14.1 I dolori del parto
Quando Marx si rifiutava di partecipare al Congresso di Ginevra
perché il portare a termine la sua opera principale (egli
riteneva di aver fatto fino allora soltanto cose da poco) gli
sembrava più importante, per la classe operaia, che il
partecipare a qualsiasi congresso, egli aveva presente di aver
cominciato fin dal primo gennaio la ricopiatura e la limatura del
primo volume. E la cosa procedeva alla svelta, perché per lui «naturalmente era un divertimento leccare e lisciare il
figliolino, dopo tanti dolori di parto».
Queste doglie erano durate all’inarca un numero di anni doppio
rispetto al numero dei mesi che la natura impiega per la generazione
di una creatura umana. Marx poteva dire con ragione che forse mai
un’opera di questa specie era stata scritta in condizioni più
difficili. Si era fissato continuamente un nuovo termine per
arrivare in fondo, «in cinque settimane» come nel 1851,
o «in sei settimane» come nel 1859, ma questi propositi
riuscivano sempre vani di fronte alla sua autocritica spietata e
alla sua scrupolosità, che lo spingevano sempre a nuove
ricerche e non potevano essere scosse neppur dalle sollecitazioni
impazienti del suo più fedele amico.
Alla fine del 1865 aveva portato a termine il lavoro, ma solo nella
forma di un gigantesco manoscritto, che così come si
presentava allora non poteva essere pubblicato da nessuno, neppure
da Engels, tranne che da Marx stesso. Da questa enorme mole, fra il
gennaio 1866 e il marzo 1867, Marx estrasse il primo volume del
Capitale nella sua classica redazione, come un «tutto
artistico», ciò che fornisce anche la prova più
luminosa della sua favolosa capacità di lavoro. Infatti
questi quindici mesi furono anche occupati da infermità
continue e anche pericolosissime, come nel febbraio del 1866; da
una accumulazione di debiti che gli «opprimevano il
cervello», e da ultimo, dai lavori preparatori per il
Congresso di Ginevra dell’Internazionale, che gli portarono via
molto tempo.
Nel novembre del 1866 il primo fascio di manoscritti fu spedito a
Otto Meissner di Amburgo, un editore di scritti democratici presso
il quale Engels aveva già fatto pubblicare il suo opuscolo
sulla questione militare prussiana. Alla metà di aprile del
1867 Marx portò di persona ad Amburgo il resto del
manoscritto, e trovò in Meissner un «tipo ammodo», con cui, dopo brevi trattative, tutto fu sistemato. Per
aspettare le prime bozze della stampa, che veniva fatta a Lipsia,
Marx andò a Hannover, a far visita al suo amico Kugelmann,
che lo accolse ospitalmente nella sua amabile famiglia. Qui
trascorse delle settimane felici, che annovera fra «le
più belle e più piacevoli oasi nel deserto della vita». Un po’ contribuirono al suo lieto umore anche il
rispetto e la simpatia con cui i circoli colti di Hannover gli
andarono incontro, cosa a cui non era affatto abituato; il 24 aprile
scrisse a Engels: «Noi due abbiamo però una posizione
del tutto diversa da quella che conosciamo, specialmente fra il ceto
impiegatizio colto »[iii]3. Ed Engels rispose, il
27 aprile: «Ho sempre pensato che questo maledetto libro, a
cui hai dedicato così lunga fatica, fosse il nocciolo di
tutte le tue disgrazie, da cui non saresti uscito né mai
avresti potuto uscire fino a quando non te lo fossi scrollato di
dosso. Questa eterna cosa incompiuta ti schiacciava fisicamente,
spiritualmente e finanziariamente, e posso benissimo concepire che
dopo la liberazione da questo incubo a te sembri adesso di essere
completamente un altro uomo, specialmente perché il mondo,
non appena vi farai di nuovo il tuo ingresso, non t’apparirà
così nero come prima»[iv]4. A ciò Engels faceva
seguire la sua speranza di essere presto liberato dal
«bestiale commercio». Finché vi era dentro —
scriveva — non era capace di niente; specialmente da quando era lui
il principale, le cose erano peggiorate per via della maggiore
responsabilità.
Marx gli rispose il 7 maggio: «Spero e credo fiduciosamente
che fra un anno sarò un uomo talmente assestato che
potrò mutare da cima a fondo le mie condizioni economiche e
finalmente reggermi da solo sulle gambe. Senza di te non avrei mai
potuto portare a compimento la mia opera, e t’assicuro che mi ha
sempre pesato sulla coscienza come un incubo il fatto che tu dovessi
lasciar disperdere ed arrugginire nel commercio la tua straordinaria
energia specialmente per causa mia, e per giunta dovessi vivere di
continuo con le mie stesse piccole miserie». In
realtà Marx non diventò un «uomo
assestato» né l’anno successivo né mai, ed
Engels dovette sopportare il «bestiale commercio» ancora
per alcuni anni, ma l’orizzonte cominciò a rischiararsi.
In questi giorni trascorsi a Hannover Marx, rispondendo con molto
ritardo a un suo seguace, l’ingegnere minerario Siegfried Meyer, che
fino a quel tempo aveva vissuto a Berlino e in quel periodo si era
tra sferito negli Stati Uniti, scriveva in questi termini, che
mettono ancora una volta in chiara luce la sua «mancanza di
cuore»: «Voi dovete avere una pessima opinione di me,
tanto più se vi dico che le vostre lettere non soltanto mi
hanno procurato una grande gioia, ma erano per me un vero conforto
nel periodo tormentoso in cui le ho ricevute. Il sapere che un uomo
di valore, di alti princìpi, è assicurato al nostro
partito, mi ricompensa di mali peggiori. Le vostre lettere inoltre
erano piene della più gentile amicizia per me personalmente,
e comprenderete che io, che mi trovo nella più aspra lotta
col mondo (quello ufficiale), meno di ogni altro posso sottovalutare
questa gentilezza. Perché dunque non vi ho risposto?
Perché ero continuamente sull’orlo della tomba. Per questo
dovevo utilizzare ogni momento che potevo dedicare al lavoro, per
terminare la mia opera cui ho sacrificato la salute, la
felicità della vita e la famiglia. Spero che a questa
spiegazione non occorra aggiungere altro. Mi fanno ridere i
cosiddetti uomini pratici e la loro saggezza. Se uno sceglie di
essere bue, allora può naturalmente voltare le spalle alle
sofferenze dell’umanità e occuparsi solo dei fatti propri. Ma
io mi considererei veramente un incapace se fossi morto senza avere
completamente finito il mio libro, almeno in manoscritto».
Quando un certo avvocato Warnebold, altrimenti sconosciuto,
comunicò a Marx il preteso desiderio di Bismarck di mettere
a profitto lui e il suo grande talento nell’interesse del popolo
tedesco, nel suo umo re sollevato di questi giorni Marx prese
seriamente la cosa. Non che provasse entusiasmo per questo
allettamento, su cui sarà stato dello stesso parere di Engels
: «E’ caratteristico del modo di pensare e delle vedute di
quel tipo che egli giudichi tutte le persone da se stesso»; ma
giudicando con la freddezza abituale, difficilmente Marx avrebbe
creduto all’ambasciata di Warnebold. Nelle condizioni ancora
instabili della Confederazione della Germania del Nord, dopo che a
stento era stato scongiurato il pericolo di una guerra con la
Francia per il commercio del Lussemburgo, era impossibile che
Bismarck pensasse di pren dere al suo servizio l’autore del
Manifesto comunista, offendendo così ancora una volta la
borghesia che era appena passata dalla sua parte e che vedeva
già di malocchio i suoi aiutanti Bucher e Wagener.
Non con Bismarck, ma con una parente di Bismarck, Marx ebbe una
piccola avventura al suo ritorno a Londra, e la raccontò a
Kugelmann con un certo diletto. Sul piroscafo gli si rivolse una
signorina, che aveva già notato per il suo portamento
militaresco, chiedendogli precise informazioni sulle stazioni
ferroviarie londinesi, e risultò che essa doveva aspettare
per diverse ore il suo treno; Marx l’aiutò cavallerescamente
ad ingannare tutto quel tempo, passeggiando per Hyde Park.
«Risultò che era Elisabeth von Puttkamer, nipote di
Bismarck, presso il quale aveva passato alcune settimane a Berlino.
Aveva con sé il ruolo completo dell’armata, poiché questa famiglia provvede abbondantemente
il nostro esercito di uomini d’onore e di bella presenza. Era una
ragazza vispa e colta, ma aristocratica e nero-bianca fino alla
punta delle dita. Rimase non poco stupita quando venne a sapere di
esser caduta in mani rosse». Ma la signorina non perse per
questo il buonumore. In una graziosa letterina, piena di
«filiale rispetto», esprimeva .la sua
«cordialissima gratitudine» al suo. cavaliere per
tutte le premure che aveva avuto per lei, «creatura
inesperta», e anche i suoi genitori facevano scrivere per
mezzo di lei di essere lieti di sapere che in viaggio si trovavano
ancora persone gentili.
A Londra Marx finì le correzioni del suo libro. Anche questa
volta non mancò, all’occasione, una lagnanza per la lentezza
della stampa, ma il 16 agosto 1867, alle due di notte, potè
già annunciare a Engels di aver finito proprio allora di
correggere l’ultimo (49◦) foglio di stampa. «Dunque questo
volume è pronto. Debbo soltanto a te, se questo fu possibile!
Senza il tuo sacrificio non avrei potuto compiere il mostruoso
lavoro dei tre volumi. Ti abbraccio, pieno di gratitudine! Salute,
mio caro, caro amico!».
14.2 Il primo volume
Nel primo capitolo della sua opera Marx riassunse di nuovo
ciò che aveva esposto nella sua opera del 1859 sulla merce e
il denaro. Ciò fece non solo per desiderio di completezza, ma
perché anche delle persone di talento non avevano del tutto
capito le cose, e quindi doveva esservi qualche difetto
nell’esposizione, specialmente nell’analisi della merce.
