CAPITOLO 16


Il tramonto dell’Internazionale



    16.1    ​​​Fino a Sedan

Molto è stato scritto sulla posizione assunta da Marx ed Engels di fronte alla guerra, per quanto in sostanza vi sia assai poco da dire in proposito. Nella guerra essi non vedevano un elemento dell’ordine divino, come Moltke, ma un elemento dell’ordine diabolico, un fenomeno che si accompagna inseparabilmente alla società classista, e in modo del tutto particolare alla società capitalistica.

Come persone che ragionavano storicamente,. essi non accettavano il punto di vista antistorico: la guerra è la guerra, e tutte le guerre sono da misurare con lo stesso metro. Per loro ogni guerra aveva i suoi definiti presupposti e le sue conseguenze, da cui dipendeva l’atteggiamento che di fronte ad essa la classe operaia doveva assumere. Questa era anche la concezione di Lassalle, con cui si erano trovati in contrasto, nel 1859, nel giudicare le condizioni di fatto della guerra di quell’anno, ma tutti e tre muovendo dalla considera zione decisiva: come quella guerra si poteva sfruttare più a fondo in favore della lotta di emancipazione del proletariato.

Dalla stessa considerazione fu determinato il loro atteggiamento di fronte alla guerra del 1866. Dopo che la rivoluzione tedesca del 1848 non era riuscita a creare un’unità nazionale, il governo prussiano si sforza va di sfruttare per proprio conto il movimento per l’unità tedesca, che era sempre ridestato dallo sviluppo economico, e di creare una Prussia più estesa (come diceva il vecchio Kaiser Guglielmo) invece di una Germania unita. Marx ed Engels, Lassalle e Schweitzer, Liebknecht e Bebel erano completamente d’accor do nel ritenere che all’unità tedesca, di cui il proletariato tedesco aveva bisogno come primo passo della sua lotta di emancipazione, si doveva arrivare soltanto attraverso una rivoluzione nazionale, e per conseguenza combatterono col massimo vigore gli sforzi dinastico-particolaristici della politica grande-prussiana. Sol tanto dopo la decisione di Sadowa, presto o tardi, ciascuno secondo la propria perspicacia nel giudicare i «presupposti di fatto», essi si adattarono a questa amara constatazione: era ormai chiaro che una rivolu zione nazionale era da escludere per la viltà della borghesia e per la debolezza del proletariato, e che la grande Prussia cementata «dal ferro e dal sangue» offriva alla lotta di classe del proletariato prospettive più favorevoli di quelle che gli avrebbe mai potuto offrire la restaurazione (naturalmente impossibile, del resto) della dieta della Confederazione germanica con i suoi intrighi meschini. Marx ed Engels arrivarono subito a questa conclusione, e anche Schweitzer, come successore di Lassalle; essi accettarono la Confe derazione della Germania del Nord, nella sua forma contraffatta e atrofica, non certo come qualche cosa di gradito o di entusiasmante, ma come un dato di fatto, che offriva alla lotta della classe operaia tedesca più solidi appigli di quelli che le aveva offerto lo sciagurato sistema della dieta confederale. Liebknecht e Bebel, al contrario, restarono fermi sulla concezione rivoluzionaria grande-tedesca della situazione, e negli anni che seguirono il 1866 lavorarono instancabilmente per la distruzione della Confederazione della Germania del Nord.

Dopo la risoluzione presa da Marx ed Engels nel 1866, la loro posizione di fronte alla guerra del 1870 era fino a un certo punto già decisa. Sulle sue cause immediate non hanno mai espresso giudizi, né sulla candidatura del principe di Hohenzollern al trono di Spagna, sostenuta da Bismarck, né sull’alleanza franco-austro-italiana contro Bismarck, tentata da Bonaparte; sulla base di quel che allora si sapeva sulla situazione non era possibile dare un giudizio adeguato né sul primo né sul secondo punto. Ma in quanto la politica bonapartista di guerra era diretta contro l’unità nazionale tedesca, Marx ed Engels riconobbero che la Germania si trovava in stato di difesa.

Marx motivò nei suoi particolari questo giudizio nell’Indirizzo, da lui redatto, che il 23 luglio fu diramato dal Consiglio Generale dell’Internazionale. Definiva «il complotto di guerra del luglio 1870» come «un’edi zione riveduta e corretta del colpo di Stato del dicembre 1851», e affermava che già suonava il rintocco funebre del Secondo Impero, che sarebbe finito come era cominciato: con una parodia. Ma non si doveva dimenticare che proprio i governi e le classi dominanti avevano reso possibile a Bonaparte di rappresentare per diciotto anni la crudele farsa della restaurazione dell’Impero. Se da parte della Germania la guerra era una guerra di difesa, chi aveva messo la Germania nella necessità di doversi difendere? Chi aveva reso possibile a Luigi Bonaparte di condurre una guerra contro la Germania? La Prussia. Era stato Bismarck a cospirare con lo stesso Luigi Bonaparte prima di Sadowa, e dopo Sadowa non aveva contrapposto alla Francia schiava una Germania libera, ma a tutte le bellezze indigene del suo antico sistema aveva ag giunto tutti i trucchi del Secondo Impero, così che il regime bonapartista fioriva dall’una e dall’altra parte del Reno. Che poteva derivarne, se non la guerra? «Se la classe operaia tedesca permette alla guerra attuale di perdere il suo carattere strettamente difensivo e di degenerare in una guerra contro il popolo francese, tanto una vittoria che una sconfitta saranno ugualmente disastrose. Tutte le sciagure piombate sulla Germania dopo la sua guerra di indipendenza, risorgeranno con accresciuta intensità». L’Indirizzo ricordava le dimostrazioni degli operai tedeschi e francesi contro la guerra, che permettevano di non teme re un esito così funesto. Poi rilevava che sullo sfondo di quella lotta suicida spuntava la torva figura della Russia. Tutte le simpatie che i tedeschi potevano giustamente pretendere in una guerra di difesa centro un’aggressione bonapartista, essi le avrebbero perse immediatamente se avessero permesso al governo prussiano di invocare o soltanto accettare l’aiuto del cosacco.

Due giorni prima che fosse diramato questo Indirizzo, il 21 luglio, il Reichstag della Germania del Nord aveva approvato un credito di guerra di 120 milioni di talleri. I rappresentanti parlamentari dei lassalliani, in omaggio alla politica da loro seguita dal 1866, votarono a favore. Invece Liebknecht e Bebel, rappresentanti degli eisenachiani, si erano astenuti dal voto perché un loro consenso tributato al governo prussiano, che con la sua condotta nel 1866 aveva preparato questa guerra, sarebbe stato come un voto di fiducia, mentre un voto contrario avrebbe potuto essere considerato come un’approvazione per la politica scellerata e criminale di Bonaparte. Liebknecht e Bebel consideravano la guerra sostanzialmente da un punto di vista morale, ciò che corrispondeva perfettamente alla convinzione manifestata da Liebknecht, anche più tardi, nel suo scritto sul telegramma di Ems e da Bebel nei suoi ricordi.

Essi incontrarono però una decisa opposizione nella loro stessa frazione, e soprattutto da parte della sua direzione, il comitato di Brunswick. In realtà l’astensione di Liebknecht e Bebel non era un atto di politica pratica, ma una dimostrazione morale che, per quanto potesse essere in sé giustificata, non corrispondeva alle esigenze della situazione. Quel che è possibile nella vita privata, e sufficiente secondo le circostanze, il dire cioè a due litiganti: avete torto tutti e due e io non mi immischio nella vostra lite, non è possibile invece nella vita degli Stati, in cui i popoli devono pagare per le contese dei re. Le conseguenze pratiche di una neutralità impossibile si videro nell’atteggiamento tutt’altro che chiaro e conseguente assunto nelle prime settimane di guerra dal Volksstaat di Lipsia, organo degli eisenachiani. In tal modo si aggravò il conflitto fra la direzione del giornale, cioè Liebknecht, e il comitato di Brunswick, che da parte sua si rivolse a Marx per averne appoggio e consiglio.

Subito dopo l’inizio della guerra, il 20 luglio, dunque prima della astensione di Liebknecht e Bebel, Marx aveva già scritto a Engels quanto segue, dopo aver duramente criticato gli « sciovinisti repubblicani»: «I francesi hanno bisogno di bastonate. Se vincono i prussiani, l’accentramento dello state power sarà utile per l’accentramento della classe operaia. La preponderanza tedesca sposterebbe inoltre il centro di gravità del movimento operaio dell’Europa occidentale dalla Francia in Germania e basterà paragonare il movimento nei due paesi dal 1866 fino ad ora per vedere che la classe operaia tedesca è superiore a quella

francese sia dal punto di vista teorico, sia da quello organizzativo. La sua preponderanza nei confronti di quella francese sulla scena universale sarebbe allo stesso tempo la preponderanza della nostra teoria su quella di Proudhon ecc.». Ma quando ricevette la richiesta del comitato di Brunswick, Marx si rivolse a Engels, come faceva sempre per le questioni importanti, pregandolo di dargli il suo consiglio e, come nel 1866, Engels stabilì nei suoi particolari la tattica che fu seguita dai due amici.

Nella sua risposta del 15 agosto egli scrisse: «Secondo me il caso sta in questi termini: la Germania è stata costretta da Badinguet [Bonaparte] a una guerra per la sua esistenza come nazione. Se essa soc combe nella lotta contro Badinguet, il bonapartismo è consolidato per anni e la Germania è finita per anni, forse per generazioni. E allora non ce neanche da pensare a un movimento operaio tedesco autonomo, la lotta per creare l’esistenza nazionale assorbirà tutto, allora, e nel migliore dei casi gli operai tedeschi andranno a finir? a rimorchio di quelli francesi. Se vince la Germania, il bonapartismo francese è ad ogni modo finito, l’eterno litigio per la creazione dell’unità tedesca è eliminato, gli operai tedeschi potranno organizzarsi su scala ben diversamente nazionale che non prima, e quelli francesi avranno certo un campo più libero che non sotto il bonapartismo qualunque sia il governo che gli succederà. L’intera massa del popolo tedesco di tutte le classi ha capito che si tratta per l’appunto in prima linea dell’esistenza nazionale, e per questo si è impegnata subito. Che un partito politico tedesco in queste circostanze, possa predicare, à la Wilhelm [Liebknecht], l’ostruzionismo totale e porre considerazioni secondarie di ogni genere al di sopra della considerazione principale, mi sembra impossibile».

Engels condannava con una asprezza pari a quella di Marx lo sciovinismo francese, che si faceva sentire profondamente fin negli ambienti di tendenza repubblicana. «Badinguet non avrebbe potuto fare que sta guerra senza lo sciovinismo della massa della popolazione francese, dei borghesi, piccoli borghesi, contadini e del proletariato edilizio imperialista, haussmanniano[ii]2, proveniente dal ceto contadino, che Bonaparte ha creato nelle grandi città. Fintantoché questo sciovinismo non sarà colpito alla testa e come si deve, la pace fra Germania e Francia è impossibile. Ci si poteva aspettare che questo lavoro sarebbe stato assunto da una rivoluzione proletaria, ma dal momento che c’è la guerra, ai tedeschi non rimane altro che farlo loro stessi e subito».

Quanto alle «considerazioni secondarie», al fatto cioè che la guerra era comandata da Bismarck e compa gnia, e che se l’avessero condotta con successo ne avrebbero tratto una gloria immediata, ciò era dovuto alla meschinità della borghesia tedesca. Era molto spiacevole ma non c’era nulla da fare. «Ma sarebbe assurdo per questa ragione elevare l’antibismarckismo a unico principio direttivo. Primo, Bismarck ora, come nel 1866, fa sempre un pezzo del nostro lavoro; a modo suo e senza volerlo, ma lo fa. Ci procura un terreno più libero di prima. E poi non siamo più nell’anno 1815. I tedeschi meridionali entreranno ora necessariamente nel Reichstag e in questo modo si crea un contrappeso al prussianesismo... In genere voler annullare, à la Liebknecht, tutta la storia dal 1866 in poi, perché non piace a lui, è una scemenza. Ma li conosciamo i nostri tedeschi meridionali modello».

Nel corso della lettera Engels tornava ancora una volta a parlare della politica di Liebknecht. «In Wilhelm è divertente l’osservazione che, essendo Bismaick un ex complice di Badinguet, il vero punto di vista è quello della neutralità. Se questa fosse l’opinione generale in Germania, avremmo presto di nuovo la Lega renana, e il nobile Wilhelm vedrebbe che parte toccherebbe a lui in essa e ’dove finirebbe il movi mento operaio Un popolo che riceve sempre nient’altro che botte e calci, certo è il vero popolo per fare una rivoluzione sociale, e per giunta negli innumerevoli Stati piccoli, tanto cari a Wilhelm!... Wilhelm ha contato evidentemente sulla vittoria di Bonaparte, soltanto perché ci si rompa il collo il suo Bismarck. Ti ricordi, come lo minacciava sempre con i francesi. Anche tu sei naturalmente dalla parte di Wilhelm». L’ultima frase era ironica: Liebknecht aveva affermato che Marx era d’accordo con lui e Bebel, per l’astensione nella questione dei crediti di guerra.

Marx ammise di avere approvato la «dichiarazione» di Liebknecht: era stato un «momento» in cui la pedanteria dei princìpi era stata un ade de courage: ma aggiunse che non ne seguiva affatto che questo momento durasse a lungo, e meno che mai che la posizione del proletariato in una guerra che era diventata nazionale si riassumesse nella antipatia di Liebknecht contro i prussiani. Marx parlava a buon diritto di una «dichiarazione», e non dell’astensione dal voto come tale. Mentre ì lassalliani avevano approvato i crediti di guerra confondendosi con la maggioranza borghese, senza differenziare in nessun modo la loro posizione socialista, Liebknecht e Bebel avevano dato un «voto motivato», in cui non solo avevano esposto le ragioni della loro astensione, ma «nella loro qualità di repubblicani sociali e membri dell’Internazionale, che al di là di ogni differenza di nazionalità combatte contro tutti gli oppressori e cerca di unificare tutti gli oppressi in una comune lega fraterna» avevano unito all’astensione una protesta di principio contro questa guerra, come contro ogni guerra dinastica, e avevano espresso la speranza che tutti i popoli d’Europa, ammaestrati dai funesti avvenimenti del presente, avrebbero fatto di tutto per conquistare il diritto di disporre di se stessi e per eliminare il dominio della spada e delle classi, quale causa di tutti i mali nazionali e sociali. Marx poteva certo esser molto contento di questa « dichiarazione» che per la prima volra spiegava senza ambagi la bandiera dell’Internazionale in un parlamento europeo, e per di più mentre si trattava una questione storica d’importanza mondiale.

Dalla scelta delle sue parole, risulta già che la sua « approvazione» andava intesa in questo senso. L’a stensione dal voto non era affatto una «pedanteria dei princìpi», ma piuttosto un compromesso: infatti Liebknecht avrebbe voluto addirittura votare contro i crediti di guerra, e soltanto Bebel l’aveva convinto a limitarsi all’astensione. Inoltre, nelle intenzioni di Liebknecht e Bebel, l’astensione non doveva essere limitata soltanto a quel «momento», come dimostrava anche il Volksstaat in tutti i numeri. Infine essa non rappresentava neppure un «atto di coraggio» nel senso che ciò bastasse di per sé a giustificarla. Se Marx avesse inteso Xacte de courage in questo senso, avrebbe dovuto accordare la stessa lode, in misura anche maggiore, al bravo Thiers che alla Camera francese aveva parlato con energia contro la guerra, nonostante che i fedeli dell’Impero tumultuassero intorno a lui coprendolo di insulti, o ai democratici borghesi dello stampo di Favre e Grevy, che nella votazione sui crediti di guerra non si erano astenuti ma avevano addirittura votato contro, nonostante che a Parigi il tumulto patriottico fosse per lo meno altrettanto pericoloso quanto a Berlino.

Le conclusioni finali che Engels traeva dal suo giudizio sulla situazione, per la politica degli operai tedeschi, si riassumevano in questi punti: unirsi al movimento nazionale, in quanto e fin tanto che si limitasse alla difesa della Germania (ciò che non escludeva l’offensiva fino alla pace senza condizioni); mettere in evidenza nello stesso tempo la differenza fra gli interessi nazionali tedeschi e gli interessi dinastici prussiani; opporsi all’annessione dell’Alsazia e della Lorena; appena a Parigi fosse al potere un governo repubblicano non sciovinista, adoprarsi per arrivare a una pace onorevole con esso; insistere continuamente sull’unità di interessi fra gli operai tedeschi e francesi, che non avevano approvato la guerra e che non combattevano fra loro.

Marx si dichiarò completamente d’accordo e in questo senso rispose al Comitato di Brunswick.

    16.2    ​​​Dopo Sedan

Ma prima che il Comitato potesse fare uso pratico dei suggerimenti che gli erano pervenuti da Londra, la situazione aveva subito un capovolgimento completo. La battaglia di Sedan era stata combattuta, Bona parte catturato, l’Impero crollato, e a Parigi era sorta una repubblica borghese. A capo di essa stavano quelli che fino allora erano stati deputati della capitale francese, che si proclamarono «governo di difesa nazionale».

Da parte tedesca, si era arrivati alla fine della guerra di difesa. Come capo della Confederazione della Germania del Nord, il re di Prussia aveva dichiarato più volte, con la massima solennità, che non combat teva il popolo francese ma solo il governo dell’imperatore francese; a Parigi i nuovi rappresentanti del potere si dichiararono anche disposti a pagare ogni possibile somma per le riparazioni di guerra. Soltanto Bismarck chiedeva una cessione di territorio: per conquistare l’Alsazia-Lorena continuò la guerra, anche se in tal modo la guerra di difesa diventava una beffa.

Bismarck seguiva in questo le tracce di Bonaparte, e le seguì anche organizzando una specie di plebiscito che doveva servire a sciogliere il re di Prussia dai suoi impegni solenni. Sin dalla vigilia di Sedan, «notabili» di tutte le specie si rivolsero al re con «dimostrazioni di massa», reclamando dei «confini protetti». Gli «unanimi voti del popolo tedesco» fecero una tale impressione al vecchio signore che il 6 settembre egli scriveva a casa: «Se i prìncipi vogliono resistere al generale sentimento, rischiano il loro trono», e il 14 settembre la semiufficiale Corrispondenza provinciale dichiarò che era una «sciocca pretesa» il presumere che il capo della Confederazione della Germania del Nord dovesse ritenersi legato dai suoi propri impegni, formalmente e liberamente assunti.

Ma perché si vedesse che gli «unanimi voti del popolo tedesco» erano assolutamente unanimi, furono repressi con la violenza tutti i segni di opposizione. Il 5 settembre il Comitato di Brunswick aveva diramato un appello, invitando la classe operaia a manifestare pubblicamente in favore di una pace onorevole con la repubblica francese e contro l’annessione dell’Alsazia-Lorena; nell’appello erano inserite letteralmente delle parti della lettera in cui Marx aveva esposto i suoi suggerimenti al Comitato. Ma il 9 settembre i firma tari dell’appello furono arrestati dall’autorità militare e gettati nella fortezza di Lòtzen. Qui fu portato anche Johann Jacoby, come prigioniero politico, per avere anche lui parlato, in una assemblea di Kònigsberg, contro ogni annessione violenta di territorio francese e per essersi permesso quest’espressione eretica: « Pochi giorni fa conducevamo una guerra di difesa, una sacra lotta per l’amata patria; oggi è una guerra di conquista, una lotta per il predominio della razza germanica in Europa». Una quantità di sequestri e di divieti, di persecuzioni e arresti completarono il regime di terrore militare che doveva togliere ogni dubbio sull’unanimità dei «voti del popolo tedesco».

Lo stesso giorno in cui furono arrestati i membri del Comitato di Brunswick, il Consiglio Generale dell’Inter nazionale prese di nuovo la parola, per mettere in chiaro la nuova situazione, in un Secondo Indirizzo[i]7 redatto da Marx e in parte da Engels. Il Consiglio Generale poteva far notare quanto presto si fosse av verata la sua previsione, secondo cui all’inizio della guerra era suonato il rintocco funebre del Secondo Impero, ma anche quanto presto fossero stati confermati i suoi dubbi circa la possibilità che da parte te desca la guerra conservasse il carattere di guerra difensiva. La camarilla militare prussiana si era decisa per la conquista, e come liberare il re dagli impegni, da lui stesso presi, di condurre una guerra difensiva?

«I direttori di scena dovevano esibirlo nella parte di colui che cede riluttante al comando irresistibile della nazione tedesca. Essi dettero immediatamente questa parola d’ordine alla classe media tedesca liberale, coi suoi professori, coi suoi capitalisti, coi suoi borgomastri e pennaioli. Questa classe media, che nelle sue lotte per la libertà civile dal 1846 al 1870 aveva dato un esempio inaudito di irrisolutezza, di incapacità e di vigliaccheria, si sentì naturalmente assai lusingata di rappresentare sulla scena europea la parte di ruggente leone del patriottismo tedesco. Rivendicò la propria indipendenza civica affettando di imporre al governo i segreti disegni di questo stesso governo. Fece ammenda della sua lunga e quasi religiosa fede nell’infallibilità di Luigi Bonaparte, reclamando ad alta voce lo smembramento della repubblica francese».

