11.1 Politica europea
Circa nello stesso tempo alla fine del 1853, in cui Marx col suo
pamphlet contro Willich concludeva la sua lotta con “l’imbroglio
democratico dell’emigrazione e la mania di rivoluzione“
cominciò con la guerra di Crimea, un nuovo periodo della
politica europea, che negli anni seguenti attrasse prevalentemente
la sua attenzione.
Il suo pensiero in proposito è espresso stupendamente nei
suoi articoli sulla New York Tribune. Per quanto questo giornale
cercasse di abbassarlo al grado di un normale corrispondente, Marx
poteva dire a ragione di essersi “occupato di vere e proprie
corrispondenze giornalistiche soltanto in via eccezionale“. Rimase
fedele a se stesso, riuscì a nobilitare anche il lavoro
intellettuale fatto per guadagnare, fondandolo su studi faticosi e
dandogli così un valore non caduco.
Questi tesori sono in gran parte ancora inesplorati, e costerebbe
alquanta fatica portarli alla luce. Poiché la New York
Tribune considerava per così dire come materiali grezzi la
collaborazione che Marx le forniva, li gettava a suo piacimento nel
cestino o anche li pubblicava come cosa propria e non sempre, come
Marx diceva inquietandosi, stampava “quella robaccia“ col nome di
lui, non si può ristabilire più tutto il lavoro di
Marx per questo giornale americano e, nei limiti in cui ciò
è ancora possibile, si richiede un vaglio attento per
stabilire esattamente dove cominci e dove finisca.
Un criterio indispensabile per questa ricerca è fornito
soltanto da tempo relativamente breve con la pub blicazione del
Carteggio tra Engels e Marx. Da esso risulta, per esempio, che la
serie di articoli su Rivolu zione e controrivoluzione in Germania,
di cui da tempo si è ritenuto autore Marx, sono stati scritti
preva lentemente da Engels, e inoltre che quest’ultimo non
soltanto ha scritto gli articoli militari per la New York Tribune,
cosa che era già nota da tempo, ma ha lavorato ampiamente per
il giornale anche in altri campi. Oltre alla serie già citata
di articoli, finora sono stati raccolti dalle colonne della New York
Tribune gli articoli sulla questione orientale, ma la raccolta sia
per quello che contiene, che per quello che non contiene, è
anche molto più impugnabile dell’altra, a proposito della
quale c’era stato soltanto l’equivoco circa l’autore.
Con questa ricerca critica sarebbe compiuta soltanto la parte
più semplice del lavoro. Per quanto Marx sapesse dare
dignità al quotidiano lavoro pubblicistico, tuttavia non lo
poteva innalzare oltre se stesso. Anche il genio più grande
non può fare nuove scoperte o partorire nuovi pensieri due
volte alla settimana, in coincidenza col vapore del martedì o
del venerdì. In questo, come disse una volta Engels, si
finisce sempre col “prender le cose di sottogamba e con
l’arrangiarsi soltanto a memoria“. Inoltre il lavoro quotidiano
dipende sempre dalle notizie del giorno e dagli umori del giorno,
dai quali non ci si può nemmeno liberare senza diventare
noiosi e pesanti. Che cosa sarebbero i quattro grossi volumi del
Carteggio tra Engels e Marx senza le cento contraddizioni nelle
quali si sviluppano le grandi direttrici del loro pensiero e della
loro lotta!
Le grandi linee direttive della loro politica europea, quale si
precisò con la guerra di Crimea, sono però oggi
già del tutto chiare, anche senza l’enorme materiale che
attende ancora di esser tratto fuori dalle colonne della New York
Tribune. In un certo senso, la si può chiamare una
conversione. Gli autori del Manifesto comunista rivolgevano il loro
sguardo principalmente sulla Germania, e così anche la Neue
Rheinische Zeitung. E allora questo giornale prendeva
entusiasticamente, posizione per l’indipendenza dei polacchi, degli
italiani, degli ungheresi, e infine chiedeva la guerra contro la
Russia la più forte riserva della controrivo luzione
europea, arrivando ad auspicarne l’estensione a una guerra mondiale
contro l’Inghilterra, con la quale soltanto la rivoluzione sociale
passava dal regno dell’utopia in quello della realtà.
La “schiavitù anglo-russa“ che pesava sull’Europa era il
punto a cui Marx ricollegava la sua politica euro pea al tempo
della guerra di Crimea. Egli salutò questa guerra, in quanto
prometteva di porre un argine alla preponderanza acquistata dallo
zarismo in Europa con la vittoria della controrivoluzione, ma non
era affatto d’accordo sul modo con cui le potenze occidentali
lottavano contro la Russia. Ugualmente la pen sava Engels, che
definì la guerra di Crimea una colossale commedia degli
errori, durante la quale ci si domandava ad ogni istante: chi
è gabbato a questo punto? Tutti e due vedevano nella guerra
di Crimea, per come la conducevano la Francia e soprattutto
l’Inghilterra, soltanto un simulacro di guerra, nonostante il
milione di vite umane e gli innumerevoli milioni che essa
costò.
