CAPITOLO 13
Gli inizi dell’Internazionale
13.1 La fondazione
Qualche settimana dopo la morte di Lassalle, il 28 settembre, 1864,
in un grande meeting in St. Martin’s Hall, a Londra, fu fondata
l’Associazione Internazionale degli Operai.
Non era opera di un singolo, non era un «piccolo corpo con
una grossa testa», non era una banda di congiurati senza
patria; non era né una vana ombra né un mostro
spaventoso, come asseriva, con grazioso avvicendarsi, la fantasia
degli araldi capitalisti punta da cattiva coscienza. Corrispondeva
piuttosto a uno stadio transitorio della lotta di emancipazione del
proletariato, e la sua essenza storica determinò tanto la sua
necessità quanto la sua transitorietà.
Il modo di produzione capitalistico, che è in se stesso
contraddittorio, genera gli Stati moderni e insieme li distrugge.
Accentua al massimo i contrasti nazionali, ma trasforma anche tutte
le nazioni secondo la propria immagine. Sul suo terreno questo
contrasto è insolubile, e per causa sua sempre ha fatto
fallimento la fratellanza dei popoli tanto proclamata e decantata
dalla rivoluzione borghese. Mentre predicava libertà e pace
fra le nazioni, la grande industria faceva di questo mondo un campo
di battaglia quale nessun periodo precedente della storia aveva mai
visto.
Ma al modo di produzione capitalistico è strettamente unita
anche la sua contraddizione interna. Senza dubbio la lotta di
emancipazione del proletariato può svilupparsi soltanto sul
terreno nazionale: poiché il processo di produzione
capitalistico si compie all’interno di barriere nazionali, ogni
proletariato si trova anzitutto di fronte alla propria borghesia. Ma
il proletariato non soggiace alla lotta inesorabile della concorrenza, che prepara una fine così rapida e repentina a tutti i
sogni di libertà e di pace internazionale della borghesia.
Appena gli operai comprendono che devono far cessare la concorrenza
nelle loro stesse file, per opporre una resistenza efficace al
dominio del capitale (e questo lo comprendono appena si desta la
loro coscienza di classe) resta ormai solo un passo per arrivare
alla cognizione più profonda che anche la concorrenza fra le
classi operaie dei diversi paesi deve cessare, e anzi è
necessario il loro comune concorso per infrangere il dominio
internazionale della borghesia.
La tendenza internazionale si affermò quindi assai presto nel
movimento operaio moderno. Ciò che l’intelletto borghese,
barricato nel suo interesse economico, non poteva interpretare che
come sentimento antipatriottico e mancanza di istruzione e di
intelletto, non era altro che una condizione vitale della lotta di
emancipazione del proletariato. Ma se questa lotta può e deve
risolvere anche il dissidio fra tendenza nazionale e
internazionale, nel quale si contorce eternamente la borghesia, non
per questo essa dispone di una bacchetta magica, per trasformare la
sua ascesa aspra e dura in una strada piana e facile. La classe
operaia moderna lotta in condizioni che le sono imposte dallo
sviluppo storico, che non possono essere oltrepassate di slancio con
un assalto violento, ma solo esser superate attraverso la loro
comprensione, nel senso del motto hegeliano: comprendere significa
superare.
Questa comprensione fu resa estremamente difficile dal vario
coincidere e sovrapporsi degli inizi del mo vimento operaio
europeo, in cui subito si espresse la sua tendenza internazionale,
con la costituzione di grandi Stati nazionali, creati proprio dal
modo capitalistico di produzione. Poche settimane dopo che il
Manifesto comunista ebbe proclamato l’unità d’azione del
proletariato in tutti i paesi civili come presupposto indispensabile
per la sua emancipazione, scoppiò la rivoluzione del 1848,
che in Inghilterra e in Francia mi se già di fronte
borghesia e proletariato come potenze nemiche, ma in Germania e in
Italia fece divampare soltanto lotte d’indipendenza nazionale. E’
vero che allora il proletariato con la sua partecipazione attiva
riconobbe, com’era perfettamente giusto, che queste lotte
d’indipendenza, se non erano affatto il suo fine ultimo erano
però una tappa verso di esso; il proletariato dette ai
movimenti nazionali in Germania e in Italia i combattenti più
coraggiosi, e questi movimenti non hanno mai ricevuto suggerimenti
migliori di quelli della Neue Rheinische Zeitung, che era pubblicata
dagli autori del Manifesto comunista. Ma la lotta nazionale
naturalmente ricacciò indietro l’idea internazionale,
soprattutto quando in Germania e in Italia la borghesia
cominciò a rifugiarsi sotto la protezione di baionette
reazionarie. In Italia si organizzarono società operaie di
mutuo soccorso sotto la bandiera tutt’altro che socialista, ma
almeno repubblicana, di Mazzini, e nella più progredita
Germania, dove gli operai già dai tempi di Weitling non erano
ignari dei legami internazionali della loro causa, si arrivò
a una decennale guerra civile, appunto a motivo della questione
nazionale.
Diversamente stavano le cose in Francia e in Inghilterra, dove
l’unità nazionale era da lungo tempo assi curata quando
cominciò il movimento proletario. Qui l’idea internazionale
era molto vitale già prima del quarantotto: Parigi era
considerata la capitale della rivoluzione europea, e Londra era la
metropoli del mercato mondiale. Eppure anche qui, dopo le sconfitte
del proletariato, l’idea internazionale perse più o meno
terreno.
Lo spaventoso salasso della battaglia di giugno paralizzò la
classe operaia francese, e la ferrea oppressione del dispotismo
bonapartista impedì la sua organizzazione, tanto sindacale
che politica. Essa ricadde nella confusione prequarantottesca delle
sette, donde emersero con più chiarezza due tendenze fra le
quali in certa misura si ripartiva l’elemento rivoluzionario e
l’elemento socialista. La prima tendenza si ricollegava a Blanqui,
che non aveva un programma propriamente socialista, ma voleva
conquistare il potere politico mediante il colpo di mano di una
minoranza decisa. L’altra tendenza — ed era incomparabilmente la
più forte — era sotto l’influenza ideologica di Proudhon, che
con le sue banche di scambio per istituire un credito gratuito e
simili esperimenti dottrinari si allontanava dal movimento politico;
di questo movimento Marx aveva già detto, nel Diciotto
brumaio, che esso rinunciava a trasformare il vecchio mondo coi
grandi mezzi collettivi che gli erano propri, e cercava piuttosto
di conseguire la propria emancipazione alle spalle della
società, in via privata, entro i limiti delle sue meschine
condizioni d’esistenza.
Uno sviluppo per molti aspetti simile si compì nella classe
operaia inglese dopo il fallimento del cartismo. Il grande utopista
Owen viveva ancora, in età molto avanzata, ma la sua scuola
si insabbiò nei problemi della libertà del pensiero
religioso. Inoltre sorse il socialismo cristiano dei Kingsley e
Maurice il quale, quantunque non vada messo in un sol fascio con le
sue caricature continentali, con tutte le sue aspirazioni culturali
e sociali non voleva però saperne di lotta politica. Ma anche
le associazioni sindacali delle Trade Unions, per cui l’Inghilterra
era più avanzata della Francia, si ostinavano
nell’indifferenza politica e si limitavano a soddisfare i propri
immediati bisogni, ciò che per esse era facilitato dalla
febbrile attività industriale degli anni fra il ’50 e il ’60
e dalla supremazia inglese sul mercato mondiale.
Ma nonostante tutto, in Inghilterra il movimento operaio
internazionale non si era assopito che molto gra dualmente. Se ne
possono seguire le ultime tracce fino alla fine del quinto decennio
del secolo. I Fraternal Democrats avevano trascinato la loro
esistenza fino ai giorni della guerra di Crimea e anche quando essi
ebbero cessato di dar segni di vita sorse un Comitato Internazionale
e poi una Associazione Internazionale, che furono soprattutto
oggetto degli sforzi di Ernest Jones. Certo non avevano acquistato
grande impor tanza, ma pure mostravano che l’idea internazionale
non era del tutto spenta, e che invece sopravviveva in deboli
faville che delle vigorose folate di vento avrebbero potuto
ravvivare, fino a far divampare in fiamme splendenti.
Le ventate che ebbero questo effetto furono, successivamente, la
crisi commerciale del 1857, la guerra del 1859 e soprattutto la
guerra civile che era scoppiata nel 1860 fra gli Stati del Nord e
gli Stati del Sud dell’Unione nordamericana. Dopo che la crisi
commerciale del 1857 aveva inferto il primo duro colpo allo
splendore bonapartista in Francia, il tentativo di parare questo
colpo grazie a una riuscita avventura di
politica estera era completamente fallito. La macchina che l’uomo di
dicembre aveva messo in moto gli era sfuggita dalle mani da un
pezzo. Il movimento per l’unità italiana era diventato
più grande di lui, e la borghesia francese non si era
lasciata soddisfare dai magri allori delle battaglie di Magenta e di
Solferino. Per smorzare la crescente arroganza, veniva più
che naturale il pensiero di accordare un più largo campo
d’azione alla classe operaia; anzi, la possibilità
d’esistenza del Secondo Impero dipendeva proprio dal riuscire a
tenere in scacco reciproco borghesia e proletariato.
Naturalmente Bonaparte non pensava a concessioni politiche, ma
sindacali. Proudhon, che negli ambien ti operai francesi godeva di
un’influenza relativamente grande, era un avversario dell’Impero,
per quanto parecchie delle sue trovate paradossali potessero dar
l’impressione del contrario, ma era anche un avver sario dello
sciopero. Questo però era il punto che sembrava urtare di
più gli operai francesi. Nonostante i tentativi di
dissuasione di Proudhon e il rigoroso divieto di coalizione, dal
1853 al 1866 non meno di 3.909 operai furono condannati per avere
partecipato a 749 coalizioni. Il falso Cesare cominciò col
graziare i condannati. Poi appoggiò l’invio di operai
francesi all’Esposizione Mondiale di Londra del 1862, e anzi non si
può negare che abbia realizzato quest’idea ingegnosa in
maniera molto più sostanziale di quanto abbia fatto nello
stesso tempo l’Unione nazionale tedesca. I delegati dovevano essere
eletti dai loro compagni di categoria professionale; a Parigi furono
creati 50 uffici elettorali per 150 categorie che in complesso man
darono a Londra 200 rappresentanti; a parte una sottoscrizione
volontaria, le spese furono sostenute dalla cassa imperiale e dalla
cassa municipale, ciascuna con 20.000 franchi. Al loro ritorno i
delegati poterono diffondere per mezzo della stampa dei resoconti
particolareggiati, che per lo più andavano parecchio al di
fuori del campo professionale. Data la situazione di allora, questo
era un affare di Stato, che all’animo presago del prefetto di
polizia di Parigi strappò la lagnanza che piuttosto di darsi
a scherzi di questo genere l’imperatore doveva abolire il divieto di
coalizione.
In lealtà i lavoratori non manifestarono al loro interessato
benefattore la gratitudine che pretendeva, ma soltanto quella che
si meritava. Alle elezioni del 1863 furono dati soltanto 82.000 voti
per i candidati del governo, e 153.000 per i candidati
dell’opposizione, mentre alle elezioni del 1857 il governo aveva
avuto dalla sua ancora 111.000 elettori, e la opposizione soltanto
96.000. Si ritenne generalmente che il cambia mento fosse da
attribuire solo in piccola parte allo spostamento della borghesia,
ma soprattutto al mutato atteggiamento della classe operaia, che,
proprio mentre il falso Bonaparte civettava con i suoi interessi,
volle affermare la propria indipendenza, anche se per il momento
continuava a marciare sotto la bandiera del radicalismo borghese.
Questa interpretazione fu confermata quando, per alcune elezioni
suppletive che ebbero luogo a Parigi nel 1864, sessanta operai
presentarono come loro candidato l’incisore Tolain, e pubblicarono
un manifesto nel quale annunciavano il risveglio del socialismo.
Esso diceva che i socialisti avevano senza dubbio imparato dalle
esperienze del passato; che nel 1848 gli operai non erano ancora
arrivati a un programma chiaro; che avevano seguito questa o quella
teoria sociale più per istinto che per riflessione. Ora essi
si tenevano lontani da esagerazioni utopistiche e miravano a
riforme sociali. Di queste riforme Tolain chiedeva libertà di
stampa e di associazione, abolizione del divieto di coalizione,
istruzione obbligatoria e gratuita e soppressione del bilancio del
culto.
Ma Tolain non riuscì a raccogliere che qualche centinaio di
voti. Proudhon, che pure era d’accordo sul contenuto del manifesto,
era però contrario alla partecipazione alle elezioni,
perché gli pareva che deporre le schede bianche fosse una
protesta più energica contro l’Impero; per i blanquisti il
manifesto era troppo moderato, e la borghesia, nelle sue sfumature
liberali e radicali, a parte singole eccezioni, si scagliò
con scherno e disprezzo contro la partecipazione indipendente degli
operai, nonostante che il programma elettorale di Tolain non le
desse ancora proprio nessun motivo d’inquietudine. La cosa aveva un
aspetto molto simile alla situazione tedesca contemporanea.
Incoraggiato da ciò, Bonaparte osò compiere un altro
passo avanti: con una legge del maggio 1864, senza abolire il
divieto delle associazioni professionali (ciò che avvenne
solo quattro anni dopo), soppresse i paragrafi del Code penai che
proibivano la coalizione degli operai per il miglioramento delle
condizioni di lavoro.