L’Indirizzo esaminava poi i «singolari pretesti» che «questi coraggiosi patrioti» adducevano per l’annes sione dell’Alsazia-Lorena. Essi non osavano certo sostenere che il popolo dell’Alsazia-Lorena bramasse l’amplesso della Germania, ma il suolo di queste province, essi dicevano, aveva fatto parte in tempi re moti dell’ormai morto impero tedesco. «Se la carta dell’Europa deve essere rifatta secondo i capricci degli antiquari, non si dimentichi per nessuna ragione che il principe elettore di Brandeburgo era, per i suoi possedimenti prussiani, vassallo della repubblica polacca».

Gli «astuti patrioti» avevano turbato «molta gente dalla mente debole» soprattutto reclamando l’Alsazia-Lorena come «garanzia materiale» contro un’aggressione francese. In un esame scientifico della questione militare (che era opera di Engels) l’Indirizzo dimostrava che la Germania non aveva affatto biso gno di questo rafforzamento dei suoi confini verso la Francia, come avevano dimostrato per l’appunto anche le esperienze della guerra in corso. «Se la campagna attuale ha dimostrato qualche cosa, ha dimostrato la facilità con la quale la Francia può essere invasa dalla Germania». Ma infine non era un assurdo e un anacronismo far delle considerazioni militari il principio secondo il quale si devono stabilire i confini delle nazioni? «Se questa regola dovesse prevalere, l’Austria avrebbe tuttora titoli sul Veneto e sulla linea del Mincio, e la Francia sulla linea del Reno, per proteggere Parigi, la quale certamente è più esposta a un attacco da nord-est che non sia Berlino da sud-ovest. Se i confini devono essere determinati da interessi militari, le pretese non avranno mai termine, perché ogni linea militare è necessariamente difettosa e può venir migliorata coll’annessione di un territorio più avanzato; e oltre a ciò non potrebbe mai essere stabilita in un modo giusto e definitivo perché verrebbe sempre imposta dal vincitore al vinto, e quindi porterebbe sempre in sé il germe di nuove guerre».

L’Indirizzo ricordava le «garanzie materiali» che Napoleone aveva preso con il trattato di Tilsit.  Eppure pochi anni dopo la sua potenza gigantesca si era infranta come una canna fradicia contro il popolo te desco. «Che cosa sono la ‘garanzie materiali’ che la Prussia può o osa, anche nei suoi sogni più audaci, imporre alla Francia, in confronto con quelle che il primo Napoleone aveva estorto alla Prussia stessa? Il risultato non sarà meno disastroso».

Ma i campioni del patriottismo teutonico dicevano che non si dovevano scambiare i tedeschi coi francesi; che i tedeschi non volevano la gloria, ma la sicurezza; che erano un popolo eminentemente pacifico. «Na turalmente, non furono i tedeschi che invasero la Francia nel 1792, col sublime scopo di domare a colpi di baionette la rivoluzione del secolo decimottavo! Non furono i tedeschi a macchiarsi le mani soggiogando l’Italia, opprimendo l’Ungheria e smembrando la Polonia!

Il loro sistema militare attuale, che divide tutta la popolazione maschile atta alle armi in due parti — un esercito permanente in servizio e un altro esercito permanente in licenza, l’uno e l’altro tenuti egualmente all’obbedienza passiva ai governanti per diritto divino — un sistema militare simile è, naturalmente, una ‘garanzia materiale’ della pace, ed è il fine ultimo delle tendenze all’incivilimento! In Germania, come dappertutto altrove, i sicofanti del potere costituito avvelenano l’opinione popolare con l’incenso di bugiardi autoelogi. Questi patrioti tedeschi sembrano pieni di sdegno allo spettacolo delle fortezze francesi di Metz e Strasburgo; ma non trovano niente di male nel vasto sistema di fortificazioni moscovite a Varsavia, Modlin e Ivangorod. Mentre sbarrano gli occhi ai terrori cella invasione bonapartistica, li abbassano davanti all’infamia della tutela autocratica».

Ricollegandosi a queste affermazioni, l’Indirizzo indicava come l’annessione dell’Alsazia-Lorena avrebbe gettato la Francia in braccio allo zarismo. Credevano davvero i patrioti teutonici che così si sarebbero assicurate la libertà e la pace alla Germania? «Se la fortuna delle sue armi, l’arroganza del successo e l’intrigo dinastico porteranno la Germania a una rapina di territorio francese, le rimarranno aperte solo due vie. O dovrà diventare, ad ogni rischio, strumento dichiarato dell’espansionismo russo, o; dopo una breve tregua, si dovrà preparare di nuovo a una nuova guerra ‘difensiva’, e non a una delle guerre ‘localizzate’ di nuovo conio, bensì a una guerra di razze, contro le razze alleate degli slavi e dei latini».

La classe operaia tedesca aveva appoggiato risolutamente la guerra — che non aveva la possibilità di impedire — come guerra per l’indipendenza della Germania e per la liberazione della Germania e del l’Europa dall’incubo pestilenziale del Secondo Impero. « Sono stati gli operai industriali tedeschi che, assieme agli operai agricoli, hanno fornito i nervi e i muscoli di eserciti eroici, lasciando dietro di sé le loro famiglie quasi prive del pane». Decimati dalle battaglie, essi sarebbero stati decimati ancora una volta dalla miseria nelle loro case. A loro volta essi ora si facevano avanti per esigere garanzie; garanzie che i loro sacrifici immensi non fossero stati fatti invano, garanzie d’aver conquistato la libertà, e che la vittoria riportata sugli eserciti di Bonaparte non si trasformasse in una sconfitta del popolo tedesco, come nel 1815. E la prima di queste garanzie che essi esigevano era una «pace dignitosa per la Francia» e il «riconoscimento della repubblica francese». L’Indirizzo rinviava al manifesto del Comitato di Brunswick e osservava che sventuratamente non si potevano avere molte speranze sul suo successo immediato; ma la storia avrebbe provato che gli operai tedeschi non eran fatti della stessa materia malleabile di cui era fatta la classe media tedesca. Essi avrebbero compiuto il loro dovere, l’Indirizzo esaminava poi la nuova
situazione dalla parte della Francia. La repubblica non aveva rovesciato il trono, ma aveva solo preso il suo posto rimasto vacante. Era stata proclamata non come conquista sociale, ma come misura nazionale di difesa. Essa era nelle mani di un governo provvisorio composto in parte di orleanisti notori, in parte di repubblicani borghesi, in alcuni dei quali l’insurrezione del 1848 aveva lasciato il suo marchio indelebile. La divisione del lavoro fra i membri di quel governo non prometteva niente di buono. Gli orleanisti si erano impadroniti delle posizioni più forti — l’esercito e la polizia — lasciando ai repubblicani dichiarati i posti dove c’era solo da chiacchierare. Alcuni dei loro primi atti provavano abbastanza chiaramente che essi avevano ereditato dall’Impero non solo un mucchio di rovine, ma anche la sua paura della classe operaia.

«La classe operaia francese si muove dunque in circostanze estremamente difficili. Ogni tentativo di rovesciare il nuovo governo, nella crisi presente, mentre il nemico batte quasi alle porte di Parigi, sarebbe una disperata follia. Gli operai francesi devono compiere il loro dovere di cittadini; ma nello stesso tempo non si devono lasciar sviare dalle memorie nazionali del 1792, come i contadini francesi si lasciarono in gannare dai souvenirs nazionali del Primo Impero. Essi non devono ricapitolare il passato, ma costruire il futuro. Migliorino con calma e risolutamente tutte le possibilità offerte dalla libertà repubblicana, per lavorare alla loro organizzazione di classe. Ciò darà loro nuove forze erculee, per la rinascita della Francia e per il nostro compito comune, l’emancipazione del lavoro. Dalla loro forza e dalla loro saggezza dipendono le sorti della repubblica».

Questo Indirizzo ebbe viva risonanza fra gli operai francesi. Essi rinunciarono alla lotta contro il governo provvisorio e fecero il loro dovere di cittadini, soprattutto il proletariato parigino che, armato come guardia nazionale, ebbe la parte principale nella valorosa difesa delia capitale francese, e non si lasciò accecare dalle memorie nazionali del 1792, ma lavorò attivamente alla propria organizzazione di classe. Gli operai te deschi si dimostrarono alla stessa altezza. Nonostante tutte le minacce e le persecuzioni, tanto i lassalliani che gli eisenachiani reclamarono la pace onorevole con la repubblica; quando il Reichstag della Germania del Nord tornò a riunirsi, nel dicembre, per approvare nuovi crediti di guerra, i rappresentanti parlamentari delle due frazioni votarono con un bel no. Liebknecht e Bebel condussero in prima linea questa lotta, con un impegno così ardente e con un coraggio così entusiastico che proprio per questo (e non, come vuole una leggenda molto diffusa, per la loro astensione del luglio) la fama di questi giorni è legata ai loro nomi. Dopo il termine dei lavori del Reichstag essi furono arrestati sotto l’accusa di alto tradimento.

In quest’inverno Marx era di nuovo sovraccarico di lavoro. In agosto i medici lo avevano mandato al mare, ma là una violenta infreddatura lo aveva «stroncato», ed era tornato a Londra soltanto alla fine del mese, senza essersi per niente ristabilito. Nonostante ciò dovette occuparsi di tutta la corrispondenza interna zionale del Consiglio Generale, perché la maggior parte dei corrispondenti per l’estero era andata a Parigi. Scrisse a Kugelmann, il 14 settembre, lamentandosi di non andare a letto prima delle tre. Per il futuro poteva contare almeno sul soccorso di Engels, che proprio in questi giorni si trasferì stabilmente a Londra.

Senza dubbio Marx ormai sperava nella resistenza vittoriosa della repubblica francese contro la guerra prussiana di conquista. La situazione tedesca (che ormai era tale da suggerire perfino al guelfo ultra montano Windthorst il motto pungente che se Bismarck voleva assolutamente fare annessioni poteva pun tare sulla Caienna, che sarebbe stato l’acquisto più adatto per la sua politica), colmava Marx di grande amarezza; il 13 dicembre scrisse a Kugelmann: «Pare che in Germania non solo abbiano acchiappato il Bonaparte, i suoi generali e la sua armata, ma che con lui abbiano acclimatato nel paese delle querce e dei tigli l’intero imperialismo con tutti i suoi acciacchi»[iv]10. In questa lettera sottolineava con evidente soddisfazione che l’opinione pubblica inglese, ultraprussiana al principio della guerra, era diventata tutto l’opposto. A parte la decisa simpatia delle masse popolari per la repubblica e altre circostanze, «il modo con cui fu condotta la guerra — il sistema delle requisizioni, l’incendio dei villaggi, la fucilazione dei franchi tiratori, il sistema degli ostaggi e simili reminiscenze della guerra dei trentanni — ha suscitato qui grande indignazione. Naturalmente gli inglesi hanno fatto cose del genere in India, Giamaica, ecc., ma i francesi non sono né indù, né cinesi, né negri, e i prussiani non sono degli inglesi dal ciel venuti. E’ un’idea degna degli Hohenzollern che un popolo commetta un delitto se continua a difendersi quando il suo esercito per manente si è sfasciato». Questa idea aveva già fatto soffrire il buon Federico Guglielmo III, nella guerra popolare prussiana contro Napoleone I.

La minaccia di Bismarck di un bombardamento su Parigi era definita «solo un trucco» da Marx. «Se condo tutte le regole del calcolo delle probabilità, esso non può assolutamente avere alcun serio effetto sulla città di Parigi stessa.. Se venissero abbattute alcune opere avanzate, se venisse fatta una breccia, che gioverebbe tutto ciò nel caso in cui il numero degli assediati è maggiore di quello degli assedianti?... L’affamamento di Parigi è l’unico mezzo reale». Sia detto di passaggio, è un bel quadro! Questo «senza patria», che si asteneva dal pronunciare qualsiasi giudizio personale su questioni militari, definiva « solo un trucco» il bombardamento della capitale francese, chiesto da Bismarck, per gli stessi motivi per cui tutti i più ragguardevoli generali dell’esercito tedesco, con la sola eccezione di Roon, lo respingevano come un «colpo da caporale», nel corso di una violenta contesa che infuriò per settimane dietro le quinte del quartier generale tedesco; mentre tutta la moltitudine dei patriottici professori e giornalisti si lasciava trascinare dal le comunicazioni ufficiose di Bismarck all’indignazione morale contro la regina prussiana e la principessa ereditaria perché queste signore per motivi o sentimentali o antipatriottici, a quanto si diceva, impedivano ai loro succubi mariti di bombardare Parigi.

Quando Bismarck oltre tutto se ne uscì con la frase burbanzosa, che il governo francese rendeva impossi bile alla stampa e ai deputati la libertà di parola, Marx illustrò questa «freddura berlinese» pubblicando sul Daily News del 16 gennaio 1871 una mordace descrizione del regime poliziesco che a quel tempo im perversava a Berlino. La descrizione terminava con queste parole: «La Francia — e la sua causa per buona sorte è ben lungi dall’essere disperata — combatte in questo momento non soltanto per la sua indi pendenza nazionale, ma anche per la libertà della Germania e dell’Europa». In questa frase e riassunta la posizione che Marx ed Engels assunsero, dopo Sedan, di fronte alla guerra franco-tedesca.


    16.3    ​​​La guerra civile in Francia

Il 28 gennaio Parigi capitolò. Nel patto che fu concluso fra Bismarck e Jules Favre era stabilito espressamente che la guardia nazionale parigina avrebbe conservato le armi.

Le elezioni per l’Assemblea nazionale dettero una maggioranza monarchico-reazionaria, che elesse pre sidente della repubblica il vecchio intrigante Thiers. Il suo primo pensiero, dopo che l’Assemblea nazionale ebbe accettato le condizioni preliminari di pace (cessione dell’Alsazia-Lorena e cinque miliardi di ripara zioni di guerra), fu il disarmo di Parigi. Per questo borghese fino al midollo, come anche per i «rurali» dell’assemblea, Parigi in armi infatti non significava altro che la rivoluzione.

Il 18 marzo Thiers tentò per prima cosa di portar via i cannoni alla guardia nazionale di Parigi, con la sfacciata menzogna che essi sarebbero stati proprietà dello Stato, mentre erano stati fatti a spese della guardia nazionale nel corso dell’assedio ed erano stati riconosciuti come sua proprietà anche nel patto di resa del 28 gennaio. La guardia nazionale però si oppose e le truppe incaricate di impadronirsene pas sarono dalla sua parte. La guerra civile così era scoppiata. Il 26 marzo Parigi elesse la sua Comune, la cui storia è piena delle lotte eroiche e dei dolori degli operai parigini e delle vili crudeltà e delle perfidie dei partiti versagliesi dell’ordine.

E’ superfluo ricordare con quale interesse Marx seguiva questi sviluppi della situazione. Il 12 aprile egli scriveva a Kugelmann: «Quale duttilità, quale iniziativa storica, quale capacità di sacrificio in questi parigini!

Dopo sei mesi di fame e di rovine, causate dal tradimento interno ancora ’ più che dal nemico esterno, insorgono mentre dominano le baionette prussiane come se non ci fosse mai stata una guerra fra la Francia e la Germania e come se il nemico non fosse tuttora davanti alle porte di Parigi! La storia non ha nessun simile esempio di simile grandezza! Se soccomberanno, la colpa sarà soltanto della loro ‘bonarietà’. Occorreva marciare subito su Versailles, dopo che prima Vinoy e poi la parte reazionaria della guardia nazionale di Parigi avevano da sé sgombrato il terreno. Per scrupoli di coscienza si è lasciato passare il momento opportuno. Non si è voluto incominciare la guerra civile, come se quel maligno aborto di Thiers non avesse già iniziato la guerra civile col suo tentativo di disarmare Parigi!». Ma anche se avessero dovuto soccombere, l’insurrezione di Parigi sarebbe stata «la azione più gloriosa del nostro partito dopo l’insurrezione di giugno. Si confrontino questi titani parigini con gli schiavi celesti del Sacro Romano Imparo tedesco-prussiano con le sue postume mascherate, che puzzano di caserma, di chiesa, di nobiltà rurale e soprattutto di filisteismo».

Marx poteva parlare dell’insurrezione parigina come di un’azione «del nostro partito» tanto in senso gene rale in quanto la classe operaia parigina era la spina dorsale del movimento, quanto in senso particolare, poiché i membri parigini dell’Internazionale erano fra i combattenti più intelligenti e più coraggiosi della Co mune, anche se nel suo Consiglio essi formavano soltanto una minoranza. L’Internazionale aveva già una tale fama di spauracchio universale, e doveva servire alle classi dominanti come capro espiatorio per tutti gli avvenimenti ad essa sgraditi, che anche l’insurrezione parigina doveva essere imputata alle sue istigazioni. Ma un organo di stampa della polizia parigina volle, cosa strana, scagionare il «grand chef» dell’Interna zionale da ogni partecipazione all’insurrezione: il 19 marzo pubblicò una lettera attribuita a Marx, in cui egli avrebbe rimproverato alle sezioni parigine di essersi occupate troppo di questioni politiche e troppo poco di questioni sociali. Marx si affrettò a smentire sul Times la lettera come « sfacciata falsificazione».

Nessuno sapeva meglio di Marx che l’Internazionale non aveva fatto la Comune, ma egli la considerò sem pre carne della sua carne, sangue del suo sangue. Naturalmente solo nel quadro tracciato dal programma e dagli statuti dell’Internazionale, secondo cui ogni movimento operaio che mirasse all’emancipazione del proletariato era cosa sua. Marx non poteva comprendere nel numero dei suoi più stretti compagni d’idee né la maggioranza blanquista del Consiglio della Comune, né la stessa minoranza che pur appartenendo all’Internazionale viveva e si muoveva sostanzialmente nell’ambito delle idee di Proudhon. Durante la Co mune Marx, per quanto era possibile nelle circostanze di allora, si tenne in stretto contatto di idee con essa, ma purtroppo ne avanzano soltanto dei documenti molto scarsi. In risposta a una sua lettera andata per duta, il 25 aprile Leo Frankel, delegato per il dipartimento dei lavori pubblici, gli scriveva fra l’altro: «Sarei molto contento se Lei volesse in qualche modo aiutarmi col Suo consiglio, perché attualmente io sono per così dire solo, ma sono anche il solo responsabile per tutte le riforme che voglio introdurre nel dipartimento dei lavori pubblici Poche righe della Sua ultima lettera lasciano già intendere che Lei farà tutto il possibile per far capire a tutti i popoli, a tutti gli operai e in particolar modo a quelli tedeschi che la Comune di Parigi non ha niente a che fare con gli ammuffiti comuni tedeschi. Facendo questo Lei renderà in ogni caso un grande servigio alla nostra causa». Non si ha notizia di un’eventuale lettera o consiglio con cui Marx abbia risposto a Frankel.

E’ andata perduta invece una lettera inviata da Frankel e Vari in a Marx, a cui questi il 13 maggio rispose: «Ho parlato col latore della vostra lettera. Non sarebbe raccomandabile mettere in un luogo sicuro carte così compromettenti per le canaglie di Versailles? Queste misure di prudenza non nuocciono mai. Mi hanno scritto da Bordeaux che nelle ultime elezioni per il consiglio comunale sono stati eletti quattro internaziona listi. Nelle provincie comincia il fermento. Purtroppo la loro azione è localmente limitata e pacifica. Per la vostra causa ho scritto diverse centinaia di lettere in tutti i punti della terra dove abbiamo relazioni. Del resto la classe operaia era fin da principio per la Comune. Persino i giornali borghesi inglesi hanno abbandonato il loro atteggiamento iniziale, che era del tutto avverso. Ogni tanto mi è riuscito farci passare un articolo favorevole. La Comune perde molto tempo, mi sembra, in piccolezze e in dispute personali. Evidentemente agiscono anche altre influenze, oltre a quella degli operai. Ma tutto ciò non importerebbe niente, se vi riuscisse ricuperare il tempo perduto». Marx faceva notare infine che era necessaria un’azione quanto più rapida possibile, anche perché tre giorni prima era stata conclusa a Francoforte sul Meno la pace definitiva fra la Francia e la Germania, e ora Bismarck aveva lo stesso interesse di Thiers ad abbattere la Comune, soprattutto perché da quel momento doveva cominciare il pagamento dei cinque miliardi di riparazioni di guerra.