Ed essa lo era sicuramente in quanto né il falso Bonaparte
né lord Palmerston, ministro inglese degli esteri, pensavano
di colpire a morte il colosso russo. Appena furono sicuri che
l’Austria teneva in scacco la potenza russa ai suoi confini
occidentali, essi spostarono la guerra in Crimea, per intestarsi
contro la fortezza di Sebastopoli, di cui dopo un anno intero
avevano espugnato felicemente la metà. E dovettero
accontentarsi di questo meschino alloro, e alla fine chiedere il
permesso alla Russia “sconfitta“ di reimbarcare indisturbate le loro
truppe.
Quanto al falso Bonaparte, era abbastanza spiegabile perché
non osasse sfidare lo zar a una lotta per la vita e per la morte,
ma era meno spiegabile per Palmerston, che i governi del continente
temevano come la “fiaccola“ della rivoluzione e i liberali del
continente ammiravano come un modello di ministro libe
rale-costituzionale. Marx sciolse l’enigma, sottoponendo a un
faticoso controllo i Libri azzurri e i dibattiti parlamentari della
prima metà del secolo, ed oltre a quelli anche una serie di
notizie diplomatiche conser vate nel British Museum, per dimostrare
sulla loro base che dal tempo di Pietro il Grande fino ai giorni
della guerra di Crimea c’era stata collaborazione tra i gabinetti
di Londra e di Pietroburgo e che soprattutto Palmerston era un
venale strumento della politica zarista. I risultati di questi
studi hanno poi sollevato po lemiche e sono ancor oggi contrastati,
soprattutto per quel che riguarda Palmerston, la cui poco scrupolosa
politica commerciale, coi suoi mezzi termini e le sue
contraddizioni, fu giudicata da Marx indubbiamente in modo
più esatto di quanto facessero i governi e i liberali del
continente, senza però che ne risulti con assoluta
necessità che Palmerston sia stato comprato dalla Russia. Ma
più importante della questione se Marx abbia teso troppo
l’arco in questo caso, è il fatto che in seguito egli lo
tenne sempre teso, e considerò compito imprescindibile della
classe operaia penetrare i misteri della politica internazionale e
sventare i tiri diplomatici dei governi o, se questo le era ancora
impossibile, almeno denunziarli.
Soprattutto importava per lui la lotta senza quartiere contro la
potenza barbarica di cui vedeva la testa a Pietroburgo e le mani
rimestare in tutti i Gabinetti europei. Nello zarismo egli vedeva
non soltanto la mag giore fortezza delia reazione europea, la cui
pura esistenza passiva era un continuo pericolo e una continua
minaccia, ma anche il nemico principale che col suo incessante
immischiarsi negli affari dell’occidente ne impediva e ne disturbava
il normale sviluppo, con lo scopo di espugnare delle posizioni
geografiche che avrebbero dovuto assicurargli il dominio dell’Europa
e rendere così impossibile la liberazione del proletaria to
europeo. L’importanza decisiva che Marx attribuiva a questo punto,
da questo momento in poi influenzò notevolmente la sua
politica operaia, molto più fortemente di quanto non fosse
già avvenuto negli anni della rivoluzione.
Se così Marx non faceva che continuare a tessere un filo
ch’egli aveva annodato nella Neue Rheinische Zeitung, le nazioni per
le cui lotte d’indipendenza il giornale s’era entusiasmato,
passavano in seconda linea sia per lui che per Engels. Non che tutti
e due avessero cessato di sostenere l’indipendenza della Polonia,
dell’Ungheria e dell’Italia, sia come un diritto di questi paesi che
come un interesse della Germania e dell’Europa. Ma sin dal 1851
Engels dava ai prediletti di una volta questo secco congedo: “Agli
italiani, ai polacchi e agli ungheresi dirò chiaramente che
in tutte le questioni moderne devono tenere la bocca chiusa”. Qualche mese dopo diceva ai polacchi che essi erano una
nazione dissolta, adoperabili ancora come strumento, fino a che non
fosse trascinata nella rivoluzione la Russia stessa. I polacchi non
avevano fatto altro nella storia che combinare eroiche sciocchezze
per la smania di litigare. Perfino nei confronti della Russia non
avevano mai fatto nulla di importanza storica, mentre la Russia era
stata effettivamente progressiva nei confronti dell’Oriente. Il
dominio russo con tutta la sua brutalità, con tutto il suo
sudiciume slavo, aveva una funzione di civiltà per il Mar
Nero, il Mar Caspio e l’Asia centrale, per i basckiri e i tartari,
e la Russia aveva accolto in sé molti più elementi di
cultura, e soprattutto elementi industriali, che non la Polonia
nobilesca e impellicciata per natura. Frasi che a dire il vero
risentono fortemente della passione delle lotte tra i profughi.