Nel numero di quelle persone di talento non c’erano certo i dotti
tedeschi, che hanno condannato proprio il primo capitolo del
Capitale per la sua «mistica oscura». «A prima
vista, una merce sembra una cosa triviale, ovvia. Dalla sua analisi,
risulta che è una cosa imbrogliatissima, piena di
sottigliezza metafisica e di capricci teologici. Finché
è valore d’uso, non ce nulla di misterioso in essa... Quando
se ne fa un tavolo, la forma del legno viene trasformata. Ciò
non di meno, il tavolo rimane legno, cosa sensibile e ordinaria. Ma
appena si presenta come merce, il tavolo si trasforma in una cosa
sensibilmente sovrasensibile. Non solo sta coi piedi per terra, ma,
di fronte a tutte le merci, si mette a testa in giù, e
sgomitola dalla sua testa di legno dei grilli molto più
mirabili che se cominciasse spontaneamente a ballare». Di
ciò si ebbero a male tutte le teste di legno che producono in
gran quantità sottigliezze metafisiche e capricci teologici,
ma che non sanno produrre una cosa così sensibile come
può essere un ordinario tavolo di legno.
In realtà questo primo capitolo, considerato da un punto di
vista puramente letterario, è fra le cose più notevoli
che Marx abbia scritto. Seguiva poi la ricerca su come il denaro si
trasforma in capitale. Se nella circolazione delle merci si
scambiano fra loro valori uguali, com’è possibile che il
possessore di denaro compri delle merci al loro valore e le venda al
loro valore e ricavi tuttavia più valore di quanto ne aveva
impiegato? Ciò è possibile poiché negli attuali
rapporti sociali egli trova sul mercato una merce di un carattere
così singolare che il suo consumo è fonte di nuovo
valore. Questa merce è la forza-lavoro. Essa esiste nella
forma del lavoratore vivente, che per la sua esistenza e per il
mantenimento della sua famiglia, che assicura la continuità
della forza-lavoro anche dopo la sua morte, ha bisogno di una certa
somma di mezzi di sussistenza. Il tempo di lavoro necessario per la
produzione di questi mezzi di sussistenza rappresenta il valore
della forza-lavoro. Ma questo valore pagato nel salario è
molto inferiore al valore che il compratore della forza-lavoro da essa può trarre. Il
pluslavoro del lavoratore, compiuto oltre il tempo necessario per
compensare il suo salario, è la fonte del plusvalore,
dell’ingrossamento sempre crescente del capitale. Il lavoro non
pagato del lavoratore mantiene tutti i membri della società
che non lavorano; su di esso poggia l’intera situazione sociale
nella quale noi viviamo.
Il lavoro non pagato non è, in sé, una
particolarità della moderna società borghese. Da
quando esistono classi possidenti e classi non possidenti, la
classe che non possiede ha sempre dovuto fornire lavoro non pagato.
Da quando una parte della società possiede il monopolio dei
mezzi di produzione, il lavoratore, libero o non libero, deve
aggiungere al tempo di lavoro necessario al suo sostentamento un
tempo di lavoro eccedente, per produrre i mezzi di sussistenza per i
proprietari dei mezzi di produzione. Il lavoro salariato è
soltanto una particolare forma storica del sistema del lavoro non
pagato, che domina fin da quando esiste la divisione in classi, una
particolare forma storica che deve essere presa in esame come tale,
per essere rettamente intesa.
Per trasformare il denaro in capitale, il possessore di denaro deve
incontrare sul mercato il lavoratore libero, libero nel duplice
senso che disponga come persona libera della sua forza-lavoro come
propria merce e che non abbia da vendere altre merci, che sia libero
da tutte le cose necessarie per realizzare la sua forza-lavoro.
Questo non è un rapporto risultante dalla storia naturale,
perché la natura non produce da una parte possessori di
denaro o di merci e dall’altra puri e semplici possessori della
propria forza-lavoro. E non è neppure un rapporto sociale che
sia comune a tutti i periodi della storia, ma il risultato di un
lungo svolgimento storico, il prodotto di molti rivolgimenti
economici, del tramonto di tutta una serie di formazioni più
antiche della produzione sociale.
La produzione delle merci è il punto di partenza del
capitale. La produzione delle merci, la circolazione delle merci e
la circolazione sviluppata delle merci, cioè il commercio,
costituiscono i presupposti storici del suo nascere. Dalla creazione
del commercio mondiale e del mercato mondiale moderno nel secolo XVI
data la storia moderna della vita del capitale. L’illusione
dell’economista volgare, che vi fossero una volta una élite
operosa che accumulava ricchezze, e una massa di straccioni oziosi,
( che alla fine non avevano altro da vendere che la loro propria
pelle, è mia sciocca puerilità: una puerilità
tanto sciocca quanto la semioscurità in cui gli storici
borghesi rappresentano la dissoluzione del modo feudale di
produzione come emancipazione del lavoratore, e non come
trasformazione, in pari tempo, del modo di produzione feudale nel
modo ili produzione capitalistico. Quando i lavoratori cessarono di
far parte direttamente dei mezzi di produzione, come schiavi e
servi, i mezzi di produzione cessarono di appartenere a loro, come
al contadino e all’artigiano indipendente. Mediante una serie di
metodi violenti e crudeli, che Marx descrive diffusamen te,
desumendoli dalla storia inglese, nei capitolo sull’accumulazione
originaria, la gran massa del popolo fu privata della terra, dei
mezzi di sussistenza e degli strumenti di lavoro. Così
sorsero i lavoratori liberi di cui il modo di produzione
capitalistico ha bisogno: venne al mondo il capitale, grondante
sangue e lordura da tutti i pori, da capo a piedi. Appena
potè reggersi da sé, esso non soltanto ottenne la
separazione fra il lavoratore e la proprietà delle
condizioni di realizzazione del lavoro, ma la riprodusse su scala
sempre crescente.
Il lavoro salariato si distingue dalle specie più antiche di
lavoro non pagato per il fatto che il movimento del capitale non
conosce limiti, la sua bramosia di pluslavoro è insaziabile.
Nelle formazioni economiche delle società in cui prevale il
valore d’uso e non il valore di scambio del prodotto, il pluslavoro
è limitato da una cerchia più o meno larga di bisogni,
ma dal modo di produzione non deriva una necessità illimitata
di pluslavoro. Diversamente vanno le cose là dove prevale il
valore di scambio. Come produttore di laborio sità altrui,
come pompatore di pluslavoro e sfruttatore di forza-lavoro, il
capitale sopravanza per energia, smisuratezza e vigore tutti i
precedenti processi di produzione fondati direttamente sul lavoro
forzato. Ad esso non interessa il processo lavorativo, la creazione
dei valori d’uso, ma il processo di valorizzazione, la produzione di
valori di scambio, da cui può cavare più valore di
quanto ne abbia immesso. La fame di plusvalore non conosce
sazietà; per la produzione dei valori di scambio non esistono
quei limiti che per la produzione dei valori d’uso sono fissati
nella soddisfazione dei bisogni.
Come la merce è unità di valore d’uso e valore di
scambio, così il processo di produzione della merce è
unità di processo lavorativo e processo di formazione di
valore. Il processo di formazione di valore dura fino al momento in
cui il valore della forza-lavoro pagato col salario è
sostituito da un valore equivalente. Da questo punto in poi diventa
processo di formazione del plusvalore, processo di valorizzazione.
Come unità di processo lavorativo e di processo di valorizzazione, esso diventa
processo di produzione capitalistico, forma capitalistica di
produzione delle merci. Nel processo lavorativo concorrono
forza-lavoro e mezzi di produzione; nel processo di valorizzazione
le stesse parti costitutive del capitale appaiono come capitale
costante e capitale variabile. Il capitale costante si converte in
mezzi di produzione, in materia prima, ma teriali ausiliari e mezzi
di lavoro, e non cambia la propria grandezza di valore nel processo
di produzione. Il capitale variabile si converte in forza-lavoro e
cambia il suo valore nel processo di produzione; riproduce il suo
equivalente e inoltre produce un’eccedenza, il plusvalore, che a sua
volta può variare, può essere più grande o
più piccolo. Così Marx si apre la strada per la
ricerca sul plusvalore, di cui trova due forme, il plusvalore
assoluto e il plusvalore relativo, che hanno avuto una parte diversa
ma parimente decisiva nella storia del modo di produzione
capitalistico.
Il plusvalore assoluto è prodotto quando il capitalista
prolunga il tempo di lavoro oltre il tempo necessario per la
riproduzione della forza-lavoro. Se le cose andassero secondo i suoi
desideri, la giornata lavorativa sarebbe di ventiquattrore, dato che
egli produce un plusvalore tanto maggiore quanto più lunga
è la giornata lavorativa. Il lavoratore, viceversa, sente
giustamente che ogni ora di lavoro da lui compiuta di là
dalla compensazione del salario gli è illegittimamente
sottratta; egli è costretto a provare sul suo stesso corpo
che cosa significa lavorare per un tempo troppo lungo. La lotta per
la durata della giornata lavorativa dura dal primo apparire di
liberi lavoratori fino al giorno d’oggi. Il capitalista lotta per il
suo profitto, ed è costretto dalla concorrenza (non importa
se egli sia come individuo una nobile persona o un cattivo
soggetto) a protrarre la giornata lavorativa fino ai limiti estremi
della resistenza umana. Il lavoratore lotta per la sua salute, per
qualche ora di riposo quotidiano, per poter vivere da uomo anche
altrimenti che lavorando, mangiando, dormendo. Marx descrive in
maniera efficacissima la guerra civile di mezzo secolo che la classe
dei capitalisti e la classe operaia hanno combattuto in Inghilterra,
a cominciare dalla nascita della grande industria, che spinse i
capitalisti ad infrangere tutti i limiti che la natura e i costumi,
l’età e il sesso, il giorno e la notte opponevano allo
sfruttamento del proletariato, fino alla promulgazione del bill
delle dieci ore, che gli operai si conquistarono come potentissima
barriera sociale che impedisce a loro stessi di vender sé e
la loro schiatta alla morte e alla schiavitù, per mezzo di un
volontario contratto col capitale.