Nei consigli contenuti in questa lettera si sente un cauto ritegno, e senza dubbio tutto ciò che Marx scrisse a membri della Comune deve essere stato tenuto sullo stesso tono. Non perché avesse paura di addossarsi la responsabilità di tutta la condotta della Comune (giacché questo egli fece subito dopo la sconfitta, di fronte a tutta l’opinione pubblica e senza riserve), ma perché non aveva proprio nessun desiderio di osten tare maniere dittatoriali e di prescrivere dal di fuori ciò che si doveva fare sul posto, dove le cose potevano essere giudicate meglio che altrove.

Il 28 maggio gli ultimi difensori della Comune erano caduti, e subito due giorni dopo Marx presentò al Con siglio Generale l’Indirizzo sulla «guerra civile in Francia», uno dei più splendidi documenti che siano mai usciti dalla sua penna, e tutto considerato, la pagina ancor oggi più luminosa dell’enorme bibliografia che da allora è uscita sulla Comune di Parigi. Anche questa volta, in un problema difficile e intricato, Marx dette una nuova prova della sua stupefacente capacità di individuare il nucleo storico dei fatti sotto l’ingannevole superficie di una confusione inestricabile, in mezzo a una farragine di notizie che si intrecciavano e si con traddicevano in mille modi. Laddove concerne i dati di fatto (e le due prime parti di esso, come la quarta ed ultima parte, espongono lo svolgimento degli avvenimenti), 1 Indirizzo ha sempre visto giusto in tutto, e in seguito non è mai stato contraddetto su nessun punto.

L’Indirizzo non fornisce certo una storia critica della Comune, ma questo non era il suo compito. Doveva mettere in chiara luce l’onore e il diritto della Comune contro gli oltraggi e le ingiustizie dei suoi nemici: doveva essere uno scritto di combattimento, e non una trattazione storica. Gli errori e le colpe della Comune sono stati assai spesso oggetto di una critica aspra, e talvolta anche troppo aspra, da parte socialista. Marx si limitò a questo cenno: «In tutte le rivoluzioni si intrufolano, accanto ai loro rappresentanti autentici, individui di altro conio; alcuni sono superstiti e devoti di rivoluzioni passate, che non comprendono il movimento presente, ma conservano un’influenza sul popolo per la loro nota onestà e per il loro coraggio, o per la semplice forza della tradizione; altri non sono che schiamazzatori i quali, a forza di ripetere anno per anno la stessa serie di stereotipe declamazioni contro il governo del giorno, si sono procacciata la fama di rivoluzionari della più bell’acqua. Anche dopo il 18 marzo vennero a galla alcun: tipi di questo genere, e in qualche caso riuscirono a rappresentare le parti di primo piano. Nella misura del loro potere, essi furono di ostacolo all’azione reale della classe operaia, esattamente come uomini di tale specie avevano ostacolato lo sviluppo di ogni precedente rivoluzione. Questi elementi sono un male inevitabile; col tempo ci si sbarazza di loro; ma alla Comune non fu concesso tempo».

Un particolare interesse merita la terza parte dell’Indirizzo, che tratta dell’essenza storica della Comune. Con grandissima acutezza essa viene distinta da formazioni storiche precedenti che potevano somigliarle superficialmente, dal comune medievale alla costituzione municipale prussiana. «Soltanto nella testa di Bismarck — il quale, quando non è preso dai suoi intrighi di sangue e di ferro, ama sempre ritornare ai vecchio mestiere così adatto al suo calibro mentale di collaboratore del Kladderadatsch — soltanto in una testa cesi fatta poteva entrare l’idea di. attribuire alla Comune di Parigi l’aspirazione a quella caricatura della vecchia organizzazione municipale francese del 1791 che è la costituzione municipale prussiana, la quale riduce le amministrazioni cittadine alla funzione di ruote puramente secondarie della macchina poliziesca dello Stato prussiano». Nella molteplicità delle interpretazioni che si davano , della Comune, e nella molteplicità degli interessi che in essa avevano trovato la loro espressione, l’Indirizzo riconosceva come essa fosse stata una forma politica fondamentalmente espansiva. «Il suo vero segreto fu questo: che essa fu essenzialmente un governo della classe operaia, il prodotto della lotta dei produttori contro la classe appropriatrice, la forma politica finalmente scoperta, nella quale si poteva compiere l’emancipazione economica del lavoro».

Come prova di questo giudizio l’Indirizzo non poteva produrre un dettagliato programma di governo della Comune, perché essa non era arrivata a formularlo e neppure vi poteva arrivare, impegnata com’era, dal primo all’ultimo giorno della sua esistenza, in una lotta per la vita e per la morte. Quella prova l’Indirizzo la dava sulla base della politica pratica che la Comune aveva seguito, e vedeva il carattere più intimo di questa politica nello strangolamento dello Stato che nella sua forma più prostituita, il Secondo Impero, non rappresentava ormai più che una «escrescenza parassitaria» sul corpo della società, della quale dis sanguava le forze e impediva il libero sviluppo. Il primo decreto della Comune dispose la soppressione dell’esercito permanente e la sua ostinazione col popolo armato. La Comune spogliò la polizia, che fino allora era stata lo strumento del governo dello Stato, di tutte le funzioni politiche, e la trasformò nel suo strumento responsabile. Dopo aver abolito l’esercito permanente e la polizia, strumenti della potenza materiale del vecchio governo, la Comune spezzò lo strumento della repressione spirituale, il potere dei preti, disciogliendo ed espropriando tutte le chiese in quanto enti possidenti. La Comune aprì gratuitamente al popolo tutti gli istituti di istruzione e li liberò in pari tempo da ogni ingerenza della Chiesa e dello Stato. La Comune estirpò fin dalla radice la burocrazia statale, rendendo elettivi tutti i funzionari, compresi i giudici, dichiarandoli revocabili in ogni tempo e limitando i loro stipendi a un massimo di 6.000 franchi.

Per quanto geniali fossero queste realizzazioni, nei loro particolari, tuttavia erano in un certo contrasto con i princìpi che Marx ed Engels sostenevano da un quarto di secolo e che avevano già proclamato nel Manifesto comunista. Secondo la loro concezione, fra le ultime conseguenze della futura rivoluzione pro letaria c’era, è vero, l’abolizione di quell’organizzazione politica che viene designata col nome di Stato, ma solo come abolizione graduale. Lo scopo principale di questa organizzazione era sempre stato quello di assicurare con la forza delle armi l’oppressione economica della maggioranza lavoratrice da parte della minoranza esclusivamente possidente. Con la scomparsa di una minoranza esclusivamente possidente scompare anche la necessità di un potere oppressivo o statale armato. Ma in pari tempo Marx ed Engels misero in rilievo che per arrivare a questo e ad altri obiettivi, molto più importanti, della futura rivoluzione, la classe operaia doveva prima di tutto impossessarsi del potere politico organizzato dello Stato, schiac ciare, valendosi di esso, la resistenza della classe dei capitalisti, e dare una nuova organizzazione alla società. Con questa concezione esposta nel Manifesto comunista però non andava d’accordo la lode, che l’Indirizzo del Consiglio Generale tributò alla Comune di Parigi, di aver cominciato con lo sradicare fin dalle fondamenta lo Stato parassitario.

Marx ed Engels, è naturale, ne erano perfettamente consapevoli; nella prefazione a una nuova edizione del Manifesto comunista, uscita nel giugno del 1872, sotto l’impressione ancora fresca della Comune, si corressero su questo punto, rinviando espressamente all’Indirizzo, là dove è detto che la classe operaia non può impossessarsi puramente e semplicemente della macchina statale già pronta e metterla in moto per i suoi propri fini. Ma almeno Engels più tardi, dopo la morte di Marx, nella lotta contro tendenze anarchiche lasciò cadere di nuovo questa riserva e riprese esattamente il vecchio punto di vista del Mani festo. E’ abbastanza comprensibile che i seguaci di Bakunin traessero partito a loro modo dall’Indirizzo del Consiglio Generale. Lo stesso Bakunin osservava ironicamente che Marx, le cui idee erano state messe sottosopra dalla Comune, doveva renderle omaggio contro ogni logica e far suoi il suo programma e il suo fine, E difatti, se un’insurrezione neppur minimamente preparata, e provocata invece all’improvviso da una brutale aggressione, poteva levar di mezzo con un paio di semplici decreti l’apparato oppressivo dello Stato, non veniva allora confermato ciò che Bakunin non si stancava di ripetere? Questa conclusione si poteva dedurre con un po’ di buona o di cattiva volontà dall’Indirizzo del Consiglio Generale che dava troppa realtà a ciò che esisteva soltanto come possibilità nella natura della Comune. Ma in ogni caso se l’agitazione di Bakunin dell’anno 1871 prese uno slancio senza precedenti, ciò si doveva alla profonda impressione che la Comune di Parigi aveva fatto sulla classe operaia europea.

L’Indirizzo si chiudeva con queste parole: «Parigi operaia, con la sua Comune, sarà celebrata in eterno come l’araldo glorioso di una nuova società. I suoi martiri hanno per urna il grande cuore della classe operaia. I suoi sterminatori, la storia li ha già inchiodati a quella gogna eterna dalla quale non riusciranno a riscattarli tutte le preghiere dei loro preti». Subito dopo la sua apparizione l’Indirizzo suscitò enorme impressione. «Esso solleva un chiasso del diavolo e io ho l’onore di essere in questo momento l’uomo più calunniato e più minacciato di Londra», scrisse Marx a Kugelmann. «Ciò fa veramente bene dopo quel noioso idillio ventennale nel pantano. Il foglio governativo — The Observer — mi minaccia di persecu2Ìone legale. Che osino! Mi rido di queste canaglie». Appena cominciato il chiasso, Marx aveva reso noto di essere l’autore dell’Indirizzo.

Parecchi anni dopo Marx fu biasimato anche da parte socialdemocratica, sia pure da voci isolate, perché avrebbe messo in pericolo l’Internazionale addossandole il peso della responsabilità della Comune, che essa non avrebbe dovuto sopportare. Avrebbe sì potuto difenderla da attacchi ingiusti, ma tenersi alla larga dai suoi errori e dalle sue colpe.

Questa sarebbe stata la tattica da «uomini di Stato» liberali, che Marx non poteva seguire, appunto perché era Marx. Egli non ha mai pensato a sacrificare l’avvenire della sua causa nella speranza ingannevole di diminuire così i pericoli che nel presente la minacciavano.

    16.4    ​​​L’Internazionale e la Comune

Per aver raccolto l’eredità della Comune tutta intera, senza togliervi nulla, l’Internazionale si trovò di fronte a una quantità di nemici.

La cosa di minor conto erano gli attacchi calunniosi che su di essa riversava la stampa borghese di tutti i paesi. Al contrario, essi in un certo senso e fino a un certo punto si trasformavano in un mezzo di propaganda, perché il Consiglio Generale respingeva questi attacchi con dichiarazioni pubbliche e così trovava ascolto almeno sulla grande stampa inglese.

A un peso più grave il Consiglio Generale si sobbarcò per provvedere ai profughi della Comune, che in parte si erano rifugiati in Belgio e in Svizzera, ma soprattutto a Londra. Date le sue condizioni finanziarie sempre cattive, poté raccogliere i mezzi necessari soltanto a gran fatica e a questo scopo dovette spendere per lunghi mesi attività e tempo, trascurando i suoi compiti ordinari che avrebbero dovuto essere sbrigati con tanto maggiore urgenza in quanto quasi tutti i governi erano mobilitati contro l’Internazionale.

Ma neppure questa guerra da parte dei governi era la preoccupazione più grave. Essa dapprima fu con dotta, con maggiore o minore energia, nei singoli S:ati del continente; ma i tentativi di unire tutti i governi in una battuta di caccia contro il proletariato armato della propria coscienza di classe, per il momento falli rono. La prima azione di questo genere fu intrapresa dal governo francese sin dal 6 giugno 1871 con una circolare di Jules Favre, ma questo documento era talmente idiota e falso che non incontrò il favore degli altri governi, neppure di Bismarck, il quale, di solito dispostissimo a ogni iniziativa reazionaria e in ispecie antioperaia, era stato riscosso dalla sua baldanza in seguito alla presa di posizione della socialdemocrazia tedesca (tanto dei lassalliani che degli eisenachiani) in favore della Comune.

Qualche tempo dopo il governo spagnolo, mediante una circolare del suo ministro degli esteri, fece un secondo tentativo per unire i governi europei contro l’Internazionale. Non basta — diceva la circolare — che un governo prenda isolatamente le più severe misure contro l’Internazionale e ne sopprima le sezioni sul proprio territorio; tutti i governi devono unire i loro sforzi per eliminare il male. Questo richiamo avrebbe avuto maggiore risonanza se il governo inglese non lo avesse messo subito a tacere. Lord Granville rispose che l’Internazionale «qui nel nostro paese» aveva limitato le sue operazioni principalmente a consigli in fatto di scioperi e che per appoggiarli non aveva a disposizioni che somme modeste, mentre i piani rivoluzionari, che formavano parte del suo programma, rispecchiavano piuttosto le idee dei membri stranieri che quelle degli operai inglesi, i quali dedicavano la loro attenzione più che altro a questioni di salario; ma che anche gli stranieri, come i sudditi inglesi, erano protetti dalle leggi: se essi le avessero violate, partecipando a operazioni di guerra contro qualsiasi Stato che vivesse in rapporti amichevoli con la Gian Bretagna, sarebbero stati puniti, ma non vi era alcun motivo di prendere misure preventive straordinarie contro gli stranieri in Inghilterra. Questo sensato rifiuto di fronte ad una pretesa insensata indusse il foglio ufficioso personale di Bismarck a osservare ruvidamente che le misure di sicurezza per difendersi dal l’Internazionale sarebbero rimaste sostanzialmente inefficaci, finché il territorio inglese costituiva un campo franco da cui, sotto la protezione delle leggi inglesi, si potevano impunemente disturbare gli altri Stati europei.

Ma anche se in tal modo non poté essere messa in atto una generale crociata dei governi contro l’Interna zionale, essa da parte sua non riuscì a formare una falange serrata contro le persecuzioni alle quali erano esposte le sue sezioni nei singoli Stati del continente. Questa era la più grave preoccupazione dell’Interna zionale, tanto più grave in quanto essa si sentiva mancare il terreno sotto i piedi proprio in quei paesi le cui classi operaie erano state i suoi più sicuri punti d’appoggio: in Inghilterra, in Francia e in Germania, dove la grande industria era, in maggiore o minore misura, largamente sviluppata e dove gli operai godevano di un diritto di voto, sia pure più o meno limitato, per le assemblee legislative. Una prova esterna dell’importanza di questi paesi per l’Internazionale era data dalla composizione del Consiglio Generale, che comprendeva 20 inglesi, 15 francesi, 7 tedeschi, e invece soltanto due svizzeri e due ungheresi, e un polacco, un belga, un irlandese, un danese e un italiano.

In Germania, Lassalle aveva impostato fin da principio su terreno nazionale l’agitazione operaia, ciò che Marx gli aveva aspramente rimproverato; ma questo fatto, come ben presto si sarebbe visto, salvò il partito operaio tedesco da una crisi che il movimento socialista dovette superare in tutti gli altri paesi del continente. Frattanto la guerra aveva provocato una stasi momentanea nel movimento operaio tedesco; le sue due frazioni avevano abbastanza da fare tra di loro, così che non potevano darsi gran pensiero dell’Interna zionale. Inoltre, pur essendosi pronunciate, tutte e due le frazioni, contro l’annessione dell’Alsazia-Lorena e in favore della Comune di Parigi, gli eisenachiani, che erano i soli riconosciuti dal Consiglio Generale come ramo dell’Internazionale, avevano assunto posizioni così avanzate da essere vessati ancor più dei lassalliani con accuse di alto tradimento e altre belle cose di questo genere. Secondo quanto confessa lo stesso Bismarck, Bebel era stato il primo, con i suoi infocati discorsi al Reichstag in cui dichiarava che i socialdemocratici tedeschi erano solidali con i comunardi francesi, a destare i sospetti di Bismarck, che si sfogarono in colpi sempre più violenti contro il movimento operaio tedesco. Ma un fatto molto più decisi vo per l’atteggiamento degli eisenachiani verso l’Internazionale fu il loro crescente estraniarsi da essa, da quando cominciarono a costituire un partito indipendente all’interno dei confini nazionali.

In Francia, Thiers e Favre avevano fatto approvare dall’assemblea composta di nobilucci di provincia una severa legge eccezionale contro l’Internazionale, che paralizzò completamente la classe operaia già mor talmente esausta per lo spaventoso salasso dei massacri di Versailles. Nella loro sete di vendetta gli eroi dell’ordine arrivarono fino al punto di chiedere alla Svizzera e anche all’Inghilterra l’estradizione dei profughi della Comune, come se fossero delinquenti comuni, e con la Svizzera la loro richiesta fu quasi sul punto d’aver successo! Per il Consiglio Generale tutti i rapporti con la Francia furono così interrotti. Onde avere fra i suoi membri qualche rappresentante francese, esso accolse un certo numero di esuli della Comune, alcuni dei quali avevano appartenuto già prima all’Internazionale, altri si erano fatti conoscere per la loro energia rivoluzionaria: questo doveva essere un omaggio reso alla Comune di Parigi. Ciò era molto giusto, ma invece di rafforzare il Consiglio Generale lo indebolì, perché anche i profughi della Comune incorsero nell’inevitabile destino di tutti gli emigrati, di logorarsi in litigi interni. Con gli emigrati francesi Marx dovette tollerare delle meschinità simili a quelle sperimentate ventanni prima con i tedeschi. Egli era sicuramente l’ultimo a pretendere una qualsiasi riconoscenza per ciò che considerava suo dovere, ma le eterne beghe degli esuli francesi nel novembre 1871 gli strapparono un sospiro: «Questo è il ringraziamento per aver perso quasi cinque mesi a lavorare per gli esuli, e per aver fatto il loro paladino con l’Indirizzo !».

L’Internazionale perse infine l’appoggio che fino allora aveva avuto negli operai inglesi. In apparenza la rottura avvenne quando due eminenti capi del tradunionismo, Lucraft e Odger, che avevano appartenuto fin da principio al Consiglio Generale, e Lucraft anzi ne era stato presidente finché questa carica era esistita, annunciarono le loro dimissioni, a causa dell’Indirizzo sulla guerra civile. Di qui è nata la leggenda che le Trade Unions si sarebbero staccate dall’Internazionale per l’orrore in esse suscitato dalla presa di posizione in favore della Comune. La piccola parte di verità che c’è in questo non tiene conto però del motivo decisivo. La cosa aveva ragioni più complesse e più profonde.

L’alleanza fra l’Internazionale e le Trade Unions era stata fin da principio come un matrimonio di convenien za. Le due parti avevano bisogno luna dell’altra, ma nessuna delle due pensava di legarsi all’altra per la buona e la cattiva sorte. Nell’Indirizzo inaugurale e negli statuti dell’Internazionale Marx aveva saputo crea re, con magistrale abilità, un programma comune, ma le Trade Unions, anche se potevano sottoscrivere quel programma, ne traevano in pratica soltanto ciò che faceva loro comodo. Nel suo dispaccio di risposta al governo spagnolo lord Gran-ville delineò con molta esattezza questi rapporti. Scopo delle Trade Unions era il miglioramento delle condizioni di lavoro sul terreno della società capitalistica, e per conseguire o as sicurare questo scopo esse non disdegnavano l’attività politica, ma nella scelta dei mezzi e dei compagni di lotta non avevano affatto riserve di principio, a meno che la cosa non avesse importanza proprio per raggiungere il loro scopo.

Marx dovette accorgersi subito che questa spiacevole caratteristica delle Trade Unions, profondamente radicata nella storia e nell’essenza del proletariato inglese, non era facile da vincere. Le Trade Unions ebbero bisogno dell’Internazionale per riuscire ad ottenere la riforma elettorale, ma quando la riforma fu ottenuta cominciarono ad amoreggiare con i liberali, senza il cui aiuto non potevano sperare di conquistare seggi in parlamento. Sin dal 1868 Marx inveiva contro questi «intriganti», fra i quali già nominava anche Odger, che si presentò più volte candidato al parlamento. Un’altra volta Marx giustificò il fatto che del Consiglio facevano parte alcuni seguaci del caposetta Bronterre O’ Brien, con queste significative parole:

«Nonostante le loro pazzie questi O’ Brienniti nel Consiglio Generale costituiscono un contrappeso spesso necessario contro i tradunionisti.  Sono più rivoluzionari, più decisi sulla questione della proprietà, meno
nazionalisti e inaccessibili a qualsiasi forma di corruzione. Altrimenti li avremmo messi alla porta da un pezzo». Alla proposta, presentata a più riprese, di formare un consiglio federale per l’Inghilterra, Marx si oppose, come spiegava fra l’altro nella circolare del V gennaio 1870, affermando che agli inglesi mancava il genio della generalizzazione e la passione rivoluzionaria, tanto che un consiglio federale inglese sarebbe diventato un trastullo per i membri radicali del parlamento.

