva
questi attacchi in un contesto che dava loro uno speciale
significato. Essi mettevano in chiara luce il vero bacillo che
minacciava l’Internazionale, la contraddizione insolubile in cui la
grande associazione si era venuta a trovare dopo la caduta della
Comune di Parigi. Da allora tutto il mondo reazionario si era
mobilitato contro l’Internazionale, che poteva difendersi contro
questo assalto solo raccogliendo strettamente tutte le sue forze. Ma
la caduta della Comune aveva dimostrato anche la necessità
della lotta politica, e questa lotta non era possibile senza
allentare in larga misura i legami internazionali, perché
essa poteva esser condotta soltanto all’interno dei confini
nazionali.
Come la richiesta dell’astensionismo politico, per quanto fosse
esagerata, derivava però, in ultima analisi, da una
giustificata diffidenza contro le insidie del parlamentarismo
borghese (diffidenza che Liebknecht aveva espresso col massimo
vigore nel suo noto discorso del 1869), così anche il
malumore contro la dittatura del Consiglio Generale, che dopo la
caduta della Comune di Parigi si manifestava sensibilmente in tutti
i paesi, scaturiva nonostante tutte le esagerazioni dalla
consapevolezza più o meno chiara che un partito operaio
nazionale è legato prima di tutto alle sue condizioni di
esistenza all’interno della nazione di cui esso è parte, che
non può prescindere da queste condizioni d’esistenza,
così come un uomo non può saltare la propria ombra, in
altre parole che esso non può essere diretto dall’estero. Per
quanto Marx avesse affermato, già negli statuti
dell’Internazionale, l’inseparabilità della lotta politica e
della lotta sociale, in pratica però si richiamava sempre
alle rivendicazioni sociali che erano comuni alle classi operaie di
tutti i paesi a produzione capitalistica, toccava di questioni
politiche solo in quanto esse servivano alle rivendicazioni sociali,
come nel caso della riduzione legale della giornata lavorativa. Le
questioni politiche nel senso proprio e immediato della parola, in
primo luogo le questioni che riguardavano la costituzione dello
Stato e che avevano aspetti diversi nei diversi paesi, Marx le
riservava al momento che il proletariato fosse stato portato dalla
Internazionale a una maggiore consapevolezza; eppure rimproverava a
Lassalle di aver condotto un’agitazione che si adattava a un solo
paese!
E’ stata avanzata l’ipotesi che Marx avrebbe conservato ancora
questa riserva, se la questione politica non gli fosse stata imposta
con urgenza dalla caduta della Comune di Parigi e dall’agitazione di
Bakunin. E’ possibilissimo, e anzi verosimile, ma accettando la
lotta quando gli era imposta egli agì pienamente secondo la
sua natura. Soltanto non si avvide che il compito che doveva
risolvere non poteva esser risolto così come era fatta allora
l’Internazionale, e che l’Internazionale crollava all’interno nella
misura che stringeva più rigidamente le sue file contro il
nemico esterno. Se la mente direttrice dell’Internazionale scambiava
per una truppa mercenaria di polizia un panino operaio sviluppato
secondo le sue idee, e per di più nella sua stessa patria,
ciò dimostrava in modo definitivo che l’ora storica
dell’Internazionale era scoccata.
Ma questa prova non era l’unica. Dovunque si formavano partiti
operai, nazionali, l’Internazionale crolla va. Con quale violenza
Schweitzer in passato era stato coperto di accuse da Liebknecht, a
causa della freddezza verso l’Internazionale! Ora che lo stesso
Liebknecht era a capo della frazione eisenachiana, doveva subire da
Engels proprio le stesse accuse e, come Schweitzer, rispondeva,
richiamandosi alle leggi tedesche sulle associazioni: «Non
mi passa neppur per la testa di mettere in gioco per questa
questione l’esistenza della nostra organizzazione». Se lo
sventurato Schweitzer avesse osato tenere un linguaggio così
franco e sicuro (cosa che non ha mai fatto) sarebbe andata ben
diversamente per il «re dei sarti»[i]17 che voieva
avere assolutamente il «suo partito». La fondazione
della frazione di Eisenach aveva darò il primo colpo al
«Gruppo di sezioni di lingua tedesca» di Ginevra;
l’ultimo colpo inferto a questa che era la più antica e la
più forte organizzazione di cui l’Internazionale disponesse
sul continente, fu la fondazione di un partito operaio svizzero, che avvenne nel 1871. Alla fine di
quest’anno Becker dovette già sospendere la pubblicazione del
Vorbote.
Nel 1872 Marx ed Engels non avevano ancora afferrato i nessi di
questa situazione. Eppure mettevano in ombra le loro stesse ragioni,
quando sostenevano che l’Internazionale era finita per le manovre di
un solo demagogo, mentre essa poteva ritirarsi con tutti gli onori
dalla scena della storia, dopo aver assolto un grande compito che
aveva superato le sue stesse possibilità. In realtà
si deve essere d’accordo con gli odierni anarchici, quando essi
dicono che non vi è nulla di meno marxista dell’idea che un
individuo ecce zionalmente perfido, un «intrigante
estremamente pericoloso», abbia potuto rovinare
un’organizzazione proletaria come l’Internazionale, e non con
quelle anime pie che inorridiscono al minimo dubbio che Marx ed
Engels possano, per una volta, avere sbagliato di una virgola. Marx
ed Engels stessi, se oggi potessero parlare, tratterebbero con
caustico scherno coloro che pretendono che nei loro riguardi non si
debba usare quella critica priva di riguardi che è sempre
stata la loro arma più tagliente.
La loro vera grandezza non sta nel non avere mai sbagliato, ma anzi
nel non essersi mai irrigiditi nell’errore ogni qual volta si sono
accorti di avere sbagliato. Sin dal 1874 Engels ammetteva che
l’Internazionale aveva sopravvissuto a se stessa: «Per dare
vita a una nuova Internazionale nella forma dell’antica, come
un’alleanza di tutti i partiti proletari di tutti i paesi, sarebbe
necessaria una repressione generale del movimento operaio, come
quella del 18491864. Ma per questa il mondo proletario è
oggi diventato troppo grande, troppo esteso». E si confortava
osservando che per dieci anni l’Internazionale aveva dominato un
lato della storia europea — il lato su cui riposa l’avvenire — e che
poteva guardare con orgoglio al lavoro fatto.