In Inghilterra i divieti di coalizione erano già stati
aboliti nel 1825, ma l’esistenza delle Trade Unions non era per
questo garantita, né di diritto né di fatto, e la
massa dei loro membri era priva del diritto di voto politico, che
avrebbe permesso loro di eliminare gli ostacoli legali che rendevano
diffìcile la loro lotta per un più alto livello di
vita. L’ascesa del capitalismo continentale, che troncò un
numero enorme di esistenze, creò loro il pericolo di una
sporca concorrenza. Ogni volta che gli operai inglesi muovevano
all’attacco per l’aumento dei salari o per la riduzione delle ore di lavoro, i capitalisti
minacciavano di importare operai francesi, belgi, tedeschi o di
altri paesi. Poi una scossa particolarmente efficace fu provocata
dalla guerra civile americana: essa causò una crisi del
cotone che ridusse alla più grave miseria gli operai
dell’industria tessile inglese.
Allora le Trade Unions furono scosse dalla loro esistenza
contemplativa. Sorse un nuovo unionismo che era rappresentato
specialmente da provati funzionari delle maggiori Trade Unions:
Allan dei meccanici, Applegarth dei carpentieri, Lucraft dei
falegnami, Cremer dei muratori, Odger dei calzolai ed altri. Questi
uomini riconobbero la necessità della lotta politica anche
per i sindacati. Essi si posero come obiettivo una riforma
elettorale; furono le forze motrici di un gigantesco meeting che
ebbe luogo in St. Martin’s Hall, sotto la presidenza del radicale
Bright, ed elevò una tempesta di proteste contro il piano di
Palmerston per un intervento nella guerra civile americana a favore
degli Stati schiavisti dei Sud, e preparò una festosa
accoglienza a Garibaldi quando egli, nella primavera del 1864, si
recò in visita a Londra.
Il risveglio politico della classe operaia inglese e francese
ridestò l’idea internazionale. Già in occasione
dell’Esposizione Mondiale del 1862 aveva avuto luogo una «
festa dell’affratellamento» fra i delegati fran cesi e gli
operai inglesi. Il legame si strinse ancora di più in seguito
alla sollevazione polacca del 1863. La causa polacca era sempre
stata popolarissima fra gli elementi rivoluzionari dei popoli
civili dell’Europa occidentale; l’oppressione e lo smembramento
della Polonia faceva delle tre potenze orientali una forza
reazionaria; la restaurazione della Polonia era un colpo al cuore
per l’egemonia russa sull’Europa. I Fra ternal Democrats in passato
avevano celebrato regolarmente gli anniversari della rivoluzione
polacca del 1830, con entusiastiche manifestazioni a favore della
nazione polacca, ma anche col sentimento che la restaurazione di una
Polonia libera e democratica era un presupposto necessario per
l’emancipazione del proletariato. Così fu anche nel 1863. Al
meeting polacco di Londra, al quale gli operai francesi avevano
mandato i loro rappresentanti, il motivo sociale fu sentito in
maniera acuta, e costituì anche la nota fon damentale di un
indirizzo rivolto da un comitato di operai inglesi, sotto la
presidenza di Odger, agli operai francesi per ringraziarli della
loro partecipazione al meeting polacco. In particolare l’indirizzo
sottolineava che la sporca concorrenza che il capitale inglese
faceva al proletariato inglese mediante l’importazione di operai
stranieri era possibile soltanto perché mancava un
collegamento sistematico fra le classi operaie di tutti i paesi.
Esso fu tradotto in francese dal professor Beesly (uno studioso, per
più aspetti benemerito della causa operaia, che insegnava
storia all’Università di Londra) e suscitò un
movimento vivace nelle fabbriche di Parigi, che culminò nella
decisione di inviare una deputazione a Londra, a rispondere
personalmente. Per accogliere la delegazione il comitato inglese
convocò per il 28 settembre 1864 un meeting in St. Martin’s
Hall, che si riunì sotto la presidenza di Beesly ed era
affollato da soffocare. Tolain lesse l’indirizzo francese di
risposta, che prendeva le mosse dalla sollevazione polacca («
Ancora una volta la Polonia è stata soffocata col sangue dei
suoi figli, e noi siamo rimasti spettatori impotenti» ) per
chiedere poi che fosse ascoltata la voce del popolo in tutte le
grandi questioni politiche e sociali. Seguitava affermando che il
potere dispotico del capitale doveva essere spezzato; che la
divisione del lavoro aveva fatto dell’uomo uno strumento meccanico,
e che il libero commercio senza la solidarietà degli operai
avrebbe portato una servitù industriale più crudele e
nefasta della servitù infranta nei giorni della Grande
Rivoluzione. Infine che gli operai di tutti i paesi dovevano unirsi
per opporre una barriera insuperabile a un sistema nefasto.
Dopo un vivace dibattito, durante il quale Eccarius parlò per
i tedeschi, su proposta del tradunionista Wheeler il meeting decise
di nominare un comitato con facoltà di aumentare il numero
dei propri membri e di stendere gli statuti per una associazione
internazionale che avrebbero avuto un valore provvisorio,
finché un congresso internazionale, da tenersi in Belgio
l’anno seguente, non avesse preso delle decisioni definitive in
proposito. Il comitato fu eletto: era composto di numerosi
tradunionisti e rappresentanti stranieri della causa operaia. Fra i
rappresentanti tedeschi (il resoconto giornalistico lo nomina per
ultimo) era Karl Marx.
13.2 Indirizzo inaugurale e
statuti
Fino allora Marx non aveva preso parte attiva al movimento. Era
stato invitato dal francese Le Lubez a intervenire in rappresentanza
degli operai tedeschi, e in particolare a designare un operaio
tedesco quale
oratore. Egli propose Eccarius, mentre per parte sua assistè
dalla tribuna senza prender la parola.
Marx aveva un concetto abbastanza alto del suo lavoro scientifico,
per anteporlo a qualsiasi affaccendarsi per creare associazioni che
apparisse fin dall’inizio privo di prospettive; ma lo rimandava
volentieri quando c’era da fare del lavoro utile per il
proletariato. Questa volta capì che erano in gioco delle
«forze effettive». Scrisse a Weydemeyer (e in termini simili ad altri amici):
«Il Comitato internazionale degli operai, di recente
costituito, non è privo di importanza. I suoi membri inglesi
sono per lo più capi delle Trade Unions, quindi i veri
sovrani londinesi degli operai, le stesse persone che prepararono la
grandiosa accoglienza a Garibaldi e che col gigantesco meeting di
St. James Hall (presieduto da Bright) impedirono a Palmerston di
dichiarare guerra agli Stati Uniti, come era sul punto di fare. I
membri francesi sono insignificanti, ma sono organi diretti
dell’avanguardia operaia di Parigi. Esiste pure un collegamento con
le associazioni italiane, che di recente hanno tenuto il loro
congresso a Napoli. Quantunque io abbia rifiutato per anni
sistematicamente di partecipare a qualsiasi organizzazione , questa
volta ho accettato perché si tratta di una faccenda in cui
si può esercitare un’azione considerevole». Marx
vedeva che «evidentemente era in corso una rinascita delle
classi lavoratrici», e ritenne suo primo dovere aprire loro
nuove strade.
Si aggiunse il caso fortunato che per circostanze esterne la
direzione ideologica toccò a lui. Il comitato eletto si
integrò con l’aggiunta di nuove forze: era costituito da una
cinquantina di membri, per metà operai inglesi. Dopo gli
inglesi, la più forte era la Germania, rappresentata da una
decina di membri che, come Marx, Eccarius, Lessner, Lochner,
Pfàn-der, avevano già appartenuto alla Lega dei
Comunisti. La Francia aveva nove rappresentanti, l’Italia sei, la
Polonia e la Svizzera due ciascuna. Dopo la sua costituzione il
comitato nominò un sottocomitato che doveva redigere il
programma e gli statuti.
In questo sottocomitato fu eletto anche Marx ma, indisposto o
informato troppo tardi, fu impedito più volte di partecipare
alle deliberazioni. Nel frattempo il maggiore Wolff, segretario
privato di Mazzini, l’inglese Weston e il francese Le Lubez avevano
provato inutilmente ad assolvere il compito che era stato assegnato
al comitato. Per quanto a quel tempo fosse popolare fra gli operai
inglesi, Mazzini conosceva troppo poco il movimento operaio moderno
per imporsi col suo programma ad esperti tradunionisti. La lotta di
classe del proletariato gli era incomprensibile, e perciò
invisa. Il suo programma arrivava tutt’al più a una
fraseologia socialistica che ormai il proletariato, dopo il ’60,
aveva superato da tempo. Anche i suoi statuti traevano parimente la
loro origine dallo spirito di un tempo passato: redatti alla maniera
rigidamente centrali stica delle società di cospirazione
politica, non tenevano conto in particolare delle condizioni di
vita delle Trade Unions, e in generale delle condizioni di vita di
una lega internazionale degli operai che non doveva creare un nuovo
movimento, ma soltanto collegare il movimento di classe del
proletariato che già esisteva in diversi paesi ma era ancora
disperso. Anche i programmi proposti da Le Lubez e Weston non
andavano al di là di un generico vaniloquio.
La cosa era quindi assai imbrogliata quando Marx la prese nelle sue
mani. Egli decise che «possibilmente non dovesse restare di
quella roba una sola riga»[i]1, e per sbarazzarsene del tutto
redasse un Indirizzo alle classi lavoratrici, specie di rassegna
delle loro vicende dopo il 1848 (che non era stato previsto nel
meeting di St. Martin’s Hall) per poi stendere gli statuti nella
forma più chiara e più breve. Il sottocomitato
accettò subito le sue proposte, inserendo però
nell’introduzione degli statuti qualche frase su «diritto,
dovere, verità, morale e giustizia», che però
Marx seppe collocare, come scrisse a Engels[ii]2, in modo che non
arrecassero nessun danno. Di poi anche il comitato generale
accettò Indirizzo e statuti all’unanimità e con
grande entusiasmo.
Dell’Indirizzo inaugurale[iii]3 disse una volta Beesly che era
probabilmente l’esposizione più potente e pre cisa della
causa operaia contro la classe media che fosse mai stata scritta,
concentrata in una dozzina di paginette. L’Indirizzo cominciava col
sottolineare l’importante dato di fatto che la miseria della classe
ope raia non era diminuita dal 1848 al 1864, sebbene questo periodo
non avesse avuto l’uguale per lo sviluppo dell’industria e per
l’incremento del commercio. Dimostrava questo fatto contrapponendo,
con prove docu mentate, da una parte la spaventosa statistica dei
libri azzurri ufficiali sulla miseria del proletariato inglese,
dall’altra le cifre che il Cancelliere dello Scacchiere Gladstone
aveva prodotto, nel suo discorso sul bilancio, sull’incremento di
potenza e ricchezza, che si sarebbe verificato in quello spazio di
tempo, incremento inebriante ma in tutto e per tutto limitato alle classi possidenti.
L’Indirizzo svelava questo contrasto riferendosi alle condizioni
inglesi, perché l’Inghilterra marciava alla testa
dell’Europa commerciale e industriale, ma aggiungeva che esso
esisteva, con altre sfumature locali e su scala un poco ridotta, in
tutti i paesi del continente dove si sviluppava la grande industria.
L’incremento inebriante di potenza e ricchezza si limitava dovunque
alle classi possidenti, se si eccettua un piccolo numero di operai,
come in Inghilterra, che aveva avuto un certo aumento di salario, ma
compen sato di nuovo da un generale aumento dei prezzi. «
Dappertutto la grande massa delle classi lavoratrici è caduta
più in basso, almeno nella stessa misura in cui le classi che
stanno sopra di esse sono salite nella scala sociale. In tutti i
paesi d’Europa è ora diventata verità dimostrabile a
ogni intelletto libero da pregiu dizi, che viene contestata solo da
coloro che hanno interesse a rinchiudere gli altri in una
felicità illusoria, che nessun perfezionamento delle
macchine, nessuna applicazione della scienza alla produzione, nessun
progresso dei mezzi di comunicazione, nessuna nuova colonia, nessuna
emigrazione, nessuna apertura di nuovi mercati, nessun libero
scambio, né tutte queste cose prese insieme elimineranno la
miseria delle masse lavoratrici; che, anzi, sulla falsa base
presente, ogni nuovo sviluppo delle forze produttive del lavoro
inevitabilmente deve tendere a rendere più profondi i
contrasti sociali, e più acuti gli antagonismi sociali. La
morte per inanizione in questa inebriante epoca di progresso
economico si è quasi elevata, nella metro poli dell’Impero
britannico, al grado di una istituzione permanente. Questa epoca
è contrassegnata, negli annali del mondo, dal ritorno sempre
più frequente, dalla estensione sempre più larga,
dagli effetti sempre più mortali di quella peste sociale che
si chiama crisi economica e industriale».
L’Indirizzo accennava poi alla sconfitta subita dal movimento
operaio negli anni fra il ’50 e il ’60 e rilevava che questo periodo
in compenso aveva avuto anche degli aspetti favorevoli. Erano messi
in speciale rilievo due fatti importanti. Prima di tutto la giornata
legale di dieci ore con le sue conseguenze così salutari per
il proletariato inglese. La lotta per la limitazione legale del
tempo di lavoro toccava direttamente la grave con troversia tra il
cieco dominio delle leggi dell’offerta e della domanda, che
costituiscono l’economia politica della borghesia, e la produzione
sociale regolata dalla previdenza sociale[v]5, che è
l’economia politica della classe operaia. «Perciò la
legge delle dieci ore non fu soltanto un grande successo pratico; fu
la vittoria di un principio. Per la prima volta, alla chiara luce
del giorno, l’economia politica della borghesia soggiaceva
all’economia politica della classe operaia».
Una vittoria ancora maggiore l’economia politica del proletariato
riportò col movimento cooperativo, special mente con le
fabbriche cooperative create dagli sforzi di pochi lavoratori
intrepidi non aiutati da nessuno.