Il plusvalore relativo è prodotto quando il tempo di lavoro
necessario per la riproduzione della forza-lavoro è
abbreviato a vantaggio del plus-lavoro. Il valore della forza-lavoro
viene abbassato facendo salire la forza produttiva del lavoro in
quei rami dell’industria i cui prodotti determinano il valore della
forza-lavoro. A questo scopo è necessario un continuo
rivoluzionamento del modo di produzione, delle condizioni tecniche e
sociali del processo lavorativo. Le indagini storiche, economiche,
tecnologiche, socialpsicologiche che Marx offre a questo punto, in
una serie di capitoli che trattano della cooperazione, della
divisione del lavoro e della manifattura, delle macchine e della
grande industria, sono state riconosciute anche da parte borghese
come una miniera di scienza.
Marx non soltanto dimostra che le macchine e la grande industria
hanno creato una miseria più spaven tosa di qualsiasi
precedente modo di produzione, ma dimostra anche che esse nel loro
ininterrotto rivolu zionamento della società capitalistica
preparano una forma sociale superiore. La legislazione sulle fab
briche è la prima reazione consapevole e pianificata della
società alla forma innaturale assunta dal suo processo di
produzione. Regolando il lavoro nelle fabbriche e nelle manifatture,
essa appare soltanto, in un primo tempo, come un intervento nei
diritti di sfruttamento del capitale.
Ma la forza dei fatti la costringe subito a regolare anche il lavoro
a domicilio e a intervenire contro l’auto rità dei genitori,
riconoscendo in tal modo che la grande industria, dissolvendo il
fondamento economico della vecchia famiglia e del lavoro familiare
che ad esso corrispondeva, dissolve anche i vecchi rapporti
familiari. «Per quanto terribile e repellente appaia la
dissoluzione della vecchia famiglia entro il sistema capitalistico,
cionondimeno la grande industria crea il nuovo fondamento economico
per una forma supe riore della famiglia e del rapporto fra i due
sessi, con la parte decisiva che essa assegna alle donne, agli
adolescenti e ai bambini d’ambo i sessi nei processi di produzione
socialmente organizzati al di là della sfera domestica.
Naturalmente è altrettanto sciocco ritenere assoluta la
forma cristiano-germanica della famiglia, quanto ritenere assoluta
la forma romana antica o la greca antica, oppure quella orientale,
che del resto formano fra di loro una serie storica progressiva. E’
altrettanto evidente che la composizione del personale operaio
combinato con individui d’ambo i sessi e delle età più
differenti, benché nella sua forma spontanea e brutale
cioè capitalistica, dove l’operaio esiste in funzione del
processo di produzione e non il processo di produzione per l’operaio, sia pestifera fonte di
corruzione e di schiavitù, non potrà viceversa non
rovesciarsi, in circostanze corrispondenti, in fonte di sviluppo di
qualità umane»[i]11. La macchina, che degrada
l’operaio fino o farne un suo semplice accessorio, crea nello stesso
tempo la possibilità di far salire le forze produttive della
società fino a un punto che renderà possibile uno
sviluppo ugualmente umano per tutti i membri della società,
per il quale tutte le forme sociali precedenti erano troppo povere.
Dopo aver preso in esame la produzione del plusvalore assoluto e
relativo, Marx dà la prima teoria razionale del salario che
la storia della economia politica conosca. Il prezzo di una merce
è il suo valore espresso in denaro, e il salario è il
prezzo della forza-lavoro. Sul mercato delle merci si presenta non
il lavoro, ma il lavoratore, che offre in vendita la sua
forza-lavoro, e il lavoro ha origine soltanto con il consumo della
merce forza-lavoro. Il lavoro è la sostanza e la misura
immanente dei valori, ma di per sé non ha alcun valore.
Eppure sembra che nel salario venga pagato il lavoro, perché
il lavoratore ottiene il suo salario soltanto dopo aver compiuto il
lavoro. La forma del salario dissolve ogni traccia della divisione
della giornata lavorativa in lavoro pagato e non pagato. E’ il
contrario di ciò che avviene con gli schiavi. Lo schiavo
sembra lavorare soltanto per il suo padrone, anche in quella parte
della giornata lavorativa in cui non fa che reintegrare il valore
dei propri mezzi di sussistenza; tutto il suo lavoro appare come
lavoro non pagato. Nel lavoro salariato, al contrario, anche il
lavoro non pagato appare come lavoro pagato. Là il rapporto
di proprietà cela il lavoro che lo schiavo compie per se
stesso, qui il rapporto monetario cela il lavoro che l’operaio sala
riato compie senza alcuna retribuzione. Si comprende quindi — dice
Marx — l’importanza decisiva che ha la metamorfosi del valore e del
prezzo della forza-lavoro nella forma di salario, ossia in valore e
prezzo del lavoro stesso. Su questa forma fenomenica, che rende
invisibile il rapporto reale e mostra precisamente il suo opposto,
si fondano tutte le idee giuridiche dell’operaio e del capitalista,
tutte le mistificazioni del modo di produzione capitalistico, tutte
le illusioni sulla libertà, tutte le chiacchiere apologetiche
dell’economia volgare.
Le due forme fondamentali del salario sono il salario a tempo e il
salario a cottimo. A proposito delle leggi del salario a tempo, Marx
dimostra in particolare la vacuità interessata delle frasi
secondo cui in seguito alla limitazione della giornata lavorativa il
salario dovrebbe essere abbassato. E’ vero proprio l’opposto. Una
riduzione momentanea della giornata lavorativa abbassa il salario,
ma una riduzione duratura lo aumenta; quanto più lunga
è la giornata lavorativa, tanto più basso è il
salario.
Il salario a cottimo non è altro che una forma mutata del
salario a tempo: è la forma di salario che più
corrisponde al modo di produzione capitalistico. Esso acquista un
campo d’azione maggiore durante il periodo della manifattura vera e
propria, e negli anni di impeto e slancio della grande industria
inglese servì di leva per il prolungamento del tempo di
lavoro e per le riduzioni del salario. Il salario a cottimo è
vantaggiosissimo per il capitalista, perché rende in gran
parte superflua la sorveglianza del lavoro e per di più offre
le più svariate occasioni di detrazioni sul salario e simili
truffe. Per gli operai invece porta con sé grandi svantaggi:
consunzione per eccesso di lavoro, che dovrebbe far salire il
salario, mentre in realtà tende a farlo diminuire, aumentata
concorrenza fra i lavoratori e indebolimento del loro senso di
solidarietà, inserimento di parassiti fra capitalisti e
lavoratori, di intermediari che sottraggono una parte considerevole
del salario pagato, e altro ancora.
Il rapporto fra plusvalore e salario fa sì che il modo di
produzione capitalistico non solo riproduce continua mente al
capitalista il suo capitale, ma anche riproduce sempre di nuovo la
miseria degli operai: da una parte i capitalisti che sono i
possessori di tutti i mezzi di sussistenza, di tutti i prodotti
grezzi e di tutti gli strumenti di lavoro, dall’altra parte l’enorme
massa degli operai, che è costretta a vendere a questi
capita listi la sua forza-lavoro, per un quantum di mezzi di
sussistenza che nel migliore dei casi basta giusto per conservarli
idonei al lavoro e per allevare una nuova generazione di proletari
idonei al lavoro. Ma il capitale non si riproduce semplicemente, ma
si ingrandisce e si moltiplica continuamente; a questo «
processo di accumulazione» Marx dedica l’ultima sezione del
primo volume.
Non soltanto il plusvalore scaturisce dal capitale, ma il capitale
scaturisce anche dal plusvalore. Una parte del plusvalore prodotto
annualmente viene consumata come reddito dalle classi possidenti
fra cui esso è ripartito, ma un’altra parte è
accumulata come capitale. Il lavoro non pagato che è stato
pompato dalla classe operaia, serve ora come mezzo per pompare da
essa sempre più lavoro non pagato. Nella corrente della produzione ogni capitale originariamente anticipato
diventa una grandezza impercettibile, se confrontato col capitale
direttamente accumulato, cioè col plusvalore o col
plusprodotto ritrasformato in capitale, venga esso impiegato dalla
mano che l’ha accumulato o da altre mani. La legge della
proprietà privata che si fonda sulla produzione e sulla
circolazioni delle merci, si cambia per la propria interna,
inevitabile dialettica nel suo diretto contrario. Le leggi della
produzione delle merci sembrano fondare il diritto di
proprietà sul proprio lavoro. Si avevano di fronte possessori
di merci con eguali diritti; il mezzo di appropriarsi la merce
altrui era soltanto l’alienazione della propria merce, e la propria
merce poteva essere prodotta soltanto per mezzo del lavoro. Ora la
proprietà, dalla parte del capitalista, appare come il
diritto di appropriarsi lavoro altrui non pagato o il suo prodotto;
dalla parte dell’operaio, come l’impossibilità di
appropriarsi il proprio prodotto.
Quando i proletari moderni cominciarono a scoprire questi nessi,
quando il proletariato urbano di Lione suonò la campana a
martello, e in Inghilterra il proletariato rurale fece spiccare il
volo al «gallo rosso», allora gli economisti volgari
scoprirono la «teoria dell’astinenza», secondo cui il
capitale ha origine per l’«astinenza volontaria» dei
capitalisti, teoria che Marx sferzò così
spietatamente come Lassalle aveva fatto prima di lui. Ma quello che
in realtà contribuisce all’accumulazione del capitale
è l’«astinenza» forzata degli operai,
l’abbassamento violento del salario al disotto del valore della
forza-lavoro, allo scopo di trasformare in parte il necessario
fondo di consumo degli operai in un fondo di accumulazione di
capitale. Qui hanno la loro vera origine gli alti lamenti sulla vita
«sontuosa» degli operai, le litanie senza fine su
quella bottiglia di spumante che dei muratori avrebbero una volta
bevuto a colazione, le ricette a buon mercato di riformatori sociali
cristiani e tutto ciò che appartiene a questo campo della
polemica capitalistica.