Nel 1878 Marx confutò su una rivista inglese l’asserzione
secondo cui l’Internazionale sarebbe stata un fallimento e ormai
sarebbe morta, con queste parole: «I partiti operai
socialdemocratici in Germania, in Svizzera, in Danimarca, in
Portogallo, in Italia, in Belgio, in Olanda e nel Nordamerica,
più o meno organiz zati all’interno dei confini nazionali,
costituiscono in realtà altrettanti gruppi internazionali,
non più sezioni isolate rade e disperse in diversi paesi e
tenute insieme da un Consiglio Generale periferico, ma invece le
masse lavoratrici stesse in comunicazione costante, attiva, diretta,
cementata dallo scambio delle idee, dagli aiuti reciproci e dagli
obiettivi comuni... In tal modo l’Internazionale, invece di
scomparire, è passata da una prima fase a una fase superiore,
in cui le sue tendenze originarie si sono in parte realizzate. Nel
corso di questo sviluppo progressivo essa avrà da sottostare
ancora a parecchie trasformazioni, finché potrà essere
scritto l’ultimo capitolo della sua storia».
Nello stendere queste righe Marx dava una nuova prova del suo
sguardo veramente profetico. Nel tempo in cui i partiti operai
nazionali spuntavano appena, più di un decennio prima che si
costituisse la nuova Internazionale, Marx ne prevedeva l’essenza
storica, ma neppure ad essa prometteva una durata eterna, ma
soltanto questo: che dalle rovine sarebbe sorta nuova vita,
finché i tempi si fossero compiuti.
16.8 Il Congresso dell’Aia
La circolare del Consiglio Generale del 5 marzo annunciava la
convocazione del congresso annuale per il principio di settembre.
Nel frattempo Marx ed Engels decisero di proporre il trasferimento
del Consiglio Generale da Londra a New York.
Si è molto discusso sulla necessità e
sull’utilità di questa proposta, e anche sui motivi che la
determinarono. E’ stata anche considerata come una specie di
funerale di prima classe dell’Internazionale: Marx avrebbe voluto
dissimulare così che non si poteva più salvare
l’Internazionale. A questa spiegazione si oppone il fatto che Marx
ed Engels hanno appoggiato con tutte le forze il Consiglio Generale
e hanno tentato di mantenerlo in vita anche dopo che era stato
trasferito a New York. E’ stato poi detto che Marx ne avrebbe avuto
abbastanza di lavorare per l’Internazionale e che avrebbe voluto
dedicarsi indisturbato al suo lavoro scientifico, e questa ipotesi è confermata in un certo senso
da Engels; in una lettera a Liebknecht del 27 maggio 1872 accennava
a una proposta belga di abolire del tutto il Consiglio Generale, e
aggiungeva: «Per noi personalmente andrebbe benissimo, io e
Marx comunque non ci entriamo più; come vanno le cose ora,
non abbiamo tempo per lavorare, e questo deve finire».
Tuttavia questa era un’uscita occasionale, dettata da un momento di
collera. Anche se Marx ed Engels respingevano la rielezione al
Consiglio Generale, il suo trasferimento da Londra non era ancora
necessario, ma Marx aveva più volte rifiutato di trascurare
l’Internazionale per dedicarsi al lavoro scientifico, prima che
essa fosse avviata su binari sicuri; e ora che l’Internazionale
attraversava la crisi più grave che l’avesse mai assalita,
Marx non pensava certo ad abbandonarla per quel motivo.
Era piuttosto nel giusto Marx stesso, scrivendo a Kugelmann, il 29
luglio: «Al Congresso internazionale (L’Aia, apertura 2
settembre), si tratta di vita o di morte dell’Internazionale, e
prima che io ne esca, voglio almeno proteggerla dagli elementi
disgregatori». Di questa difesa contro gli «elementi
disgregatori» fa ceva parte anche l’allontanamento del
Consiglio Generale da Londra, dove era in preda a contese sempre
crescenti. E’ vero che le tendenze bakuniniste non vi erano affatto
rappresentate, o tutta! più così de bolmente che non
vi era nulla da temere da parte loro. Ma anche fra i membri
tedeschi, francesi e inglesi regnava una tale confusione che si era
dovuto istituire un sottocomitato speciale per dirimere le eterne
liti.
Persino fra Marx e i due membri del Consiglio Generale che per
lunghi anni erano stati i suoi più capaci e fedeli
collaboratori, Eccarius e Jung, si era verificato un raffreddamento,
che nel caso di Eccarius già nel maggio del 1872 portò
a un’aperta rottura. Eccarius viveva in condizioni
finanziarie molto precarie, e si era dimesso dalla carica di
segretario generale dell’Internazionale perché si riteneva
indispensabile e voleva elevare al doppio il suo modesto stipendio
di 15 scellini settimanali. Invece al suo posto fu eletto l’inglese
John Hales, e Eccarius ne attribuì, a torto, la
responsabilità a Marx. Invece Marx lo aveva sempre difeso
contro gli inglesi; soltanto lo aveva più volte rimproverato
perché aveva venduto di sottomano alla stampa delle
comunicazioni sugli affari interni dell’Internazionale, fra l’altro
sulle discussioni segrete della Conferenza di Londra. Jung a sua
volta attribuì a Engels e al suo autoritario intervento il
raffreddamento di Marx. In questo può esserci qualche cosa di
vero. Da quando Marx poteva aver rapporti quotidiani con Engels,
può darsi che senza cattiva intenzione non abbia più
avvicinato spesso come prima Eccarius e Jung; ma da parte sua anche
il «generale», questo era il nomignolo confidenziale
con cui Engels veniva chiamato, a quanto attestano anche i suoi
buoni amici amava usare un tono brusco e militaresco; quando la
presidenza alterna del Consiglio Generale toccava a lui, bisognava
prepararsi a scene tempestose.
Da quando Hales era stato eletto segretario generale, esisteva fra
lui e Eccarius una mortale avversione; Eccarius del resto aveva con
sé una parte dei membri inglesi. Marx invece non trovò
alcun appoggio da parte del nuovo segretario generale. Anzi, quando,
in conformità delle risoluzioni della Conferenza di Londra,
fu fondata la Federazione inglese, che il 21 e il 22 luglio tenne a
Nottingham il suo primo congresso alla presenza di 21 delegati,
Hales seguì la parola d’ordine bakuninista della «
autonomia minacciata delle federazioni», proponendo che si
trattasse con le altre federazioni non attraverso il Consiglio
Generale ma direttamente, e inoltre che al congresso generale si
chiedesse di modificare gli statuti, nel senso di ridurre i poteri
del Consiglio Generale. La seconda proposta fu ritirata da Hales, ma
la prima fu approvata. Dal punto di vista programmano) questo
congresso rivelò non una tendenza verso il bakuninismo, ma
verso il radicalismo inglese; voleva per esempio la socializzazione
della proprietà fondiaria, ma non di tutti i mezzi di
produzione, come chiedeva Hales nei suoi interventi. Egli
intrigò apertamente contro il Consiglio Generale, che in
agosto dovette esonerarlo dalla sua carica.