«Il valore di questi grandi esperimenti sociali non
può mai essere apprezzato abbastanza. Coi fatti, invece che
con argomenti, queste cooperative hanno dimostrato che la
produzione su grande scala e in accordo con le esigenze della
scienza moderna, è possibile senza l’esistenza di una classe
di padroni che impieghi una classe di lavoratori; che i mezzi di
lavoro non hanno bisogno, per dare i loro frutti, di essere
monopoliz zati come uno strumento di asservimento e di sfruttamento
del lavoratore; e che il lavoro salariato, come il lavoro dello
schiavo, come il lavoro del servo della gleba, è solo una
forma transitoria e inferiore, destinata a sparire dinanzi al lavoro
associato, che impugna i suoi strumenti con mano volenterosa, mente
alacre e cuore lieto»[vii]7. Tuttavia il lavoro cooperativo,
limitato all’angusta cerchia di tentativi occasionali, non
può rompere il monopolio capitalistico. «Forse
appunto per questa ragione è avvenuto che aristocratici pieni
di buone intenzioni, filantropi borghesi chiacchieroni e persino
economisti d’ingegno sottile hanno coperto im provvisamente di
complimenti stucchevoli quello stesso sistema cooperativo, che
invano avevano cercato di soffocare in germe deridendolo come utopia
di sognatori e bollandolo come sacrilegio di socialisti»[viii]8. Soltanto lo sviluppo del lavoro cooperativo su scala
nazionale — continuava l’Indirizzo — poteva salvare le masse; ma i
signori della terra e del capitale utilizzeranno sempre i loro
privilegi politici per perpetuare i loro monopoli economici.
Perciò il grande compito della classe operaia è
diventato la conquista del potere politico.
Gli operai sembravano aver compreso questo dovere, come dimostrava
il loro simultaneo risveglio in In ghilterra, in Francia, in
Germania e in Italia, i loro sforzi simultanei per riorganizzare
politicamente il partito operaio. «La classe operaia possiede un elemento del
successo, il numero; ma i numeri pesano sulla bilancia solo quando
sono uniti dall’organizzazione e guidati dalla conoscenza.
L’esperienza del passato ha insegnato come il dispregio di quel
legame fraterno, che dovrebbe esistere tra gli operai dei diversi
paesi e spronarli a sostenersi gli uni con gli altri in tutte le
loro lotte per l’emancipazione, venga punito inesora bilmente con
la sconfitta comune dei loro sforzi incoerenti»[ix]9. Questa
idea aveva spinto i partecipanti al meeting di St. Martin’s Hall a
fondare l’Associazione Internazionale degli Operai.
Anche un’altra convinzione animava quest’assemblea: se
l’emancipazione della classe operaia richiedeva la sua fraterna
unione e cooperazione, come poteva essa adempiere questa grande
missione sino a che una politica estera che perseguiva disegni
criminosi puntava su pregiudizi nazionali, e profondeva in guerre
di rapina il sangue e la ricchezza del popolo? «Non la
saggezza della classe dominante, ma l’eroica resistenza della
classe operaia inglese alla sua delittuosa follia, fu ciò che
salvò l’Europa occidentale dall’esser gettata nell’avventura
di un’infame crociata per eternare e propagare la schiavitù
sull’opposta riva dell’Oceano. Il plauso spudorato, la simpatia
ipocrita o l’indifferenza idiota, con cui le classi superiori
dell’Europa hanno veduto la fortezza montuosa del Caucaso essere
preda della Russia e la eroica Polonia essere assassinata dalla
Russia stessa... hanno insegnato alle classi lavoratrici che
è loro dovere dominare anch’esse i misteri della politica
internazionale, vigilare gli atti diplomatici dei loro rispettivi
governi, opporsi ad essi, all’occorrenza, con tutti i mezzi in loro
potere, e che, ove siano nell’impossibilità di prevenire,
è loro dovere unirsi, per smascherare simultaneamente questa
attività, e per rivendicare come leggi supreme nei rapporti
fra le nazioni le semplici leggi della morale e del diritto che
dovrebbero regolare i rapporti fra privati. La lotta per una tale
politica estera è una parte della lotta generale per
l’emancipazione della classe operaia»[x]10. L’Indirizzo si
chiudeva, come già il Manifesto comunista, con le parole:
«Proletari di tutti i paesi, unitevi!».
Gli Statuti cominciavano con dei «considerando» che si
possono riassumere come segue: l’emancipazione della classe operaia
deve essere opera della classe operaia stessa, e questa lotta non
è una lotta per nuovi privilegi di classe, ma per abolire
ogni dominio di classe; la soggezione economica del lavoratore a
colui che gode del monopolio dei mezzi di lavoro, cioè delle
fonti della vita, forma la base della servitù in tutte le sue
forme, la base di ogni miseria sociale, di ogni degradazione
spirituale e dipendenza politica; l’emancipazione economica della
classe operaia è il grande fine cui deve essere subordinato,
come mezzo, ogni movimento politico; tutti gli sforzi per
raggiungere questo fine sono finora falliti per la mancanza di
solidarietà tra le molteplici categorie di operai in ogni
paese, e per l’assenza di una unione fraterna tra le classi operaie
dei diversi paesi; l’emancipazione degli operai non è un
problema locale né nazionale, ma un problema sociale che
abbraccia tutti i paesi in cui esiste la società moderna, e
la cui soluzione dipende dalla collaborazione pratica e teorica di
questi paesi[xi]11. A queste proposizioni chiare e acute erano poi
aggiunti quei luoghi comuni morali sulla giustizia e. la
verità, sui doveri e i diritti, che Marx accolse solo con
riluttanza nel suo testo.
L’organizzazione dell’Associazione culminava in un Consiglio
Generale che doveva essere composto da operai dei diversi paesi
rappresentati nell’Associazione. Fino al primo congresso il comitato
eletto in St. Martin’s Hall si assumeva le attribuzioni del
Consiglio Generale. Esse consistevano nel fungere da col legamento
fra le organizzazioni operaie dei diversi paesi, tenere
costantemente informati gli operai di ogni paese sul movimento della
loro classe in ogni altro paese, condurre ricerche statistiche sulle
condizioni delle classi lavoratrici, far discutere in tutte le
società operaie questioni d’interesse generale, suscitare
un’a zione unitaria e simultanea delle associazioni aderenti in
caso di conflitti internazionali, pubblicare bollettini periodici, e
altri compiti simili. Il Consiglio Generale veniva eletto dal
congresso che si riuniva una volta l’anno. Il congresso fissava la
sede del Consiglio Generale e il luogo e la data per il congresso
successivo. Il Consiglio Generale era autorizzato ad aggregarsi
nuovi membri e in caso di necessità a spostare la sede del
congresso, ma non a differire la data della sua convocazione. Le
società operaie dei singoli paesi che aderivano
all’Internazionale conservavano intatta la loro organizzazione. A
nessuna associazione locale indipendente era impedito di aver
rapporti diretti col Consiglio Generale, ma era richiesto, come
condizio ne necessaria per l’efficace attività del
Consiglio Generale, che le associazioni isolate dei singoli paesi si riunissero, per quanto possibile, in associazioni nazionali
rappresentate da organi nazionali centrali. Per quanto sia
errato affermare che l’Internazionale fu l’invenzione di una «
grande mente», la sua fortuna fu però ugualmente di aver trovato, al suo sorgere, una
grande mente che indicandole la via giusta le risparmiò di avviarsi su strade sbagliate. Più di
questo Marx non fece, né volle fare. La genialità
incom parabile dell’Indirizzo e degli Statuti stava appunto nel
fatto che essi si ricollegavano interamente allo stato presente
delle cose e nello stesso tempo, come una volta disse giustamente
Liebknecht, contenevano fino alle ultime conseguenze i
princìpi del comunismo, non meno del Manifesto comunista.
Dal Manifesto essi non differivano soltanto per la forma: «
occorre tempo», scrisse Marx ad Engels, «prima che il
movimento ridestato consenta l’antica audacia di parola. Necessario
fortiter in re, suaviter in modo»[xiii]13. La cosa aveva uno
scopo diverso. Ora importava fondere in un grande esercito tutto
l’elemento operaio combattivo d’Europa e d’America, stabilire un
programma che, secondo un’espressione di Engels, non chiudesse la
porta alle Trade Unions inglesi, ai proudhoniani francesi, belgi,
italiani, spagnoli, ai lassalliani tedeschi. Per la vittoria finale
del socialismo scientifico, com’era impostato nel Manifesto
comunista, Marx faceva assegnamento unicamente sullo sviluppo
intellettuale della classe operaia, quale doveva risultare dalla sua
azione unita.
Ben presto la sua attesa fu sottoposta a una dura prova: aveva
appena cominciato il lavoro di propaganda per l’Internazionale,
quando entrò in grave conflitto con quella classe operaia
europea che prima di ogni altra avrebbe dovuto accettare i
princìpi dell’Internazionale.
13.3 La rottura con
Schweitzer
Una tradizione non bella né vera vuol far credere che i
lassalliani tedeschi abbiano rifiutato di entrare
nell’Internazionale e che abbiano assunto nei suoi confronti una
posizione del tutto ostile.
Prima di tutto non si vede che motivo ne avrebbero avuto. La loro
rigida organizzazione, alla quale attribui vano un grande valore,
non era neppur lontanamente toccata dagli Statuti
dell’Internazionale, e l’Indirizzo inaugurale poteva esser
sottoscritto da loro dalla alla zeta; e particolarmente
soddisfacente era per loro la parte sul lavoro cooperativo, del
quale era detto che avrebbe potuto salvare le masse solo se esteso
su dimensioni nazionali e alimentato con mezzi statali.
In realtà i lassalliani tedeschi furono fin da principio
ottimamente disposti verso l’Internazionale, nonostante che a quel
tempo avessero abbastanza da fare in casa propria. Dopo la morte di
Lassalle e per sua raccomandazione testamentaria, Bernhard Becker
era stato eletto presidente dell’Associazione Generale degli Operai
tedeschi, ma si dimostrò talmente incapace che ne nacque una
disperata confusione. Quel che teneva ancora insieme l’Associazione
era il suo organo, il Sozialdemokrat, che usciva dalla fine del 1864
sotto la direzione ideologica di Johann Baptist von Schweitzer.
Quest’uomo energico e capace si era dato la massima cura per avere
la collaborazione di Marx e di Engels, aveva accolto Liebknecht
nella direzione, cosa a cui nessuno lo obbligava, e subito nel
secondo e terzo numero del suo giornale aveva riportato l’Indirizzo
inaugurale.
Ora Moses Hess, che da Parigi scriveva corrispondenze per il
giornale, aveva avanzato dei sospetti sull’indi pendenza di Tolain,
definendolo amico del Palais royal, dove Girolamo Bonaparte si
atteggiava a demagogo rosso; ma Schweitzer aveva pubblicato la
lettera soltanto in seguito all’espresso consenso di Liebknecht.
Quando Marx se ne lagnò, fece anche di più, e dispose
che Liebknecht redigesse da sé tutto ciò che si
riferiva all’Internazionale; anzi, il 15 febbraio 1865 scrisse a
Marx che avrebbe proposto una risoluzione in cui l’Associazione
Generale degli Operai tedeschi avrebbe affermato il suo pieno
accordo con i princìpi dell’Internazionale, avrebbe promesso
di partecipare ai congressi, e avrebbe rinunciato ad aderire
formal mente soltanto a motivo delle leggi tedesche, che vietavano
l’unione di associazioni diverse. Schweitzer non ebbe più
alcuna risposta a questa offerta; anzi, Marx ed Engels annunciarono
in una dichiarazione pubblica di cessare la collaborazione al
Sozialdemokrat.
Da questi fatti risulta a sufficienza che la spiacevole rottura non
aveva nulla a che fare con dissensi sorti a proposito
dell’Internazionale. Il motivo che l’aveva determinata era espresso
chiarissimamente da Marx ed Engels nella loro dichiarazione, in
questi termini: essi non avevano in nessun momento disconosciu to
la difficile posizione del Soziademokrat e non avevano avanzato
alcuna pretesa che fosse inopportuna per il meridiano di Berlino; ma
avevano chiesto ripetutamente che nei confronti del ministero e del
parti to feudale-assolutista fosse usato un linguaggio almeno tanto
ardito quanto quello usato nei confronti dei progressisti. La
tattica seguita dal Sozialdemokrat escludeva ogni loro ulteriore
partecipazione al giornale. Il giudizio sul regio socialismo
governativo prussiano e sulla posizione del partito operaio di
fronte a tale opera ingannatrice, da essi formulato un tempo nella
Deutsche Brusseler Zeitung, in risposta al Rheini scher Beobachter,
che aveva proposto una «alleanza» del «
proletariato» col «governo» contro la «
borghesia liberale», lo sottoscrivevano ancora parola per
parola.
La tattica del Sozialdemokrat non aveva niente a che fare con una
simile «alleanza» o con un «socialismo
governativo prussiano». Dopo che la speranza di Lassalle, di
ridestare la classe operaia tedesca con uno slancio potente, si era
dimostrata fallace, l’Associazione Generale degli Operai tedeschi
con le sue migliaia di aderenti era rinserrata fra due avversari,
ciascuno dei quali era abbastanza forte per schiacciarla.
Così come stavano allora le cose il giovane partito operaio
non poteva aspettarsi proprio nulla dall’odio ottuso della
borghesia, mentre da quello scaltro diplomatico di Bismarck almeno
poteva aspettarsi che non potesse condurre la sua politica
grande-prussiana senza certe concessioni alle masse popolari. Tanto
sul valore che sullo scopo di simili concessioni Schweitzer non si
è mai abbandonato a illusioni; ma in un tempo in cui alla
classe operaia tedesca mancavano affatto le premesse legali per
potersi organizzare, in un tempo in cui essa non aveva un effettivo
diritto di voto, e le libertà di stampa, di associazione e
di riunione erano abbandonate all’arbitrio burocratico, il
Sozialdemokrat non poteva spingersi fino al punto di condurre
attacchi di pari violenza contro ambedue gli avversari, ma doveva
limitarsi a servirsi di uno degli avversari per giocare l’altro. Condizione indispensabile per
una politica di questo genere era che restasse salvaguardata da
tutti i lati l’indipendenza del giovane partito operaio e che la
coscienza di questa indipendenza fosse mantenuta sempre desta nelle
masse operaie.