La legge generale dell’accumulazione capitalistica è la
seguente. L’aumento del capitale comprende l’au mento della sua
parte variabile, ossia quella convertita in forza-lavoro. Se la
composizione del capitale resta invariata, e una determinata
quantità di mezzi di produzione richiede sempre la stessa
quantità di forza-lavoro per essere messa in movimento,
evidentemente la richiesta di lavoro e il fondo di sussistenza degli
operai aumentano in proporzione col capitale, e cioè con
tanto maggiore rapidità quanto più rapi damente
aumenta il capitale. Come la riproduzione semplice riproduce
continuamente lo stesso rapporto capitalistico, l’accumulazione
riproduce il rapporto capitalistico in grado allargato: più
capitalisti o più gran di capitalisti da questa parte,
più salariati dall’altra. Accumulazione di capitale dunque
è incremento di proletariato, che nel caso supposto avviene
nelle condizioni più favorevoli per gli operai. Del loro
crescente plusprodotto, che si trasforma in misura sempre crescente
in nuovo capitale, una parte più grande ritorna a loro in
forma di mezzi di pagamento, così che essi estendono la
cerchia dei loro godimenti, e possono rifornire meglio il loro
fondo di consumo di vestiti, mobili ecc. Ma ciò non tocca il
rapporto di dipendenza in cui si trovano, né più
né meno di quanto uno schiavo ben vestito e ben nutrito cessi
di essere uno schiavo. Essi debbono sempre fornire un determinato
quantum di lavoro non retribuito, che può ridursi, ma mai
fino al punto da mettere in serio pericolo il carattere
capitalistico del processo di produzione. Se i salari salgo no
oltre a questo punto, ottundono il pungolo del guadagno e si rilassa
l’accumulazione di capitale, finché i salari scendono di
nuovo fino a un livello che corrisponda ai suoi bisogni di
valorizzazione.
Ma la catena d’oro che l’operaio si fabbrica da sé si allenta
e si alleggerisce solo quando nell’accumulazio ne del capitale
resta invariato il rapporto fra la sua parte costante e la
variabile. Ma in realtà col progresso dell’accumulazione si
compie una grande rivoluzione in quella che Marx chiama composizione
organica del capitale. Il capitale costante aumenta a spese del
capitale variabile; la crescente produttività del lavoro fa
sì che la massa dei mezzi di produzione cresca più
rapidamente della massa di forza-lavoro in essi incorporata; la
richiesta di lavoro non cresce di pari passo con l’accumulazione del
capitale, ma in pro porzione diminuisce. Lo stesso effetto ha in
forma diversa la concentrazione del capitale che si compie,
indipendentemente dalla sua accumulazione, per il fatto che le leggi
della concorrenza capitalistica portano all’inghiottimento del
piccolo capitale da parte del grande capitale. Mentre il capitale
addizionale forma to nel procedere dell’accumulazione impiega
sempre meno operai, in proporzione alla sua grandezza, il vecchio
capitale riprodotto nella nuova composizione respinge da sé
un numero sempre maggiore degli operai che esso prima impiegava.
Così ha origine una sovrappopolazione relativa, vale a dire
eccedente i bisogni di valorizzazione del capitale, un esercito
industriale di riserva che viene impiegato irregolarmente in
periodi di affari cattivi o mediocri e pagato al disotto del valore
della sua forza-lavoro, o viene affidato alla carità
pubblica, ma che in tutti i casi serve a paralizzare la forza di
resistenza degli operai occupati e a tener bassi i loro salari.
Oltre ad essere un prodotto necessario dell’accumulazione ossia
dello sviluppo della ricchezza su ba se capitalistica, l’esercito
industriale di riserva diventa anche, all’inverso, la leva del modo
di produzione capitalistico. Insieme con l’accumulazione e lo
sviluppo della forza produttiva del lavoro che l’accompagna, cresce
la forza improvvisa d’espansione del capitale, che ha bisogno di
grandi masse umane, per gettarle all’improvviso e senza detrimento
della scala produttiva in altre sfere, su nuovi mercati o in nuovi
rami di produzione. Il caratteristico corso dell’industria moderna,
la forma di un ciclo decennale, interrotto da pic cole
fluttuazioni, di periodi di media vitalità, di produzione ad
alta pressione, di crisi e stagnazione, poggia sulla formazione
costante, sul maggiore o minore assorbimento e sulla riformazione
dell’esercito industriale di riserva. Quanto maggiore la ricchezza
sociale, il capitale in funzione, le dimensioni e l’energia della
sua crescita, e per conseguenza anche la grandezza assoluta della
popolazione operaia e la produttività del suo lavoro, tanto
maggiore la sovrappopolazione relativa o esercito industriale di
riserva. La sua grandezza relativa cresce di pari passo con la
potenza della ricchezza. Ma quanto maggiore è l’esercito
industriale di riserva in rapporto all’esercito dei lavoratori
attivi, tanto più numerosi sono gli strati operai la cui
miseria sta in rapporto inverso con le tribolazioni del loro lavoro.
Infine quanto maggiore è lo strato di lazzari nella classe
operaia e l’esercito industriale di riserva, tanto maggiore è
il pauperismo ufficiale. Questa è la legge generale assoluta
dell’accumulazione capitalistica.
Da essa deriva anche la sua tendenza storica. Di pari passo con la
accumulazione e la concentrazione del capitale si sviluppa in gradi
sempre crescenti la forma cooperativa del processo lavorativo,
l’impiego tecnologico cosciente della scienza, lo sfruttamento
comune e pianificato della terra, la trasformazione dei mezzi di
lavoro in mezzi di lavoro impiegabili solo in comune e
l’economizzazione di tutti i mezzi di pro duzione mediante il loro
impiego come mezzi comuni di produzione di lavoro sociale combinato.
Mentre diminuisce continuamente il numero di magnati capitalisti,
che usurpano e monopolizzano tutti i vantaggi di questo processo di
trasformazione, cresce la massa della miseria, della oppressione,
dell’asservimento, della degradazione, dello sfruttamento, ma anche
la ribellione della classe operaia sempre più numerosa e
disciplinata, unita e organizzata essa stessa dal meccanismo del
processo di produzione capitalistico. Il monopolio capitalistico
diventa la catena che si stringe intorno al modo di produzione
capitalistico, che con esso e sotto di esso è fiorito.
La concentrazione dei mezzi di produzione e la socializzazione del
lavoro arrivano a un punto in cui diventano incompatibili col loro
involucro capitalistico. Scocca l’ora della proprietà
privata capitalistica, gli espropriatori vengono espropriati.
La proprietà individuale, fondata sul proprio lavoro, viene
restaurata, ma sulla base delle conquiste del l’era capitalistica:
come cooperazione di liberi lavoratori e come loro proprietà
collettiva della terra e dei mezzi di produzione prodotti col lavoro
stesso. Naturalmente la trasformazione in proprietà
collettiva della proprietà capitalistica, che di fatto
è già fondata su un esercizio produttivo collettivo,
è di gran lunga meno penosa, dura e difficile della
trasformazione in proprietà capitalistica della
proprietà dispersa, fondata sul proprio lavoro individuale.
Qui si trattava dell’espropriazione delle grandi masse popolari da
parte ili pochi usurpatori, là si tratterà
dell’espropriazione di pochi usurpatori da parte delle masse
popolari.
14.3 Il secondo e terzo
volume
Il secondo e il terzo volume del Capitale subirono le stesse vicende
che erano toccate al primo: Marx sperava di poterli pubblicare
subito dopo che era uscito il primo, ma passarono lunghi anni, e non
gli riuscì più portarli al punto da poter essere
stampati.
Studi sempre nuovi e sempre più profondi, malattie penose e
infine la morte gli impedirono di terminare tutta l’opera, e
così Engels mise insieme i due volumi dei manoscritti
incompiuti che il suo amico aveva lasciato. Erano minute, abbozzi,
appunti, ora parti estese e continue, ora brevi annotazioni, quali
uno studioso fa per proprio uso: un lavoro teorico immenso che si
estese, con prolungate interruzioni, per il lungo periodo di tempo
fra il 1861 e il 1878.
Queste circostanze ci fanno capire che nei due ultimi volumi del
Capitale dobbiamo cercare non una solu zione pronta e compiuta di
tutti i più importanti problemi di economia politica, ma in
parte soltanto l’impo stazione di questi problemi, e inoltre
indicazioni sulla direzione da seguire per cercarne la soluzione.
Come tutta la concezione del mondo di Marx, anche la sua opera
principale non è una Bibbia, con verità inap
pellabili pronte e valide una volta per sempre, ma una fonte
inesauribile di incitamento ad ulteriore lavoro teorico, a
ulteriori ricerche e lotte per la verità.
Quelle stesse circostanze ci spiegano come mai anche esteriormente,
nella forma letteraria, il secondo e terzo volume non sono
così compiuti come il primo, non hanno lo stesso spirito
lampeggiante e scintillante. Eppure proprio come nuda elaborazione
di pensiero, incurante di ogni forma, essi offrono a molti lettori
un godimento ancora più alto del primo volume. Nonostante che
fino ad ora, purtroppo, non si sia tenuto conto di essi in nessuna
opera di divulgazione, e quindi siano rimasti sconosciuti alla
grande massa degli operai colti, per il loro contenuto questi due
volumi costituiscono un’integrazione essenziale e un ulteriore
sviluppo del primo volume, indispensabile per la comprensione di
tutto il sistema.