Fra i memori francesi del Consiglio Generale prevaleva la tendenza
blanquista, in cui si poteva avere pie na fiducia riguardo alle due
questioni principali sulle quali verteva il contrasto,
l’attività politica e la rigida centralizzazione, ma che,
date le circostanze, con la sua spiccata predilezione per i colpi
di mano poteva diventare più pericolosa per l’Internazionale
di qualsiasi altra, in un momento in cui la reazione europea non
spiava altro che l’occasione per passare a vie di fatto con l’enorme
superiorità delle sue forze. La pre occupazione che i
blanquisti potessero prendere le redini in mano fu infatti l’impulso
più forte, che spinse Marx a prendere in considerazione la
possibilità di spostare il Consiglio Generale da Londra, e
proprio a New York che avrebbe consentito la sua composizione
internazionale e avrebbe garantito la sicurezza dei suoi archivi,
ciò che era escluso in qualsiasi parte del continente
europeo.
Al Congresso dell’Aia, che si tenne dal 2 al 7 settembre, Marx
poté disporre di una maggioranza sicura, grazie alla rappresentanza relativamente forte di tedeschi e
francesi fra i 61 delegati. Dai suoi avversari gli è stato
rimproverato di aver fabbricato questa maggioranza con mezzi
artificiosi, rimprovero che è assolu tamente insostenibile
per ciò che riguarda l’autenticità dei mandati; per
quanto il Congresso abbia speso metà del suo tempo nella
verifica dei mandati, essi superarono tutti l’esame, con una sola
eccezione. Cer to che Marx aveva scritto in America fin da giugno
per i mandati dei tedeschi e dei francesi. Molti delegati
rappresentavano sezioni non del loro paese, ma d’un’altra nazione;
altri per timore della polizia compari vano sotto falso nome o
tacevano per lo stesso motivo i nomi delle sezioni che li avevano
delegati. Per questo i dati numerici sui partecipanti delle singole
nazioni differiscono sensibilmente nei diversi resoconti del
Congresso.
I rappresentanti di organizzazioni tedesche, se presi in senso
stretto, erano soltanto otto: Bernhard Becker (Brunswick), Cuno
(Stoccarda), Dietzgen (Dresda), Kugelmann (Celle), Milke (Berlino),
Rittinghausen (Mo naco), Scheu (Wùrttemberg) e Schuhmacher
(Solingen). Inolrre Marx, come rappresentante del Consiglio
Generale, oltre a un mandato per New York aveva un mandato per
Lipsia e uno per Magonza, e Engels un mandato per Breslavia e uno
per New York. Hepner di Lipsia aveva un mandato per New York,
Friedlànder di Berlino uno per Zurigo. Due altri delegati,
con nomi apparentemente tedeschi, Walter e Swann, erano in
realtà francesi: si chiamavano Heddeghem e Dentraggues;
erano entrambi tipi poco sicuri, Heddeghem già all’Aia era
spia bonapartista. Fra i delegati francesi i profughi della Comune,
Frankel e Longuet, che erano con Marx, e Ranvier, Vaillant e altri,
che erano blanquisti, si presentavano col loro nome, ma l’origine
dei loro mandati doveva restare più o meno all’oscuro. Oltre
che da Marx il Consiglio Generale era rap presentato da due inglesi
(Roach e Sexton), un polacco (Wroblewski) e tre francesi
(Serraillier, Cournet e Dupont), l’Associazione comunista operaia di
Londra era rappresentata da Lessner. Il Consiglio federale inglese
aveva inviato quattro delegati, fra cui Eccarius e Hales, che
all’Aia cominciarono a trescare con i bakuninisti.
Fra i bakuninisti, gli italiani non avevano mandato nessun delegato
al Congresso; sin dall’agosto, in una conferenza tenuta a Rimini,
essi avevano rotto ogni relazione col Consiglio Generale. I cinque
delegati spagnoli, con la sola eccezione di Lafargue, stavano dalla
parte dei bakuninisti, come gli otto rappresentanti belgi e i
quattro olandesi. La Federazione giurassiana mandò Guillaume
e Schwitzguebel, mentre Ginevra fu ancora rappresentata dal vecchio
Becker. Dall’America vennero quattro delegati: Sorge, che come
Becker era uno dei più fedeli seguaci di Marx, e il
blanquista Dereure, ex membro della Comune; il terzo mandato
toccò a un bakuninista, mentre il quarto fu l’unico mandato
invalidato dal Congresso. Danimarca, Austria, Ungheria e Australia
erano rappresentate da un delegato ciascuna.
Nei tre giorni della verifica dei mandati cominciarono subito scene
tempestose. Il mandato spagnolo di Lafargue fu violentemente
contestato, ma poi convalidato con poche astensioni. Nella
discussione su un mandato che una sezione di Chicago aveva affidato
a un membro residente a Londra, un delegato del Consiglio federale
inglese si appoggiò al fatto che questo membro non era un
dirigente operaio riconosciuto, al che Marx rispose che non essere
un dirigente inglese era più un onore che altro, dato che la
maggioranza di questi dirigenti erano venduti ai liberali. Il
mandato fu convalidato, ma la frase suscitò viva indignazione
e dopo il Congresso Hales e compagni la sfruttarono con gran zelo
contro Marx; del resto lui stesso, che era sempre responsabile delle
sue azioni, non se ne pentì e non la ritirò mai.
Terminata la verifica dei mandati, fu sottoposta all’esame
preliminare di una commissione di cinque una serie di documenti
relativi a Bakunin e alla sua Alleanza; i suoi membri furono scelti
fra coloro che erano stati interessati il meno possibile nella
contesa per l’Alleanza: essi erano il tedesco Cuno, come presidente,
i francesi Lucain, Vichard e Walter-Heddeghem, e infine il belga
Splingard.