Ciò riuscì a Schweitzer con fatica ma anche con
successo, e inutilmente nel Sozialdemokrat si cercherebbe anche una
sola sillaba che potesse far nascere il sospetto di una «
alleanza» col governo contro il partito progressista. Se si
segue l’attività pubblica svolta a quel tempo da Schweitzer
in rapporto con lo sviluppo politico generale, si riscontrano
parecchi errori, che del resto lo stesso Schweitzer ha ammesso, ma
in sostanza ci si trova di fronte a una politica accorta e
conseguente che mirava sempre soltanto agli interessi della classe
operaia, e non poteva esser dettata da Bismarck né da
qualsiasi altro reazionario.
Di fronte a Marx ed Engels, Schweitzer se non altro aveva il
vantaggio di una precisa conoscenza della situazione prussiana. Essi
vedevano sempre questa situazione attraverso idee preconcette, e
Liebknecht non riuscì nella sua attività di
informazione e di mediazione che le circostanze gli avevano
assegnato. Era tornato in Germania nel 1862, chiamato dal
repubblicano rosso Brass, che era pure rimpatriato dall’esilio, per
fondare la Norddeutsche Allgemeine Zeitung. Liebknecht era appena
entrato nella redazione, quando si seppe che Brass aveva venduto il
giornale al ministero Bismarck. Liebknecht ne uscì subito;
ma questa prima esperienza sul suolo tedesco fu ugualmente per lui
un incidente disgraziatissimo. Non soltanto materialmente, nel senso
che si trovò un’altra volta per la strada, come nei lunghi
anni dell’esilio. Questo era ciò che lo preoccupava meno: gli
interessi della causa erano per lui sempre al di sopra dei suoi
interessi personali. Ma la sua esperienza con Brass*gli
impedì di orientarsi obiettivamente sulla nuova situazione
che trovò in Germania.
Quando ritornò sul suolo tedesco, Liebknecht era ancora
sostanzialmente il vecchio uomo del quarantot to. L’uomo del
quarantotto nel senso della Neue Rheinische Zeitung, nella quale la
teoria socialista e la stessa lotta di classe del proletariato
restavano ancora in seconda linea rispetto alla lotta rivoluzionaria
della nazione contro il dominio di classi arretrate. La teoria
socialista nella sua ossatura scientifica non fu mai posseduta da
Liebknecht, per quanto ne comprendesse i concetti fondamentali; quel
che aveva impa rato da Marx, negli anni dell’esilio, era
specialmente la tendenza a considerare i vasti campi della politica
internazionale in base ai germi rivoluzionari che vi si
sviluppavano. Ora lo Stato prussiano era tenuto in con siderazione
troppo bassa da Marx ed Engels, che, renani per nascita, guardavano
con eccessivo disprezzo tutto ciò che stava a oriente
dell’Elba, e più ancora da Liebknecht che, nato nella
Germania meridionale, negli anni del movimento aveva svolto la sua
attività in territorio badese e svizzero, patria originaria
della politica dei piccoli cantoni. Per lui la Prussia era sempre lo
Stato prequarantottesco vassallo dello zarismo, che con i mezzi
odiosi della corruzione resisteva al progresso della storia e che
anzitutto si doveva comin ciare ad abbattere, prima che in Germania
si potesse pensare alla lotta moderna delle classi. Liebknecht non
si avvide che lo sviluppo economico degli anni dopo il ’50 aveva
trasformato anche lo Stato prussiano e vi aveva creato delle
condizioni per effetto delle quali era diventata una
necessità storica la liberazione della classe operaia dalla
democrazia borghese.
Perciò un accordo durevole fra Liebknecht e Schweitzer era
impossibile, e fu troppo per Liebknecht quan do Schweitzer
pubblicò cinque articoli sul ministero Bismarck, che in
sostanza tracciavano un felicissimo parallelo fra la politica
grande-prussiana e la politica proletaria rivoluzionaria nella
questione dell’unità te desca, ma commettevano l’«
errore» di dipingere con tanta eloquenza il pericoloso
slancio della politica grande-prussiana che pareva quasi la si
esaltasse. In compenso Marx commise 1’«errore» di
spiegare a Schweitzer, in una lettera del 13 febbraio, che dal
governo prussiano ci si poteva aspettare ogni specie di trucchi, con
le sue associazioni produttive, ma non l’abolizione del divieto di
coalizione, che avrebbe spez zato il burocratismo e il dispotismo
poliziesco. Marx dimenticava qui quel che una volta aveva spiegato
così diffusamente contro Proudhon, cioè che i governi
non comandano alle condizioni economiche, ma che all’inverso le
condizioni economiche comandano ai governi. Ancora pochi anni e il
ministero Bismarck, vo lente o nolente, dovette abolire i divieti
di coalizione. Nella sua risposta del 15 febbraio (quella stessa
lettera in cui Schweitzer prometteva di promuovere l’adesione
dell’Associazione Generale degli Operai tedeschi all’Internazionale,
e sottolineava ancora una volta che Liebknecht era incaricato ’di
curare da sé la pubbli cazione di tutto ciò che si
riferiva all’Internazionale) Schweitzer affermava che avrebbe
accettato volentieri, da parte di Marx, tutti i chiarimenti teorici,
ma che per decidere opportunamente sulle questioni pratiche di
tattica quotidiana, occorreva trovarsi al centro del movimento e
conoscere esattamente la situazione. Dopo di che Marx ed Engels la ruppero definitivamente con lui.
Questi errori e malintesi però si spiegano del tutto soltanto
tenendo conto delle manovre nefaste della contessa di Hatzfeldt. In
questo tempo la vecchia amica di Lassalle commise le colpe
più gravi contro la memoria dell’uomo che un tempo aveva
salvato la sua vita dalla morte civile. Essa voleva fare della
creatu ra di Lassalle una setta ortodossa, che giurasse sulle
parole di Lassalle, e neppure così come lui le aveva
pronunciate, ma come le interpretava la contessa di Hatzfeldt. Della
confusione che essa provocava si ha un’idea da una lettera scritta
il 10 marzo da Engels a Weydemeyer. Dopo alcune parole sulla
fondazione del Sozialdemokrat vi è detto: «Ma ora nel
giornaletto è venuto fuori un insopportabile culto
lassalliano, mentre noi intanto siamo venuti a sapere in modo
positivo (la vecchia Hatzfeldt l’ha raccontato a Liebkne cht, e
gli ha chiesto di agire in questo senso) che Lassalle era con
Bismarck in contatto molto più stretto di quanto noi avessimo
mai saputo. Fra i due esisteva una alleanza formale che era arrivata
a tal punto che Lassalle doveva andare nello Schleswig-Holstein e
là adoprarsi per l’annessione dei ducati, mentre Bismarck
aveva fatto alcune promesse poco definite in favore
dell’introduzione di una specie di suffragio universale, e altre
più definite in favore del diritto di coalizione e di
concessioni sociali, di appoggio statale per associazioni operaie
ecc. Lo sciocco Lassalle non aveva assolutamente nessuna garanzia
da parte di Bismarck, al contrario sarebbe stato gettato in
gattabuia appena fosse diventato incomodo. I signori del
Sozialdemokrat sapevano tutto questo e nonostante tutto hanno
continuato con veemenza sempre mag giore a sostenere il culto di
Lassalle. Per giunta questi tipi si sono lasciati indurre,
intimiditi dalle minacce di Wagener (della Kreuzzeitung), a fare la
corte a Bismarck, a civettare con lui ecc. Noi abbiamo fatto
pubblicare una dichiarazione e ne siamo usciti, e anche Liebknecht
ne è uscito». E’ difficile capire come Marx ed Engels
e Liebknecht, che avevano conosciuto Lassalle e leggevano il
Sozialdemokrat, credessero alle favole della contessa di Hatzfeldt,
ma una volta che vi ebbero creduto era comprensibilissimo che si
allontanassero dal movimento avviato da Lassalle.
Il loro distacco non ebbe effetti pratici su quel movimento. Anche
vecchi membri della Lega dei Comunisti, come Ròser, che un
tempo, di fronte alle Assise di Colonia, aveva difeso i
princìpi del Manifesto comunista, si dichiararono in favore
della tattica di Schweitzer.
13.4 La prima Conferenza di
Londra
Mentre i lassalliani rompevano così i rapporti con la nuova
associazione, anche il lavoro di reclutamento fra i sindacati
inglesi e i proudhoniani francesi procedeva lentamente.
Solo una ristretta cerchia di dirigenti sindacali aveva capito la
necessità della lotta politica, e anch’essi vedevano
nell’Internazionale più che altro un mezzo per i loro fini
sindacali. Ma se costoro almeno erano dotati di una vasta esperienza
pratica in tutte le questioni organizzative, ai proudhoniani
francesi mancava addirittura un’idea chiara sull’essenza storica del
movimento operaio. Era appunto un compito enorme, quello che la
nuova associazione si era posto, e per assolverlo occorreva un
enorme impegno unito a un’enorme forza.
Marx si applicò con impegno e con forza, nonostante che fosse
continuamente tormentato da malattie dolorose e gli urgesse di
portare a una certa conclusione il suo capolavoro scientifico. Una
volta si lagnava: «La cosa peggiore in tale movimento si è che, appena
uno vi prenda qualche parte, ha grandi fastidi», oppure
diceva che l’Internazionale, con tutti gli annessi e connessi,
pesava su di lui «come un incubo» e che sarebbe stato
contento di liberarsene. Ma aggiungeva che neppur questo era giusto,
e che chi ha cominciato bisogna che continui, e in fondo Marx non
sarebbe stato se stesso se non fosse stato più lieto e felice
di portare questo peso che di liberarsene.
Si vide subito che egli era il vero «capo» di tutto il
movimento. Non che si sia fatto avanti in qualche mo do; aveva uno
sconfinato disprezzo per qualsiasi popolarità a buon mercato
e lavorando dietro le quinte, senza comparire pubblicamente, voleva
distinguersi dalla maniera di fare democratica, di darsi importanza
in pubblico senza far nulla. Ma fra tutti coloro che lavoravano
nella piccola associazione, nessuno come lui possedeva, neppur
lontanamente, le rare qualità che erano necessarie per la sua
così estesa agitazione: la visione chiara e profonda delle
leggi dello sviluppo storico, l’energia di volere ciò che era
necessario e la pazienza di contentarsi del possibile, la tollerante indulgenza
per l’errore fatto in buona fede e l’im periosa
inflessibilità contro l’ignoranza ostinata. In un campo
incomparabilmente più vasto della Colonia rivoluzionaria di
un tempo, ora Marx poteva dispiegare la sua ineguagliabile
attività nel dominare gli uomini, ammaestrandoli e
guidandoli.
«Un tempo enorme» gli costarono fin da principio i
litigi e le contese personali che sono sempre ine vitabili agli
inizi di movimenti di questo genere; i membri italiani e
specialmente i francesi creavano molte difficoltà inutili.
Fin dagli anni della rivoluzione a Parigi esisteva una profonda
antipatia fra i «lavoratori del braccio e della mente»
: i proletari non potevano dimenticare i tradimenti troppo
frequenti dei letterati, e i letterati scomunicavano qualsiasi
movimento operaio che non volesse saper di loro. Ma anche
all’interno della stessa classe operaia fiorivano i sospetti di
imbrogli bonapartisti, tanto più che mancava ogni mezzo di
chiarificazione mediante associazioni o giornali. Il ribollire di
questo «minestrone francese» costò al Consiglio
Generale parecchie nottate e parecchie lunghe risoluzioni.
Più grate e più fruttuose erano per Marx le
attività che lo mettevano in relazione col ramo inglese
dell’Inter nazionale. Dopo essersi opposti all’intervento del
governo inglese in favore degli Stati americani ribelli del Sud, gli
operai avevano il buon diritto di felicitarsi con Abraham Lincoln
per la sua rielezione a presidente. Marx redasse l’indirizzo al
«semplice figlio della classe operaia, al quale è
toccato il compito di guidare il suo paese nella nobile lotta per la
liberazione di una classe asservita»; finché i
lavoratori bianchi dell’U nione non avevano compreso che la
schiavitù disonorava la loro Repubblica — diceva l’indirizzo
—, finché essi, di fronte al negro che veniva venduto senza
il suo proprio consenso, avevano continuato ad andare orgogliosi
dell’alto privilegio, riservato al lavoratore bianco, di vendersi da
sé e di potersi eleggere il padro ne, per tutto questo tempo
essi erano stati incapaci di conseguire la vera libertà o di
appoggiare la lotta di emancipazione dei loro fratelli europei. Ma
il rosso mare di sangue della guerra civile aveva spazzato via
questa barriera. L’indirizzo era scritto con evidente compiacimento
ed amore per l’oggetto, benché Marx, che come Lessing amava
parlare in tono noncurante dei propri lavori, scrivesse a Engels
che doveva «di nuovo stenderlo (cosa ben più
difficile di un lavoro di contenuto), perché la fraseologia
a cui si restringe tal sorta di scritti si distingua almeno
dall’abusata fraseologia democratica». Lincoln avvertì
benissimo la differenza: rispose in tono molto amichevole e
cordiale, con meraviglia della stampa londinese, perché agli
indirizzi di felicitazioni di parte borghese-democratica il
«vecchio» rispose con un paio di complimenti
convenzionali.
«Come contenuto» senza dubbio era molto più
importante un saggio su Salario, prezzo e profitto che Marx lesse
il 26 giugno 1865 al Consiglio Generale dell’Internazionale, per
controbattere l’opinione, sostenuta da qualche membro, secondo cui
un aumento generale del salario non gioverebbe per niente agli
operai, e quindi l’azione delle Trade Unions sarebbe stata dannosa.