Più tardi Engels ha di nuovo espresso giudizi molto
più miti sulla Polonia e, ancora nei suoi ultimi anni, ha
riconosciuto che essa ha salvato almeno due volte la civiltà
europea: con la sua insurrezione nell’anno 1792 e 1793, e con la sua
rivoluzione del 1830 e 1831.Ma Marx ha dedicato questo giudizio al
celebrato eroe della rivoluzione italiana: “Mazzini conosce
soltanto le città con la loro nobiltà li berale e i
loro borghesi illuminati. I bisogni materiali della popolazione
italiana delle campagne — sfruttata e sistematicamente snervata e
incretinita come quella irlandese — restano naturalmente al di
sotto del cielo delle frasi dei suoi manifesti
cosmopolitico-neocattolico-ideologici. Tuttavia ci vuole del
coraggio per spiegare ai borghesi e ai nobili che il primo passo per
l’indipendenza dell’Italia è la completa emancipazione dei
contadini e la trasformazione del loro sistema a mezzadria in una
libera proprietà borghese“. E a Kossuth, che faceva pompa di
sé a Londra, Marx faceva dire in una lettera aperta del suo
amico Ernest Jones che le rivoluzioni europee significavano la
crociata del lavoro contro il capitale. Non si poteva farla scendere
al livello spirituale e sociale di un popolo oscuro e semibarbaro
come i magiari, fermi ancora alla mezza civiltà del secolo
decimosesto e che si immaginavano davvero di poter avere a propria
disposizione la grande civiltà della Germania e della
Francia e di carpire un evviva alla credulità
dell’Inghilterra.
Ma Marx si allontanava al massimo dalle tradizioni della Neue
Rheinische Zeitung quando non soltanto non rivolgeva più
sulla Germania la sua principale attenzione, ma la bandiva alquanto
dal suo orizzonte poli tico. A dire il vero, allora la Germania
aveva una funzione eccezionalmente torbida nella politica europea e
poteva passare per un pascialicato russo, ma se così la cosa
si spiega in certo modo, fu tuttavia per certi aspetti fatale che
Marx — e la stessa cosa vale per Engels— abbia perduto per una serie
di anni ogni stretto contatto con l’evoluzione tedesca.
Specialmente il disprezzo, che tutti e due, in quanto cittadini
della Renania annessi allo Stato prussiano, avevano sempre provato
per quest’ultimo, si accrebbe nel periodo Manteuffel-Westphalen fino
ad un punto che era fortemente in contrasto con la loro acuta
visione dello stato reale delle cose.
Un’eloquente testimonianza di ciò la fornisce anche
quell’unico caso eccezionale in cui Marx degnò della sua
attenzione la situazione prussiana del momento. Ciò avvenne
verso la fine del 1856, quando la Prussia si accapigliò con
la Svizzera per l’affare di Neufchàtel. L’urto indusse Marx,
come egli scriveva a Engels il 2 dicembre 1856, ad “approfondire le
mie molto manchevoli cognizioni di storia prussiana“; ed egli
riassumeva il risultato dei suoi studi nell’affermazione che la
storia universale non ha mai prodotto nulla di più
miserevole. Quel che egli poi aggiungeva nella lettera stessa, e
ripeteva più distesamente qualche giorno dopo nel People’s
Paper, organo dei cartisti, non lo mostra davvero all’altezza
consueta della sua concezione della storia, ma rasenta piuttosto
pericolosamente quelle bassure storiografiche proprie della
democrazia usa ai toni scandalizzati dei galantuomini, che
altrimenti è proprio suo merito avere superato.
Lo Stato prussiano, boccone duro, quale esso era senza dubbio per
ogni uomo di cultura, proprio per ciò non poteva esser
dissolto dall’acquaforte dello scherno sul “diritto divino degli
Hohenzollern“, sulle loro tre maschere caratteristiche sempre
ricorrenti: il pietista, il sottufficiale e il pagliaccio, sulla
storia prussiana che sarebbe una “ poco pulita cronaca familiare” al
confronto dell’“epicità diabolica” della storia austriaca, e
su altre cose del genere, che al massimo spiegavano il
perché, ma lasciavano completamente all’oscuro il
perché del perché.