I lavori effettivi cominciarono solo il quarto giorno, con la
lettura del resoconto preparato dal Consiglio Generale per il
Congresso. Era stato redatto da Marx e fu letto da lui stesso in
tedesco, da Sexton in inglese, da Longuet in francese e da Abeele in
fiammingo. Il resoconto stimmatizzava tutti gli atti di violenza che
dal plebiscito bonapartista in poi erano stati perpetrati contro
l’Internazionale, il massacro sanguinoso della Comune, le infamie
di Thiers e Favre, le azioni ignominiose della Camera francese
composta di nobilucci di campagna, i processi per alto tradimento in
Germania; anche il governo inglese ricevette una sferzara per il
terrorismo con cui aveva proceduto contro le sezioni irlandesi e
per le inchieste sulle diramazioni dell’associazione che aveva fatto
fare attraverso le ambasciate. Di pari passo con le persecuzioni dei
governi era andato il volume delle menzogne del mondo civile, con
le storie apocrife dell’Internazionale, con telegrammi allarmanti e falsificazioni spudorate di documenti
ufficiali, soprattutto con quel capolavoro di calunnia infernale,
quel dispaccio che aveva attribuito all’Internazionale il grande
incendio di Chicago e che aveva fatto il giro di tutto il mondo.
C’era da stupirsi che l’uragano che in quel momento devastava le
Indie occidentali non venisse imputato alla sua azione diabolica. Di
fronte a queste feroci e rabbiose manovre, il Consiglio Generale
metteva in rilievo gli incessanti progressi dell’Internazionale: la
sua penetrazione in Olanda, Danimarca, Portogallo, Scozia, Irlanda,
la sua estensione negli Stati Uniti, Australia, Nuova Zelanda e a
Buenos Aires. Il resoconto fu accolto da applausi e su proposta di
un delegato belga il Congresso espresse la sua ammirazione e la sua
simpatia per tutte le vittime della lotta di emancipazione del
proletariato.
Poi si passò al dibattito sul Consiglio Generale. Lafargue e
Sorge dimostrarono che esso era necessario per le esigenze della
lotta di classe: la lotta quotidiana della classe operaia contro il
capitale non poteva esser condotta senza un’istanza centrale
dirigente; se non si avesse avuto ancora un Consiglio Generale, si
sarebbe dovuto inventarlo. La tesi contraria fu sostenuta
soprattutto da Guillaume, che contestò la necessità di
un Consiglio Generale, e voleva tutt’al più lasciarlo come
ufficio centrale di corrispondenza e di statistica, ma spogliarlo di
ogni attività; disse che l’Internazionale non era
un’invenzione di un uomo capace, dotato di una teoria politica e
sociale infallibile, ma che secondo il giudizio dei giurassiani essa
era nata dalle condizioni economiche di esistenza della classe
operaia, ciò che garantiva a sufficienza l’unità dei
suoi sforzi.
Il dibattito fu concluso soltanto al quinto giorno dall’apertura, in
una seduta segreta, come quelle, del resto, in cui erano avvenute le
discussioni sui mandati, che erano state tenute a porte chiuse. In
un lungo discorso Marx si pronunciò non solo a favore del
mantenimento dei poteri già attribuiti al Consiglio
Generale, ma anzi anche del loro rafforzamento: esso doveva
ottenere il diritto di sospendere fino al successivo congresso, con
certe cautele, non solo singole sezioni, ma anche intere
federazioni; esso non disponeva né di una polizia né
di soldati, ma non poteva permettere che il suo potere morale fosse
ridotto; piuttosto lo si abolisse, anziché gettarlo nei
rifiuti. Il Congresso decise nel senso voluto da Marx con 36 voti
contro 6 e 15 astensioni.
A questo punto Engels propose di trasferire il Consiglio Generale da
Londra a New York. Fece presente che già parecchie volte si
era pensato di trasferire il Consiglio Generale da Londra a
Bruxelles, ma che Bruxelles aveva sempre rifiutato, che le
circostanze del momento rendevano improrogabile la decisione, e
nello stesso tempo rendevano necessaria la sostituzione di Londra
con New York; che bisognava prendere questa decisione almeno per un
anno. La proposta suscitò una sorpresa generale, e per lo
più una sor presa spiacevole. Con particolare
vivacità protestarono i delegati francesi, che riuscirono a
ottenere una votazione separata, prima sul trasferimento in
sé, poi sulla sede da scegliere. Con una stretta maggioranza,
26 voti contro 23 e 9 astensioni, il trasferimento fu approvato;
per New York decisero poi 30 voti. Quindi furono eletti 15 membri
del nuovo Consiglio Generale; fu concesso loro il diritto di
integrare il loro numero con sette membri.
Sempre nella stessa seduta fu aperto il dibattito sull’azione
politica. Vaillant aveva presentato una risolu zione nello stesso
senso della risoluzione emanata in proposito dalla Conferenza di
Londra: la classe operaia doveva costituirsi in partito politico,
che doveva essere rigorosamente separato da tutti i partiti bor
ghesi e tenere una posizione ostile verso di essi. Vaillant, e con
lui Longuet, si richiamarono in particolare alle esperienze della
Comune di Parigi, che era caduta per mancanza di un programma
politico. Un effetto meno convincente ebbe l’intervento di un
delegato tedesco, secondo cui Schweitzer era diventato una spia in
conseguenza dell’astensionismo politico, quello stesso Schweitzer
che tre anni prima, al Congresso di Basilea, era stato denunciato
come spia dai delegati tedeschi a causa del suo
«parlamentarismo». Guil laume da parte sua si
richiamò alle esperienze della Svizzera, dove gli operai, in
occasione delle elezioni, avevano concluso alleanze elettorali con
gente d’ogni risma, ora coi radicali, ora coi reazionari; e disse
che i giurassiani non volevano sapere di simili maneggi; che erano
anche dei politici, ma dei politici negat.vi: non volevano
conquistare il potere politico ma distruggerlo.
Anche questa discussione si protrasse fino al giorno successivo, il
sesto ed ultimo, che cominciò con una sorpresa: Ranvier,
Vaillant e altri blanquisti avevano abbandonato il Congresso a
causa del trasferimento del Consiglio Generale a New York; in un
opuscolo pubblicato subito dopo essi dicevano: «Invitata a
fare il suo dovere, l’Internazionale ha rifiutato. Si è
sottratta alla rivoluzione ed è scappata oltre l’Oceano
Atlantico ». Sorge prese la presidenza al posto di Ranvier. Quindi fu
approvata la proposta di Vaillant con 35 voti contro 6 e 8 astensioni. Una parte dei delegati erano già
partiti, ma i più di loro avevano lasciato in una
dichiarazione scritta il loro voto favorevole.