Questa opinione derivava dalla concezione errata secondo cui il
salario determinerebbe il valore delle merci e i capitalisti, se
oggi pagassero 5 scellini di salario invece di 4, domani
venderebbero le loro merci per 5 scellini invece di 4 in
conseguenza dell’au mento di domanda. Per quanto ciò fosse
sciocco — diceva Marx — e si attenesse soltanto alla pura apparenza
esteriore, non era tuttavia facile spiegare agli ignoranti tutte le
questioni economiche che vi si accumulavano intorno: non si poteva
condensare un corso di economia politica in un’ora2. Ciò
nonostante vi riuscì ottimamente, e le Trade Unions gli
furono grate del sostanziale servigio.
Ma l’Internazionale dovette i suoi primi notevoli successi
all’energico movimento per la riforma elettorale inglese.
Già il 1◦ maggio 1865 Marx informava Engels: «La
Reform League è opera nostra. Nel comita to ristretto di 12
(6 della classe media e 6 della classe operaia) gli operai sono
tutti membri del nostro Consiglio Generale (fra i quali Eccarius).
Abbiamo frustrato tutti i tentativi dei borghesi medi di far deviare
gli operai... Se riesce questa rigalvanizzazione del movimento
politico della classe operaia inglese, la nostra Associazione, senza
chiasso di sorta, ha già fatto per la classe operaia europea
più di quanto fosse possibile per qualsiasi altra via. Ed
esistono tutte le prospettive di successo». A questa lettera,
il 3 maggio Engels rispose: «L’Associazione Internazionale in
breve tempo e con poco chiasso ha effettivamente conquistato un
terreno vastissimo; però è bene che essa adesso si
adoperi in Inghilterra, invece di doversi occupare eternamente di
tutte le brighe francesi. Qua almeno ottieni qualche cosa in cambio
della tua perdita di tempo». Ben presto però si
sarebbe visto che anche questo successo aveva il suo lato negativo.
Tutto considerato, Marx ritenne che la situazione non fosse ancora
abbastanza matura per un congresso pubblico, che era previsto per
l’anno 1865 a Bruxelles. Egli temeva, e non a torto, che ne sarebbe
venuto fuori un caos di linguaggi diversi. Con gran fatica,
soprattutto contro la resistenza dei francesi, riuscì a
trasformare il congresso in una conferenza provvisoria riservata a
Londra, alla quale dovevano venire soltanto dei rappresentanti dei
comitati direttivi, per preparare il successivo congresso. Per
giustificare la necessità di questo incontro preliminare,
Marx addusse come motivi il movimento elettorale in Inghilterra e lo
sciopero che cominciava in Francia, e infine una legge sugli
stranieri da poco promulgata in Belgio, che avrebbe reso
impossibile la riunione di un congresso a Bruxelles.
Questa Conferenza tenne le sue sedute dal 25 al 29 settembre 1865.
Dal Consiglio Generale furono delegati, oltre al presidente Odger,
al segretario generale Cremer e qualche altro membro inglese, Marx e
i suoi due principali collaboratori negli affari
dell’Internazionale, Eccarius e Jung, un orologiaio svizzero che
risiedeva a Londra e parlava ugualmente bene tedesco, inglese e
francese. Dalla Francia erano venuti Tolain, Fribourg, Limousin, che
in seguito non restarono fedeli all’Internazionale, e poi Schily,
vecchio amico di Marx fin dal 1848, e Varlin, il futuro eroe e
martire della Comune di Parigi. Dalla Svizzera il legatore di libri
Dupleix, per gli operai della Svizzera romanza, e Johann Philipp
Becker, ex spazzolalo e ora agitatore infaticabile, per gli operai
della Svizzera tedesca. Dal Belgio Cesar de Paepe, che da
apprendista tipografo si era dato allo studio della medicina ed era
arrivato a diventare medico.
Prima di tutto la Conferenza si occupò delle finanze
dell’Associazione. Risultò che per il primo anno erano state
raccolte non più di 33 sterline qirca. Non ci fu ancora
nessun accordo su un contributo regolare dei membri, fu soltanto
deciso di raccogliere 150 sterline destinate alla propaganda e alle
spese del congres so: 80 dall’Inghilterra, 40 dalla Francia, ( 10
sterline rispettivamente dalla Germania, dal Belgio e dalla
Svizzera. Ma il bilancio non diventò mai realtà,
perché il «nervo di tutte le cose» non fu mai
il nervo dell’In ternazionale. Anni dopo Marx notava ironicamente
che le finanze del Consiglio Generale erano grandezze in continuo
aumento, ma negative, e decenni dopo Engels scrisse che invece dei
famosi «milioni dell’Inter nazionale» il Consiglio
Generale per lo più non aveva avuto a disposizione altro che
debiti: inai si era fatto tanto con così poco denaro.
Sulla situazione inglese riferì il segretario generale
Cremer. Disse ( he sul continente si ritenevano molto ricche le
Trade Unions, tanto da poter appoggiare una causa che era anche la
loro causa, ma che esse erano legate da statuti severi, che le
costringevano entro limiti ristretti; che ad eccezione di pochi, i
loro membri, non sapevano nulla di politica, e che sarebbe stato
difficile fare intendere loro qualche cosa di politica; che
però si notava un certo progresso: pochi anni prima non si
sarebbe neppur dato ascolto a dei delegati dell’Internazionale,
mentre ora si accoglievano amichevolmente, si ascoltavano e si
accettavano i loro princìpi. Era la prima volta che
un’associazione che aveva in qualche modo a che fare con la
politica, era riuscita così a introdursi presso le Trade
Unions.
Fribourg e Tolain riferirono che in Francia l’Internazionale aveva
incontrato accoglienza favorevole, che, a parte Parigi, si erano
reclutati membri a Rouen, Nantes, Elbeuf, Caen e in altre
città, ed erano state vendute tessere in numero
considerevole, per l’ammontare annuale di franchi 1,25, ma che il
ricavato era stato esaurito per istituire un ufficio centrale a
Parigi e per le spese di viaggio dei delegati: il Consiglio
Generale avrebbe potuto contare sulla vendita delle 400 tessere che
non erano state ancora distribuite. I delegati francesi si
rammaricavano del rinvio del congresso, che era un grave ostacolo
per lo sviluppo dell’associa zione, e lamentavano le vessazioni
subite dagli operai da parte del governo poliziesco bonapartista;
dissero infine che si imbattevano continuamente nell’obiezione:
mostrate che sapete agire, e noi aderiremo.
Molto favorevole fu la relazione di Becker e Dupleix sulla Svizzera,
nonostante che là l’agitazione fosse cominciata soltanto sei
mesi prima. A Ginevra avevano 400 membri, a Losanna 150 e
altrettanti a Vevey. Il contributo mensile ammontava a 50 pence, ma
i membri avrebbero pagato anche il doppio: essi erano perfettamente
convinti della necessità di versare un contributo per il
Consiglio Generale. E’ vero che i delegati per il momento non
portavano ancora denaro; ma potevano assicurare, a titolo di
consolazione, che se non ci fossero state le loro spese di viaggio
avrebbero portato un avanzo netto.
In Belgio l’agitazione esisteva soltanto da un mese. Ma Paepe
informò che erano già stati reclutati 60 iscritti, che
si erano impegnati a pagare annualmente almeno 3 franchi, un terzo
dei quali sarebbe stato devoluto al Consiglio Generale.
Quanto al congresso, Marx propose a nome del Consiglio Generale che
si tenesse a Ginevra nel settembre o ottobre del 1866. La sede
fu approvata all’unanimità, ma la data fu anticipata
all’ultima settimana di maggio in seguito alla vivace pressione dei francesi. I francesi
chiesero anche che potesse partecipare con pieni diritti al
congresso chiunque avesse presentato la tessera di iscritto:
affermarono che per loro era una questione di principio, e che il
suffragio universale andava inteso così. Soltanto dopo un
dibattito infocato fu fatto passare il principio della
rappresentanza per mezzo di delegati, sostenuto particolarmente da
Cremer e da Eccarius.
L’ordine del giorno fissato dal Consiglio Generale era assai vasto:
attività dell’associazione; riduzione del l’orario di
lavoro; lavoro delle donne e dei fanciulli; passato e futuro dei
sindacati; influsso dell’esercito permanente sugli interessi delle
classi lavoratrici, ecc. Tutto fu accettato all’unanimità,
eccetto due punti che provocarono dei dissensi.
Il primo di essi non fu proposto dal Consiglio Generale, ma dai
francesi. Essi chiedevano, come punto particolare dell’ordine del
giorno: idee religiose e loro influenza sul movimento sociale,
politico e spirituale. Il modo come essi ci arrivarono, e la
posizione di Marx in proposito risultano forse con la maggior con
cisione da alcune frasi del necrologio per Proudhon, che Marx aveva
pubblicato qualche mese prima sul Sozialdemokrat, e che fra l’altro
fu il suo unico contributo a quel giornale: «Gli attacchi di
Proudhon contro la religione e la Chiesa avevano una grande
importanza locale, in un’epoca in cui i socialisti francesi si
vantavano dei loro sentimenti religiosi come di una
superiorità sul volterrianesimo del secolo XVIII e
sull’ateismo tedesco del secolo XIX. Se Pietro il Grande aveva
abbattuto la barbarie russa con la barbarie, Proudhon fece del suo
meglio per demolire la frase francese con la frase». Anche
dei delegati inglesi misero in guardia contro questo «pomo
della discordi!», ma i francesi riuscirono a far passare la
loro proposta con 18 voti contro 13.
L’altro punto dell’ordine del giorno che suscitò discussione
fu proposto dal Consiglio Generale, e riguar dava una questione di
politica europea che aveva particolare importanza per Marx,
cioè «la necessità di impedire il progressivo
influsso della Russia in Europa, restaurandouna Polonia indipendente
su base de mocratica e socialista, in conformità col diritto
di autodecisione delle nazioni». Anche in questo caso furono
specialmente i francesi a non volerne sapere: perché
mescolare questioni politiche alle questioni sociali, perché
perdersi dietro a cose tanto lontane quando c’era da lottare contro
un’oppressione così grave in ca sa propria, perché
impedire l’influsso del governo russo quando l’influsso dei governi
prussiano, austriaco, francese e inglese non era meno nefasto? Con
particolare energia parlò in questo senso anche il delegato
belga. Cesarde Paepe sostenne che la restaurazione della Polonia
poteva giovare soltanto a tre classi: all’alta nobiltà, alla
bassa nobiltà e al clero.
L’influsso di Proudhon è qui perfettamente riconoscibile.
Proudhon si era ripetutamente pronunciato contro la restaurazione
della Polonia, da ultimo anche al tempo della sollevazione polacca
del 1863, in un libro nel quale, come scrisse Marx nel suo
necrologio, aveva professato in onore dello zar un cinismo da
cretino. La medesima sollevazione invece aveva ravvivato le vecchie
simpatie per la causa polacca che Marx ed Engels avevano manifestato
negli anni della rivoluzione; in quell’occasione essi volevano
stendere insieme un manifesto, di cui però non fecero
più nulla.
La loro simpatia per la Polonia non era affatto cieca; il 23 aprile
1863 Engels scrisse a Marx: «Devo dire che per entusiasmarsi
dei polacchi del 1772 ci vuole un bufalo. Nella massima parte
d’Europa la aristocrazia allora cadeva, ma con dignità,
talvolta con esprit, anche se la sua massima universale era che il
materialismo consiste nel mangiare, nel bere, nel fottere, nel
vincere al gioco o nel venir pagati per compiere infamie; ma
così stupida nel metodo di vendersi ai russi, come fecero i
polacchi, non ci fu nessun’altra nobiltà». Ma fin
tanto che non c’era da pensare a una rivoluzione in Russia, la
restaurazione della Polonia offriva l’unica possibilità di
bloccare l’influsso zarista sulla civiltà europea„ e di
conseguenza nella crudele repressione della sollevazione polacca e
nella contemporanea avanzata del dispotismo zarista sul Caucaso Marx
vedeva i più importanti avvenimenti europei dopo il 1815. A
questi avvenimenti aveva dato il massimo rilievo nella parte
dell’Indirizzo inaugurale riguardante la politica estera del
proletariato, e anche molto tempo dopo si espresse con asprezza
sulla resistenza che questo punto dell’ordine del giorno aveva
incontrato presso Tolain, Fribourg ed altri. Ma intanto
riuscì a spezzare questa resistenza con l’aiuto dei delegati
inglesi: la questione polacca rimase all’ordine del giorno.
La Conferenza si riuniva al mattino in sedute riservate, presiedute
da Jung, e la sera in riunioni semipub bliche, presiedute da Odger.
In queste assemblee un pubblico operaio più largo discuteva
le questioni che erano già state chiarite nelle sedute private. I delegati
francesi pubblicarono un resoconto sulla Conferenza e il programma
preparato per il Congresso, che ebbe larga risonanza nella stampa
parigina. Con evidente soddisfazione Marx osservò: «
I nostri parigini sono alquanto sbalorditi per il fatto che il
paragrafo sulla Russia e Polonia, che essi non volevano, abbia
prodotto proprio la maggior impressione». E ancora una
dozzina di anni più tardi Marx si richiamava volentieri al
«commento entusiastico» che Henri Martin, il noto
storico francese, aveva fatto a quel paragrafo in particolare, e al
programma per il Congresso in generale.
13.5 La guerra tedesca
L’attività spesa per l’Internazionale, interrompendo ogni
lavoro che gli procurava da vivere, ebbe per Marx personalmente la
spiacevole conseguenza di risuscitare tutte le miserie.