Nel primo volume Marx tratta della questione cardinale
dell’economia politica: donde ha origine l’arricchi mento,
dov’è la fonte del profitto? La risposta a questa domanda,
prima dell’intervento di Marx, era data secondo due direzioni
diverse.
I difensori «scientifici» del migliore dei mondi nel
quale viviamo, uomini che in parte, come Schul ze-Delitzsch,
godevano considerazione e fiducia anche presso gli operai,
spiegavano la ricchezza capi talistica mediante tutta una serie di
giustificazioni più o meno plausibili, e di astute
manipolazioni: come il frutto di un sistematico aumento di prezzo
sulle merci, a titolo di «risarcimento»
dell’imprenditore per il capitale da lui generosamente «
ceduto» per la produzione, come indennità per il
«rischio» che corre ogni imprenditore, come compenso
per la «direzione spirituale» dell’impresa, e
così via. Secondo queste spiegazioni ciò che
importava era solo di presentare la ricchezza degli uni, e quindi
anche la povertà degli altri, come qualche cosa di «
legittimo», e dunque di immutabile.
Dall’altra parte i critici della società borghese,
cioè la scuola dei socialisti venuti prima di Marx,
spiegavano l’arricchimento dei capitalisti per lo più come
schietta truffa, anzi come furto a danno degli operai, reso
possibile per l’intervento del denaro o per mancanza di
organizzazione del processo di produzione. Pren dendo le mosse da
questi giudizi, quei socialisti arrivarono a formulare diversi piani
utopistici, sul modo di abolire lo sfruttamento mediante
l’abolizione del denaro, mediante l’«organizzazione del
lavoro», e così via.
Nel primo volume del Capitale Marx scopre la reale radice
dell’arricchimento capitalistico. Non è questione per lui di
motivi di giustificazione per i capitalisti, né di accuse
contro la loro ingiustizia: Marx mostra per la prima volta come ha
origine il profitto e come va a finire nelle tasche dei capitalisti.
Ciò egli spiega mediante due decisivi dati di fatto
economici: primo, che la massa degli operai è costituita di
proletari, che devono vendere la loro forza-lavoro come merce;
secondo, che questa merce forza-lavoro possiede oggi un grado di
produttività così alto che può fornire, in un
determinato tempo, un prodotto molto maggiore di quanto è
necessario al proprio sostentamento durante questo tempo. Questi
due dati di fatto, puramente economici e in pari tempo forniti
dall’obiettivo sviluppo storico, portano con sé che il
frutto prodotto dal lavoro del proletario cade spontaneamente in
tasca al capitalista, si accumula meccanicamente col perdurare del
sistema del salario fino a diventare un patrimonio capitalistico
sempre più immenso.
Marx dunque spiega l’arricchimento capitalistico non come una
qualche indennità del capitalista per imma ginari sacrifici
e benefici, e neppure come truffa e furto nel senso corrente della
parola, ma come un affare, uno scambio fra capitalista e operaio,
pienamente legittimo secondo il diritto penale, che è
regolato proprio con le stesse leggi che regolano qualsiasi altra
compra e vendita di merci. Per mettere bene in chiaro questo affare
irreprensibile, che reca frutti doro al capitalista, Marx dovette
svolgere a fondo e applicare alla merce forza-lavoro la legge del
valore fissata dai grandi classici inglesi alla fine del XVIII
secolo e al principio del XIX, cioè la spiegazione delle
leggi interne dello scambio delle merci. La legge del valore, da cui
è dedotto il salario e il plusvalore, cioè la
spiegazione di come il prodotto del lavoro salariato si ripartisca
da sé, senza truffa violenta, in un tenore di vita miserevole
per l’operaio e nella ricchezza senza lavoro del capitalista: questo
è il contenuto principale del primo volume del Capitale. E
in questo sta il grande significato storico di questo volume: esso
ha dimostrato che lo sfruttamento potrà essere eliminato
soltanto ed esclusivamente con l’abolizione della vendita della forza-lavoro,
vale a dire del sistema del salario.
Nel primo volume del Capitale ci troviamo per tutto il tempo sul
luogo del lavoro: in una singola fabbrica, nella miniera o in una
moderna azienda agricola. Ciò che qui viene spiegato, vale
per ogni impresa capi talistica. E’ il singolo capitale come tipo
dell’intero modo di produzione col quale soltanto abbiamo a che
fare. Quando chiudiamo il libro, il quotidiano nascere del profitto
ci è chiaro, il meccanismo dello sfrutta mento è
illuminato in profondità. Stanno di fronte a noi montagne di
merci di ogni sorta, come escono direttamente dalla fabbrica, ancora
umide del sudore degli operai, e in tutte possiamo nettamente
distin guere la parte del loro valore che proviene dal lavoro non
pagato del proletario e che finisce in possesso del capitalista
legittimamente, come tutta la merce. Qui noi tocchiamo con mano la
radice dello sfruttamento.
Ma con ciò la messe del capitalista non è ancora stata
messa nel granaio. Il frutto dello sfruttamento esiste, ma ancora
in forma tale che l’imprenditore non ne può godere.
Finché lo possiede sotto forma di merci ammucchiate, il
capitalista non può rallegrarsi dello sfruttamento. Egli non
è, appunto, il proprietario di schiavi del mondo antico,
grecoromano, né il signore feudale del Medio Evo, che
angariavano il popolo lavoratore soltanto per il proprio lusso e per
le loro grandi corti. Il capitalista ha bisogno della sua ricchezza
in denaro sonante, onde ingrossare continuamente il suo capitale,
oltre che per mantenere il «tenore di vita conforme alla sua
condizione». Per questo è necessario vendere le merci
prodotte dal salariato, insieme col plusvalore che vi è
riposto. La merce deve essere portata dal magazzino della fabbrica o
dal granaio dell’azienda agricola al mercato, il capitalista la
segue dall’ufficio alla borsa, nelle botteghe, e noi seguiamo lui
nel secondo volume del Capitale.
Nel campo dello scambio delle merci, in cui si svolge il secondo
capitolo della vita del capitalista, sorgono per lui parecchie
difficoltà. Nella sua fabbrica, nella sua fattoria, il
padrone era lui. Dominavano là la più rigida
organizzazione, disciplina e pianificazione. Sul mercato delle merci
invece domina anarchia comple ta, la cosiddetta libera concorrenza.
Qui nessuno si occupa dell’altro, e nessuno si occupa dell’insieme.
Eppure proprio attraverso questa anarchia il capitalista sente di
dipendere sotto tutti i rispetti da altri, dalla società.
Deve stare al passo con tutti i suoi concorrenti. Se fino alla
vendita definitiva delle sue merci perde più tempo di quello
che sarebbe strettamente richiesto, se non si provvede di denaro
sufficiente per acquistare al momento giusto le materie prime e
tutto il necessario affinché l’impresa nel frattempo non
subisca interruzioni, se non ha cura che il suo denaro, appena lo
ha ripreso in mano dopo la vendita delle merci, non resti inattivo,
ma sia messo a profitto da qualche parte, se non fa tutto questo il
capitalista è sorpassato dagli altri. L’ultimo è morso
dai cani, e il singolo imprenditore che non fa attenzione che i suoi
affari, nel continuo andare e venire dalla fabbrica al mercato
delle merci, vadano bene come nella fabbrica stessa, per quanto
possa sfruttare coscienziosamente i suoi operai non potrà
però arrivare al profitto usuale. Una parte del suo profitto
«ben acquistato» andrà a finire chissà
dove, ma non certo nelle sue tasche.
Non basta. Il capitalista può accumulare ricchezze soltanto
se produce merci d’uso. Ma deve produrre proprio quelle specie e
quei tipi di cui la società ha bisogno, e solo nella
quantità di cui la società ha bisogno. Altrimenti le
merci restano invendute e il plusvalore che vi è riposto va
di nuovo in fumo. Ma come può sapere tutto ciò il
singolo capitalista? Nessuno gli dice di quali e quanti beni di
consumo la società volta per volta ha bisogno, appunto
perché nessuno lo sa. Noi viviamo appunto in una
società disordinata, anarchica! Ogni singolo imprenditore si
trova nella stessa situazione. Eppure da questo caos, da questa
confusione deve sorgere un qualche insieme che renda possibile tanto
il singolo affare dei capitalisti e il loro arricchimento, quanto il
soddisfacimento dei bisogni della società nel suo complesso e
la continuazione della sua esistenza.
In termini più precisi, dalia confusione che regna nel caos
del mercato si deve ricavare prima di tutto la pos sibilità
della rotazione costante del capitale, la possibilità di
produrre, di vendere, di comprare e di tornare a produrre, processo
in cui il capitale muta continuamente la sua forma, da denaro a
merce e viceversa: queste fasi devono armonizzarsi luna con l’altra,
il denaro deve essere a disposizione come riserva, per approfittare
di ogni congiuntura del mercato favorevole alla compera, per coprire
le spese ordinarie dell’a zienda; d’altra parte il denaro che
progressivamente rifluisce a misura che le merci vengono vendute
deve poter ritornare subito ad essere attivo. A questo punto i
singoli capitalisti, che in apparenza sono del tutto indipendenti
fra loro, si stringono già, di fatto, in una grande
fratellanza, anticipandosi continuamente l’un l’altro il denaro necessario mediante il sistema del credito, delle
banche, assorbendo il denaro di riserva e rendendo così
possibile, per i singoli come per la società, il processo
ininterrotto della produzione e della vendita delle merci. Il
credito, che l’economia politica borghese non sa spiegare che come
accorta istitu zione per «agevolare il movimento delle merci», Marx lo presenta nel secondo volume della sua opera, ma
proprio di passaggio, come un semplice modo di vita del capitale,
come legame fra le due fasi della vita del capitale: fra la
produzione e il mercato delle merci, e come legame fra i movimenti
apparentemente autonomi dei singoli capitali.