Le ultime ore dell’ultimo giorno furono occupate dalla relazione
della commissione dei cinque su Bakunin e l’Alleanza. Essa fece la
seguente dichiarazione, approvata con quattro voti contro quello del
membro belga: prima di tutto era dimostrato che era esistita
un’alleanza segreta, con statuti che erano in netta con traddizione
con quelli dell’Internazionale, ma non era sufficientemente
dimostrato che esistesse ancora. In secondo luogo, da un progetto di
statuto e da lettere di Bakunin era dimostrato che egli aveva
tentato, e quasi gli era riuscito, di fondare all’interno
dell’Internazionale una società segreta con statuti che dal
punto di vista politico e sociale differivano assolutamente dagli
statuti dell’Internazionale. In terzo luogo, Bakunin si era valso
di manovre fraudolente per impadronirsi di proprietà altrui:
per sottrarsi ai suoi impegni, lui o i suoi agenti si erano serviti
di intimidazioni. Per questi motivi, la maggioranza della
commissione proponeva l’espulsione di Bakunin, di Guillaume e di
parecchi loro seguaci. Come relatore della commissione, Cuno non
produsse prove materiali, ma dichiarò soltanto che la
maggioranza era arrivata alla certezza morale, e chiese il voto di
fiducia del Congresso.
Invitato dal presidente a difendersi, Guillaume, che si era
già rifiutato di comparire di fronte alla commissio ne,
dichiarò che rinunciava a qualsiasi difesa, per non prendere
parte a una commedia; che questo colpo non era diretto contro alcune
persone, ma contro le tendenze federaliste; che fra i
rappresentanti di queste tendenze, quelli ancora presenti al
Congresso avevano preso le loro misure e avevano già concluso
un pat to di solidarietà. Questo patto fu letto da un
delegato inglese; era sottoscritto da quattro delegati spagnoli,
cinque belgi, due giurassiani, un olandese e un americano. Per
evitare ogni scissione nell’Internazionale, i firmatari si
dichiaravano pronti a lasciare tutte le funzioni amministrative al
Consiglio Generale, ma a respin gere le sue ingerenze negli affari
interni delle federazioni, fin tanto che non si trattasse di
mancanze contro gli statuti generali dell’Internazionale; frattanto
tutte le federazioni e le sezioni erano invitate a prepararsi per il
successivo congresso, per portare alla vittoria il principio della
libera associazione (autonomie fede rative). Il Congresso non solo
ricusò la discussione in proposito, ma espulse Bakunin con
27 voti contro 7 (e 8 astensioni) e Guillaume con 25 voti contro 9
(e 9 astensioni). Le altre proposte della commissione furono
respinte, ma essa fu incaricata di pubblicare i documenti
concernenti l’Alleanza.
Questa giornata finale del Congresso dell’Aia non fu davvero degna
del Congresso stesso. Non si poteva certo ancora sapere che le
risoluzioni della commissione erano già nulle perché
vi aveva collaborato una spia; sarebbe stato ancora comprensibile,
da un punto di vista umano, se Bakunin fosse stato espulso per
motivi politici, sulla base della convinzione morale che egli fosse
un disturbatore incorreggibile, anche senza poter produrre, nero su
bianco, le prove dei suoi raggiri. Ma era inescusabile che si
mettesse ancora in discussione l’onorabilità di Bakunin,
accusandolo di aver toccato la roba altrui, e la colpa di questa
accusa purtroppo era di Marx.
Marx si era procurato quella pretesa risoluzione di quel preteso
«comitato rivoluzionari» che conteneva delle minacce
contro Liubavin, nel caso che avesse insistito nel pretendere la
restituzione dei 300 rubli di acconto che aveva fatto dare a Bakunin
da un editore russo, per la traduzione del Capitale. Il contenuto
letterale del documento non è stato reso noto, ma Liubavin,
che pure era diventato anche lui acerrimo nemico di Bakunin, quando
lo mandò a Marx lo accompagnò con queste parole:
«In quel momento mi parve che Bakunin avesse avuto
innegabilmente una parte in questa lettera, ma oggi, considerando
più freddamente tutta la faccenda, vedo che questa
partecipazione non è affatto dimostrata, perché la
lettera potrebbe essere stata mandata da Neciaiev senza che Bakunin
ci entrasse per nulla». Le cose erano andate proprio
così, ma sulla base di questa sola lettera, di cui lo stesso
destinatario sospettava il vero carattere criminale, all’Aia Bakunin
fu accusato di una segreta attività delittuosa.
Nonostante che egli abbia più volte riconosciuto il debito
dell’acconto, e abbia promesso di scontarlo in qualche modo, sembra
veramente che nelle sue eterne ristrettezze non vi sia mai riuscito.
D’altra parte non si sa nulla dell’unica vittima di questa triste
faccenda, cioè dell’editore, che sembra aver preso con
filosofica rassegnazione una sorte alla quale il suo mestiere del
resto è largamente abituato. Quanti scrittori, infatti, e fra
loro anche i nomi più famosi, tante volte sono rimasti
debitori di un acconto verso il loro editore! Non è certo una
cosa lodevole, ma ci vuol altro, per mandare il colpevole al
patibolo.
16.9 Postumi
Col Congresso dell’Aia si chiuse la storia dell’Internazionale, per
quanto Marx ed Engels si sforzassero di mantenerla in vita. Essi
fecero tutto ciò che era possibile per facilitare al nuovo
Consiglio Generale di New York i suoi compiti.
Ma neppure ad esso riuscì di piantare salde radici in terreno
americano. Anche là regnavano discordie di ogni sorta fra le
diverse sezioni, mentre mancavano esperienze e collegamenti, forze
spirituali e mezzi materiali. L’anima del nuovo Consiglio Generale
era Sorge, che conosceva la situazione americana ed era stato
contrario al trasferimento del Consiglio Generale, ma dopo avere in
un primo momento rifiutato, aveva accettato l’elezione a segretario
generale. Era troppo coscienzioso e leale per dir di no in un
momento di urgente necessità.