Già il 31 luglio egli dovette scrivere, a Engels, che da due
mesi viveva esclusivamente del Monte dei pegni. «Ti assicuro
che avrei preferito farmi tagliare il pollice piuttosto che
scriverti questa lettera. E’ veramente cosa che ti accascia, per
metà della vita restar dipendenti. L’unico pensiero che mi
sostiene in tali circostanze è questo, che noi due
conduciamo un affare in società in cui io dò il mio
tempo per il lato teorico c di partito del business. E’ vero, ho un
alloggio troppo caro per le mie condizioni, ed inoltre quest’anno
abbiamo vissuto meglio che dianzi. Ma questa è l’unica via
per cui le ragazze, non parlando del molto che ha uno patito e di
cui esse almeno per breve tempo sono state compensate, possono
allacciare relazioni e amicizie adatte ad assicurare loro un
avvenire. Credo che anche tu sarai dell’avviso che, perfino
considerando la cosa da un punto di vista commerciale, qui sarebbe
fuor di luogo un tenor di vita strettamente proletario, che andrebbe
bene se fossimo mia moglie ed io soltanto o se le ragazze fossero
ragazzi». Engels venne subito in soccorso; ma cominciò
ancora una volta la miseria con le ordinarie preoccupazioni della
vita.
Qualche mese dopo si presentò a Marx una nuova fonte di
guadagno, grazie ad un’offerta tanto strana quanto inaspettata che
gli arrivò in una lettera di Lothar Bucher del 5 ottobre
1865. Negli anni di esilio che Bucher aveva passato a Londra, fra i
due non c’erano state relazioni di nessun genere, e meno che mai di
amicizia; anche dopo che nella massa degli emigrati Bucher aveva
cominciato ad assumere una posizione indipendente ed era diventato
il più entusiasta dei seguaci di Urquhart, Marx mantenne
verso di lui un atteggiamento molto critico. Invece Bucher aveva
parlato a Borkheim in modo molto favorevole dello scritto polemico
che Marx aveva diretto contro Vogt, e voleva recensirlo sulla
Allgemeine Zeitung, ciò che però non avvenne, o che
Bucher non abbia scritto la recensione o che il giornale di Augusta
l’abbia rifiutata. In seguito Bucher era rimpatriato, dopo la
concessione dell’amnistia prussiana, e a Berlino aveva stretto
amicizia con Lassalle; con lui si era recato a Londra nel 1862, per
l’Esposizione Mondiale, e per mezzo di Lassalle aveva conosciuto
personalmente Marx, che disse di aver trovato in lui «un
ometto gentilissimo, anche se un poco strambo» e di non
crederlo capace di condividere la «politica estera»
di Lassalle. Dopo la morte di Lassalle, Bucher si era messo al
servizio del governo prussiano, e quindi Marx, in una lettera a
Engels, aveva liquidato lui e Rodbertus con questo energico motto:
«Branco di manigoldi, tutto questo canagliume di Berlino,
della Marca e della Pomerania!».
Ora Bucher scrisse a Marx: «Prima di tutto business! Lo
Staatsanzeiger desidera mensilmente un reso conto sulmovimento del
mercato finanziario (e naturalmente anche sul mercato delle merci,
in quanto non si possono separare). Mi è stato chiesto se
potevo raccomandare qualcuno, e ho risposto che nessuno l’avrebbe
fatto meglio di Lei. Quindi sono stato pregato di rivolgermi a Lei.
Riguardo alla lunghezza degli articoli non Le sono posti limiti,
quanto più saranno condotti a fondo ed estesi, tanto meglio.
Riguardo al contenuto s’intende che Lei si atterrà soltanto
alle Sue convinzioni scientifiche; tuttavia sarebbe convenien te,
per riguardo alla cerchia dei lettori (haute finance), non alla
redazione, che Lei lasciasse intravvedere la sostanza più
intima delle questioni soltanto ai competenti, e evitasse la
polemica». Seguivano ancora un paio d’osservazioni d’affari,
il ricordo di una passeggiata fatta insieme con Lassalle, la cui
fine restava per lui ancora un «enigma psicologico», e
la notizia che egli, come Marx sapeva, era tornato al suo primo
amore, agli archivi. «Io fui sempre di parere diverso da
Lassalle, che si immaginava uno sviluppo così rapido. Il
partito progressista muterà pelle ancora molte volte, prima
di morire: dunque chi durante la sua vita vuole operare ancora
nell’ambito dello Stato, deve stringersi attorno al governo».
Dopo i complimenti alla signora Marx e i saluti alle signorine, specialmente alla
piccola, la lettera si chiudeva con i soliti fioretti: devotissimo e affezionatissimo.
Marx rispose rifiutando, ma mancano indicazioni più precise
su ciò che scrisse e su quel che pensava della lettera di
Bucher. Subito dopo averla ricevuta partì per Manchester,
dove avrà discusso la cosa con Engels; nel loro carteggio non
se ne parla e per il resto Marx vi accenna una sola volta di
sfuggita, nelle lettere all’amico, per quanto esse finora ci sono
note. Ma quattordici anni dopo, quando a Berlino si scatenò
la caccia rabbiosa ai socialisti, dopo gli attentati di Hòdel
e di Nobiling[i]27, egli scagliò la lettera di Bucher nel
campo dei provocatori, dove essa esplose con la forza distruttrice
di una bomba. A quel tempo Bucher era segretario del Congresso di
Berlino, e aveva redatto, secondo quanto assicura il suo biografo
ufficioso, il progetto della prima legge contro i socialisti, che
dopo l’attentato di Hòdel era stata presentata al Reichstag,
ma da questo respinta.
Da allora si è scritto molto sulla questione se Bismarck, con
la lettera di Bucher, abbia tentato di comprare Marx. E’ vero che
nell’autunno del 1865, quando il trattato di Gastein aveva a stento
saldato la rottura con l’Austria, Bismarck era certamente disposto a
«mettere in libertà tutti i cani che volevano abbaiare», per usare la sua immagine venatoria. Era indubbiamente un
Junker di razza troppo pura, per amoreggiare con la questione
operaia alla maniera di un Disraeli o anche di un Bonaparte;
è risaputo che buffe idee egli si facesse di Lassalle, con
cui pure aveva trattato più volte personalmente. Ora egli
aveva molto vicino a sé due persone che su questa questione
delicata la sapevano più lunga, appunto Lothar Bucher e
Hermann Wagener, e Wagener a quel tempo li dava molto da fare per
adescare il movimento operaio tedesco, e ci sarebbe anche riuscito,
per quanto dipendeva dalla contessa di Hatzfeldt. Ma come capo
ideale del partito degli Junker e come vecchio amico di Bismarck,
già da prima del ’48, Wagener occupava una posizione
incomparabilmente più indipendente di Bucher, che restava in
tutto affidato alla benevolenza di Bismarck, perché la
burocrazia guardava di traverso questo intruso importuno, e anche il
re non voleva sapere di lui per i trascorsi del ’48. Oltretutto
Bucher era un carattere debole, «un pesce senza lisca»,
come soleva definirlo il suo amico Rodbertus.
Dunque se Marx doveva essere comprato con la lettera di Bucher,
ciò non è certo avvenuto all’insaputa di Bismarck.
C’è soltanto da chiedersi se tale tentativo di corruzione ha
avuto realmente luogo. Il modo come Marx si valse della lettera di
Bucher, contro la caccia ai socialisti del 1878, era una mossa tanto
lecita quanto abile, ma con ciò non è neppure provato
che fin da principio Marx abbia considerato la lettera di Bucher
come un tentativo di corruzione, e tanto meno che tale tentativo vi
fosse. Bucher sapeva benissimo che per il momento Marx aveva un
cattivo credito presso i lassalliani, dopo la sua rottura con
Schweitzer, e per di più un resoconto mensile sul mercato
internazionale delle valute e delle merci, nel più noioso fra
tutti i giornali tedeschi, non era davvero il mezzo più
appropriato per sedare il malumore generale contro la politica di
Bismarck, o addirittura per cattivarsi il favore degli operai verso
questa politica. Inoltre l’assicu razione di Bucher, di aver
raccomandato senza nessun secondo fine politico il vecchio compagno
d’esilio all’amministratore dello Staatsanzeiger, ha molto di
verosimile, ammesso che l’amministratore abbia potuto rimettersi al
parere di un liberale progressista. Dopo che il tentativo con Marx
fu andato a vuoto, Bucher si rivolse a Dùhring, che
accettò l’incarico ma subito dopo vi rinunciò,
perché l’amministratore non dette affatto prova di quel
rispetto per le «convinzioni scientifiche» che Bucher
aveva lodato in lui.
Ancora peggiori delle difficoltà economiche in cui Marx si
venne a trovare in conseguenza della sua attività estenuante
per l’Internazionale e del suo lavoro scientifico, furono le
crescenti scosse subite dalla sua salute. Il 10 febbraio 1866 Engels
gli scrisse: «Davvero devi deciderti a far qualche cosa di
giudizioso, per venir fuori da questa faccenda dei foruncoli...
Tralascia per qualche tempo di lavorare di notte e conduci una vita
un poco più regolare». Marx rispose il 13 febbraio:
«Ieri ero di nuovo a terra, perché era scoppiato un
vigliacchissimo favo al fianco sinistro. Se avessi denaro abbastanza
per la mia famiglia, e se fosse finito il mio libro, mi sarebbe del
tutto indifferente se oggi o domani fossi gettato allo scorticatoio,
alias se crepassi. Ma nelle menzionate circostanze questo non va
ancora». E una settimana dopo Engels rice vette la
allarmante notizia: «Questa volta ne è andato della
pelle. La mia famiglia non ha saputo quanto il caso fosse serio. Se
la cosa si ripete ancor tre o quattro volte nella medesima forma,
sono spacciato. Sono straordinariamente deperito e ancora
maledettamente debole, non di cervello, ma di reni e di gambe. I
medici hanno ragione, l’esagerato lavoro di notte è la causa
principale di questa ricaduta. Ma io non posso dire a quei signori le ragioni che mi costringono a questa
stravaganza, il che del resto sarebbe anche inutile». Ma ora finalmente Engels ottenne che Marx si concedesse
qualche settimana di distrazione e andasse a Margate sul mare.
Qui Marx ritrovò subito il suo buonumore. In una lettera
scherzosa alla figlia Laura scriveva: «Sono proprio contento
di aver preso alloggio in una casa privata e non in un albergo, dove
si tormenta la gente con la politica locale, gli scandali familiari
e i pettegolezzi sul vicinato. Eppure non posso cantare col mugnaio
del Dee: non mi importa di nessuno e nessuno si cura di me.
Perché qui ce pur sempre la mia padrona, che è sorda
come un piuolo, e sua figlia che è affetta da raucedine
cronica. Io stesso mi sono trasformato in un bastone da passeggio
ambulante, vado attorno trottando la maggior parte del giorno,
prendo aria, vado a letto alle dieci, non leggo nulla, scrivo ancora
meno, e soprattutto mi sprofondo in quello stato d’animo del nulla
che il buddismo considera come il culmine della beatitudine umana». E alla fine, canzonando, aggiunse un’allusione ad eventi
che si preparavano: «Questo maledetto briccone di Lafargue
mi tormenta col suo proudhonismo e non starà tranquillo
finché non avrò bastonato ben bene quel suo cranio di
creolo».
Proprio in quei giorni, mentre Marx si tratteneva a Margate, si
scaricavano i primi lampi del temporale di guerra che si era
addensato sulla Germania. L’8 aprile Bismarck aveva concluso con
l’Italia un’alleanza aggressiva contro l’Austria, e il giorno dopo
presentò alla Dieta federale la proposta di convocare un
parla mento tedesco, sulla base del suffragio universale, per
discutere una riforma della Confederazione, su cui i governi
tedeschi dovevano accordarsi. La posizione che Marx ed Engels
assunsero di fronte a questi eventi dimostrò che essi
avevano perso di vista la situazione tedesca. Il loro giudizio fu
oscillante. Il 10 aprile, a proposito della proposta di Bismarck per
un parlamento tedesco, Engels scrisse: «Che razza di somaro
dev’esser costui per credere che questo gli gioverebbe sia pur di
una briciola!... Se davvero si arri verà a soluzioni
estreme, per la prima volta nella storia lo sviluppo degli
avvenimenti dipenderà da Berlino. Se i berlinesi ingaggiano
battaglia al tempo debito, tutto può andar bene, ma chi
può fidarsi di loro?».
Tre giorni dopo scrisse di nuovo, con singolare preveggenza:
«Da quel che sembra, il borghese tedesco dopo qualche
impennata finirà per piegar la testa, perché il
bonapartismo è in effetti la vera religione della borghesia
moderna. Mi si rivela sempre più chiaramente che la borghesia
non ha la stoffa per dominare essa stessa direttamente, e che quindi
dove un’oligarchia non può, come qui in Inghilterra,
assumersi la guida dello Stato e della società, contro buon
pagamento, nell’interesse della borghesia, una semidittatura
bonapartista è la forma normale; essa attua gli interessi
materiali della borghesia perfino contro la borghe sia, ma non le
lascia nessuna partecipazione al potere. D’altra parte anche questa
dittatura è costretta a sua volta ad abbracciare contro
voglia questi interessi materiali della borghesia. Così noi
vediamo adesso il signor Bismarck che adotta il programma
dell’Unione nazionaleˆ Il portarlo a compimento è di certo
tutt’altra cosa, ma di fronte al borghese tedesco, Bismarck
difficilmente fallisce». Ma quel che lo avrebbe fatto
fallire, secondo Engels, era la forza militare austriaca:
perché Benedek era in ogni caso un generale migliore del
principe Federico Carlo; perché l’Austria poteva ben
costringere la Prussia alla pace, ma la Prussia non poteva
costringervi l’Austria con le sue sole forze; e quindi ogni
successo prussiano sarebbe stato per Bonaparte un incoraggiamento a
intromettersi.