Dopo il loro distacco, Marx sollevò contro i dirigenti operai inglesi, nella forma più aspra, l’accusa di essersi venduti al ministero liberale. Per alcuni di essi l’accusa può essere vera, per altri invece non è vera neppure se si ritiene che la corruzione possa avvenire anche in «forma diversa» dal pagamento in contanti. Come tradunionista, Applegarth aveva una posizione almeno altrettanto eminente quanto Odger e Lucraft, e anzi nei due rami del parlamento era considerato rappresentante ufficiale del tradunionismo. Subito dopo il Congresso di Basilea, i suoi protettori parlamentari gli avevano chiesto quale posizione prendesse di fronte alle risoluzioni di questo Congresso sulla proprietà collettiva, ma non si era lasciato intimorire dalle non dissimulate minacce. E nel 1870, anno in cui era stato eletto nella regia commissione per la discussione delle leggi contro le malattie veneree e aveva ottenuto con ciò, primo fra gli operai, il privilegio di ricevere dal sovrano il titolo di «nostro fedele e beneamato», egli firmò ugualmente l’Indirizzo sulla guerra civile in Francia e fino alla fine rimase fedele in tutto al Consiglio Generale.

Ma proprio nel caso di quest’uomo personalmente inattaccabile, che anche più tardi rifiutò la nomina al ministero del commercio, si vedono i motivi del distacco dei dirigenti operai inglesi. Il primo obiettivo delle Trade Unions era la protezione legale delle loro leghe e delle loro casse. Nella primavera del 1871 questo obiettivo parve raggiunto, quando il governo presentò un progetto di legge secondo cui le Trade Unions avrebbero avuto diritto alla registrazione e alla protezione legale, solo che i loro statuti non andassero contro la legge. Ma il governo concedeva con una mano mentre toglieva con l’altra.

In una seconda parte della legge infatti veniva abolita la libertà di coalizione, con la conferma e anche l’inasprimento di tutte quelle disposizioni elastiche che erano state escogitate contro gli scioperi, il divieto di «ricorso alla violenza», «minacce», «intimidazioni», «molestie», «ostruzionismo» ecc. Era una vera legge eccezionale; le stesse azioni venivano punite se erano compiute dalle Trade Unions o se dovevano servire al conseguimento dei loro fini, mentre restavano impunite se compiute da altre associazioni. Nella loro maniera sempre garbata gli storici del tradunionismo inglese dicono: «Era di poca utilità dichiarare legale l’esistenza di associazioni sindacali, se la legge penale era tanto estesa da comprendere anche gli usuali mezzi pacifici mediante i quali queste associazioni sono solite raggiungere i loro obiettivi». Per la prima volta i sindacati diventarono enti legalmente riconosciuti e protetti, ma le disposizioni di legge dirette contro l’azione sindacale furono espressamente confermate e anche inasprite.

Le Trade Unions e i loro dirigenti rifiutarono naturalmente questi doni ingannatori. Ma con la loro resistenza ottennero soltanto questa concessione, che il governo divise il suo disegno di legge in due parti: una legge che dichiarava legali i sindacati, e una legge penale supplementare che minacciava di grave punizione ogni azione sindacale. Questo non era affatto un reale successo, ma una trappola nella quale dovevano essere attirati i dirigenti sindacali, che infatti vi caddero. Le loro casse premevano loro più dei loro princìpi sindacali; tutti i dirigenti, compreso Applegarth che anzi era in testa a tutti, fecero registrare le loro associazioni in base alla nuova legge, e nel settembre 1871 la Conferenza dei sindacati riuniti, rappresentante il «Nuovo Unionismo» che in passato aveva servito da collegamento fra l’Internazionale e le Trade Unions, si sciolse perché « erano stati assolti i compiti per la cui soluzione essa era stata costituita».

I dirigenti della Trade Unions poterono mettere a tacere la loro coscienza perché nel loro progressivo im borghesimento si erano abituati a vedere negli scioperi forme ancora rudimentali del lavoro sindacale. Sin dal 1867 uno di loro aveva dichiarato davanti a una regia commissione che gli scioperi significavano un assoluto sperpero di denaro tanto per gli operai che per gli imprenditori. Essi quindi si opposero con tutte le forze, nel 1871, quando un movimento impetuoso per la giornata di nove ore si diffuse fra le masse del proletariato inglese, che non erano d’accordo col nuovo orientamento «diplomatico» dei loro capi e che erano estremamente indignate dalla nuova legge penale supplementare. Il movimento cominciò il 1◦ aprile con uno sciopero degli operai meccanici di Sunderland, si estese rapidamente nei distretti della industria meccanica e culminò nello sciopero di Newcastle, che dopo cinque mesi finì con la completa vittoria degli operai. Ma di fronte a questo movimento di massa la grande associazione degli operai meccanici tenne un atteggiamento assolutamente negativo; soltanto dopo quattordici settimane gli operai scioperanti che erano membri dell’associazione ottennero un sussidio di sciopero di cinque scellini settimanali, oltre all’ordinario sussidio di disoccupazione. Il movimento, che si estese rapidamente a un gran numero di altre categorie, fu sostenuto quasi esclusivamente dalla Lega per le nove ore, che si era costituita per questa lotta e aveva trovato in John Burnett una guida molto capace.

La Lega per le nove ore trovò il massimo consenso nel Consiglio Generale dell’Internazionale, che man dò in Danimarca e in Belgio i suoi membri Cohen e Eccarius per impedire che gli agenti degli industriali reclutassero operai stranieri. Essi vi riuscirono anche in larga misura. Nelle discussioni con Burnett Marx non poté trattenersi dal constatare con amarezza che era veramente un avverso destino, che le società organizzate degli operai si tenessero lontane dall’Internazionale fino al momento che si trovavano in dif ficoltà: se fossero venute al momento opportuno, si sarebbero potute prendere in tempo tutte le misure preventive. Si ebbe tuttavia la piena impressione che l’Internazionale avesse conquistato presso le masse di che sostituire largamente ciò che aveva perso per la defezione dei dirigenti: si formavano sempre nuove sezioni e le sezioni già esistenti acquistavano un numero sempre crescente di nuovi membri. Ma in pari tempo si chiedeva con sempre maggiore insistenza che l’Inghilterra avesse un proprio consiglio federale.

Marx acconsentì finalmente a questa concessione che aveva sempre rifiutato di fare; dato che dopo la caduta della Comune non era più prevedibile a breve scadenza una nuova rivoluzione, pare che egli non abbia più ritenuto molto importante che il Consiglio Generale tenesse direttamente in mano la leva più forte della rivoluzione. Ma i suoi vecchi timori si dimostrarono giustificati: l’istituzione del consiglio federale doveva rivelare che in Inghilterra le tracce dell’Internazionale svanivano prima che in qualsiasi altro paese.

    16.5    ​​​L’opposizione bakuninista

Se dopo la caduta della Comune di Parigi l’Internazionale dovette combattere contro grandi difficoltà in Germania, in Francia e in Inghilterra, ciò accadde più che mai in altri paesi, dove essa aveva preso piede in misura molto limitata. Il piccolo focolaio di crisi che già prima della guerra franco-tedesca si era formato nella Svizzera romanza si estese alla Italia, alla Spagna, al Belgio e ad altri paesi; parve che le tendenze di Bakunin dovessero vincerla sulle tendenze del Consiglio Generale.

Non che questa evoluzione fosse dovuta all’attività agitatoria di Bakunin o ai suoi intrighi, come credeva il Consiglio Generale. E’ vero che sin dai primi giorni del 1871 Bakunin interruppe il suo lavoro di traduzione del Capitale per dedicarsi a una nuova attività politica, ma questa attività non aveva niente a che fare con l’Internazionale, e i. suo esito fu tale da scuotere gravemente la reputazione politica di Bakunin. Si trattava del famoso affare Neciaiev, che non si può mettere da parte con tanta facilità, come hanno tentato di fare gli apologeti entusiasti di Bakunin, limitandosi a rimproverargli «troppa intimità per troppa bontà».

Neciaiev era un giovane sulla ventina, cresciuto come servo della gleba, ma che per la benevolenza di persone liberali aveva studiato in seminario per diventare insegnante. Entrò nel movimento studentesco russo di quei tempo, nel quale raggiunse una certa posizione non per la sua scarsa cultura e nemmeno per la sua modesta intelligenza, ma per la sua indomabile energia e per il suo odio sfrenato contro l’oppressione zarista. Ma la sua qualità preminente era ia mancanza di qualsiasi scrupolo morale, quando ciò serviva a favorire la sua causa. Personalmente non chiedeva nulla, e faceva a meno di tutto ciò che era necessario, ma non rifuggiva da nessuna azione, anche la più riprovevole, se in questo modo immaginava di agire da rivoluzionario.

Nella primavera del 1869 era comparso a Ginevra, dove brillava nella sua duplice qualità di condannato politico evaso dalla Fortezza di Pietro e Paolo e di delegato di un comitato onnipotente che, a quanto si. diceva, preparava in segreto la rivoluzione in tutta la Russia. Erano due invenzioni: quel comitato non esi steva e Neciaiev non era mai stato nella Fortezza di Pietro e Paolo. Dopo l’arresto di alcuni suoi compagni, era andato all’estero, secondo quanto diceva lui stesso, per indurre i vecchi emigrati a entusiasmare la gioventù russa con i loro nomi e i loro scritti. Con Bakunin raggiunse questo scopo in misura quasi inverosi mile. Il «giovane selvaggio», la «piccola tigre», come Bakunin soleva chiamare Neciaiev, si impose su di lui come rappresentante di una nuova progenie che col suo vigor rivoluzionario avrebbe messo sottosopra la vecchia Russia. Bakunin credeva senza riserve al «comitato», a tal punto da impegnarsi a sottomettersi senza obiezioni ai suoi ordini, e fu subito disposto a pubblicare insieme con Neciaiev una serie di violenti scritti rivoluzionari e a lanciarli oltre i confini russi.

Bakunin ha indubbiamente una parte di responsabilità in questi scritti, e non è di decisivo interesse indagare se talune delle prestazioni peggiori sono da attribuire a lui o a Neciaiev. Per di più è incontestato che sono opera sua tanto l’appello che esortava gli ufficiali russi a prestare al «comitato» quell’obbedienza incondizionata alla quale lo stesso Bakunin si era impegnato, quanto l’opuscolo che idealizzava il brigantaggio russo, e il catechismo rivolu zionario in cui Bakunin sfogava la propria predilezione per le immagini spaventose e le parole truci. Non è dimostrato invece che Bakunin abbia avuto una parte qualsiasi nella attività demagogica di Neciaiev, di cui egli stesso doveva restare vittima, sì che quando, troppo tardi, se ne accorse, egli allontanò da sé la « piccola tigre». Bakunin e Neciaiev furono accusati dal Consiglio Generale dell’Internazionale di avere ro vinato delle persone innocenti in Russia, inviando loro lettere, stampe, telegrammi in una forma che doveva necessariamente richiamare l’attenzione della polizia russa, ma un uomo come Bakunin avrebbe dovuto a buon diritto andare immune da simili accuse. I reali termini in cui si trovava la cosa furono ammessi dalla stesso Neciaiev dopo che fu smascherato: egli confessò sfrontatamente il suo metodo infame, consistente nel compromettere tutti quelli che non erano del tutto solidali con lui, in modo da annientarli o da trascinarli a forza nel movimento. Con lo stesso metodo egli faceva firmare a persone che avevano fiducia in lui, in momenti di esaltazione, dichiarazioni compromettenti, o rubava loro lettere riservate di cui approfittava per esercitare su di loro una pressione ricattatoria.

Bakunin non era ancora a conoscenza di questo metodo quando, nell’autunno del 1869, Neciaiev tornò in Russia. Portava con sé un mandato scritto di Bakunin, che lo qualificava « rappresentante accreditato», non dell’Internazionale naturalmente, e neppure dell’Alleanza della Democrazia Socialista, ma di una Al leanza Rivoluzionaria Europea che lo spirito fantasioso di Bakunin aveva fondato come propaggine, per così dire, dell’Alleanza per gli affari russi. Essa presumibilmente esisteva soltanto sulla carta, ma il nome di Bakunin era abbastanza efficace per dare una certa importanza all’agitazione di Neciaiev fra la gioven tù studentesca. Egli continuava principalmente a servirsi dell’imbroglio del «comitato», e quando uno dei suoi nuovi seguaci, lo studente Ivanov, cominciò a dubitare dell’esistenza di questa autorità segreta, tolse di mezzo questo incomodo scettico assassinandolo a tradimento. La scoperta del cadavere portò a numerosi arresti, ma Neciaiev fuggì oltre la frontiera.

Nei primi giorni del gennaio 1870 ricomparve a Ginevra, e ricominciò il vecchio gioco. Bakunin si levò a sostenere con grande ardore che l’uccisione di Ivanov era un delitto politico, e non un delitto comune, per cui la Svizzera non doveva concedere l’estradizione di Neciaiev, chiesta dal governo russo. Intanto Neciaiev si teneva così ben nascosto che la polizia svizzera non riuscì a catturarlo. Ma lui stesso giocò un brutto tiro al suo difensore: indusse Bakunin a rinunciare alla traduzione del Capitale per dedicare tutte le sue forze alla propaganda rivoluzionaria, e gli promise di accordarsi con l’editore per la questione dell’anticipo già pagato. Bakunin, che allora viveva nelle più gravi ristrettezze, non poteva intendere questa promessa se non nel senso che Neciaiev c il suo misterioso «comitato» avrebbero restituito all’editore i 300 rubli di anticipo. Ma Neciaiev spedì non all’editore, ma a Liubavin, che aveva fatto da intermediario con l’editore, una «risoluzione ufficiale» del « comitato». scritta su un foglio che ne portava l’intestazione e per di più era fregiato di una scure, un pugnale e un revolver. Essa proibiva a Liubavin di chiedere a Bakunin la restituzione dell’acconto, se non voleva esporsi al pericolo di morte. Bakunin venne a conoscenza di tutte ciò solo in seguito a una lettera oltraggiosa di Liubavin. Si affrettò a riconoscere il suo debito con una nuova ricevuta e a impegnarsi a pagarlo appena ne avesse avuto i mezzi, ma ruppe le relazioni con Neciaiev, sul cui conto frattanto aveva saputo altre cose gravi, come il progetto di assalire e svaligiare il corriere del Sempione.

La credulità, inverosimile e imperdonabile in un uomo politico, dimostrata da Bakunin in questo episodio, eie fu il più avventuroso della sua vita, ebbe per lui conseguenze assai spiacevoli. Marx ne ebbe notizia già nel luglio del 1870, e questa volta la sua fonte era molto sicura: era il bravo Lopatin che nel maggio, durante un suo soggiorno a Ginevra, aveva cercato inutilmente di convincere Bakunin che in Russia non esisteva nessun «comitato», che Neciaiev non era mai stato nella Fortezza di Pietro e Paolo, che lo strangolamento di Ivanov era stato un assassinio assolutamente ingiustificato, e se vi era uno bene infor mato di queste cose, questi non poteva essere che Lopatin. L’opinione sfavorevole che Marx ormai si era fatta di Bakunin dovette essere decisamente rafforzata da queste notizie. Ma il governo russo approfittò dell’ occasione favorevole quando, in seguito ai numerosi arresti che seguirono l’assassinio di Ivanov, fu messo sulle tracce dell’attività di Neciaiev. Per compromettere i rivoluzionari russi di tutto il mondo, esso fece inscenare per la prima volta in pubblico e davanti a giurati un processo politico; nel luglio del 1871 cominciarono a Pietroburgo le udienze del cosiddetto processo Neciaiev, condotto contro più di ottanta imputati, per lo più studenti, che nella massima parte riportarono gravi condanne al carcere o anche ai lavori forzati nelle miniere della Siberia.

In questo tempo Neciaiev era ancora in libertà, e soggiornò alternativamente in Svizzera, a Londra e a Parigi, dove restò al tempo dell’assedio e della Comune; solo nell’autunno del 1872, a Zurigo, fu tradito da una spia. Allora Bakunin con i suoi amici pubblicò presso Schabelitz a Zurigo un opuscolo, per impedire l’estradizione di Neciaiev, arrestato per omicidio comune; ciò non torna a suo disonore, e neppure torna a suo disonore l’aver egli scritto, dopo l’estradizione, a Ogarev, che si era lasciato ingannare anche lui da Neciaiev e gli aveva addirittura consegnato tutto o in parte il fondo Batmetjev, di cui poteva disporre dopo la morte di Herzen: «Una voce interna mi dice che Neciaiev, che è irreparabilmente perduto e senza dubbio lo sa, richiamerà questa volta tutta la sua originaria energia e la sua fermezza dal profondo del suo essere, che è traviato, corrotto, ma non ignobile. Finirà da eroe e questa volta non tradirà nulla e nessuno». Nei dieci anni spaventosi del carcere, fino alla morte, Neciaiev corrispose a questa aspettativa; cercò, per quanto era possibile, di riparare le sue colpe passate, e dimostrò una ferrea energia che piegava al suo volere le guardie che lo sorvegliavano.

Nello stesso tempo in cui avveniva la rottura fra Bakunin e Neciaiev, scoppiò la guerra franco-tedesca. Essa dette subito ai pensieri di Bakunin un’altra direzione: il vecchio rivoluzionario ora contava che l’ingresso dell’esercito tedesco avrebbe dato in Francia il segnale della rivoluzione sociale. Pensava che di fronte a un’invasione aristocratica, monarchica e militarista, gli operai francesi non potevano restare inattivi, se non volevano tradire non solo la loro stessa causa, ma anche la causa del socialismo: la vittoria della Germania era la vittoria della reazione europea. Bakunin aveva ragione nel sostenere che una rivoluzione all’interno non avrebbe paralizzato la resistenza del popolo verso l’esterno, e a sostegno di questa tesi poteva richiamarsi proprio alla storia francese, ma le sue proposte di far sollevare la classe contadina, di tendenza bonapartista e reazionaria, e di indurla a una comune azione rivoluzionaria insieme con gli operai delle città era un puro sogno. Diceva che non bisognava rivolgersi ai contadini con decreti di nessun genere o con proposte comunistiche o con formule organizzative, che avrebbero soltanto provocato la loro rivolta contro le città, ma che si doveva far scaturire piuttosto la rivoluzione dalla loro anima; e altre belle frasi fantastiche di questo genere.

Dopo la caduta dell’Impero, Guillaume pubblicò sulla Solidarité un appello ad accorrere in aiuto della repub blica francese con corpi di volontari armati. Era un’uscita realmente buffonesca, soprattutto da parte di un uomo che predicava con vero fanatismo che l’Internazionale doveva astenersi da qualsiasi politica; e non ebbe altro effetto che di far ridere. Però non si può considerare dallo stesso punto di vista il tentativo di Ba kunin di proclamare a Lione, il 26 settembre, una Comune rivoluzionaria. Bakunin vi era stato chiamato da elementi rivoluzionari. Essi si erano impadroniti del municipio, avevano abolito «l’apparato amministrativo e governativo dello Stato», e in cambio avevano proclamato la « Federazione rivoluzionaria del comune», quando il tradimento del generale Cluseret e la viltà di alcune altre persone permise alla guardia nazionale di riportare una facile vittoria sul movimento. Inutilmente Bakunin aveva insistito perché si prendessero delle misure energiche e aveva chiesto prima di tutto che si arrestassero i rappresentanti dei governo. Lui stesso fu preso prigioniero, ma venne liberato da un reparto di franchi tiratori. Si trattenne ancora qualche settimana a Marsiglia, con la speranza che il movimento si ridestasse, e quando questa speranza fu delusa, alla fine di ottobre, tornò a Locarno.

Le beffe per questo tentativo fallito avrebbero potuto esser riservate alla reazione. Un avversario di Ba kunin, al quale l’avversione per l’anarchismo non ha tolto l’imparzialità del giudizio, scrive giustamente: «Purtroppo anche nella stampa socialdemocratica si sentono dei giudizi ironici, che veramente Bakunin non si è meritato. Coloro che non condividono le idee anarchiche di Bakunin e dei suoi seguaci possono e devono naturalmente mantenere un atteggiamento critico di fronte alle sue speranze infondate. Ma a parte questo, la sua condotta di allora fu un coraggioso tentativo di ridestare l’energia assopita del proletariato francese, e di rivolgerla in pari tempo contro il nemico esterno e l’ordinamento capitalistico della società.

Pressa poco lo stesso tentò di fare più tardi la Comune, che Marx, come è noto, salutò con entusiasmo». Questo giudizio in ogni caso è più realistico e ragionevole dell’atteggiamento del Volksstaat di Lipsia, che salutò con la solita musica il proclama emanato a Lione da Bakunin: quel proclama — scriveva il giornale — non avrebbe potuto essere più appropriato agli interessi di Bismarck neppure se fosse stato fatto dall’ufficio stampa di Berlino.