In secondo luogo, nella confusione dei singoli capitali deve essere
mantenuta in moto la rotazione co stante della produzione e del
consumo della società nel suo complesso, e ciò deve
avvenire in modo che restino assicurate le condizioni della
produzione capitalistica: fabbricazione dei mezzi di produzione,
man tenimento della classe operaia, arricchimento progressivo della
classe capitalistica, vale a dire crescente accumulazione e
attivizzazione del capitale complessivo della società. Come
l’insieme risulti dagli innu merevoli movimenti divergenti dei
singoli capitali, come questo movimento dell’insieme attraverso
continue deviazioni ora nella sovrabbondanza della congiuntura
più favorevole, ora nel collasso della crisi, venga
però sempre ricondotto nei suoi giusti rapporti per
ritornare subito dopo ad uscirne; come da tutto ciò risulti
su scala sempre più vasta quello che per la società
attuale è solo il mezzo: il proprio mantenimento congiunto
col progresso economico, e quello che è il suo scopo: la
progressiva accumulazione di capitale; tutti questi punti sono stati
se non risolti definitivamente da Marx nel secondo volume della sua
opera, certo da lui impostati, per la prima volta dopo cento anni,
dopo Adam Smith, sulle solide basi di leggi sicure.
Ma con tutto ciò il compito spinoso del capitalista non
è ancora esaurito. Infatti, dopo che il profitto è
diventato e mentre diventa oro in misura crescente, sorge la grossa
questione di come la preda debba essere ripartita. Gruppi affatto
diversi avanzano le loro pretese: oltre l’imprenditore il
commerciante, il capitalista del credito, il proprietario fondiario.
Tutti costoro hanno reso possibile, ciascuno per la sua parte, lo
sfruttamento dell’operaio salariato e la vendita delle merci da lui
prodotte, e ora richiedono la loro parte di profitto. Ma questa
ripartizione è un compito molto più complicato di
quello che potrebbe sembrare a prima vista. Infatti anche fra gli
imprenditori, secondo la specie dell’impresa, esistono grandi
differenze nel profitto realizzato, così come esso esce, per
così dire, appena attinto dalla fabbrica.
In un ramo di produzione la fabbricazione delle merci e la loro
vendita vengono effettuate molto rapida mente, e il capitale
ritorna aumentato in brevissimo tempo; si può impiegare alla
svelta per nuovi affari e nuovi profitti. In un altro ramo il
capitale è immobilizzato per anni nella produzione e non
porta profitto che dopo lungo tempo. In certi rami l’imprenditore
deve investire la massima parte del suo capitale in mezzi di
produzione morti: edifici, macchine costose ecc., che di per
sé non producono nulla, non generano profitto, per quanto
siano necessari per produrre il profitto. In altri rami
l’imprenditore può impiegare il suo capita le, con una spesa
modestissima, principalmente per reclutare operai, ciascuno dei
quali è per lui la brava gallina che gli depone uova d’oro.
Così nella stessa produzione del profitto sorgono grandi
differenze fra i singoli capitali, che agli occhi della
società borghese rappresentano una «ingiustizia» molto più clamorosa della singolare «
ripartizione» fra il capitalista e l’operaio. Come si
può arrivare a un accomodamento, a una «giusta»
ripartizione della preda, in modo che ad ogni capitalista tocchi
«il suo»? E tutti questi compiti per di più
devono essere risolti senza nessuna regola cosciente, pianificata.
Infatti la distribuzione nella società odierna è
anarchica come la produzione; anzi, non avviene alcuna vera e
propria «distribuzione», secondo una qualsiasi
disposizione sociale: avviene solo lo scambio, solo la circolazione
delle merci, solo la compra e vendita. Come fa dunque ogni strato di
sfruttatori, e fra loro ogni singolo, ad ottenere col solo mezzo del
cieco scambio delle merci una porzione «giusta» (dal
punto di vista del dominio capitalistico) della ricchezza attinta
dalla forza-lavoro del proletariato?
A queste domande Marx risponde nel suo terzo volume. Dopo aver
analizzato, nel primo volume, la pro duzione del capitale e con
ciò il segreto della produzione del profitto, dopo aver
mostrato, nel secondo volume, il movimento del capitale fra la
fabbrica e il mercato delle merci, fra la produzione e il consumo
della società, nel terzo volume esamina la divisione del
profitto. L’esame è sempre condotto, anche qui, tenendo fermi
tre presupposti fondamentali: che tutto ciò che avviene nella
società capitalistica si svolge in maniera non arbitraria,
cioè secondo determinate leggi, che agiscono regolarmente,
anche se a completa insaputa degli interessati; in secondo luogo che
i rapporti economici non sono fondati sui metodi violenti della rapina e del furto; e infine che nessuna ragione sociale
esercita la sua influenza sull’insieme nel senso di una
pianificazione. Con perspicua logica e chiarezza Marx svolge
successivamente tutti i fenomeni e i rapporti dell’economia
capitalistica, muovendo esclusivamente dal meccanismo dello scambio,
cioè dalla legge del valore e dal plusvalore da essa dedotto.
Se si considera la grande opera nel suo complesso, si può
dire che il primo volume con la spiegazione della legge del valore,
del salario e del plusvalore mette a nudo le fondamenta della
società odierna, il secondo e il terzo volume mostrano i
piani dell’edificio che su di essa poggia. Oppure, con un’immagine
del tutto diversa, si potrebbe anche dire che il primo volume ci
mostra il cuore dell’organismo sociale, in cui è prodotta la
linfa vitale, il secondo e il terzo volume mostrano la circolazione
del sangue e il nutrimento di tutto l’organismo fino alle estreme
cellule epidermiche.
Per quanto riguarda il contenuto, il secondo e terzo volume ci fanno
muovere su un piano diverso dal primo. Qui si scopriva la fonte
dell’arricchimento capitalistico nella fabbrica, nella profonda
miniera sociale del lavoro. Nel secondo e terzo volume ci muoviamo
alla superficie, sulla scena ufficiale della società.
Magazzini, banche, borsa, affari finanziari, «agrari
bisognosi» con le loro preoccupazioni affollano qui il
proscenio. Qui l’operaio non ha alcuna parte. E anche nella
realtà egli non si preoccupa di queste cose che si svolgono
dietro le sue spalle, dopo che gliele hanno da ce di santa ragione;
e anche nella realtà, nella ressa chiassosa della gente
occupata, noi incontriamo gli operai soltanto quando, sul far
dell’alba, si affrettano in frotte alle loro fabbriche e quando, sul
far della sera, le fabbriche li risputano fuori in lunghe file.
Può darsi quindi che non appaia chiaro quale interesse
possano avere per gli operai le svariate preoccupa zioni private
dei capitalisti nella corsa al profitto, e le loro contese per la
divisione della preda. Ma in realtà il secondo e il terzo
volume del Capitale sono necessari quanto il primo per conoscere
esaurientemente l’odierno meccanismo economico. Essi non hanno
certo, come il primo, un valore storico così decisivo e
fondamentale per il movimento operaio moderno; ma contengono un
grandissimo numero di osservazioni penetranti che hanno un valore
inestimabile anche per la preparazione ideologica del proletariato
alla lotta pratica. Ne diamo soltanto un paio di esempi.
Nel secondo libro, accanto alla questione di come dal dominio
caotico dei singoli capitali possa risultare il mantenimento
regolare della società, Marx tocca naturalmente anche la
questione delle crisi. Non ci si può attendere qui una
trattazione sistematica e dottrinale delle crisi, ma solo qualche
rapida ossservazione: ma il trarne partito sarebbe di grande utilità per gli
operai illuminati e coscienti. Tra i temi di propaganda più
radicati nell’agitazione socialdemocratica e soprattutto sindacale
c’è la affermazione secondo cui le crisi hanno origine prima
di tutto per la miopia dei capitalisti che non vorrebbero
assolutamente capire che le masse dei loro operai sono i loro
migliori clienti, e che basterebbe pagare loro i salari più
alti per conservarsi una clientela che avrebbe possibilità di
comprare e per sventare il pericolo di crisi.
Per quanto popolare sia questa idea, essa è completamente
sbagliata, e Marx la confuta con le seguenti parole: «E’ una
pura tautologia, dire che le crisi hanno origine per la mancanza di
consumo in grado di pa gare, o di consumatori in grado di pagare.
Il sistema capitalistico non conosce altri consumatori che quelli
che pagano, eccettuati quelli mantenuti dalla carità pubblica
e i ladri. Se delle merci sono invendibili, ciò non
significa altro se non che per esse non si sono trovati compratori
in grado di pagare, dunque consumatori. Ma se a questa tautologia si
vuol dare l’apparenza di un fondamento più profondo,
affermando che la classe operaia riceve una parte troppo limitata
del prodotto del proprio lavoro e che quindi l’inconveniente sarebbe
riparato se essa ne ottenesse una parte maggiore e il suo salario di
conseguenza aumentasse, allora basta osservare che ogni crisi
è sempre preparata da un periodo in cui il salario
generalmente sale e la classe operaia ottiene una partecipazione
relativamente maggiore alla parte del prodotto annuo che è
destinata al consumo. Dal punto di vista di questi paladini del
sano e ‘semplice’ buon senso, quel periodo dovrebbe, al contrario,
allontanare le crisi. Sembra dunque che la produzione capitalistica
racchiuda in sé condizioni indipendenti dalla buona o
cattiva volontà, che consentono solo momentaneamente quella
relativa prosperità della classe operaia, che poi non
è mai altro che la procellaria che annuncia una crisi».