E’ sempre una cosa arrischiata, far della diplomazia nelle questioni
proletarie. Marx ed Engels avevano avuto ragione di temere che il
loro piano di trasferire il Consiglio Generale a New York avrebbe
suscitato una violenta resistenza fra gli operai tedeschi, francesi
e inglesi, ed avevano aspettato a fare la proposta finché
era stato possibile, per non accrescere prematuramente i motivi di
conflitto che esistevano già in gran numero. Ma anche se la
sorpresa al Congresso dell’Aia era riuscita, le conseguenze non
furono meno spiacevoli. La temuta resistenza non fu per questo
attenuata, ma piuttosto ancora inasprita e aggravata.
Essa si manifestò in forma relativamente più blanda
presso i tedeschi. Liebknecht era contrario al trasfe rimento, e
anche in seguito dichiarò sempre che esso era sraro un
errore, ma per il momento si tenne, insieme con Bebel, su una
posizione pacifica. Tuttavia il suo interesse per l’Internazionale
sotto un certo rispetto era scomparso, e in misura anche maggiore
ciò avvenne presso la massa della frazione eisena chiana,
fra l’altro proprio per le impressioni che i suoi rappresentanti
avevano riportato all’Aia. L’8 maggio 1873 Engels scrisse in
proposito a Sorge: «I tedeschi, per quanto abbiano le loro
beghe con i lassalliani, sono stati assai delusi e raffreddati dal
Congresso dell’Aia, dove essi, in contrasto con le loro baruffe, si
aspettavano di trovare pura fratellanza e armonia». Per
questo motivo, in sé tutt’altro che lieto, si potreb be
spiegare perché i membri tedeschi dell’Internazionale non se
la preselo troppo per il trasferimento del Consiglio Generale.
Molto più seria fu la defezione dei blanquisti, che insieme
con i tedeschi erano stati e potevano essere i principali
sostenitori di Marx ed Engels sulle questioni veramente decisive,
soprattutto di fronte ai proudho niani, l’altra frazione francese
che inclinava dalla parte dei bakuninisti. L’irritazione dei
blanquisti era tanto più forte, in quanto essi sentivano a
ragione che il trasferimento del Consiglio Generale mirava prima di
tutto a strappare dalle loro mani questa leva della loro tattica dei
colpi di mano. E’ vero che in tal modo si dettero la zappa sui
piedi. Poiché un’agitazione nel loro paese era impossibile,
essi, dopo essere usciti dal l’Internazionale, caddero in preda
alla disgraziata sorte degli esiliati. «L’emigrazione
francese — scriveva Engels a Sorge il 12 settembre 1874 — è
completamente dispersa. Essi sono tutti in rotta fra loro e con
tutti, per motivi puramente personali, soprattutto questioni di
danaro, e ci siamo del tutto sbarazzati di loro... La vita agitata
durante la guerra, la Comune e l’esilio ha demoralizzato quella
gente, e solo la necessità può far tornare nei ranghi
un francese disperso». Ma questa era una ben magra
consolazione.
Il contraccolpo più sensibile del trasferimento del Consiglio
Generale si avvertì nel movimento inglese. Il 18 settembre,
nel Consiglio federale inglese, Hales propose subito un voto di
biasimo contro Marx per la sua affermazione circa la venalità
dei dirigenti operai inglesi; la proposta fu accettata e soltanto fu
respinta a parità di voti un’aggiunta secondo cui Marx stesso
non credeva a quest’accusa, ma l’avrebbe pronunciata solo per fini
personali. Perciò Hales avanzò la proposta di
espellere Marx dall’Internazionale, e un altro membro propose di
respingere le risoluzioni del Congresso dell’Aia. Ormai Hales
continuò apertamente a mantenere con i giurassiani le
relazioni che aveva già stretto in segreto all’Aia: il 6
novembre scrisse loro, a nome del Consiglio federale, che ormai era
stata smascherata l’ipocrisia del vecchio Consiglio Generale, che
aveva cercato di organizzare una società segreta in seno
alla vecchia Internazionale, sotto il pretesto di distruggere
un’altra società segreta, che esso aveva inventato per
raggiungere i suoi fini. Hales sottolineava però anche che
gli inglesi non erano d’accordo con i giurassiani sulla questione
dell’azione politica: pur essendo convinti dell’utilità di
questa azione, accordavano alle altre federazioni il diritto della
più completa autonomia, resa necessaria dalla diversa
situazione in cui i diversi paesi si trovavano.
Hales trovò dei fervidi alleati in Eccarius e in Jung, che
dopo un’iniziale riservatezza fu quasi il più violento a
scagliarsi contro Marx ed Engels. Entrambi si macchiarono di una
grave colpa, perché lasciarono che il loro giudizio obiettivo
fosse completamente turbato da motivi personali, in primo luogo per
invidiuzze e puntigli, perché Marx dava o sembrava dare
più ascolto a Engels che a loro, ma soprattutto per aver
dovuto rinunciare alla posizione eminente e influente che essi
avevano conseguito in quanto vecchi membri del Consiglio Generale.
Purtroppo ciò rese più grave il danno da loro
arrecato. In una serie di congressi essi si erano resi noti d
fronte a tutti come i più fervidi e intelligenti interpreti
delle idee rappresentate da Marx: e se ora, in favore delle stesse idee, facevano appello alla
tolleranza dei giurassiani contro l’intolleranza delle risoluzioni
dell’Aia, sembrava perciò che fosse tolto ogni dubbio sulle
bramosie dittatoriali di Marx ed Engels.
Anch’essi si dettero la zappa sui piedi, ma anche in questo caso fu
una magra consolazione. Incontrarono una forte resistenza nelle
sezioni inglesi e specialmente in quelle irlandesi, e persino nello
stesso Consiglio federale. Allora fecero una specie di colpo di
stato, emanando un appello a tutte le sezioni e a tutti i mem bri,
in cui dichiaravano che il Consiglio federale inglese era talmente
scisso all’interno che la collaborazione era impossibile; chiesero
la convocazione di un congresso che decidesse sulla validità
delle risoluzioni dell’Aia, che nell’appello venivano interpretate
non nel senso che fosse resa obbligatoria l’azione politica —
perché questo era anche il parere della maggioranza — ma nel
senso che il Consiglio Generale dovesse imporre ad ogni federazione
la politica da seguire nel proprio paese. La minoranza chiarì
subito l’imbroglio in un contrappello scritto, a quel che sembra, da
Engels, e protestò contro il progettato congresso dichia
randolo illegale; il congresso però ebbe luogo il 26 gennaio
1873. La maggioranza delle sezioni aveva deciso di tenerlo, ed essa
sola vi fu rappresentata.