Quasi con le stesse parole Marx esponeva la situazione di quel tempo
in una lettera[ii]28 a un amico di recente acquistato, il medico
Kugelmann di Hannover, che sin da ragazzo, nel 1848, era stato preso
da entusiasmo per Marx ed Engels, aveva raccolto con cura tutti i
loro scritti, ma soltanto nel 1862, per mezzo di Freiligrath, si era
rivolto direttamente a Marx, col quale entrò presto in intima
dimestichezza. In tutte le questioni militari Marx accettava i
giudizi pronunziati da Engels, rinunziando, cosa quanto mai
insolita in lui, a qualsiasi critica propria.
Ancora più sorprendente della sopravvalutazione della potenza
austriaca, era il giudizio dato da Engels sulle condizioni interne
dell’esercito prussiano. Più sorprendente soprattutto
perché in un suo ottimo scritto egli aveva esposto, con una
perspicacia di molto superiore alle chiacchiere
democratico-borghesi, la rifor ma dell’esercito per la quale era
divampato il conflitto per la Costituzione prussiana. Il 25 maggio
scrisse:
«Se gli austriaci sono abbastanza abili da non attaccare,
certamente si comincerà a ballare nell’esercito prussiano.
La gente non fu mai tanto ribelle come in questa mobilitazione.
Purtroppo si sa soltanto la minima parte di quello che succede, ma è già sufficiente
per dimostrare che con questo esercito è impossibile una
guerra offensiva». E ancora, l’11 giugno: «In questa
guerra la milizia territoriale sarà tanto pericolosa quanto
furono pericolosi nel 1806 i polacchi, che formavano oltre un terzo
dell’esercito e disorganizzarono ogni cosa. Solo che la
territoriale, invece di disperdersi, dopo la sconfìtta si
ribellerà». Tutto ciò era scritto tre settimane
prima di Sadowa.
Sadowa dissipò tutte le nebbie, e il giorno dopo la battaglia
Engels già scriveva: «Che cosa ne dici dei prussiani?
Lo sfruttamento dei primi successi è avvenuto con estrema
energia... Una così decisiva battaglia condotta a termine in
8 ore è cosa mai prima d’ora accaduta; in altre circostanze
sarebbe durata due giorni. Ma il fucile ad ago è un’arma
spietata, e poi quella gente si batte veramente con un valore quale
non ho mai visto in tali truppe di pace». Engels e Marx
potevano sbagliarsi e si sono spesso sbagliati, ma non rifiutavano
mai di riconoscere il proprio errore quando gli avvenimenti stessi
lo imponevano. La vittoria prussiana era per loro un boccone
difficile da trangugiare, ma essi non aspettarono di restarne
soffocati. Engels, la cui autorità aveva la prevalenza in
tale questione, il 25 luglio riassunse così la situazione:
«La storia in Germania mi sembra adesso abbastanza semplice.
Dal momento in cui Bismarck ha attuato con l’esercito prussiano e
con così colossale successo il piano piccolo tedesco della
borghesia, lo sviluppo degli avvenimenti in Germania ha preso questa
direzione così decisamente, che noi alla stessa maniera di
altri dobbiamo riconoscere il fatto compiuto, ci piaccia o non ci
piaccia... La cosa ha questo di buono, c he semplifica la
situazione, con ciò facilita la rivoluzione, elimina le
sommosse delle piccole capitali ed affretta in ogni caso lo sviluppo
degli avvenimenti. In fin dei conti un Parlamento tedesco è
tutt’altra cosa che una Camera prussiana. La massa dei piccoli
staterelli verrà gettata nel vortice, cesseranno le peggiori
influenze di carattere locale e finalmente i partiti diventeranno
nazionali invece che puramente locali». Due giorni dopo Marx
rispose con laconica tranquillità: «Sono
perfettamente della tua opinione che bisogna prendere questa
sozzura così come. Però è bello, durante questo
primo periodo dell’amore in boccio, esser lontani».
Contemporaneamente Engels scrisse, non in senso elogiativo, che
«frate Liebknecht si è ficcato a capo fitto in una
fanatica austrofilia»; che delle «corrispondenze
furiose» da Lipsia nella Neue Frankfurter Zeitung venivano
evidentemente da lui; che questo giornale sterminatore di principi
era arrivato al punto di rimproverare ai prussiani il loro
vergognoso trattamento all’«onorabilissimo principe elettore
della Assia» e a entusiasmarsi per irpovero Guelfo cieco.
Invece a Berlino Schweitzer assunse la medesima posizione che Marx
ed Engels a Londra, sulla base degli stessi motivi e con le stesse
parole, è per questa sua politica «opportunistica» questo infelice deve subire ancor oggi lo sdegno morale
degli importanti uomini politici che adorano Marx ed Engels senza
capirli.
13.6 Il Congresso di Ginevra
A differenza di quanto stabilito, quando la battaglia di Sadowa
decise delle sorti tedesche il primo Con gresso dell’Internazionale
non aveva ancora avuto luogo. Il Congresso aveva dovuto essere
ancora una volta rimandato al settembre di quell’anno, nonostante
che nel secondo anno di vita l’Associazione avesse compiuto,
rispetto al primo, un’ascesa incomparabilmente più rapida.
Sul continente il suo nucleo più importante cominciò
ad essere Ginevra, dove tanto la sezione romanza che la tedesca
procedettero alla fondazione di propri organi di partito. Quello
tedesco era il Vorbote, un mensile fondato e diretto dal vecchio
Becker, le cui sei annate costituiscono ancora oggi una delle fonti
più importanti per la storia della Internazionale. Il Vorbote
uscì dal gennaio del 1866 e si denominava «Organo
centrale del gruppo di sezioni di lingua tedesca»,
perché anche i membri tedeschi dell’Internazionale, tanti o
pochi che fossero, dipendevano da Ginevra, dato che le leggi
tedesche sulle associazioni impedivano la formazione di sezioni all’interno della Germania. Per motivi simili
la sezione romanza di Ginevra estese profondamente la propria
influenza in Francia.
Anche in Belgio il movimento si era già creato un giornale
proprio, la Tribune du peuple, che Marx ricono sceva come organo
ufficiale della Internazionale, alla pari dei due giornali
ginevrini. Ma non considerava tali uno o due giornaletti che
uscivano a Parigi e che difendevano a modo loro la causa operaia. Il
movi mento prese un buon avvio anche in Francia, ma più come
un fuoco di paglia che come qualche cosa di duraturo. A causa della
completa mancanza di libertà di stampa e di riunione, era
difficile creare dei veri e propri centri del movimento, e la
tolleranza ambigua della polizia bonapartista aveva l’effetto
piuttosto di addormentare che di destare le energie degli operai.
Anche il forte predominio del proudhonismo non era adatto per
alimentare la forza organizzativa del proletariato.
Il proudhonismo si faceva sentire specialmente nella «giovane
Francia», che viveva in esilio a Bruxelles o a Londra. Nel
febbraio del 1866 una sezione francese, che si era formata a Londra,
fece una violenta op posizione al Consiglio Generale perché
aveva messo la questione polacca nel programma del Congresso di
Ginevra. Riecheggiando idee proudhoniane essa chiedeva come si
potesse pensare ad arginare l’influsso russo mediante la
restaurazione della Polonia, in un momento nel quale i servi della
gleba russi erano liberati dalla Russia, mentre i nobili e i preti
polacchi si eran sempre rifiutati di dare la libertà ai loro
servi della gleba. Anche allo scoppio della guerra tedesca i membri
francesi dell’Internazionale e persino quelli del Consiglio
Generale sollevarono inutili contese col loro «stirnerianismo
proudhonizzato», come una volta disse Marx, affermando che
tutte le nazionalità erano superate e chiedendo il loro
scioglimento in piccoli «gruppi», che avrebbero dovuto
formare di nuovo una «unione», ma non uno Stato.
«E dunque questa ‘individualizzazione dell’umanità e
il corrispondente mutualisme debbono aver luogo mentre
la storia in tutti gli altri paesi si ferma, e tutto il mondo
aspetta che la gente sia matura per compiere una rivoluzione
sociale. Poi ci metteranno davanti agli occhi il loro esperimento, e
il resto del mondo, soggiogato dalla forza del loro esempio,
farà come loro»[i]31. Con questa canzonatura Marx
colpiva prima di tutto i suoi «ottimi amici» Lafargue
e Longuet, che dovevano diventare suoi generi, ma intanto, come
«credenti di Proudhon», gli causavano molte
seccature.
Il nucleo principale dell’Internazionale erano sempre le Trade
Unions. Così giudicava anche Marx: il 15 gennaio 1866, in una
lettera a Kugelmann[ii]32, esprimeva la sua soddisfazione per essere
riuscito ad attirare nel movimento l’unica organizzazione operaia
veramente grande; una gioia particolare gli aveva procurato una
colossale assemblea che si era tenuta alcune settimane prima in St.
Martin’s Hall a favore della riforma elettorale, sotto la direzione
ideale dell’Internazionale. Quando poi il ministero whig Gladstone
ebbe presentato, nel marzo 1866, un progetto di riforma elettorale
che parve troppo radicale a una parte del suo stesso partito, e
cadde in seguito alla scissione di questi suoi membri, per essere
sostituito dal ministero tory Disraeli, che cercò di tirare
per le lunghe la riforma elettorale, il movimento assunse forme
tempestose. Il 7 luglio Marx scrisse a Engels: «Le
dimostrazioni operaie londinesi, spettacolose se paragonate con
ciò che abbiamo veduto in Inghilterra dal 1849, sono pura
opera dell’Internazionale. Lucraft, per esempio, il capitano in
Trafalgar Square, fa parte del nostro Consiglio». A
Trafalgar Square, dove erano riunite 20.000 persone, Lucraft convocò la riunione di un meeting in
White Hall Gardens, dove «qualche volta abbiamo tagliato la
testa a uno dei nostri re», subito dopo si arrivò
già quasi all’aperta rivolta in Hyde Park, dove erano riunite
60.000 persone.
Le Trade Unions riconobbero pienamente i servigi resi
dall’Internazionale a questo movimento che si esten deva a tutto
il paese. Una conferenza a Sheffield, alla quale erano
rappresentate tutte le Trade Unions, dichiarò in una
risoluzione: «Mentre la Conferenza tributa il suo pieno
riconoscimento all’Associazione Internazionale degli Operai per gli
sforzi da essa compiuti per unire con un legame di fratellanza gli
operai di tutti i paesi, essa raccomanda caldamente a tutte le
società qui rappresentate di entrare a far parte di questa
Associazione, con la convinzione che ciò sia di estrema
importanza per il progresso e il benessere dell’intera classe
operaia». Allora un buon numero di sindacati
entrò a far parte dell’Internazionale, ma questo successo
morale e politico non rappresentò un pari successo materiale.
Ai sindacati aderenti fu accordato di pagare un contributo a
piacere, o anche nessun contributo, e anche quando lo versavano era in misura molto modesta. Così i calzolai, con 5.000 membri,
pagavano annualmente cinque sterline, i falegnami con 9.000 membri
due sterline, i muratori con 3 o 4.000 membri addirittura una
sterlina sola.
Marx si accorse anche molto presto che nel «Reformmovement» si manifestava di nuovo «il maledetto carattere
tradizionale di tutti i movimenti inglesi». Già prima
della fondazione dell’Internazionale le Trade Unions si erano messe
in relazione con i radicali borghesi per la riforma elettorale.
Questi rapporti diven tarono ancora più stretti via via che
il movimento prometteva di far maturare frutti tangibili; degli
«acconti » che prima sarebbero stati respinti con indignazione, erano
considerati ora degne ricompense per la lotta sostenuta; Marx
arrivava a rimpiangere lo spirito ardente dei vecchi cartisti.
Biasimava l’incapacità degli inglesi, di fare due cose in
una volta: quanto più il movimento per la riforma elettorale
andava avanti, tanto più si raffreddavano i capi inglesi
«nel nostro movimento più circoscritto»;
«in Inghilterra il movimento per la riforma, che era stato
chiamato in vita da noi, ci ha quasi ammazzato»[iv]34.
Un forte ostacolo a questo andazzo venne a mancare per la malattia e
il soggiorna a Margate di Marx, che gli impedirono di intervenire
personalmente.
Grande fatica e preoccupazioni gli procurò anche il giornale
The Workman’s Advocate, che la Conferenza del 1865 aveva proclamato
organo ufficiale dell’Internazionale, e che nel febbraio del 1866 fu
ribattezzato The Commonwealth. Marx faceva parte del consiglio
d’amministrazione del giornale, che era costan temente alle prese
con difficoltà finanziarie e quindi doveva ricorrere agli
aiuti di borghesi fautori della riforma elettorale; egli si dava
gran da fare per mantenere un contrappeso agli influssi borghesi, e
inoltre proteggere dalle meschine invidie il posto di direttore;
Eccarius diresse temporaneamente il giornale e vi pubblicò il
suo noto scritto contro Stuart Mill, al quale Marx dette un forte
contributo. Ma alla fine Marx non potè impedire che il
Commonwealth «per il momento si trasformasse in un puro
organo per la riforma», come scrisse in una lettera a
Kugelmann«per ragioni in parte economiche e in parte politiche».
Questo stato generale delle cose spiega a sufficienza i grandi
timori con cui Marx guardava al primo Con gresso
dell’Internazionale, perché temeva che esso finisse in
«una figuraccia di fronte a tutta l’Europa». Poi
ché i parigini restavano fermi alla decisione della
Conferenza di Londra, secondo cui il Congresso avrebbe dovuto
tenersi alla fine di maggio, Marx voleva andare di persona sul
Continente per convincerli dell’im possibilità di questo
termine, ma Engels era del parere che tutta la faccenda non meritava
il rischio che Marx correva di finire fra gli artigli della polizia
bonapartista, dove non sarebbe stato protetto da nessuno; e disse
che era cosa secondaria che il Congresso decidesse qualche cosa di
buono, purché potesse essere evitato ogni scandalo, e questo
sarebbe stato ben possibile; e che in un certo senso ogni
dimostrazione del genere — per lo meno di fronte a se stessi —
sarebbe stata una cattiva figura senza tuttavia essere
necessariamente una cattiva figura di fronte all’Europa[v]35.