Le dimostrazioni del secondo e terzo volume conducono infatti a
vedere più addentro nell’essenza delle crisi, che risultano
essere niente altro che conseguenze inevitabili del movimento del
capitale, di un movi mento che nel suo slancio impetuoso e
implacabile verso l’accumulazione e l’accrescimento, suol tendere
subito a superare ogni barriera del consumo, anche se questo
consumo viene molto allargato mediante l’aumento delle capacità d’acquisto di un singolo strato
sociale o la conquista di mercati di vendita completamente
nuovi. Allora deve essere abbandonata l’idea, che fa capolino
dietro quel diffuso motivo d’agitazione sindacale, dell’armonia
d’interesse fra capitale e lavoro, idea che verrebbe disconosciuta
solo per la miopia degli imprenditori, e deve essere pure
abbandonata ogni speranza di assestare e attenuare l’anarchia
caotica del capitalismo. La lotta per l’elevamento materiale dei
proletari salariati ha a disposi zione infinite armi teoriche
troppo buone per avere bisogno di un argomento teoricamente
insostenibile e praticamente equivoco.
Un altro esempio. Nel terzo volume Marx dà per la prima volta
una spiegazione scientifica di quel fenomeno, osservato con
meraviglia e perplessità dall’economia politica fin dal suo
sorgere, per cui in tutti i rami di produzione i capitali, per
quanto investiti sotto diverse condizioni, rendono di solito il
cosiddetto profitto
«usuale». A prima vista questo fenomeno sembra
contraddire una spiegazione che lo stesso Marx ha dato, cioè
la spiegazione della ricchezza capitalistica come derivante
unicamente dal lavoro non pagato del proletariato salariato. Come
accade infatti che il capitalista che deve investire, in mezzi di
produzione morti, relativamente grosse porzioni del suo capitale,
ottiene lo stesso profitto del suo collega che ha meno spese di
questo genere e può quindi mettere all’opera più
lavoro vivo?
Marx risolve questo enigma con semplicità sorprendente,
dimostrando come per la vendita di una sorta di merce al di sopra
del suo valore, e di un’altra al di sotto del suo valore, le
differenze del profitto si pareggi no e ne risulti un «
profitto medio» uguale per tutti i rami della produzione.
Senza che i capitalisti ne abbiano il sospetto, senza nessun accordo
cosciente fra loro, nello scambio delle loro merci essi agiscono in
modo da portare allo stesso mucchio, in un certo senso, il
plusvalore che ciascuno di loro ha attinto dal lavoro dei suoi
operai, e da dividere fraternamente fra loro tutto il raccolto
dello sfruttamento, dando a ciascuno secondo la grandezza del suo
capitale. Il singolo capitalista dunque non gode del profitto da lui
prodotto personalmente, ma soltanto della quota che gli spetta dei
profitti conseguiti da tutti i suoi colleghi.
«I singoli capitalisti si comportano in questo, per quel che
riguarda il profitto, come semplici soci azionisti di una
società per azioni, in cui le partecipazioni al profitto
vengono ripartite in percentuali uguali e quindi sono diverse per i
diversi capitalisti soltanto in base alla grandezza del capitale
che ciascuno ha investito nell’impresa complessiva, secondo la sua
relativa partecipazione all’impresa complessiva».
Questa legge del «tasso medio del profitto»,
apparentemente così arida, come permette di penetrare
profondamente con lo sguardo nelle solide fondamenta materiali della
solidarietà di classe dei capitalisti che, per quanto nella
pratica quotidiana siano come fratelli in guerra fra loro, di fronte
alla classe operaia formano però come una lega di massoni nel
modo più vivo e personale interessata al suo sfruttamento
totale! Senza che i capitalisti, come naturale, siano minimamente
consapevoli di queste leggi economiche obiettive, nel loro istinto
infallibile di classe dominante si manifesta però un senso
dei loro interessi di classe e della loro opposizione al
proletariato, che purtroppo si conserva attraverso tutte le
tempeste della storia più fermo della coscienza di classe
del proletariato, illuminata e fondata scientificamente proprio
grazie alle opere di Marx ed Engels.
Questi due esempi, brevi e presi a caso, possono dare un’idea di
quanti nascosti tesori di stimolo intellet tuale e di
approfondimento per gli operai progrediti si trovino ancora negli
ultimi due volumi del Capitale e attendano un’esposizione
divulgativa. Incompiuti come sono, offrono qualche cosa di
infinitamente più prezioso di ogni compiuta verità:
l’incitamento al pensare, alla critica e all’autocritica, che
è l’elemento più originale della dottrina che Marx ha
lasciato.
14.4 Le accoglienze al
«Capitale»
La speranza espressa da Engels dopo il compimento del primo volume,
che Marx una volta «liberatosi dall’incubo» si sarebbe
sentito un altro, si compì solo in parte.
La salute di Marx non ebbe un miglioramento stabile, e anche le sue
condizioni economiche rimasero in uno stato di penosa incertezza. In
quel tempo egli meditò seriamente il progetto di trasferirsi
a Ginevra, dove poteva vivere con una spesa molto minore, ma il
destino lo legò per il momento a Londra, ai tesori del
British Museum; sperava in un editore per una traduzione inglese
della sua opera e non poteva né voleva cedere le direzione teorica dell’Internazionale prima che essa si
fosse avviata su binari sicuri.
Una gioia familiare gli procurò il matrimonio della sua
seconda figlia Laura con Paul Lafargue, il suo «studente di
medicina creolo». I due giovani si erano già fidanzati
nell’agosto del 1866, ma prima di pensare al matrimonio il fidanzato
doveva terminare i suoi studi di medicina. Per aver partecipato a
un congresso di studenti a Liegi, Lafargue era stato espulso per due
anni dall’Università di Parigi ed era andato a Londra per
conto dell’Internazionale; come seguace di Proudhon non aveva alcuna
relazione stretta con Marx e si era presentato in casa sua per una
pura cortesia, con un biglietto di raccomandazione di Tolain.
Tuttavia accadde come spesso suole accadere. «Il giovane
s’era attaccato prima a me — scrisse Marx ad Engels dopo il
fidanzamento — ma presto l’attrazione passò dal vecchio alla
figlia. Le sue condizioni economiche sono di livello medio,
poiché è l’unico figlio di una famiglia di ex
piantatori»[i]13. Marx lo descrisse all’amico come un bel
giovane, intelligente, energico e fisicamente ben sviluppato, un
tipo buono come il pane, soltanto viziato e troppo selvaggio.
Lafargue era nato a Santiago nell’isola di Cuba, ma fin
dall’età di nove anni era venuto in Francia. Da parte della
madre di suo padre, una mulatta, aveva sangue negro nelle vene, e
di questo particolare, di cui egli stesso parlava volentieri, davano
testimonianza il colore opaco della sua pelle e il bianco dei grandi
occhi sul viso che del resto aveva un taglio regolare. Questa
mescolanza di sangue era forse il motivo di una certa testardaggine
che induceva Marx a farsi spesso beffe, tra irritato e scherzoso,
del suo «cranio di negro ». Ma il tono di bonaria canzonatura con cui si trattavano a
vicenda dimostrava soltanto che s’intendevano perfettamente. In
Lafargue Marx non aveva trovato soltanto il genero che faceva la
felicità della figlia, ma anche un capace e valido aiuto, un
fedele custode della sua eredità spirituale.
Ma la sua preccupazione principale rimase il successo del suo libro.
Il 2 novembre 1867 egli scriveva a Engels: «Il destinò
del mio libro mi rende inquieto. I tedeschi sono buona gente. Le
loro prestazioni servili agli inglesi, ai francesi e perfino agli
italiani in questo campo li autorizzano in effetti a ignorare la
mia storia. I nostri di laggiù di agitazione non capiscono
un’acca. Pertanto si dovrà fare come i russi: aspettare. La
pazienza è il nocciolo della diplomazia e dei successi russi.
Ma noialtri, che si vive solo una volta, possiamo creparci sopra»[ii]14. L’impazienza che traspare da queste righe era
comprensibilissima, ma non del tutto giustificata.
Quando Marx scriveva così, non erano ancora passati due mesi
da quando il libro era uscito, e in un termine di tempo così
breve non si poteva scrivere una critica a fondo. Però, per
quanto si trattava non del lavoro in profondità, ma del
«far chiasso», che per Marx era, in un primo tempo,
anche la cosa più necessaria per le ripercussioni in
Inghilterra, Engels e Kugelmann si dettero tutto il da fare
umanamente possibile, senza che si potesse far loro il rimprovero di
un eccesso di zelo. Ebbero invero successi non trascurabili. Essi
riuscirono a collocare annunci della prossima pubblicazione del
libro e a far riprodurre la prefazione in un considerevole numero di
giornali anche borghesi. Avevano pronta persino una bomba
reclamistica, secondo le idee del tempo, un articolo biografico su
Marx col suo ritratto, da pubblicare sulla Gartenlaube, quando Marx
stesso li pregò di astenersi da questo «spasso». «Ritengo simili cose piuttosto dannose che utili, e
al di sotto del carattere di un uomo di scienza. Per esempio, il
Meyers Konversationslexikon da parecchio tempo mi ha richiesto per
iscritto una biografia. Non solo non l’ho fornita, ma non ho nemmeno
risposto alla lettera. Ognuno deve andare in paradiso a modo
suo»[iii]15. L’articolo di Engels destinato alla Gartenlaube —
che l’autore stesso definì «foglio di carta
raffazzonato nella maggior fretta in forma il più possibile
da Beta»[iv]16 — apparve quindi nella Zukunft, l’organo di
Johann Jacoby, che Guido Weiss pubblicava a Berlino dal 1867, ma
ebbe poi la sorte singolare di essere riprodotto, abbreviato, da
Liebknecht sul Demokratisches Wochenblatt, tanto che Engels
osservò stizzosamente: «Wilhelm ora è caduto
tanto in basso che non gli è più neanche permesso di
dire che Lassalle ti ha copiato e copiato male. Con ciò tutta
la biografia ha avuto i testicoli tagliati, e a che scopo la stampi
poi ancora, lo può sapere solo lui». Come
è noto, le frasi omesse contenevano precisamente l’opinione
dello stesso Liebknecht; solo che non voleva offendere un certo
numero di lassalliani che si erano appunto staccati da Schweitzer e
giusto allora
contribuivano a formare la frazione eisenachiana. Si vede che non
soltanto i libri, ma anche gli articoli hanno il loro destino.