Il fallimento di Lione scoraggiò profondamente Bakunin. Vedeva dileguarsi a gran distanza la rivoluzione, che aveva già creduto di poter afferrare con le mani, e più che mai quando fu schiacciata anche l’insur rezione della Comune, che per un momento aveva ridestato in lui nuove speranze. Il suo odio contro la propaganda rivoluzionaria come la conduceva Marx, tanto più cresceva in quanto ad essa egli attribuiva la colpa principale dell’atteggiamento, a parer suo fiacco, del proletariato. Per di più la sua situazione materiale era estremamente precaria; i suoi fratelli non lo aiutavano, e vi erano giorni in cui non aveva in tasca più di cinque centesimi e non poteva bere nemmeno la solita tazza di tè. Sua moglie temeva che avrebbe perso l’abituale energia e che si sarebbe rovinato moralmente. Ma egli decise di sviluppare in un’opera, che stendeva nei momenti liberi, le sue idee sull’evoluzione dell’umanità sulla filosofia, sulla religione, sullo Stato e sull’anarchia. Doveva essere il suo testamento.

Quell’opera non fu terminata; a questo spirito irrequieto un lungo riposo non era concesso. Utin aveva continuato i suoi attacchi a Ginevra e nell’agosto del 1870 aveva ottenuto che Bakunin e alcuni suoi amici fossero espulsi dalla sezione centrale di Ginevra perché appartenevano alla sezione dell’Alleanza. Poi Utin aveva inventato la fandonia che la sezione dell’Alleanza non sarebbe mai stata ammessa nell’Internazionale dal Consiglio Generale, e che i documenti che essa sosteneva di aver ricevuto da Eccarius e da Jung sarebbero stati falsi. Intanto Robin si era trasferito a Londra ed era stato ammesso nel Consiglio Generale, che egli aveva attaccato violentemente sull’Egalité. Il Consiglio Generale dette in questa occasione una prova della sua imparzialità, perché Robin non aveva cessato di essere un seguace dichiarato dell’Alleanza. Già il 14 marzo 1871, Robin aveva proposto di convocare una conferenza privata dell’Internazionale per risolvere i contrasti di Ginevra. Alla vigilia della Comune il Consiglio Generale credette bene di respingere questa proposta, ma il 25 luglio decise di sottoporre la questione di Ginevra a una conferenza che doveva essere convocata nel settembre. Nella stessa seduta, a richiesta di Robin, esso confermò l’autenticità dei documenti con cui Eccarius e Jung avevano comunicato alla sezione ginevrina dell’Alleanza la sua ammissione nell’Internazionale.

Questa lettera era appena arrivata a Ginevra che il 6 agosto la sezione dell’Alleanza si sciolse volonta riamente e comunicò subito questa decisione al Consiglio Generale. La cosa doveva apparire come un atto generosissimo: dopo aver avuto soddisfazione dal Consiglio Generale contro le menzogne di Utin, la sezione si sacrificava nell’interesse della pace e della riconciliazione. In realtà furono decisivi altri motivi, più tardi ammessi apertamente da Guillaume. La sezione non aveva più alcun senso, e soprattutto ai pro fughi della Comune rifugiati a Ginevra essa appariva come un avanzo di beghe personali. Proprio in questi profughi Guillaume vide degli elementi adatti per condurre su base più larga la lotta contro il Consiglio federale di Ginevra. Per questo motivo la sezione dell’Alleanza fu sciolta, e infatti poche settimane dopo i suoi resti si unirono con i comunardi in una nuova «Sezione della propaganda e dell’azione socialista rivoluzionaria», che si dichiarava d’accordo con i princìpi dell’Internazionale, ma che si riservava la piena libertà che le accordavano gli statuti e i congressi dell’Internazionale.

Bakunin dapprima non ebbe nulla a che fare con tutto ciò. La sua pretesa onnipotenza come capo dell’Al leanza può essere giudicata dal fatto che la sezione di Ginevra, prima di sciogliersi, non ritenne neppure necessario interpellare lui a Locarno. Se protestò contro di essa in una dura lettera, non fu per suscettibi lità offesa, ma perché riteneva che date le circostanze lo scioglimento della sezione fosse un colpo vile e e sleale: «Non commettiamo atti di viltà, sotto il pretesto di salvare l’unità dell’Internazionale». Ma nello stesso tempo, per tracciare ai suoi seguaci una linea da seguire al Congresso di Londra, s: preoccupò di mettere in chiaro in un’ampia esposizione dei contrasti ginevrini i princìpi che secondo lui erano in gioco nella contesa.

Di questo lavoro sono rimasti dei frammenti notevoli, diversi e assai migliori degli opuscoli russi che l’anno prima Bakunin aveva fabbricato con Neciaiev. A parte qualche espressione forte, essi sono scritti in tono pacato e oggettivo e, comunque si giudichino le particolari idee di Bakunin, essi dimostrano in modo con vincente che i contrasti ginevrini avevano radici più profonde dei fugaci litigi personali e che, se questi vi avevano parte, la responsabilità principale ricadeva su Utin e consorti.

Bakunin non negò mai il profondo contrasto che lo separava da Marx e dal suo «comunismo di Stato», e non fu tenero nel trattare l’avversario. Tuttavia non lo presentava come un indegno soggetto, che non vedesse altro che i suoi propri, riprovevoli fini. Dimostrando che l’Internazionale era nata dal seno stesso delle masse e che poi era stata aiutata nel suo nascere da uomini capaci e devoti alla causa del popolo, ag giungeva: «Cogliamo questa occasione per rendere omaggio ai celebri capi del partito comunista tedesco, prima di tutto ai cittadini Marx ed Engels, e altresì al cittadino Ph. Becker, già nostro amico e ora nostro avversario irriducibile, i quali, per quanto è dato a singoli uomini di creare qualche cosa, sono stati i veri creatori dell’Internazionale Rendiamo loro omaggio tanto più volentieri in quanto presto saremo costretti a combattere contro di loro. La nostra stima per loro è pura e profonda ma non giunge fino all’idolatria, e non ci spingerà mai fino al punto di assumere al loro cospetto un atteggiamento servile. E per quanto noi rendiamo piena giustizia agli immensi servigi che essi hanno reso e ancor oggi rendono all’Internazionale, combatteremo tuttavia fino all’ultimo sangue le loro teorie false e autoritarie, le loro pretese dittatoriali e quell’abitudine agli intrighi sotterranei, alle vane macchinazioni, ai meschini personalismi, alle sporche in giurie e alle infami calunnie, che del resto caratterizzano sempre le lotte politiche di quasi tutti i tedeschi e che essi disgraziatamente hanno introdotto nell’Internazionale». Queste accuse sono abbastanza grosso lane, ma Bakunin non si è mai lasciato indurre a contestare i meriti immortali che Marx si è guadagnato come fondatore e guida dell’Internazionale.

Ma neppure questo lavoro fu portato a termine da Bakunin. Lo stava ancora scrivendo, quando Mazzini, in un settimanale da lui pubblicato a Lugano, pubblicò dei duri attacchi contro la Comune e l’Interna zionale. Bakunin rispose subito con la Risposta di un internazionalista a Mazzini, alla quale fece seguire altri opuscoli dello stesso tenore, quando Mazzini e il suo seguito accettarono la polemica. Dopo tutti gli insuccessi degli ultimi anni, Bakunin riportò finalmente un pieno successo: l’Internazionale si estese rapidamente in Italia, dove fino allora aveva campato stentatamente. Bakunin non dovette questo successo ai suoi «intrighi», ma alle persuasive parole con cui seppe risolvere la tensione rivoluzionaria che la Comune di Parigi aveva suscitato specialmente nella gioventù italiana.

In Italia la grande industria era ancora poco sviluppata; nel proletariato nascente la coscienza di classe si destava solo lentamente, e gii mancavano tutte le armi legali per la difesa e l’offesa. Invece le lotte di mezzo secolo per l’unità nazionale avevano alimentato e mantenuto desta nelle classi borghesi una tradizione rivoluzionaria; per l’unità si era lottato in innumerevoli insurrezioni e congiure, finché alla fine essa era stata raggiunta, in una forma che per tutti gli ambienti rivoluzionari doveva essere una grande delusione: sotto la protezione prima delle armi francesi e poi delle armi tedesche lo Stato più reazionario della penisola aveva creato una monarchia italiana. Le lotte eroiche della Comune di Parigi strapparono la gioventù italiana da questo stato di insoddisfazione. Mentre Mazzini, alle soglie della morte, voltava le spalle con dispetto alla nuova luce, che irritava ancor più il suo antico odio per i socialisti, Garibaldi invece, che con maggior diritto era l’eroe nazionale, rendeva lealmente omaggio al «sole dell’avvenire», all’Internazionale.

Bakunin sapeva benissimo da quali strati della nazione affluivano i suoi seguaci. «Ciò che finora mancava all’Italia», scrisse nell’aprile del 1872, «non erano gli istinti, ma proprio l’organizzazione e l’idea. Luna e l’altra si formano ora a tal punto che in questo momento l’Italia dopo la Spagna, insieme con la Spagna, è forse il paese più rivoluzionario. In Italia esiste quel che manca agli altri paesi: una gioventù ardente, energica, senza alcuna posizione, senza carriera, senza prospettive, che nonostante la sua provenienza borghese non è esaurita moralmente e intellettualmente come la gioventù borghese di altri paesi. Oggi essa si getta a capofitto nel socialismo rivoluzionario con tutto il nostro programma, col programma dell’Al leanza». Queste righe di Bakunin, dirette a un compagno di idee spagnolo, erano destinate ad infiammarlo, ma se Bakunin affermava che i successi da lui riportati in Spagna — dove non poteva neppure agire perso nalmente ma solo per mezzo di alcuni amici — erano pari se non maggiori di quelli riportati in Italia, questo non era un illusorio incoraggiamento, ma l’espressione di un dato di fatto incontestabile.

Anche in Spagna lo sviluppo industriale era molto arretrato, e dove già esisteva un proletariato moderno esso era legato mani e piedi, privo di qualsiasi diritto, così che nella sua miseria gli restava solo l’ultima ri sorsa dell’insurrezione armata; la maggiore città industriale spagnola, Barcellona, contava nella sua storia più lotte sulle barricate di qualsiasi altra città del mondo. Per di più vi erano state le lunghe guerre civili, che avevano dilaniato il paese, e l’enorme delusione di tutti gli elementi rivoluzionari, che nell’autunno del 1868 avevano cacciato la dinastia borbonica per poi restare sotto la dominazione, sia pure molto vacillante, di un re straniero. Anche in Spagna le faville sparse dall’incendio di Parigi rivoluzionaria caddero su materia infiammabile accumulata.

Diversamente che in Italia e in Spagna stavano le cose in Belgio, in quanto qui esisteva già un movimento proletario di massa. Ma era limitato quasi esclusivamente alla parte vallone del paese; la sua spina dorsale era costituita dai minatori del Borinage, di tendenze estremamente rivoluzionarie, nei quali il pensiero di arrivare per vie legali a un miglioramento della situazione della loro classe era stato soffocato già sul nascere dalle stragi che anno per anno avevano annegato in un bagno di sangue i loro scioperi. Ma i loro capi erano proudhoniani e già per questo inclini alle idee di Bakunin.

    16.6    ​​​La seconda Conferenza di Londra

La conferenza che il Consiglio Generale aveva deciso di convocare a Londra per il mese di settembre era destinata a sostituire il congresso che doveva tenersi in quei giorni.

Nel 1869 a Basilea era stato deciso di tenere a Parigi il congresso successivo. Ma la caccia furiosa, che il degno Ollivier aveva scatenato, per celebrare il plebiscito, contro le sezioni francesi, indusse il Consiglio Generale nel luglio del 1870 a fare uso della sua facoltà di spostare la sede del congresso e a convocarlo a Magonza. Il Consiglio Generale propose in pari tempo alle federazioni nazionali di trasferire la sua sede da Londra in un altro paese, ma questa proposta fu respinta all’unanimità. Poi lo scoppio della guerra aveva mandato a monte anche il Congresso di Magonza, e il Consiglio Generale fu incaricato dai consigli federali di fissare in base agli avvenimenti la data del successivo congresso.

Il decorso degli avvenimenti fu tale che non parve opportuno convocare subito il congresso nell’autunno del 1871. C’era da aspettarsi che la pressione sotto cui i membri dell’Internazionale vivevano nei singoli paesi avrebbe permesso loro di mandare al congresso solo un minimo numero di delegati, e che i pochi membri che sarebbero potuti intervenire ugualmente sarebbero stati senz’altro denunciati alla vendetta dei loro governi. L’Internazionale non aveva nessun motivo di far crescere il numero delle vittime, tanto più che ora la necessità di provvedere ai suoi martiri esigeva assolutamente l’impiego di tutte le sue forze e di tuta i suoi mezzi.

Il Consiglio Generale decise così di convocare intanto a Londra una conferenza ristretta, come già nel 1865, invece di un congresso pubblico; lo scarso numero dei partecipanti confermò infatti le sue apprensioni. La Conferenza, che tenne i suoi lavori dal 17 al 23 settembre, contava solo 23 delegati, fra cui 6 belgi, 2 svizzeri, uno spagnolo e 13 membri del Consiglio Generale, di cui però sei avevano soltanto voto consultivo.

Fra le ampie e numerose risoluzioni della Conferenza ve n’erano alcune, come quelle che concernevano una statistica generale della classe operaia, le relazioni internazionali dei sindacati e i contadini, che date le circostanze avevano un significato puramente accademico. Ciò che soprattutto premeva era la prepara zione dell’Internazionale contro l’assalto furibondo dei nemici esterni e il suo rafforzamento interno contro gli elementi disgregatori, due compiti che sostanzialmente coincidevano.

La risoluzione più importante della Conferenza concerneva l’azione politica dell’Internazionale[i]15. Prima di tutto essa si richiamava all’Indirizzo inaugurale, agli statuti, alla risoluzione del Congresso di Losanna e ad altre dichiarazioni ufficiali dell’associazione in cui si affermava che la emancipazione politica della classe operaia era inseparabile dalla sua emancipazione sociale. Poi dichiarava che all’Internazionale si opponeva una reazione sfrenata che soffocava ferocemente ogni sforzo di emancipazione da parte degli operai e tendeva a mantenere con la forza brutale la distinzione delle classi e la dominazione delle classi possidenti, su di essa fondata; che contro questo potete collettivo delle classi possidenti il proletariato poteva agire come classe soltanto organizzandosi da se stesso in partito politico distinto da tutti i vecchi partiti formati dalle classi possidenti e opposto ad essi; che questa organizzazione del proletariato in partito politico era indispensabile per assicurare il trionfo della rivoluzione sociale e della sua meta finale, l’abolizione delle classi; che la coalizione delle forze operaie già ottenuta con le lotte economiche doveva servire al proletariato come leva nella sua lotta contro il potere politico dei suoi sfruttatori. Per tutti questi motivi la Conferenza ricordava a tutti i membri dell’Internazionale che il movimento economico e l’azione politica della classe operaia in lotta erano indissolubilmente legati tra di loro. Quanto alle questioni organizzative, la Conferenza invitò il Consiglio Generale a limitare il numero dei suoi membri suppletivi, e a non dare, nella loro scelta, una preferenza troppo esclusiva alla stessa nazionalità. Il nome di Consiglio Generale doveva spettare ad esso soltanto; i consigli federali dei singoli paesi dovevano essere chiamati con questo nome, e le sezioni locaii dovevano prendere il nome delle rispettive località; la Conferenza vietò tutti i nomi delle varie sette, come positivisti, mutualisti, collettivisti, comunisti ecc. Ogni membro dell’Internazionale doveva pagare, come in passato, un penny annuale per il Consiglio Generale.

Per la Francia la Conferenza raccomandò una vivace agitazione nelle fabbriche e la diffusione della stampa; per l’Inghilterra la costituzione di un consiglio federale che sarebbe stato convalidato dal Consiglio Generale appena fosse stato riconosciuto dalle sezioni delle province e dalle Trade Unions. La Conferenza dichiarò inoltre che durante la guerra franco-tedesca gli operai tedeschi avevano compiuto il loro dovere. Respinse invece ogni responsabilità per la cosiddetta congiura di Neciaiev e incaricò Utin di pubblicare sull’Egalité di Ginevra un succinto resoconto sul processo Neciaiev, sulla scorta delle fonti russe, e di sottoporlo però al Consiglio Generale prima della pubblicazione.

La questione dell’Alleanza fu dichiarata risolta dalla Conferenza, dopo che la sezione ginevrina dell’Alleanza si era sciolta volontariamente e dopo che era stato vietato di assumere nomi di sette ecc. che preten dessero di rivendicare una missione speciale, diversa dagli obiettivi comuni dell’Internazionale. Riguardo alle sezioni del Giura, la Conferenza convalidò la risoluzione del Consiglio Generale del 29 giugno 1870, che aveva riconosciuto il Consiglio federale ginevrino della Svizzera romanza come l’unico legittimo, ma in pari tempo faceva appello allo spirito di unità e di solidarietà che doveva più che mai penetrare negli operai, di fronte alle persecuzioni a cui in quel tempo l’Internazionale era sottoposta. Consigliava quindi ai bravi operai delle sezioni del Giura di aderire di nuovo al Consiglio federale di Ginevra. Se questo non fosse stato possibile, la Conferenza decise che le sezioni che si erano staccate avrebbero preso il nome di Federazione giurassiana. Ma la Conferenza dichiarò anche che il Consiglio Generale sarebbe stato tenuto a ripudiare tutti quei sedicenti organi dell’Internazionale che avessero dibattuto al cospetto del pubblico borghese delle questioni interne dell’Internazionale, come avevano fatto nel Giura il Progrès e la Solidarité.

Infine la Conferenza rimise al Consiglio Generale la facoltà di fissare la sede e la data del successivo congresso, o della conferenza che eventualmente lo avesse sostituito.

In complesso alle risoluzioni della Conferenza non si può contestare uno spirito di obiettiva equità: la soluzione proposta alle sezioni del Giura, di assumere il nome di Federazione giurassiana, era già stata presa in considerazione da quelle stesse sezioni. Soltanto la risoluzione su Neciaiev conteneva una punta personale, che da un punto di vista obiettivo non era giustificata. Le rivelazioni del processo Neciaiev erano state sfruttate dalla stampa borghese contro l’Internazionale, ma questa era una di quelle calunnie che allora venivano scagliate ogni giorno a dozzine contro di essa, senza che per altro l’Internazionale si sentisse obbligata a smentirle; in casi simili si limitava e gettare sdegnosamente nell’immondizia quella lordura. E se per una volta voleva fare un’eccezione alla regola, non doveva assumere come relatore un odioso intrigante, da cui Bakunin si poteva aspettare tanto amore per la verità quanto dalla stampa borghese.

Utin infatti, a mo’ di introduzione del lavoro a lui affidato, raccontò un romanzacelo al tutto degno di lui. A Zurigo, dove intendeva compiere il suo lavoro e dove credeva di non avere altri nemici, tranne alcuni slavi membri dell’Alleanza e agli ordini di Bakunin, un bel giorno, a quanto raccontava, egli era stato aggredito in un luogo solitario, nei pressi di un canale, da otto individui, che parlavano slavo, che lo ferirono, lo gettarono a terra, e lo avrebbero finito e avrebbero buttato il suo cadavere nel canale se non fossero passati di lì quattro studenti tedeschi che salvarono questa vita preziosa per i futuri servigi che avrebbe reso allo zar.

A parte questa eccezione, le risoluzioni della Conferenza offrivano senza dubbio una base d’accordo, so prattutto in un periodo in cui tutto il movimento operaio era circondato dai nemici. Invece il 20 ottobre la Sezione della propaganda e dell’azione socialista rivoluzionaria, che si era formata a Ginevra coi resti dell’Alleanza e con alcuni profughi della Comune si presentò subito al Consiglio Generale con la richiesta di ammissione nell’Internazionale. La richiesta fu respinta dal Consiglio Generale, dopo aver consultato il Consiglio federale di Ginevra, e allora, da parte della Revolution Sociale, che aveva preso il posto della scomparsa Solidarité, cominciò un violento fuoco di fila contro il Consiglio Generale dell’Internazionale, che secondo il parere di quell’egregio giornale sarebbe stato un «comitato tedesco, diretto da un cervello bismarckiano». Questa frase famigerata del resto ebbe subito una larga risonanza, tanto che Marx poteva scrivere a un amico americano: «Essa si riferisce al fatto imperdonabile che io per nascita sono un tedesco e che in realtà esercito un’influenza intellettuale decisiva sul Consiglio Generale. Nota bene: l’elemento te desco nel Consiglio Generale è numericamente inferiore di due terzi a quello inglese e altrettanto inferiore a quello francese. La colpa dunque consiste nel fatto che gli elementi inglesi e francesi sul piano teorico sono dominati (!) dall’elemento tedesco e che essi trovano questo dominio, cioè la scienza tedesca, molte utile e persino indispensabile».