La difficoltà fu superata perché gli stessi ginevrini,
che non erano pronti con la loro preparazione, decisero di rimandare
il Congresso fino a settembre, e questa decisione trovò
consenso dovunque, meno che a Parigi. Marx non aveva intenzione di
partecipare personalmente al Congresso, perché il lavoro per
la sua opera scientifica non permetteva più altre
interruzioni prolungate; gli pareva che questo suo lavoro fosse
molto più importante per la classe operaia di quanto egli
avrebbe potuto fare personalmente a qualsiasi congresso. Ma spese
molto tempo per assicurare al Congresso uno svolgimento favorevole;
per i delegati londinesi stese un memorandum che limitò di
proposito a quei punti «che consentono un’intesa e una
collaborazione immediata tra gli operai e forniscono un alimento e
uno stimolo immediato ai bisogni della lotta di classe e
all’organizzazione degli operai come classe»[vi]36. A questo
memorandum si può fare lo stesso elogio che Beesly aveva
fatto all’Indirizzo inaugurale: le rivendicazioni immediate del
proletariato internazionale vi sono riassunte in maniera quanto mai
profonda ed efficace. Come rappresentanti del Consiglio Generale
andarono a Ginevra il presidente Odger e il segretario generale
Cremer, e con loro Eccarius e Jung, della cui intelligenza Marx
poteva fidarsi più che di altri.
Il Congresso tenne le sedute dal 3 all’8 settembre, sotto la
presidenza di Jung e alla presenza di 60 delegati. Marx trovò
che «era andato meglio di quanto fosse da aspettarsi». Soltanto sui «signori parigini» si espresse
con molta asprezza. «Essi avevano la testa piena delle
più vane frasi proudhoniane. Essi cianciano di scienza e non
sanno nulla. Disdegnano ogni azione rivoluzionaria,
cioè ogni azione che scaturisca dalla lotta di classe stessa, ogni movimento sociale
concentrato, tale che si possa attuare anche con mezzi politici
(come p. e. riduzione della giornata di lavoro per
legge). Col pretesto della libertà e dell’antigo ver
nativismo o dell’individualismo antiautoritario — questi signori
che da 16 anni hanno sopportato e sopportano tanto tranquillamente
il più miserabile dispotismo! — predicano in realtà
la volgare economia borghese, soltanto proudhonianamente
idealizzata!». E così seguitava, in termini anche
più duri.
Questo giudizio è molto severo, quantunque alcuni anni dopo
Johann Philipp Becker, che era stato presente al Congresso come
dirigente, si esprimesse con una durezza anche maggiore, se
possibile, sulla gazzarra che vi aveva dominato. Solo che Becker
oltre i francesi non dimenticava i tedeschi, e oltre i proudhoniani
non dimenticava i seguaci di Schulze-Delitzsch. «Quante
cortesie si dovettero prodigare a quella buona gente, per scampare
decentemente al pericolo delle loro aggressive felicitazioni!». Diverso era certo il tono dei resoconti del Vorbote, che
vanno letti con qualche riserva.
I francesi avevano una rappresentanza relativamente forte,
disponevano di circa un terzo dei mandati, e non facevano mancare
l’oratoria, ma non ottennero molto. La loro proposta di accogliere
nell’Internazio nale soltanto lavoratori del braccio e non
lavoratori della mente fu respinta, e la stessa sorte subì
la loro proposta di ammettere nel programma dell’Associazione le
questioni religiose, e così questa idea malnata fu eliminata
per sempre. Fu accettata invece una proposta abbastanza
inoffensiva, da loro presentata, per degli studi sul credito
internazionale, che miravano, secondo le idee proudhoniane, a
portare in seguito a una banca centrale dell’Internazionale. Di
maggior peso fu l’approvazione di una proposta, presentata da Tolain
e Fribourg, che condannava il lavoro delle donne come «
principio di degenerazione» e indicava la famiglia come posto
destinato alla donna. Ma essa trovò obiezioni già da
parte dello stesso Varlin e di altri francesi, e fu accettata solo
unitamente alle proposte del Consiglio Generale sul lavoro delle
donne e dei bambini, che la soffocarono. Quanto al resto, i francesi
riuscirono soliamo a introdurre di contrabbando qua e là
nelle risoluzioni qualche riempitivo proudhoniano, ciò che
spiega come Marx fosse parecchio indispettito per questi difetti
esteriori, che sfiguravano la sua opera faticosa, senza però
disconoscere di poter essere ben soddisfatto per tutto lo
svolgimento del Congresso.
Solo su un punto Marx aveva avuto un delusione che poteva
rincrescergli e gli rincrebbe assai: sulla questione polacca. Dopo
le esperienze della Conferenza di Londra questo punto era stato
motivato con cura nel memorandum inglese. Esso affermava che gli
operai europei dovevano sollevare questa questione, perché le
classi dominanti la mettevano a tacere, nonostante tutti i loro
entusiasmi per ogni sorta di nazio nalità, perché
aristocrazia e borghesia consideravano la tenebrosa potenza asiatica
come l’ultimo mezzo di salvezza contro l’avanzare della classe
operaia; che questa potenza sarebbe stata resa inoffensiva soltanto
mediante la restaurazione della Polonia su fondamenta democratiche;
che sarebbe dipeso da questo se la Germania doveva essere un
avamposto della Santa Alleanza o un alleato della Francia
repubblicana; che il movimento operaio sarebbe stato arrestato,
interrotto e ritardato finché questa grande questione europea
non fosse risolta. Gli inglesi sostennero energicamente questa
proposta, ma i francesi e una parte degli svizzeri romanzi si
opposero con energia non minore; infine, per suggerimento di Becker,
che parlò lui stesso in favore della proposta ma voleva
evitare una scissione aperta su questa questione, fu raggiunto un
accordo su una risoluzione evasiva secondo cui l’Internazionale,
essendo contraria a ogni dominazione violenta, si adoperava anche
per eliminare l’influsso imperialistico della Russia e per la
restaurazione della Polonia su basi democratico-sociali.
Quanto al resto, il memorandum inglese vinse su tutta la linea. Gli
statuti provvisori furono convalidati, salvo alcune modifiche;
l’Indirizzo inaugurale non fu discusso, ma da allora fu sempre
citato come documento ufficiale nelle risoluzioni e nelle
dichiarazioni dell’Internazionale. Il Consiglio Generale fu
rieletto, con sede in Londra; esso doveva preparare un’ampia
statistica sulla situazione della classe operaia internazionale, e
redigere un bollettino su tutto ciò che interessava
l’Associazione Internazionale degli Operai, ogni volta che i suoi
mezzi glielo permettessero. Per coprire le spese fu imposto ad ogni
membro, per l’anno seguente, un contributo straordinario di 30
centesimi (24 Pfennig); come contributo ordinario annuale per la
cassa del Consiglio Generale il Congresso raccomandò di
fissare mezzo penny o un penny (8,5 Pfennig), oltre al prezzo della
tessera.
Fra le dichiarazioni programmatiche del Congresso vi erano in primo
luogo le risoluzioni sulle leggi per la protezione degli operai e
sulle associazioni sindacali. Il Congresso affermò il
principio che la classe operaia
deve conquistarsi leggi per la protezione degli operai. «
Riuscendo ad ottenere tali leggi, la classe operaia non rafforza il
potere del governo. Al contrario, essa trasforma in proprio
strumento quel potere, che ora è impiegato contro di essa». Con una legge generale essa realizzava ciò che
sarebbe stato un inutile tentativo voler realizzare mediante sforzi
individuali isolati. Il Congresso raccomandò la limitazione
della giornata lavorativa come una condizione senza la quale
sarebbero falliti tutti gli altri sforzi del proletariato per la
propria emancipazione; ciò era necessario per garantire
energia e salute fisica alla classe operaia, per assicurarle la
possibilità di sviluppo spirituale, di relazioni sociali e di
attività sociale e politica. Come limite legale della
giornata lavorativa il Congresso propose otto ore, che dovevano
essere fissate in un determinato spazio di tempo della giornata, in
modo tale che questo spazio di tempo comprendesse le otto ore di
lavoro e le interruzioni per i pasti. La giornata di otto ore
doveva valere per tutti i maggiorenni, uomini e donne, fissando la
maggiorità a partire dal compimento del diciottesimo anno
d’età. Il lavoro notturno era da respingere per ragioni di
salute, le eccezioni indispensabili dovevano essere regolate per
legge. Le donne dovevano essere escluse col massimo rigore dal
lavoro notturno e da qualsiasi altro lavoro che fosse pericoloso
per la salute femminile o che fosse sconveniente per il sesso
femminile.
Nella tendenza dell’industria moderna a introdurre bambini e
giovani dei due sessi a collaborare alla pro duzione sociale, il
Congresso vedeva un progresso utile e legittimo, per quanto
esecrabile fosse la forma in cui esso era attuato sotto il dominio
del capitale. In una situazione sociale razionalmente ordinata,
ogni ragazzo maggiore di nove anni, senza distinzione, doveva
diventare un lavoratore produttivo, allo stesso modo che nessun
adulto doveva sottrarsi alla generale legge di natura: lavorare,
cioè, per poter mangiare, e lavorare non soltanto col
cervello, ma con le mani. Nella società attuale —
proseguiva la risoluzione — si impone di ripartire i
ragazzi e i giovanetti in tre classi e di trattarli
differenziatamente: ragazzi da 9 a 12 anni, ragazzi da 13 a 15
anni, giovanetti e ragazze da 16 a 17 anni. Il tempo di lavoro per
la prima classe, in qualsiasi posto di lavoro o lavoro a domicilio,
doveva essere limitato a due ore, per la seconda classe a quattro,
per la terza a sei ore, dovendo restare riservata, per quest’ultima
classe, un’interruzione del tempo di lavoro di almeno un’ora per i
pasti e per la ricreazione. Ma il lavoro produttivo dei ragazzi e
dei giovani poteva esser permesso soltanto se congiunto
all’educazione, intendendo con ciò tre cose: educa zione
spirituale, educazione fisica e infine istruzione tecnica, che
impartisse i princìpi scientifici generali di ogni processo
di produzione e nello stesso tempo iniziasse la giovane generazione
all’uso pratico degli strumenti più elementari.
Sulle associazioni di mestiere il Congresso decise che la loro
attività era non solo legittima, ma anche ne cessaria. Esse
erano il mezzo per opporre al potere sociale concentrato del
capitale l’unico potere sociale che il proletariato avesse in suo
possesso: il numero. Finché esisteva il modo di produzione
capitalistico, delle associazioni di mestiere non si poteva lare a
meno, anzi esse avrebbero reso generale la loro attività
mediante collegamenti internazionali. Resistendo coscientemente agli
incessanti soprusi del capitale, esse sarebbero diventate
inconsciamente dei centri d’attrazione per l’organizzazione della
classe operaia, così come i comuni medioevali erano diventati
analoghi centri d’attrazione per la classe borghese. Ingaggiando
incessanti azioni di guerriglia nella lotta quotidiana fra capitale
e lavoro, le associazioni di mestiere sareb bero diventate ancora
molto più importanti come strumenti organizzati per
l’abolizione del lavoro salariato. Fino allora le associazioni di
mestiere avevano avuto di mira troppo esclusivamente la lotta
immediata con tro il capitale, in avvenire esse non dovevano
tenersi al di fuori del generale movimento politico e sociale della
loro classe. Si sarebbero estese col massimo vigore se la gran massa
del proletariato si fosse con vinta che il loro scopo, lungi
dall’essere limitato ed egoistico, mirava invece alla liberazione di
milioni di oppressi.
Subito dopo il Congresso di Ginevra, Marx intraprese un tentativo
nel senso espresso da questa risoluzione, dal quale si riprometteva
molto. Il 13 ottobre 1866 scrisse a Kugelmann: «Il Consiglio
Londinese delle Trade Unions (il suo segretario è il nostro
presidente Odger) sta esaminando in questo momento se dichiararsi
Sezione Inglese dell’Associazione Internazionale. Qualora lo
facesse, la direzione della classe operaia passerebbe qui, in un
certo senso, a noi, e noi potremmo spingere innanzi il movimento». Ma il Consiglio non prese questa decisione, e con
tutta la sua amicizia per l’Internazionale risolse di mantenere la
propria indipendenza e rifiutò anche, se le informazioni
degli storici delle Trade Unions sono giuste, di far partecipare
alle sue sedute un rappresentante dell’Internazionale per riferire
brevemente su tutti gli scioperi del Continente.
Sin dai primi anni l’Internazionale si accorse che grandi successi
l’attendevano, ma che questi successi avevano i loro determinati
limiti. Per ora però poteva rallegrarsi dei suoi successi, e
Marx registrò con viva soddisfazione nella sua opera, alla
quale dava giusto ora l’ultima mano, che contemporaneamente al
Congresso di Ginevra, un Congresso generale degli operai a Baltimora
aveva indicato la giornata di otto ore come prima rivendicazione,
per liberare il lavoro dai ceppi del capitalismo.
Marx osservava che il lavoro della pelle bianca non poteva
emanciparsi in un paese dove veniva marchiato a fuoco il lavoro
della pelle nera. Ma il primo frutto della guerra civile americana,
che aveva ucciso la schiavitù, era stato l’agitazione per le
otto ore, che camminò con gli stivali delle sette leghe della
locomotiva dall’Atlantico al Pacifico, dalla Nuova Inghilterra alla
California.