Hales apri il congresso con gravi accuse contro il precedente
Consiglio Generale e contro il Congresso dell’Aia, e fu vivamente
appoggiato da Eccarius e da Jung. Il Congresso si dichiarò
all’unanimità contrario alle risoluzioni dell’Aia, e
rifiutò di riconoscere il Consiglio Generale di New York; si
dichiarò invece favore vole a un nuovo congresso
internazionale, quando la maggioranza delle federazioni
dell’Internazionale lo avesse convocato. Così fu compiuta la
scissione della federazione inglese, e i due tronconi si
dimostrarono impotenti a prendere una parte di rilievo nelle
elezioni del 1874, che portarono al rovesciamento del mi nistero
Gladstone, al quale dette un contributo non trascurabile la
partecipazione delle Trade Unions, che avevano presentato una serie
di candidature e per la prima volta portarono due loro membri in
parlamento.
Il sesto Congresso, convocato per l’8 settembre a Ginevra dal
Consiglio Generale di New York, rappresentò per così
dire Fatto di morte della vecchia Internazionale. Mentre al
controcongresso bakuninista, che si era riunito sin dal 1◦
settembre, pure a Ginevra, erano presenti 2 delegati inglesi (Hales
e Eccarius), 5 rispettivamente belgi, francesi e spagnoli, 4
italiani, 1 olandese e 6 del Giura, il Congresso marxista era
composto in grande maggioranza di svizzeri, che anzi per la massima
parte abitavano a Ginevra. Neppure il Consiglio Generale
poté mandare un delegato, né erano presenti inglesi,
francesi, spagnoli, belgi, italiani, ma soltanto un tedesco e un
austriaco. Il vecchio Becker si vantò di aver quasi creato
con le sue mani tredici dei neppur trenta delegati, per dare
importanza al Congresso con un certo numero di membri e per
assicurare la maggioranza alla tendenza giusta. Marx naturalmente
non si lasciò andare a simili illusioni: ammise lealmente il «fiasco» del Congresso e
consigliò al Consiglio Generale di lasciar passare in secondo
piano, per il momento, l’organizzazione formale dell’Internazionale,
ma di non lasciarsi sfuggire di mano il nucleo centrale di New York,
in modo che idioti o avventurieri non potessero impadronirsene e
compromettere le cose. Gli avvenimenti e l’inevitabile corso delle
cose avrebbero provveduto da sé a far risorgere
l’Internazionale in forma migliore.
Fu questa la decisione più saggia e più meritevole che
date le circostanze si potesse prendere, ma pur troppo la sua
efficacia fu turbata dall’ultimo colpo che Marx ed Engels pensarono
di dover assestare a Bakunin. Il Congresso dell’Aia aveva incaricato
la commissione dei cinque, che aveva proposto l’espulsio ne di
Bakunin, di pubblicare i risultati delle sue indagini, ma la
commissione non eseguì l’incarico, o perché realmente
ne fosse impedita dalla «dispersione dei suoi membri in
diversi paesi», o perché la sua autorità avesse
basi molto deboli, dato che uno dei suoi membri aveva dichiarato
innocente Bakunin, e un altro nel frattempo era stato smascherato
addirittura come confidente della polizia. In sua vece si assunse
l’incarico la commissione dei verbali del Congresso dell’Aia
(Dupont, Engels, Frankel, Le Moussu, Marx, Serraillier), che qualche
settimana dopo presentò al Congresso di Ginevra un memoriale
dal titolo: L’Alleanza della Democrazia Socialista e l’Associazione Internazionale degli Operai.
Era stato scritto da Engels e da La fargue: Marx aveva partecipato
soltanto alla stesura di alcune pagine, ma naturalmente aveva la
stessa responsabilità dei due autori del memoriale.
Un esame critico della brochure dell’Alleanza (così si
è soliti chiamarla per brevità), dell’esattezza o ine
sattezza dei particolari in essa contenuti, richiederebbe almeno uno
spazio di dieci fogli di stampa, quanti essa stessa ne comprende. Ma
a rinunciarvi, non si perde molto. In lotte di questo genere si
menan colpi senza riguardo, e nelle loro accuse contro i marxisti i
bakuninisti non erano tanto delicati da avere il diritto a lagnarsi
se per una volta venivano trattati con qualche durezza e anche a
torto.
Piuttosto è un’altra considerazione che pone questo scritto
al gradino più basso fra tutto ciò che Marx ed Engels
hanno pubblicato. A questo scritto manca completamente quel che
dà un’attrattiva particolare e un valore duraturo agli altri
loro scritti polemici, cioè il lato positivo della nuova
posizione che è fatto scaturire mediante la critica negativa.
Esso non dedica una sola sillaba all’indagine delle cause interne
che avevano provocato il tramonto dell’Internazionale; si limita a
proseguire su quella linea che era già stata tracciata dalla
Comunicazione confidenziale e dalla circolare sulle pretese
scissioni dell’Internazionale: con i loro intrighi e le loro manovre
Bakunin e la sua Alleanza segreta hanno distrutto l’Internazionale.
Questo non è un documento storico, ma un atto d’accusa
unilaterale, la cui tendenziosità balza agli occhi in ogni
pagina; il traduttore tedesco ha creduto di dover fare anche di
più, ed ha abbellito il titolo dandogli un carattere
avvocatesco: Un complotto contro l’Associazione Internazionale degli
Operai.
Se il tramonto dell’Internazionale era da attribuire a tutt’altre
cause che all’esistenza dell’Alleanza segreta, nella brochure
dell’Alleanza non è neppur dimostrato che essa avesse avuto
un’efficacia pratica. In que sto senso la commissione d’inchiesta
del Congresso dell’Aia aveva già dovuto aiutarsi col
probabile e col verosimile. Per quanto in Bakunin si possa
condannare, soprattutto per un uomo nella sua posizione, il gusto di
abbandonarsi a progetti fantastici di statuti e a manifestazioni
orripilanti, tuttavia bisognava suppor re, poiché mancavano
prove materiali, che in tutto ciò avesse la parte maggiore la
sua fantasia sempre in movimento. Ciò risulta anche dalla
brochure dell’Alleanza, la cui seconda metà era piena delle
rivelazioni del nobile Utin sul processo Neciaiev e sull’esilio
siberiano di Bakunin, durante il quale egli avrebbe già fatto
le sue prove come ricattatore comune e come ladro ci strada. Ma non
ne era fornita alcuna prova, mentre per il resto le prove
consistevano semplicemente nel mettere in conto a Bakunin tutto
ciò che aveva detto e fatto Neciaiev.