Quindi le sezioni del Giura tentarono il gran colpo, in un congresso da esse tenuto il 12 novembre a Sonvil lier. Veramente ve n’erano rappresentate solo 9 su 22, con 16 delegati, e per giunta in questa minoranza i più soffrivano di tisi galoppante; ma non per questo gridavano meno forte. Essi si sentivano profondamente offesi perché la Conferenza di Londra aveva imposto loro un nome che loro stessi avevano già pensato di assumere, ma decisero tuttavia di sottomettersi e di chiamarsi d’allora in poi Federazione giurassiana. Di questo si vendicarono dichiarando sciolta la Federazione romanza, e questo naturalmente era un colpo a vuoto. Il risultato principale del congresso però fu l’estensione e l’invio di una circolare a tutte le fede razioni dell’Internazionale, che impugnava la legittimità della Conferenza di Londra e faceva appello a un congresso generale, che avrebbe dovuto essere convocato entro brevissimo termine.

Questa circolare, abbozzata da Guillaume, cominciava col dire che l’Internazionale si trovava su una strada ripida e pericolosa; che essa era nata per essere una «immensa protesta contro ogni autorità»; che gli statuti garantivano l’indipendenza a ogni sezione e a ogni gruppo di sezioni, e che il Consiglio Generale era stato creato come comitato esecutivo con facoltà limitatissime; ma che a poco a poco ci si era abi tuati a prestargli cieca fiducia, ciò che a Basilea aveva portato alla abdicazione spontanea del Congresso, quando si era accordato al Consiglio Generale il diritto di accettare, respingere e sciogliere le sezioni fino alle decisioni del congresso successivo. Questa risoluzione del Congresso di Basilea per altro era stata vivamente sostenuta da Bakunin e approvata da Guillaume.

La circolare continuava col dire che, per conseguenza, il Consiglio Generale, che da cinque anni era compo sto degli stessi uomini e risiedeva nello stesso luogo, si considerava «capo legittimo» dell’Internazionale; essendo diventati a loro credere una specie di governo, essi naturalmente consideravano le loro particolari idee come la teoria ufficiale e l’unica ammessa nell’Internazionale; le opinioni dissidenti che comparivano in altri gruppi sembravano loro semplicemente delle eresie; così si era formata a poco a poco un’ortodossia che aveva sede a Londra ed era rappresentata dai membri del Consiglio Generale; non occorreva fare il processo alle loro intenzioni, perché essi agivano secondo i princìpi della loro particolare scuola, ma biso gnava combatterli con la massima decisione, perché la loro onnipotenza aveva necessariamente un effetto corruttore; era del tutto impossibile che un uomo che aveva un tal potere sui suoi simili potesse restare un uomo morale.

La circolare proseguiva affermando che la Conferenza di Londra aveva continuato l’opera del Congresso di Basilea e aveva preso delle risoluzioni che dell’Internazionale, libera alleanza di sezioni indipendenti, avevano fatto un’organizzazione autoritaria e gerarchica nelle mani del Consiglio Generale, e, per coronare l’opera, aveva stabilito che il Consiglio Generale avrebbe dovuto fissare la sede e la data del succes sivo congresso o della conferenza che avrebbe dovuto sostituirlo: in tal modo si rimetteva all’arbitrio del Consiglio Generale di sostituire con conferenze segrete i congressi generali, le grandi sedute pubbliche dell’Internazionale; che quindi era necessario limitare il Consiglio Generale alla sua funzione originaria, di semplice ufficio di corrispondenza e statistica, e realizzare, mediante il libero collegamento di gruppi indi pendenti, quell’unità che si sarebbe voluto raggiungere con la dittatura e la centralizzazione: in tal modo l’Internazionale sarebbe diventata un modello della società futura.

Nonostante il nero quadro che essa dava della situazione, o magari proprio a causa di esso, questa circolare dei giurassiani non raggiunse il suo scopo precipuo; la sua richiesta di convocare un congresso al più presto possibile non ebbe alcuna risonanza neppure in Belgio, in Italia e in Spagna.  In Spagna, dietro i duri attacchi contro il Consiglio Generale si sospettò qualche invidiuzza fra Bakunin e Marx, in Italia non si volevano subire imposizioni né dal Giura né da Londra, e in Belgio si chiese una modifica degli statuti, nel senso che l’Internazionale avrebbe dovuto essere espressamente definita come un’unione di federazioni del tutto indipendenti, e il Consiglio Generale come un «centro di corrispondenza e d’informazione».

La circolare di Sonvillier incontrò un plauso molto più caloroso presso la stampa borghese europea, che vi si gettò sopra come su una rara ghiottoneria. Tutte le menzogne che essa aveva diffuso sul sinistro potere del Consiglio Generale, soprattutto dopo la caduta della Comune di Parigi, venivano ora confermate dal se no stesso dell’Internazionale. II Bulletin Jurasnen, che intanto aveva preso il posto della Revolution Sociale, rapidamente defunta, aveva almeno la soddisfazione di ristampare articoli di approvazione entusiastica della stampa borghese.

L’eco strepitosa della circolare di Sonvillier indusse il Consiglio Generale a rispondere, in un’altra circolare dal titolo: Le pretese scissioni dell’Internazionale.


    16.7    ​​​Il bacillo della scissione nell’Internazionale

Per quel che concerneva le accuse di violazione o addirittura di falsificazione degli statuti, di intolleranza fanatica e simili, che a Sonvillier e altrove erano state rivolte al Consiglio Generale, questa circolare trion fava senz’altro nella polemica; si può soltanto deplorare che questa polemica dovesse dilungarsi tanto su cose in gran parte insignificanti.

Oggi costa realmente un certo sforzo occuparsi ancora di queste piccolezze. Alla fondazione dell’Interna zionale, per esempio, i membri francesi, per timore della polizia bonapartista, avevano omesso nel testo francese le parole «come mezzo» in quell’articolo degli statuti che affermava che ogni movimento politico deve essere subordinato come mezzo all’emancipazione economica della classe operaia; la cosa era sem plice e chiara, eppure ora venne ripetuta fino alla sazietà la menzogna che il Consiglio Generale avrebbe falsificato il testo con l’inserzione posteriore delle parole «come mezzo». Oppure, dato che la Conferenza di Londra aveva riconosciuto che gli operai tedeschi avevano fatto il loro dovere durante la guerra, si prese di qui lo spunto per denunciare il «pangermanismo» che avrebbe dominato nel Consiglio Generale.

La sua circolare faceva piazza pulita di queste sciocchezze, e se si pensa che esse erano state messe in giro per minare il centralismo della organizzazione, che vacillava dalle fondamenta, e che soltanto il centralismo poteva ancora salvarla dagli attacchi reazionari, si capisce l’amarezza delle frasi finali, in cui l’Alleanza è accusata di tener mano alla polizia internazionale. «Essa proclama l’anarchia nelle file proleta rie come il mezzo indispensabile per spezzare la possente concentrazione di forze politiche e sociali che si trovano nelle mani degli sfruttatori. Sotto questo pretesto essa chiede all’Internazionale, in un momento in cui il vecchie mondo cerca di distruggerla, di sostituire la sua organizzazione con l’anarchia». Quanto più grave era la pressione che l’Internazionale subiva dall’esterno, tanto più insensati apparivano gli attacchi dall’interno, soprattutto quando erano senza fondamento.

Ma mentre quest’aspetto della questione era messo in piena luce, la circolare non ne giudicava con al trettanta chiarezza un altro aspetto Come già indicava il suo titolo, essa non voleva ammettere altro che delle «pretese» scissioni all’interno dell’Internazionale; come già aveva fatto Marx nella Comunicazione confidenziale, essa riconduceva tutto il conflitto alle manovre di «alcuni intriganti», in particolar modo di Bakunin, metteva in risalto ancora una volta le vecchie accuse rivolte contro di lui a causa dell’«ugua gliamento delle classi», del Congresso di Basilea ecc., lo incolpava di aver consegnato alla polizia russa, insieme con Neciaiev, delle persone innocenti, e dedicava un paragrafo speciale al fatto che due seguaci di Bakunin si erano smascherati come spie bonapartiste, fatto che per Bakunin era stato indubbiamente as sai spiacevole, ma non più compromettente di quello accaduto al Consiglio Generale quando, pochi mesi dopo, gli era accaduto lo stesso guaio con due dei suoi membri. Incolpando poi il « giovane Guillaume» di avere diffamato come odiosi « borghesi» gli «operai di fabbrica» di Ginevra, la circolare non teneva il minimo conto del fatto che a Ginevra si chiamava fabrique un ceto di operai di lusso ben pagati, che avevano concluso dei compromessi più o meno discutibili con i partiti borghesi.

Ma la parte senz’altro più debole della circolare era la sua difesa contro l’accusa di «ortodossia» che era stata sollevata contro il Consiglio Generale. Essa si richiamava al fatto che la Conferenza di Londra aveva proprio vietato alle sezioni di assumere nomi di sette. Questo era certo giustificato, in quanto l’Internazio nale formava un conglomerato parecchio variopinto di unioni sindacali, associazioni, società di cultura e di propaganda; ma la spiegazione che la circolare dava di questa risoluzione del Consiglio Generale era estremamente discutibile.

Essa diceva letteralmente così: «Il primo periodo della lotta del proletariato contro la borghesia è ca ratterizzato dal movimento delle sette. Questo è giustificato nel tempo in cui il proletariato non è ancora sufficientemente sviluppato per agire come classe. Pensatori isolati intraprendono la critica delle con traddizioni sociali e vogliono eliminarle per mezzo di soluzioni fantastiche, che la massa degli operai deve soltanto accettare, diffondere e mettere in pratica. E nella natura delle sette, che si formano attorno a questi precursori, di isolarsi e di estraniarsi da ogni attività concreta, dalla politica, dagli scioperi, dai sindacati, in una parola da ogni movimento di massa. La massa del proletariato resta indifferente o addirittura ostile di fronte alla loro propaganda. Gli operai di Parigi e di Lione non volevano sentir parlare dei sansimoniani, dei fourieristi, degli icariani, come i cartisti e i tradunionisti inglesi non volevano sentir parlare degli oweniani. Da principio essi sono una leva del movimento e diventano un ostacolo, quando il movimento li ha supe rati. Poi diventano reazionari. Ne danno la prova le sette della Francia e dell’Inghilterra, e da ultimo dei lassalliani in Germania che, dopo aver ostacolato per anni l’organizzazione del proletariato, alla fine sono diventati semplici strumenti della polizia». In un altro passo della circolare i lassalliani erano ancora definiti «socialisti bismarckiani», che al di fuori del loro organo di polizia, Der Neue Sozialdemokrat, facevano da scherani all’impero prussiano-tedesco.

Non è mai stato espressamente dimostrato che Marx sia stato l’autore di questo scritto; per il contenuto e lo stile, Engels potrebbe avervi avuto una parte più o meno importante. Ma il passo sulle sette è in ogni caso opera di Marx; gli stessi pensieri si ritrovano esposti nello stesso modo nelle sue lettere indirizzate in quel periodo a compagni di partito, e li aveva già svolti per la prima volta nello scritto polemico contro Proudhon. 11 significato storico delle sette socialdemocratiche vi è anche caratterizzato con esattezza, ma Marx sbagliava nel mettere in un sol mazzo i lassalliani con i fourieristi e gli oweniani.

Dell’anarchismo si può pensare tutto il male che si vuole, e anche considerarlo, ogni qual volta fa la sua ap parizione, come una malattia del movimento operaio; ma non si può credere — e tanto meno oggi, dopo le esperienze di mezzo secolo — che il bacillo gli sia stato inoculato dall’esterno, che anzi la predisposizione a questa malattia è innata e congenita nel movimento operaio, per svilupparsi al momento buono o meglio al momento cattivo. Ma anche nel 1872 un errore in proposito era difficilmente comprensibile. Bakunin non era davvero l’uomo che avesse un modello o un sistema belle fatto, che gli operai dovessero semplicemente accettare e mettere in pratica; Marx stesso, anzi, non si stancava mai di ripetere che Bakunin era uno zero come teorico e solo un intrigante nel suo elemento, che il suo programma era un guazzabuglio arraffato superficialmente a destra e a sinistra.

La caratteristica essenziale dei fondatori di sette è il loro atteggiamento ostile contro qualsiasi movimento proletario di massa: ostile in quanto non vogliono sentir parlare di un tale movimento e anche in quanto un movimento di massa non vuol sentir parlare di loro. Anche se fosse vero che Bakunin avrebbe voluto impadronirsi dell’Internazionale soltanto per i suoi fini, avrebbe dimostrato con ciò ancora una volta che come rivoluzionario faceva assegnamento solo sulle masse. Per quanto accanita si facesse la lotta fra lui e Marx, egli non cessò, quasi fino alla fine, di ascrivere a merito immortale di Marx l’aver creato con l’Internazionale il quadro di un movimento proletario di massa. Ciò che lo divideva da Marx era la diversità delle loro opinioni sulla tattica che questo movimento di massa doveva seguire per raggiungere il suo fine; ma per quanto sbagliate fossero le sue opinioni in proposito, esse non avevano niente in comune con le sette.

E quanto ai lassalliani! Nel 1872 non erano certo ancora all’altezza dei princìpi socialisti, ma per chiarezza teorica e per vigore organizzativo erano superiori ad ogni altro partito operaio di quel tempo, anche alla fra zione eisenachiana, che pure traeva sempre il suo nutrimento spirituale dagli scritti d’agitazione lassalliani.

Lassalle aveva impostato la sua agitazione sulla larga base della lotta proletaria di classe, sbarrando così la porta a tutte le sette; il suo successore Schweitzer era così penetrato dall’idea dell’inseparabilità della lotta politica da quella sociale che Liebknecht gli aveva rivolto l’accusa di « parlamentarismo», e se nella questione sindacale Schweitzer non aveva tenuto conto, per sua disgrazia, degli ammonimenti di Marx, si era tagliato fuori da lungo tempo dal movimento e i lassalliani cominciarono a eliminare quest’errore per proprio conto, soprattutto con lo sciopero vittorioso degli operai edili di Berlino. Avevano superato il breve turbamento recato dalla guerra alla loro agitazione, e le masse affluivano verso di loro a schiere sempre più fitte.

Non ci sarebbe stato bisogno di mettere in particolare rilievo gli attacchi contro i lassalliani, dato che in Marx era radicata una invincibile ostilità contro Lassalle e tutto ciò che sapeva di Lassalle, ma la circolare del Consiglio Generale inseriva questi attacchi in un contesto che dava loro uno speciale significato. Essi mettevano in chiara luce il vero bacillo che minacciava l’Internazionale, la contraddizione insolubile in cui la grande associazione si era venuta a trovare dopo la caduta della Comune di Parigi. Da allora tutto il mondo reazionario si era mobilitato contro l’Internazionale, che poteva difendersi contro questo assalto solo raccogliendo strettamente tutte le sue forze. Ma la caduta della Comune aveva dimostrato anche la necessità della lotta politica, e questa lotta non era possibile senza allentare in larga misura i legami internazionali, perché essa poteva esser condotta soltanto all’interno dei confini nazionali.

Come la richiesta dell’astensionismo politico, per quanto fosse esagerata, derivava però, in ultima analisi, da una giustificata diffidenza contro le insidie del parlamentarismo borghese (diffidenza che Liebknecht aveva espresso col massimo vigore nel suo noto discorso del 1869), così anche il malumore contro la dittatura del Consiglio Generale, che dopo la caduta della Comune di Parigi si manifestava sensibilmente in tutti i paesi, scaturiva nonostante tutte le esagerazioni dalla consapevolezza più o meno chiara che un partito operaio nazionale è legato prima di tutto alle sue condizioni di esistenza all’interno della nazione di cui esso è parte, che non può prescindere da queste condizioni d’esistenza, così come un uomo non può saltare la propria ombra, in altre parole che esso non può essere diretto dall’estero. Per quanto Marx avesse affermato, già negli statuti dell’Internazionale, l’inseparabilità della lotta politica e della lotta sociale, in pratica però si richiamava sempre alle rivendicazioni sociali che erano comuni alle classi operaie di tutti i paesi a produzione capitalistica, toccava di questioni politiche solo in quanto esse servivano alle rivendicazioni sociali, come nel caso della riduzione legale della giornata lavorativa. Le questioni politiche nel senso proprio e immediato della parola, in primo luogo le questioni che riguardavano la costituzione dello Stato e che avevano aspetti diversi nei diversi paesi, Marx le riservava al momento che il proletariato fosse stato portato dalla Internazionale a una maggiore consapevolezza; eppure rimproverava a Lassalle di aver condotto un’agitazione che si adattava a un solo paese!

E’ stata avanzata l’ipotesi che Marx avrebbe conservato ancora questa riserva, se la questione politica non gli fosse stata imposta con urgenza dalla caduta della Comune di Parigi e dall’agitazione di Bakunin. E’ possibilissimo, e anzi verosimile, ma accettando la lotta quando gli era imposta egli agì pienamente secondo la sua natura. Soltanto non si avvide che il compito che doveva risolvere non poteva esser risolto così come era fatta allora l’Internazionale, e che l’Internazionale crollava all’interno nella misura che stringeva più rigidamente le sue file contro il nemico esterno. Se la mente direttrice dell’Internazionale scambiava per una truppa mercenaria di polizia un panino operaio sviluppato secondo le sue idee, e per di più nella sua stessa patria, ciò dimostrava in modo definitivo che l’ora storica dell’Internazionale era scoccata.

Ma questa prova non era l’unica. Dovunque si formavano partiti operai, nazionali, l’Internazionale crolla va. Con quale violenza Schweitzer in passato era stato coperto di accuse da Liebknecht, a causa della freddezza verso l’Internazionale! Ora che lo stesso Liebknecht era a capo della frazione eisenachiana, doveva subire da Engels proprio le stesse accuse e, come Schweitzer, rispondeva, richiamandosi alle leggi tedesche sulle associazioni: «Non mi passa neppur per la testa di mettere in gioco per questa questione l’esistenza della nostra organizzazione». Se lo sventurato Schweitzer avesse osato tenere un linguaggio così franco e sicuro (cosa che non ha mai fatto) sarebbe andata ben diversamente per il «re dei sarti»[i]17 che voieva avere assolutamente il «suo partito». La fondazione della frazione di Eisenach aveva darò il primo colpo al «Gruppo di sezioni di lingua tedesca» di Ginevra; l’ultimo colpo inferto a questa che era la più antica e la più forte organizzazione di cui l’Internazionale disponesse sul continente, fu la fondazione di un partito operaio svizzero, che avvenne nel 1871. Alla fine di quest’anno Becker dovette già sospendere la pubblicazione del Vorbote.

Nel 1872 Marx ed Engels non avevano ancora afferrato i nessi di questa situazione. Eppure mettevano in ombra le loro stesse ragioni, quando sostenevano che l’Internazionale era finita per le manovre di un solo demagogo, mentre essa poteva ritirarsi con tutti gli onori dalla scena della storia, dopo aver assolto un grande compito che aveva superato le sue stesse possibilità. In realtà si deve essere d’accordo con gli odierni anarchici, quando essi dicono che non vi è nulla di meno marxista dell’idea che un individuo ecce zionalmente perfido, un «intrigante estremamente pericoloso», abbia potuto rovinare un’organizzazione proletaria come l’Internazionale, e non con quelle anime pie che inorridiscono al minimo dubbio che Marx ed Engels possano, per una volta, avere sbagliato di una virgola. Marx ed Engels stessi, se oggi potessero parlare, tratterebbero con caustico scherno coloro che pretendono che nei loro riguardi non si debba usare quella critica priva di riguardi che è sempre stata la loro arma più tagliente.

La loro vera grandezza non sta nel non avere mai sbagliato, ma anzi nel non essersi mai irrigiditi nell’errore ogni qual volta si sono accorti di avere sbagliato. Sin dal 1874 Engels ammetteva che l’Internazionale aveva sopravvissuto a se stessa: «Per dare vita a una nuova Internazionale nella forma dell’antica, come un’alleanza di tutti i partiti proletari di tutti i paesi, sarebbe necessaria una repressione generale del movimento operaio, come quella del 18491864. Ma per questa il mondo proletario è oggi diventato troppo grande, troppo esteso». E si confortava osservando che per dieci anni l’Internazionale aveva dominato un lato della storia europea — il lato su cui riposa l’avvenire — e che poteva guardare con orgoglio al lavoro fatto.

Nel 1878 Marx confutò su una rivista inglese l’asserzione secondo cui l’Internazionale sarebbe stata un fallimento e ormai sarebbe morta, con queste parole: «I partiti operai socialdemocratici in Germania, in Svizzera, in Danimarca, in Portogallo, in Italia, in Belgio, in Olanda e nel Nordamerica, più o meno organiz zati all’interno dei confini nazionali, costituiscono in realtà altrettanti gruppi internazionali, non più sezioni isolate rade e disperse in diversi paesi e tenute insieme da un Consiglio Generale periferico, ma invece le masse lavoratrici stesse in comunicazione costante, attiva, diretta, cementata dallo scambio delle idee, dagli aiuti reciproci e dagli obiettivi comuni... In tal modo l’Internazionale, invece di scomparire, è passata da una prima fase a una fase superiore, in cui le sue tendenze originarie si sono in parte realizzate. Nel corso di questo sviluppo progressivo essa avrà da sottostare ancora a parecchie trasformazioni, finché potrà essere scritto l’ultimo capitolo della sua storia».