Tuttavia, se non proprio nei primi mesi, poco tempo dopo Marx ebbe
alcune buone recensioni del suo libro. Una di Engels sul
Demokratisches Wochenblatt, poi di Schweitzer sul Sozialdemokrat e
di Joseph Dietzgen, ancora sul Demokratisches Wochenblatt. A parte
Engels, sul cui giudizio non occorre dir niente, Marx riconobbe .che
anche Schweitzer, nonostante alcuni errori, s’era sgobbato il libro
e sapeva dove si trovavano i punti decisivi, e in Dietzgen, di cui
sentì parlare per la prima volta solo dopo la pubblicazione
del libro, salutò, senza per aitro sopravvalutarlo una mente
dotata di capacità filosofiche.
Sempre nel 1867 si fece sentire anche il primo
«specialista». Era Dühring, che recensì il libro
negli Ergàn zungsblatter[vi]18 di Meyer; non aveva capito,
come disse Marx, gli elementi del tutto nuovi del libro, ma la
critica era tale da non lasciare insoddisfatto Marx. La
definì persino «assai decente», pur supponendo
che Dühring avesse scritto non tanto per interesse e intelligenza
dell’argomento, quanto per odio contro Roscher e altri grandi
dell’università. Engels dette fin dal primo momento un
giudizio più sfavorevole del l’articolo di Dühring, e ben
presto si vide che aveva l’occhio più acuto, quando Dühring
fece un voltafaccia e si mise con tutte le forze a denigrare il
libro.
Con altri «specialisti» Marx fece delle esperienze
altrettanto tristi; ancora otto anni dopo, uno di questi
galantuomini, che per prudenza tenne celato il suo nome,
sputò questa edificante sentenza oracolare: che Marx, come
«autodidatta», non si era accorto del lavoro scientifico
di tutta una generazione. Date queste e simili uscite, l’asprezza
con cui Marx soleva parlare di questa gente era pienamente
giustificata. Solo che forse attribuiva troppo alla loro cattiva
volontà, e troppo poco alla loro ignoranza. Il suo metodo
dialettico infatti era incomprensibile per loro. Ciò si
vedeva soprattutto nel fatto che anche uomini che non mancavano di
buona volontà né di conoscenze economiche si
raccapezzavano con difficoltà nel libro, mentre, all’inverso
uomini che non erano per niente pratici di questioni economiche ed
erano più o meno ostili al comunismo, ma che avevano qualche
nozione della dialettica hegeliana, ne parlavano con grande
entusiasmo.
Quindi Marx giudicava con durezza ingiustificata la seconda
edizione dell’opera di F. A. Lange sulla que stione operaia, in
cui l’autore si occupava estesamente del primo volume del Capitale:
«Il signor Lange mi fa grandi elogi, ma allo scopo di darsi
lui stesso dell’importanza»[vii]19. Questo non era certamente
lo scopo di Lange, il cui sincero interesse per la questione operaia
era superiore a qualsiasi dubbio. Invece Marx aveva certamente
ragione nel dire che in primo luogo Lange non capiva niente del
metodo hegeliano e che quindi, in secondo luogo, tanto meno capiva
nel modo critico con cui Marx lo applicava. In effetti Lange
capovolgeva le cose, quando affermava che, quanto alla base
speculativa, Lassalle era più libero e indipendente rispetto
a Hegel di quanto fosse Marx, che per la forma speculativa si
sarebbe attenuto stret tamente alla maniera del modello filosofico
e in parecchie parti dell’opera — come nella teoria del valore, alla
quale Lange non voleva assegnare alcuna importanza duratura —
sarebbe riuscito a fatica a farvela penetrare.
Ancora più curioso fu il giudizio di Freiligrath sul primo
volume, che Marx gli aveva mandato in regalo. I rapporti di amicizia
fra i due erano continuati dal 1859, anche se occasionalmente erano
stati turbati per colpa di terze persone. Freiligrath era in
procinto di far ritorno in Germania, dove la nota raccolta di denaro
gli aveva assicurato una vecchiaia senza preoccupazioni, dopo che,
quasi sessantenne, era stato ridotto alla fame dallo scioglimento
della filiale di banca da lui diretta. L’ultima lettera che egli
mandò al vecchio amico (dopo non si sono più scritti)
era un cordiale augurio per le nozze del giovane Lafargue e un
ringrazia mento non meno cordiale per il primo volume del Capitale.
Freiligrath assicurava di avere attinto dallo studio del libro i
più diversi insegnamenti, il più ampio godimento;
aggiungeva che il successo forse non sarebbe stato né troppo
rapido né troppo clamoroso, ma che l’effetto intimo sarebbe
stato perciò tanto più profondo e duraturo. «So
che sul Reno molti giovani commercianti e proprietari di fabbriche
si entusiasmano del libro. In questi ambienti adempirà al suo
vero scopo, inoltre sarà indispensabile allo scienziato come
opera di consultazione»[viii]20. Freiligrath definiva se
stesso «economista col cuore» e non gli erano mai
andate a genio le «hegelianerie» ma per quasi due
decenni aveva vissuto in mezzo al traffico mondiale di Londra, e quindi fu un’uscita assai sorprendente, questa affermazione di
non vedere altro, nel primo volume del Capitale, che un manuale per
giovani commercianti o al massimo un’opera scientifica di
consultazione.
Completamente diverso fu il giudizio di Ruge, che era nemico
dichiarato del comunismo e non aveva conoscenze di economia, ma che
un tempo si era fatto le ossa come giovane hegeliano. «E’
un’opera che fa epoca e spande una luce brillante, spesso
penetrante, sullo sviluppo, sulle rovine e le doglie e sui giorni di
tremendo dolore dei periodi della società. Le dimostrazioni
sul plusvalore attraverso il lavoro non pagato, sulla espropriazione
degli operai che lavoravano per conto proprio e sulla imminente
espropriazione degli espropriatoti sono classiche. Il libro supera
l’orizzonte di molti uomini e giornalisti; ma esso si
affermerà certamente ed eserciterà, nonostante l’ampia
impostazione, anzi proprio per questa, un effetto potente» Un
giudizio simile dette Ludwig Feuerbach, solo che data la sua
formazione, non si interessava tanto della dialettica dell’autore
quanto dell’«opera ricca di dati di fatto incontestabili, di
una specie quanto mai interessante ma anche atroce», che
doveva comprovare la sua filosofia morale: dove manca il necessario
per vivere, manca anche la necessità morale.
La prima traduzione del primo volume apparve in Russia. Già
il 12 ottobre del 1868 Marx annunciò a Kugelmann che un
libraio di Pietroburgo l’aveva sorpreso con la notizia che la
traduzione era già in corso di stampa, e gli aveva chiesto la
sua fotografia per il frontespizio. Marx aggiungeva che non poteva
rifiutare questa piccolezza ai suoi «buoni amici», i
russi; e che era un’ironia del destino che i russi, da lui
combattuti senza tregua da 25 anni, e non solo in tedesco, ma anche
in francese e in inglese, fossero sempre stati suoi «fautori»: anche il suo scritto contro Proudhon e la sua Critica
dell’economia politica non avevan trovato da nessuna parte uno
smercio maggiore che in Russia; ma non voleva farci molto caso: era
pura ghiottoneria, quella di afferrare sempre ciò che di
più estremo forniva l’occidente.
La cosa però non stava così. La traduzione non
uscì prima del 1872, ma fu un’impresa seria, scientifica, che
riuscì «magistralmente», come riconobbe Marx
stesso dopo che fu finita. Il traduttore era Danielson, noto col suo
nome di scrittore Nikolai, e con lui, per alcuni dei capitoli
più importanti, il giovane e corag gioso rivoluzionario
Lopatin, «una testa molto sveglia, critica, carattere sereno,
stoico come un contadino russo, che prende lietamente tutto
ciò che trova»: così lo descriveva Marx,
quando Lopatin gli fece visita nell’estate del 1870. La censura
russa aveva dato il permesso per la pubblicazione della traduzione
con la motivazione seguente: «Nonostante che l’autore per le
sue convinzioni sia un perfetto socialista, e tutto il libro abbia
un carattere socialista perfettamente definito; tuttavia,
considerato che non si può affermare che l’esposizione sia
accessibile a tutti e che d’altra parte essa è in forma di
dimostrazione scientifica stret tamente matematica, il Comitato
dichiara che è impossibile perseguire quest’opera a termini
di legge». La traduzione uscì il 27 marzo 1872, e il
25 maggio erano già stati venduti 1000 esemplari, un terzo
dell’intera tiratura.
Nel medesimo tempo cominciò ad uscire una traduzione
francese, e proprio mentre usciva la seconda edizione dell’originale
tedesco, a dispense. Era opera di J. Roy, con la strettissima
collaborazione dello stesso Marx, che dovette fare perciò un
«lavoro del diavolo», tanto che più volte si
lamentò di dover lavorare più che se si fosse messo da
solo a fare la traduzione. In compenso potè dare ad essa un
valore scientifico particolare, anche di fronte all’originale.
In Inghilterra il primo volume del Capitale ebbe un successo
più limitato che in Germania, in Russia e in Francia. Sembra
che sia stato oggetto di una sola recensione sulla Saturday Review,
che elogiava l’esposizione in quanto metteva uno speciale fascino
nella più aride questioni economiche. Un lungo articolo che
Engels aveva scritto per la Fortnightly Review fu respinto dalla
redazione perché «troppo arido», nonostante che
Beesly, che era in stretta relazione con questa rivista, si fosse
adoprato per farlo accettare. Una traduzione inglese, da cui Marx
tanto si riprometteva, non fu mai fatta in vita di Marx.