Soprattutto il capitolo siberiano è romanzo di bassa lega. Al
tempo dell’esilio siberiano di Bakunin il go vernatore della
Siberia sarebbe stato in qualche modo parente di Bakunin; grazie a
questa parentela e a certi suoi servigi prestati al governo zarista,
l’esiliato Bakunin sarebbe diventato il reggente segreto del paese,
e avrebbe abusato del suo potere per favorire imprenditori
capitalistici in cambio di «piccole man co. Ma all’occasione
questa sete di guadagno sarebbe stata superata dall’«odio
contro la scienza»: per questo egli avrebbe fatto andare a
vuoto un progetto di alcuni mercanti siberiani, di fondare nel loro
paese un’università, per cui era necessario il consenso
dello zar.
Utin mise un particolare impegno nell’abbellire la storiella del
tentativo di Bakunin per cavar denaro da Katkov, che già un
paio d’anni prima Borkheim aveva cercato di far credere a Marx ed
Engels, sema però riuscire a convincerli. Secondo Borkheim,
Bakunin aveva scritto dalla Siberia a Katkov, chiedendo circa
duemila rubli per la sua fuga. Secondo Utin invece Bakunin aveva
chiesto il denaro a Katkov da Londra soltanto dopo che gli era
riuscita la fuga, tormentato da rimorsi ci coscienza, per restituire
a un appaltatore generale di liquori il prezzo della corruzione, che
si era fatto dare da lui durante il suo esilio siberiano. Questo
infine era un atto di pentimento, ma anche di questo sentimento
umano, per così dire, Bakunin poteva dai prova, con orrore di
Utin, soltanto mendicando presso un uomo del quale sapeva che era
«delatore e filibustiere letterario al soldo del governo
russo». La fantasia di Utin poteva arrivare ad altezze
così vertiginose, senza mai perdere di vigore.
Utin era andato a Londra alla fine di ottobre del 1873, per
raccontare «ben altre meraviglie» su Bakunin. Il 25
novembre Engels scrisse a Sorge: «Il tipo (cioè
Bakunin) ha messo onestamente in pratica il suo catechismo: da anni
lui e la sua Alleanza vivono esclusivamente di ricatti, facendo
assegnamento sul fatto che su tutto ciò non si può
pubblicare nulla senza compromettere altra gente di cui bisogna
aver riguardo. Non puoi immaginarti che banda di miserabili
sia». Fu una fortuna che quando Utin andò a
Londra la brochure dell’Alleanza avesse già visto la luce da qualche
settimana: così almeno le «altre meraviglio sono
rimaste sepolte in fondo al cuore sincero di Utin, che subito dopo
si gettò pentito fra le braccia del piccolo padre, per
arrotondare la rendita dei liquori con i profitti di guerra.
Proprio questa metà della brochure dell’Alleanza che tratta
di cose russe contribuì più del resto ad annul larne
l’efficacia politica. Persino quegli ambienti rivoluzionari russi
che erano in rapporti tesi con Bakunin se ne sentirono urtati. Negli
anni che seguirono il 70, mentre Bakunin conservava intatta la sua
influenza sul movimento russo, Marx perse molte delle simpatie che
si era guadagnato in Russia. Ma anche sotto altri aspetti la
brochure dell’Alleanza fu un colpo fallito, e proprio in conseguenza
dell’unico successo da essa riportato. Essa indusse Bakunin a
ritirarsi dalla lotta, ma non ebbe il minimo effetto sul movimento
che da Bakunin prese il nome.
Per prima cosa Bakunin rispose in una dichiarazione che mandò
al Journal di Ginevra. Essa esprimeva l’amarezza di cui gli attacchi
della brochure dell’Alleanza lo avevano colmato. Bakunin ne
dimostrava la inconsistenza col fatto che della commissione
d’inchiesta dell’Aia avevano fatto parte due agenti provocatori (in
realtà era uno solo). Poi accennava alla sua età di
sessantanni e a una malattia di cuore che si aggravava con
l’età, e che gli rendeva sempre più difficile la vita.
«Dei giovani si mettano all’opera! Per conto mio, non ho
più la forza necessaria e forse neppure la fiducia necessaria
per far rotolare ancora a lungo il masso di Sisifo contro la
reazione che dovunque trionfa. Mi ritiro dunque dal campo di
battaglia, e ai miei cari contemporanei chiedo una cosa sola: che mi
dimentichino. D’ora innanzi non turberò la pace di nessuno, e
si lasci in pace anche me!». Pur accusando Marx di aver fatto
dell’Internazionale uno strumento della sua vendetta personale,
tuttavia continuava a riconoscere in lui uno dei fondatori di
«questa grande e bella associazione».
Con più durezza verso Marx, ma più controllato nella
sostanza, Bakunin si espresse nella sua lettera di commiato ai
giurassiani. Metteva al centro della reazione, contro cui gli operai
dovevano condurre una lotta spaventosa, tanto il socialismo di Marx
che la diplomazia di Bismarck. Anche qui motivava il suo ritiro
dall’agitazione con la sua età e la malattia, che avrebbero
reso la sua partecipazione alla lotta più un ostacolo che un
aiuto, ma se ne giustificava affermando che i due congressi di
Ginevra avevano proclamato la vittoria della sua causa e la
sconfitta degli avversari.
I «motivi di salute» di Bakunin naturalmente furono
oggetto di beffe e furono considerati una scusa, ma i pochi anni che
ancora gli restarono da vivere, in amara povertà e fra
infermità dolorose, dimostrarono che la sua tempra era
spezzata. Dalle lettere confidenziali da lui scritte ai suoi
più intimi amici risulta anche che «forse» aveva perduto la fiducia in una immediata
vittoria della rivoluzione. Morì il 1◦ luglio 1876 a Berna.
Avrebbe meritato una fine più felice e una fama migliore di
quella che di lui è rimasta in molti ambienti della classe
operaia, per la quale così coraggiosamente aveva lottato e
tanto aveva sofferto.
Nonostante tutti i suoi difetti e i suoi errori, la storia gli
assicurerà un posto d’onore fra i combattenti d’avan guardia
del proletariato internazionale, anche se questo posto gli
sarà sempre contestato, fin tanto che su questa terra vi
saranno dei filistei, sia che nascondano le lunghe orecchie sotto il
berretto da poliziotto, sia che cerchino di coprire le loro ossa
tremanti sotto la pelle di leone di un Marx.