Nello stendere queste righe Marx dava una nuova prova del suo sguardo veramente profetico. Nel tempo in cui i partiti operai nazionali spuntavano appena, più di un decennio prima che si costituisse la nuova Internazionale, Marx ne prevedeva l’essenza storica, ma neppure ad essa prometteva una durata eterna, ma soltanto questo: che dalle rovine sarebbe sorta nuova vita, finché i tempi si fossero compiuti.


    16.8    ​​​Il Congresso dell’Aia

La circolare del Consiglio Generale del 5 marzo annunciava la convocazione del congresso annuale per il principio di settembre. Nel frattempo Marx ed Engels decisero di proporre il trasferimento del Consiglio Generale da Londra a New York.

Si è molto discusso sulla necessità e sull’utilità di questa proposta, e anche sui motivi che la determinarono. E’ stata anche considerata come una specie di funerale di prima classe dell’Internazionale: Marx avrebbe voluto dissimulare così che non si poteva più salvare l’Internazionale. A questa spiegazione si oppone il fatto che Marx ed Engels hanno appoggiato con tutte le forze il Consiglio Generale e hanno tentato di mantenerlo in vita anche dopo che era stato trasferito a New York. E’ stato poi detto che Marx ne avrebbe avuto abbastanza di lavorare per l’Internazionale e che avrebbe voluto dedicarsi indisturbato al suo lavoro scientifico, e questa ipotesi è confermata in un certo senso da Engels; in una lettera a Liebknecht del 27 maggio 1872 accennava a una proposta belga di abolire del tutto il Consiglio Generale, e aggiungeva: «Per noi personalmente andrebbe benissimo, io e Marx comunque non ci entriamo più; come vanno le cose ora, non abbiamo tempo per lavorare, e questo deve finire». Tuttavia questa era un’uscita occasionale, dettata da un momento di collera.  Anche se Marx ed Engels respingevano la rielezione al Consiglio Generale, il suo trasferimento da Londra non era ancora necessario, ma Marx aveva più volte rifiutato di trascurare l’Internazionale per dedicarsi al lavoro scientifico, prima che essa fosse avviata su binari sicuri; e ora che l’Internazionale attraversava la crisi più grave che l’avesse mai assalita, Marx non pensava certo ad abbandonarla per quel motivo.

Era piuttosto nel giusto Marx stesso, scrivendo a Kugelmann, il 29 luglio: «Al Congresso internazionale (L’Aia, apertura 2 settembre), si tratta di vita o di morte dell’Internazionale, e prima che io ne esca, voglio almeno proteggerla dagli elementi disgregatori». Di questa difesa contro gli «elementi disgregatori» fa ceva parte anche l’allontanamento del Consiglio Generale da Londra, dove era in preda a contese sempre crescenti. E’ vero che le tendenze bakuniniste non vi erano affatto rappresentate, o tutta! più così de bolmente che non vi era nulla da temere da parte loro. Ma anche fra i membri tedeschi, francesi e inglesi regnava una tale confusione che si era dovuto istituire un sottocomitato speciale per dirimere le eterne liti.

Persino fra Marx e i due membri del Consiglio Generale che per lunghi anni erano stati i suoi più capaci e fedeli collaboratori, Eccarius e Jung, si era verificato un raffreddamento, che nel caso di Eccarius già nel maggio del 1872 portò a un’aperta rottura.  Eccarius viveva in condizioni finanziarie molto precarie, e si era dimesso dalla carica di segretario generale dell’Internazionale perché si riteneva indispensabile e voleva elevare al doppio il suo modesto stipendio di 15 scellini settimanali. Invece al suo posto fu eletto l’inglese John Hales, e Eccarius ne attribuì, a torto, la responsabilità a Marx. Invece Marx lo aveva sempre difeso contro gli inglesi; soltanto lo aveva più volte rimproverato perché aveva venduto di sottomano alla stampa delle comunicazioni sugli affari interni dell’Internazionale, fra l’altro sulle discussioni segrete della Conferenza di Londra. Jung a sua volta attribuì a Engels e al suo autoritario intervento il raffreddamento di Marx. In questo può esserci qualche cosa di vero. Da quando Marx poteva aver rapporti quotidiani con Engels, può darsi che senza cattiva intenzione non abbia più avvicinato spesso come prima Eccarius e Jung; ma da parte sua anche il «generale», questo era il nomignolo confidenziale con cui Engels veniva chiamato, a quanto attestano anche i suoi buoni amici amava usare un tono brusco e militaresco; quando la presidenza alterna del Consiglio Generale toccava a lui, bisognava prepararsi a scene tempestose.

Da quando Hales era stato eletto segretario generale, esisteva fra lui e Eccarius una mortale avversione; Eccarius del resto aveva con sé una parte dei membri inglesi. Marx invece non trovò alcun appoggio da parte del nuovo segretario generale. Anzi, quando, in conformità delle risoluzioni della Conferenza di Londra, fu fondata la Federazione inglese, che il 21 e il 22 luglio tenne a Nottingham il suo primo congresso alla presenza di 21 delegati, Hales seguì la parola d’ordine bakuninista della « autonomia minacciata delle federazioni», proponendo che si trattasse con le altre federazioni non attraverso il Consiglio Generale ma direttamente, e inoltre che al congresso generale si chiedesse di modificare gli statuti, nel senso di ridurre i poteri del Consiglio Generale. La seconda proposta fu ritirata da Hales, ma la prima fu approvata. Dal punto di vista programmano) questo congresso rivelò non una tendenza verso il bakuninismo, ma verso il radicalismo inglese; voleva per esempio la socializzazione della proprietà fondiaria, ma non di tutti i mezzi di produzione, come chiedeva Hales nei suoi interventi. Egli intrigò apertamente contro il Consiglio Generale, che in agosto dovette esonerarlo dalla sua carica.

Fra i memori francesi del Consiglio Generale prevaleva la tendenza blanquista, in cui si poteva avere pie na fiducia riguardo alle due questioni principali sulle quali verteva il contrasto, l’attività politica e la rigida centralizzazione, ma che, date le circostanze, con la sua spiccata predilezione per i colpi di mano poteva diventare più pericolosa per l’Internazionale di qualsiasi altra, in un momento in cui la reazione europea non spiava altro che l’occasione per passare a vie di fatto con l’enorme superiorità delle sue forze. La pre occupazione che i blanquisti potessero prendere le redini in mano fu infatti l’impulso più forte, che spinse Marx a prendere in considerazione la possibilità di spostare il Consiglio Generale da Londra, e proprio a New York che avrebbe consentito la sua composizione internazionale e avrebbe garantito la sicurezza dei suoi archivi, ciò che era escluso in qualsiasi parte del continente europeo.

Al Congresso dell’Aia, che si tenne dal 2 al 7 settembre, Marx poté disporre di una maggioranza sicura, grazie alla rappresentanza relativamente forte di tedeschi e francesi fra i 61 delegati. Dai suoi avversari gli è stato rimproverato di aver fabbricato questa maggioranza con mezzi artificiosi, rimprovero che è assolu tamente insostenibile per ciò che riguarda l’autenticità dei mandati; per quanto il Congresso abbia speso metà del suo tempo nella verifica dei mandati, essi superarono tutti l’esame, con una sola eccezione. Cer to che Marx aveva scritto in America fin da giugno per i mandati dei tedeschi e dei francesi. Molti delegati rappresentavano sezioni non del loro paese, ma d’un’altra nazione; altri per timore della polizia compari vano sotto falso nome o tacevano per lo stesso motivo i nomi delle sezioni che li avevano delegati. Per questo i dati numerici sui partecipanti delle singole nazioni differiscono sensibilmente nei diversi resoconti del Congresso.

I rappresentanti di organizzazioni tedesche, se presi in senso stretto, erano soltanto otto: Bernhard Becker (Brunswick), Cuno (Stoccarda), Dietzgen (Dresda), Kugelmann (Celle), Milke (Berlino), Rittinghausen (Mo naco), Scheu (Wùrttemberg) e Schuhmacher (Solingen). Inolrre Marx, come rappresentante del Consiglio Generale, oltre a un mandato per New York aveva un mandato per Lipsia e uno per Magonza, e Engels un mandato per Breslavia e uno per New York. Hepner di Lipsia aveva un mandato per New York, Friedlànder di Berlino uno per Zurigo. Due altri delegati, con nomi apparentemente tedeschi, Walter e Swann, erano in realtà francesi: si chiamavano Heddeghem e Dentraggues; erano entrambi tipi poco sicuri, Heddeghem già all’Aia era spia bonapartista. Fra i delegati francesi i profughi della Comune, Frankel e Longuet, che erano con Marx, e Ranvier, Vaillant e altri, che erano blanquisti, si presentavano col loro nome, ma l’origine dei loro mandati doveva restare più o meno all’oscuro. Oltre che da Marx il Consiglio Generale era rap presentato da due inglesi (Roach e Sexton), un polacco (Wroblewski) e tre francesi (Serraillier, Cournet e Dupont), l’Associazione comunista operaia di Londra era rappresentata da Lessner. Il Consiglio federale inglese aveva inviato quattro delegati, fra cui Eccarius e Hales, che all’Aia cominciarono a trescare con i bakuninisti.

Fra i bakuninisti, gli italiani non avevano mandato nessun delegato al Congresso; sin dall’agosto, in una conferenza tenuta a Rimini, essi avevano rotto ogni relazione col Consiglio Generale. I cinque delegati spagnoli, con la sola eccezione di Lafargue, stavano dalla parte dei bakuninisti, come gli otto rappresentanti belgi e i quattro olandesi. La Federazione giurassiana mandò Guillaume e Schwitzguebel, mentre Ginevra fu ancora rappresentata dal vecchio Becker. Dall’America vennero quattro delegati: Sorge, che come Becker era uno dei più fedeli seguaci di Marx, e il blanquista Dereure, ex membro della Comune; il terzo mandato toccò a un bakuninista, mentre il quarto fu l’unico mandato invalidato dal Congresso. Danimarca, Austria, Ungheria e Australia erano rappresentate da un delegato ciascuna.

Nei tre giorni della verifica dei mandati cominciarono subito scene tempestose. Il mandato spagnolo di Lafargue fu violentemente contestato, ma poi convalidato con poche astensioni. Nella discussione su un mandato che una sezione di Chicago aveva affidato a un membro residente a Londra, un delegato del Consiglio federale inglese si appoggiò al fatto che questo membro non era un dirigente operaio riconosciuto, al che Marx rispose che non essere un dirigente inglese era più un onore che altro, dato che la maggioranza di questi dirigenti erano venduti ai liberali. Il mandato fu convalidato, ma la frase suscitò viva indignazione e dopo il Congresso Hales e compagni la sfruttarono con gran zelo contro Marx; del resto lui stesso, che era sempre responsabile delle sue azioni, non se ne pentì e non la ritirò mai. Terminata la verifica dei mandati, fu sottoposta all’esame preliminare di una commissione di cinque una serie di documenti relativi a Bakunin e alla sua Alleanza; i suoi membri furono scelti fra coloro che erano stati interessati il meno possibile nella contesa per l’Alleanza: essi erano il tedesco Cuno, come presidente, i francesi Lucain, Vichard e Walter-Heddeghem, e infine il belga Splingard.

I lavori effettivi cominciarono solo il quarto giorno, con la lettura del resoconto preparato dal Consiglio Generale per il Congresso. Era stato redatto da Marx e fu letto da lui stesso in tedesco, da Sexton in inglese, da Longuet in francese e da Abeele in fiammingo. Il resoconto stimmatizzava tutti gli atti di violenza che dal plebiscito bonapartista in poi erano stati perpetrati contro l’Internazionale, il massacro sanguinoso della Comune, le infamie di Thiers e Favre, le azioni ignominiose della Camera francese composta di nobilucci di campagna, i processi per alto tradimento in Germania; anche il governo inglese ricevette una sferzara per il terrorismo con cui aveva proceduto contro le sezioni irlandesi e per le inchieste sulle diramazioni dell’associazione che aveva fatto fare attraverso le ambasciate. Di pari passo con le persecuzioni dei governi era andato il volume delle menzogne del mondo civile, con le storie apocrife dell’Internazionale, con telegrammi allarmanti e falsificazioni spudorate di documenti ufficiali, soprattutto con quel capolavoro di calunnia infernale, quel dispaccio che aveva attribuito all’Internazionale il grande incendio di Chicago e che aveva fatto il giro di tutto il mondo. C’era da stupirsi che l’uragano che in quel momento devastava le Indie occidentali non venisse imputato alla sua azione diabolica. Di fronte a queste feroci e rabbiose manovre, il Consiglio Generale metteva in rilievo gli incessanti progressi dell’Internazionale: la sua penetrazione in Olanda, Danimarca, Portogallo, Scozia, Irlanda, la sua estensione negli Stati Uniti, Australia, Nuova Zelanda e a Buenos Aires. Il resoconto fu accolto da applausi e su proposta di un delegato belga il Congresso espresse la sua ammirazione e la sua simpatia per tutte le vittime della lotta di emancipazione del proletariato.

Poi si passò al dibattito sul Consiglio Generale. Lafargue e Sorge dimostrarono che esso era necessario per le esigenze della lotta di classe: la lotta quotidiana della classe operaia contro il capitale non poteva esser condotta senza un’istanza centrale dirigente; se non si avesse avuto ancora un Consiglio Generale, si sarebbe dovuto inventarlo. La tesi contraria fu sostenuta soprattutto da Guillaume, che contestò la necessità di un Consiglio Generale, e voleva tutt’al più lasciarlo come ufficio centrale di corrispondenza e di statistica, ma spogliarlo di ogni attività; disse che l’Internazionale non era un’invenzione di un uomo capace, dotato di una teoria politica e sociale infallibile, ma che secondo il giudizio dei giurassiani essa era nata dalle condizioni economiche di esistenza della classe operaia, ciò che garantiva a sufficienza l’unità dei suoi sforzi.

Il dibattito fu concluso soltanto al quinto giorno dall’apertura, in una seduta segreta, come quelle, del resto, in cui erano avvenute le discussioni sui mandati, che erano state tenute a porte chiuse. In un lungo discorso Marx si pronunciò non solo a favore del mantenimento dei poteri già attribuiti al Consiglio Generale, ma anzi anche del loro rafforzamento: esso doveva ottenere il diritto di sospendere fino al successivo congresso, con certe cautele, non solo singole sezioni, ma anche intere federazioni; esso non disponeva né di una polizia né di soldati, ma non poteva permettere che il suo potere morale fosse ridotto; piuttosto lo si abolisse, anziché gettarlo nei rifiuti. Il Congresso decise nel senso voluto da Marx con 36 voti contro 6 e 15 astensioni.

A questo punto Engels propose di trasferire il Consiglio Generale da Londra a New York. Fece presente che già parecchie volte si era pensato di trasferire il Consiglio Generale da Londra a Bruxelles, ma che Bruxelles aveva sempre rifiutato, che le circostanze del momento rendevano improrogabile la decisione, e nello stesso tempo rendevano necessaria la sostituzione di Londra con New York; che bisognava prendere questa decisione almeno per un anno. La proposta suscitò una sorpresa generale, e per lo più una sor presa spiacevole. Con particolare vivacità protestarono i delegati francesi, che riuscirono a ottenere una votazione separata, prima sul trasferimento in sé, poi sulla sede da scegliere. Con una stretta maggioranza, 26 voti contro 23 e 9 astensioni, il trasferimento fu approvato; per New York decisero poi 30 voti. Quindi furono eletti 15 membri del nuovo Consiglio Generale; fu concesso loro il diritto di integrare il loro numero con sette membri.

Sempre nella stessa seduta fu aperto il dibattito sull’azione politica. Vaillant aveva presentato una risolu zione nello stesso senso della risoluzione emanata in proposito dalla Conferenza di Londra: la classe operaia doveva costituirsi in partito politico, che doveva essere rigorosamente separato da tutti i partiti bor ghesi e tenere una posizione ostile verso di essi. Vaillant, e con lui Longuet, si richiamarono in particolare alle esperienze della Comune di Parigi, che era caduta per mancanza di un programma politico. Un effetto meno convincente ebbe l’intervento di un delegato tedesco, secondo cui Schweitzer era diventato una spia in conseguenza dell’astensionismo politico, quello stesso Schweitzer che tre anni prima, al Congresso di Basilea, era stato denunciato come spia dai delegati tedeschi a causa del suo «parlamentarismo». Guil laume da parte sua si richiamò alle esperienze della Svizzera, dove gli operai, in occasione delle elezioni, avevano concluso alleanze elettorali con gente d’ogni risma, ora coi radicali, ora coi reazionari; e disse che i giurassiani non volevano sapere di simili maneggi; che erano anche dei politici, ma dei politici negat.vi: non volevano conquistare il potere politico ma distruggerlo.

Anche questa discussione si protrasse fino al giorno successivo, il sesto ed ultimo, che cominciò con una sorpresa: Ranvier, Vaillant e altri blanquisti avevano abbandonato il Congresso a causa del trasferimento del Consiglio Generale a New York; in un opuscolo pubblicato subito dopo essi dicevano: «Invitata a fare il suo dovere, l’Internazionale ha rifiutato. Si è sottratta alla rivoluzione ed è scappata oltre l’Oceano Atlantico ». Sorge prese la presidenza al posto di Ranvier. Quindi fu approvata la proposta di Vaillant con 35 voti contro 6 e 8 astensioni. Una parte dei delegati erano già partiti, ma i più di loro avevano lasciato in una dichiarazione scritta il loro voto favorevole.

Le ultime ore dell’ultimo giorno furono occupate dalla relazione della commissione dei cinque su Bakunin e l’Alleanza. Essa fece la seguente dichiarazione, approvata con quattro voti contro quello del membro belga: prima di tutto era dimostrato che era esistita un’alleanza segreta, con statuti che erano in netta con traddizione con quelli dell’Internazionale, ma non era sufficientemente dimostrato che esistesse ancora. In secondo luogo, da un progetto di statuto e da lettere di Bakunin era dimostrato che egli aveva tentato, e quasi gli era riuscito, di fondare all’interno dell’Internazionale una società segreta con statuti che dal punto di vista politico e sociale differivano assolutamente dagli statuti dell’Internazionale. In terzo luogo, Bakunin si era valso di manovre fraudolente per impadronirsi di proprietà altrui: per sottrarsi ai suoi impegni, lui o i suoi agenti si erano serviti di intimidazioni. Per questi motivi, la maggioranza della commissione proponeva l’espulsione di Bakunin, di Guillaume e di parecchi loro seguaci. Come relatore della commissione, Cuno non produsse prove materiali, ma dichiarò soltanto che la maggioranza era arrivata alla certezza morale, e chiese il voto di fiducia del Congresso.

Invitato dal presidente a difendersi, Guillaume, che si era già rifiutato di comparire di fronte alla commissio ne, dichiarò che rinunciava a qualsiasi difesa, per non prendere parte a una commedia; che questo colpo non era diretto contro alcune persone, ma contro le tendenze federaliste; che fra i rappresentanti di queste tendenze, quelli ancora presenti al Congresso avevano preso le loro misure e avevano già concluso un pat to di solidarietà. Questo patto fu letto da un delegato inglese; era sottoscritto da quattro delegati spagnoli, cinque belgi, due giurassiani, un olandese e un americano. Per evitare ogni scissione nell’Internazionale, i firmatari si dichiaravano pronti a lasciare tutte le funzioni amministrative al Consiglio Generale, ma a respin gere le sue ingerenze negli affari interni delle federazioni, fin tanto che non si trattasse di mancanze contro gli statuti generali dell’Internazionale; frattanto tutte le federazioni e le sezioni erano invitate a prepararsi per il successivo congresso, per portare alla vittoria il principio della libera associazione (autonomie fede rative). Il Congresso non solo ricusò la discussione in proposito, ma espulse Bakunin con 27 voti contro 7 (e 8 astensioni) e Guillaume con 25 voti contro 9 (e 9 astensioni). Le altre proposte della commissione furono respinte, ma essa fu incaricata di pubblicare i documenti concernenti l’Alleanza.

Questa giornata finale del Congresso dell’Aia non fu davvero degna del Congresso stesso. Non si poteva certo ancora sapere che le risoluzioni della commissione erano già nulle perché vi aveva collaborato una spia; sarebbe stato ancora comprensibile, da un punto di vista umano, se Bakunin fosse stato espulso per motivi politici, sulla base della convinzione morale che egli fosse un disturbatore incorreggibile, anche senza poter produrre, nero su bianco, le prove dei suoi raggiri. Ma era inescusabile che si mettesse ancora in discussione l’onorabilità di Bakunin, accusandolo di aver toccato la roba altrui, e la colpa di questa accusa purtroppo era di Marx.

Marx si era procurato quella pretesa risoluzione di quel preteso «comitato rivoluzionari» che conteneva delle minacce contro Liubavin, nel caso che avesse insistito nel pretendere la restituzione dei 300 rubli di acconto che aveva fatto dare a Bakunin da un editore russo, per la traduzione del Capitale. Il contenuto letterale del documento non è stato reso noto, ma Liubavin, che pure era diventato anche lui acerrimo nemico di Bakunin, quando lo mandò a Marx lo accompagnò con queste parole: «In quel momento mi parve che Bakunin avesse avuto innegabilmente una parte in questa lettera, ma oggi, considerando più freddamente tutta la faccenda, vedo che questa partecipazione non è affatto dimostrata, perché la lettera potrebbe essere stata mandata da Neciaiev senza che Bakunin ci entrasse per nulla». Le cose erano andate proprio così, ma sulla base di questa sola lettera, di cui lo stesso destinatario sospettava il vero carattere criminale, all’Aia Bakunin fu accusato di una segreta attività delittuosa.

Nonostante che egli abbia più volte riconosciuto il debito dell’acconto, e abbia promesso di scontarlo in qualche modo, sembra veramente che nelle sue eterne ristrettezze non vi sia mai riuscito. D’altra parte non si sa nulla dell’unica vittima di questa triste faccenda, cioè dell’editore, che sembra aver preso con filosofica rassegnazione una sorte alla quale il suo mestiere del resto è largamente abituato. Quanti scrittori, infatti, e fra loro anche i nomi più famosi, tante volte sono rimasti debitori di un acconto verso il loro editore! Non è certo una cosa lodevole, ma ci vuol altro, per mandare il colpevole al patibolo.

    16.9    ​​​Postumi

Col Congresso dell’Aia si chiuse la storia dell’Internazionale, per quanto Marx ed Engels si sforzassero di mantenerla in vita. Essi fecero tutto ciò che era possibile per facilitare al nuovo Consiglio Generale di New York i suoi compiti.

Ma neppure ad esso riuscì di piantare salde radici in terreno americano. Anche là regnavano discordie di ogni sorta fra le diverse sezioni, mentre mancavano esperienze e collegamenti, forze spirituali e mezzi materiali. L’anima del nuovo Consiglio Generale era Sorge, che conosceva la situazione americana ed era stato contrario al trasferimento del Consiglio Generale, ma dopo avere in un primo momento rifiutato, aveva accettato l’elezione a segretario generale. Era troppo coscienzioso e leale per dir di no in un momento di urgente necessità.

E’ sempre una cosa arrischiata, far della diplomazia nelle questioni proletarie. Marx ed Engels avevano avuto ragione di temere che il loro piano di trasferire il Consiglio Generale a New York avrebbe suscitato una violenta resistenza fra gli operai tedeschi, francesi e inglesi, ed avevano aspettato a fare la proposta finché era stato possibile, per non accrescere prematuramente i motivi di conflitto che esistevano già in gran numero. Ma anche se la sorpresa al Congresso dell’Aia era riuscita, le conseguenze non furono meno spiacevoli. La temuta resistenza non fu per questo attenuata, ma piuttosto ancora inasprita e aggravata.

Essa si manifestò in forma relativamente più blanda presso i tedeschi. Liebknecht era contrario al trasfe rimento, e anche in seguito dichiarò sempre che esso era sraro un errore, ma per il momento si tenne, insieme con Bebel, su una posizione pacifica. Tuttavia il suo interesse per l’Internazionale sotto un certo rispetto era scomparso, e in misura anche maggiore ciò avvenne presso la massa della frazione eisena chiana, fra l’altro proprio per le impressioni che i suoi rappresentanti avevano riportato all’Aia. L’8 maggio 1873 Engels scrisse in proposito a Sorge: «I tedeschi, per quanto abbiano le loro beghe con i lassalliani, sono stati assai delusi e raffreddati dal Congresso dell’Aia, dove essi, in contrasto con le loro baruffe, si aspettavano di trovare pura fratellanza e armonia». Per questo motivo, in sé tutt’altro che lieto, si potreb be spiegare perché i membri tedeschi dell’Internazionale non se la preselo troppo per il trasferimento del Consiglio Generale.

Molto più seria fu la defezione dei blanquisti, che insieme con i tedeschi erano stati e potevano essere i principali sostenitori di Marx ed Engels sulle questioni veramente decisive, soprattutto di fronte ai proudho niani, l’altra frazione francese che inclinava dalla parte dei bakuninisti. L’irritazione dei blanquisti era tanto più forte, in quanto essi sentivano a ragione che il trasferimento del Consiglio Generale mirava prima di tutto a strappare dalle loro mani questa leva della loro tattica dei colpi di mano. E’ vero che in tal modo si dettero la zappa sui piedi. Poiché un’agitazione nel loro paese era impossibile, essi, dopo essere usciti dal l’Internazionale, caddero in preda alla disgraziata sorte degli esiliati. «L’emigrazione francese — scriveva Engels a Sorge il 12 settembre 1874 — è completamente dispersa. Essi sono tutti in rotta fra loro e con tutti, per motivi puramente personali, soprattutto questioni di danaro, e ci siamo del tutto sbarazzati di loro... La vita agitata durante la guerra, la Comune e l’esilio ha demoralizzato quella gente, e solo la necessità può far tornare nei ranghi un francese disperso». Ma questa era una ben magra consolazione.

Il contraccolpo più sensibile del trasferimento del Consiglio Generale si avvertì nel movimento inglese. Il 18 settembre, nel Consiglio federale inglese, Hales propose subito un voto di biasimo contro Marx per la sua affermazione circa la venalità dei dirigenti operai inglesi; la proposta fu accettata e soltanto fu respinta a parità di voti un’aggiunta secondo cui Marx stesso non credeva a quest’accusa, ma l’avrebbe pronunciata solo per fini personali. Perciò Hales avanzò la proposta di espellere Marx dall’Internazionale, e un altro membro propose di respingere le risoluzioni del Congresso dell’Aia. Ormai Hales continuò apertamente a mantenere con i giurassiani le relazioni che aveva già stretto in segreto all’Aia: il 6 novembre scrisse loro, a nome del Consiglio federale, che ormai era stata smascherata l’ipocrisia del vecchio Consiglio Generale, che aveva cercato di organizzare una società segreta in seno alla vecchia Internazionale, sotto il pretesto di distruggere un’altra società segreta, che esso aveva inventato per raggiungere i suoi fini. Hales sottolineava però anche che gli inglesi non erano d’accordo con i giurassiani sulla questione dell’azione politica: pur essendo convinti dell’utilità di questa azione, accordavano alle altre federazioni il diritto della più completa autonomia, resa necessaria dalla diversa situazione in cui i diversi paesi si trovavano.

Hales trovò dei fervidi alleati in Eccarius e in Jung, che dopo un’iniziale riservatezza fu quasi il più violento a scagliarsi contro Marx ed Engels. Entrambi si macchiarono di una grave colpa, perché lasciarono che il loro giudizio obiettivo fosse completamente turbato da motivi personali, in primo luogo per invidiuzze e puntigli, perché Marx dava o sembrava dare più ascolto a Engels che a loro, ma soprattutto per aver dovuto rinunciare alla posizione eminente e influente che essi avevano conseguito in quanto vecchi membri del Consiglio Generale. Purtroppo ciò rese più grave il danno da loro arrecato. In una serie di congressi essi si erano resi noti d fronte a tutti come i più fervidi e intelligenti interpreti delle idee rappresentate da Marx: e se ora, in favore delle stesse idee, facevano appello alla tolleranza dei giurassiani contro l’intolleranza delle risoluzioni dell’Aia, sembrava perciò che fosse tolto ogni dubbio sulle bramosie dittatoriali di Marx ed Engels.

Anch’essi si dettero la zappa sui piedi, ma anche in questo caso fu una magra consolazione. Incontrarono una forte resistenza nelle sezioni inglesi e specialmente in quelle irlandesi, e persino nello stesso Consiglio federale. Allora fecero una specie di colpo di stato, emanando un appello a tutte le sezioni e a tutti i mem bri, in cui dichiaravano che il Consiglio federale inglese era talmente scisso all’interno che la collaborazione era impossibile; chiesero la convocazione di un congresso che decidesse sulla validità delle risoluzioni dell’Aia, che nell’appello venivano interpretate non nel senso che fosse resa obbligatoria l’azione politica — perché questo era anche il parere della maggioranza — ma nel senso che il Consiglio Generale dovesse imporre ad ogni federazione la politica da seguire nel proprio paese. La minoranza chiarì subito l’imbroglio in un contrappello scritto, a quel che sembra, da Engels, e protestò contro il progettato congresso dichia randolo illegale; il congresso però ebbe luogo il 26 gennaio 1873. La maggioranza delle sezioni aveva deciso di tenerlo, ed essa sola vi fu rappresentata.

Hales apri il congresso con gravi accuse contro il precedente Consiglio Generale e contro il Congresso dell’Aia, e fu vivamente appoggiato da Eccarius e da Jung. Il Congresso si dichiarò all’unanimità contrario alle risoluzioni dell’Aia, e rifiutò di riconoscere il Consiglio Generale di New York; si dichiarò invece favore vole a un nuovo congresso internazionale, quando la maggioranza delle federazioni dell’Internazionale lo avesse convocato. Così fu compiuta la scissione della federazione inglese, e i due tronconi si dimostrarono impotenti a prendere una parte di rilievo nelle elezioni del 1874, che portarono al rovesciamento del mi nistero Gladstone, al quale dette un contributo non trascurabile la partecipazione delle Trade Unions, che avevano presentato una serie di candidature e per la prima volta portarono due loro membri in parlamento.

Il sesto Congresso, convocato per l’8 settembre a Ginevra dal Consiglio Generale di New York, rappresentò per così dire Fatto di morte della vecchia Internazionale. Mentre al controcongresso bakuninista, che si era riunito sin dal 1◦ settembre, pure a Ginevra, erano presenti 2 delegati inglesi (Hales e Eccarius), 5 rispettivamente belgi, francesi e spagnoli, 4 italiani, 1 olandese e 6 del Giura, il Congresso marxista era composto in grande maggioranza di svizzeri, che anzi per la massima parte abitavano a Ginevra. Neppure il Consiglio Generale poté mandare un delegato, né erano presenti inglesi, francesi, spagnoli, belgi, italiani, ma soltanto un tedesco e un austriaco. Il vecchio Becker si vantò di aver quasi creato con le sue mani tredici dei neppur trenta delegati, per dare importanza al Congresso con un certo numero di membri e per assicurare la maggioranza alla tendenza giusta. Marx naturalmente non si lasciò andare a simili illusioni: ammise lealmente il «fiasco» del Congresso e consigliò al Consiglio Generale di lasciar passare in secondo piano, per il momento, l’organizzazione formale dell’Internazionale, ma di non lasciarsi sfuggire di mano il nucleo centrale di New York, in modo che idioti o avventurieri non potessero impadronirsene e compromettere le cose. Gli avvenimenti e l’inevitabile corso delle cose avrebbero provveduto da sé a far risorgere l’Internazionale in forma migliore.

Fu questa la decisione più saggia e più meritevole che date le circostanze si potesse prendere, ma pur troppo la sua efficacia fu turbata dall’ultimo colpo che Marx ed Engels pensarono di dover assestare a Bakunin. Il Congresso dell’Aia aveva incaricato la commissione dei cinque, che aveva proposto l’espulsio ne di Bakunin, di pubblicare i risultati delle sue indagini, ma la commissione non eseguì l’incarico, o perché realmente ne fosse impedita dalla «dispersione dei suoi membri in diversi paesi», o perché la sua autorità avesse basi molto deboli, dato che uno dei suoi membri aveva dichiarato innocente Bakunin, e un altro nel frattempo era stato smascherato addirittura come confidente della polizia. In sua vece si assunse l’incarico la commissione dei verbali del Congresso dell’Aia (Dupont, Engels, Frankel, Le Moussu, Marx, Serraillier), che qualche settimana dopo presentò al Congresso di Ginevra un memoriale dal titolo: L’Alleanza della Democrazia Socialista e l’Associazione Internazionale degli Operai. Era stato scritto da Engels e da La fargue: Marx aveva partecipato soltanto alla stesura di alcune pagine, ma naturalmente aveva la stessa responsabilità dei due autori del memoriale.

Un esame critico della brochure dell’Alleanza (così si è soliti chiamarla per brevità), dell’esattezza o ine sattezza dei particolari in essa contenuti, richiederebbe almeno uno spazio di dieci fogli di stampa, quanti essa stessa ne comprende. Ma a rinunciarvi, non si perde molto. In lotte di questo genere si menan colpi senza riguardo, e nelle loro accuse contro i marxisti i bakuninisti non erano tanto delicati da avere il diritto a lagnarsi se per una volta venivano trattati con qualche durezza e anche a torto.

Piuttosto è un’altra considerazione che pone questo scritto al gradino più basso fra tutto ciò che Marx ed Engels hanno pubblicato. A questo scritto manca completamente quel che dà un’attrattiva particolare e un valore duraturo agli altri loro scritti polemici, cioè il lato positivo della nuova posizione che è fatto scaturire mediante la critica negativa. Esso non dedica una sola sillaba all’indagine delle cause interne che avevano provocato il tramonto dell’Internazionale; si limita a proseguire su quella linea che era già stata tracciata dalla Comunicazione confidenziale e dalla circolare sulle pretese scissioni dell’Internazionale: con i loro intrighi e le loro manovre Bakunin e la sua Alleanza segreta hanno distrutto l’Internazionale. Questo non è un documento storico, ma un atto d’accusa unilaterale, la cui tendenziosità balza agli occhi in ogni pagina; il traduttore tedesco ha creduto di dover fare anche di più, ed ha abbellito il titolo dandogli un carattere avvocatesco: Un complotto contro l’Associazione Internazionale degli Operai.

Se il tramonto dell’Internazionale era da attribuire a tutt’altre cause che all’esistenza dell’Alleanza segreta, nella brochure dell’Alleanza non è neppur dimostrato che essa avesse avuto un’efficacia pratica. In que sto senso la commissione d’inchiesta del Congresso dell’Aia aveva già dovuto aiutarsi col probabile e col verosimile. Per quanto in Bakunin si possa condannare, soprattutto per un uomo nella sua posizione, il gusto di abbandonarsi a progetti fantastici di statuti e a manifestazioni orripilanti, tuttavia bisognava suppor re, poiché mancavano prove materiali, che in tutto ciò avesse la parte maggiore la sua fantasia sempre in movimento. Ciò risulta anche dalla brochure dell’Alleanza, la cui seconda metà era piena delle rivelazioni del nobile Utin sul processo Neciaiev e sull’esilio siberiano di Bakunin, durante il quale egli avrebbe già fatto le sue prove come ricattatore comune e come ladro ci strada. Ma non ne era fornita alcuna prova, mentre per il resto le prove consistevano semplicemente nel mettere in conto a Bakunin tutto ciò che aveva detto e fatto Neciaiev.

Soprattutto il capitolo siberiano è romanzo di bassa lega. Al tempo dell’esilio siberiano di Bakunin il go vernatore della Siberia sarebbe stato in qualche modo parente di Bakunin; grazie a questa parentela e a certi suoi servigi prestati al governo zarista, l’esiliato Bakunin sarebbe diventato il reggente segreto del paese, e avrebbe abusato del suo potere per favorire imprenditori capitalistici in cambio di «piccole man co. Ma all’occasione questa sete di guadagno sarebbe stata superata dall’«odio contro la scienza»: per questo egli avrebbe fatto andare a vuoto un progetto di alcuni mercanti siberiani, di fondare nel loro paese un’università, per cui era necessario il consenso dello zar.

Utin mise un particolare impegno nell’abbellire la storiella del tentativo di Bakunin per cavar denaro da Katkov, che già un paio d’anni prima Borkheim aveva cercato di far credere a Marx ed Engels, sema però riuscire a convincerli. Secondo Borkheim, Bakunin aveva scritto dalla Siberia a Katkov, chiedendo circa duemila rubli per la sua fuga. Secondo Utin invece Bakunin aveva chiesto il denaro a Katkov da Londra soltanto dopo che gli era riuscita la fuga, tormentato da rimorsi ci coscienza, per restituire a un appaltatore generale di liquori il prezzo della corruzione, che si era fatto dare da lui durante il suo esilio siberiano. Questo infine era un atto di pentimento, ma anche di questo sentimento umano, per così dire, Bakunin poteva dai prova, con orrore di Utin, soltanto mendicando presso un uomo del quale sapeva che era «delatore e filibustiere letterario al soldo del governo russo». La fantasia di Utin poteva arrivare ad altezze così vertiginose, senza mai perdere di vigore.

Utin era andato a Londra alla fine di ottobre del 1873, per raccontare «ben altre meraviglie» su Bakunin. Il 25 novembre Engels scrisse a Sorge: «Il tipo (cioè Bakunin) ha messo onestamente in pratica il suo catechismo: da anni lui e la sua Alleanza vivono esclusivamente di ricatti, facendo assegnamento sul fatto che su tutto ciò non si può pubblicare nulla senza compromettere altra gente di cui bisogna aver riguardo. Non puoi immaginarti che banda di miserabili sia».  Fu una fortuna che quando Utin andò a Londra la brochure dell’Alleanza avesse già visto la luce da qualche settimana: così almeno le «altre meraviglio sono rimaste sepolte in fondo al cuore sincero di Utin, che subito dopo si gettò pentito fra le braccia del piccolo padre, per arrotondare la rendita dei liquori con i profitti di guerra.

Proprio questa metà della brochure dell’Alleanza che tratta di cose russe contribuì più del resto ad annul larne l’efficacia politica. Persino quegli ambienti rivoluzionari russi che erano in rapporti tesi con Bakunin se ne sentirono urtati. Negli anni che seguirono il 70, mentre Bakunin conservava intatta la sua influenza sul movimento russo, Marx perse molte delle simpatie che si era guadagnato in Russia. Ma anche sotto altri aspetti la brochure dell’Alleanza fu un colpo fallito, e proprio in conseguenza dell’unico successo da essa riportato. Essa indusse Bakunin a ritirarsi dalla lotta, ma non ebbe il minimo effetto sul movimento che da Bakunin prese il nome.

Per prima cosa Bakunin rispose in una dichiarazione che mandò al Journal di Ginevra. Essa esprimeva l’amarezza di cui gli attacchi della brochure dell’Alleanza lo avevano colmato. Bakunin ne dimostrava la inconsistenza col fatto che della commissione d’inchiesta dell’Aia avevano fatto parte due agenti provocatori (in realtà era uno solo). Poi accennava alla sua età di sessantanni e a una malattia di cuore che si aggravava con l’età, e che gli rendeva sempre più difficile la vita. «Dei giovani si mettano all’opera! Per conto mio, non ho più la forza necessaria e forse neppure la fiducia necessaria per far rotolare ancora a lungo il masso di Sisifo contro la reazione che dovunque trionfa. Mi ritiro dunque dal campo di battaglia, e ai miei cari contemporanei chiedo una cosa sola: che mi dimentichino. D’ora innanzi non turberò la pace di nessuno, e si lasci in pace anche me!». Pur accusando Marx di aver fatto dell’Internazionale uno strumento della sua vendetta personale, tuttavia continuava a riconoscere in lui uno dei fondatori di «questa grande e bella associazione».

Con più durezza verso Marx, ma più controllato nella sostanza, Bakunin si espresse nella sua lettera di commiato ai giurassiani. Metteva al centro della reazione, contro cui gli operai dovevano condurre una lotta spaventosa, tanto il socialismo di Marx che la diplomazia di Bismarck. Anche qui motivava il suo ritiro dall’agitazione con la sua età e la malattia, che avrebbero reso la sua partecipazione alla lotta più un ostacolo che un aiuto, ma se ne giustificava affermando che i due congressi di Ginevra avevano proclamato la vittoria della sua causa e la sconfitta degli avversari.

I «motivi di salute» di Bakunin naturalmente furono oggetto di beffe e furono considerati una scusa, ma i pochi anni che ancora gli restarono da vivere, in amara povertà e fra infermità dolorose, dimostrarono che la sua tempra era spezzata. Dalle lettere confidenziali da lui scritte ai suoi più intimi amici risulta anche che «forse» aveva perduto la fiducia in una immediata vittoria della rivoluzione. Morì il 1◦ luglio 1876 a Berna. Avrebbe meritato una fine più felice e una fama migliore di quella che di lui è rimasta in molti ambienti della classe operaia, per la quale così coraggiosamente aveva lottato e tanto aveva sofferto.

Nonostante tutti i suoi difetti e i suoi errori, la storia gli assicurerà un posto d’onore fra i combattenti d’avan guardia del proletariato internazionale, anche se questo posto gli sarà sempre contestato, fin tanto che su questa terra vi saranno dei filistei, sia che nascondano le lunghe orecchie sotto il berretto da poliziotto, sia che cerchino di coprire le loro ossa tremanti sotto la pelle di leone di un Marx.