11.2 David Urquhart. Harney
e Jones
Nello stesso tempo, e con lo stesso criterio con cui collaborava
alla New York Tribune, Marx collaborò ai giornali
urquhartisti e cartisti.
David Urquhart era un diplomatico inglese, che si acquistò
grandi meriti con la sua precisa conoscenza e la sua lotta
incessante contro i piani russi di dominio mondiale, ma che poi
diminuì questi suoi meriti con un fanatico odio per i russi e
un fanatico entusiasmo per i turchi. Marx fu definito spesso un
urquhartista, ma molto ingiustamente; si può dire piuttosto
che tanto lui quanto Engels abbiano più contrastato le folli
esagerazioni che apprezzato i portati effettivi di quest’uomo.
Proprio nel nominarlo la prima volta, nel marzo del 1853, Engels
scriveva: “Ora ho in casa l’Urquhart, quel pazzo M.P. che pretende
che Palmerston sia pagato dalla Russia. La cosa si spiega
semplicemente: questo tipo è un celta scozzese, di cultura
sassone-scozzese, romantico per tendenza, freetrader per educazione.
Andò in Grecia come filelleno, e dopo essersi battuto per tre
anni contro i turchi, andò in Turchia e si entusiasmò
per l’appunto dei turchi. E’ entusiasta dell’Islam, e il suo
principio è: se non fossi calvinista, potrei essere soltanto
maomettano“. Nell’insieme Engels trovava che il Libro di Urquhart
era davvero divertentissimo.
Il punto di contatto tra Marx ed Urquhart era la lotta contro
Palmerston. Un articolo contro questo ministro, pubblicato da Marx
nella New York Tribune e riprodotto da un giornale di Glasgow,
destò l’attenzione di Urquhart, e nel febbraio del 1854 egli
ebbe un incontro con Marx, nel quale lo accolse col complimento che
i suoi articoli erano quali li avrebbe scritti un turco. E quando
Marx in risposta spiegò di essere un “rivoluzionario“,
Urquhart restò molto deluso, perché tra le sue fisime
c’era anche quella che i rivoluzionari europei fossero, coscienti o
no, strumenti adoperati dallo zarismo per creare difficoltà
ai governi europei. “E’ un perfetto monoman“ scrisse Marx ad Engels
dopo questa conversazione. Come ebbe a spiegargli, non era
d’accordo con lui su niente ad eccezione che su Palmerston, e su
questo punto Urquhart non lo aveva minimamente aiutato.
Certo non si dovrà far dire troppo a queste espressioni
confidenziali. Pubblicamente, pur con ogni riserva critica, Marx ha
ripetutamente riconosciuto i meriti di Urquhart, e non ha nemmeno
fatto un mistero del fatto di essere stato, se non convinto,
però stimolato da Urquhart. Perciò non si fece uno
scrupolo di fornire all’occasione della collaborazione per i
giornali di Urquhart e particolarmente per la Free Press di Londra,
e di consentire la diffusione in forma di opuscoli di parecchi suoi
articoli della New York Tribune. Questi pamphlets contro Palmerston
furono diffusi in diverse edizioni fino a 1530.000 copie, e
suscitarono un grande scalpore. Ma per il resto Marx ebbe presso lo
scozzese Urquhart tanto poco successo quanto presso il yankee Dana.
Una relazione durevole tra Marx ed Urquhart era esclusa già
per il fatto che Marx sosteneva il cartismo, che Urquhart odiava
doppiamente, anzitutto come libero-scambista e poi come nemico dei
russi, che in ogni movimento rivoluzionario sentiva tintinnio di
rubli. Il cartismo non si era più riavuto della grave
sconfitta subita il 10 aprile 1848, ma fino a che i suoi resti
lottarono per una nuova vita, Marx ed Engels li sostennero
fedelmente e coraggiosamente e in particolare fornirono
collaborazione gratuita ai loro organi, che nel decennio tra il 1850
e il 1860 furono editi da George Julian Harney e da Ernest Jones; da
Harney, uno dopo l’altro, il Red Republican, il Friend of the People
e la Democratic Review, e da Jones le Notes of the Pople e il
People’s Paper, che durò più di tutti, fino al 1858.
Harney e Jones appartenevano alla frazione rivoluzionaria del
cartismo, e in esso erano anche i più liberi da ogni
grettezza isolana; nella associazione internazionale dei Fraternal
Democrats essi passavano per le personalità dirigenti. Harney
era figlio di un uomo di mare ed era cresciuto in condizioni
proletarie; aveva studiato da sé la letteratura
rivoluzionaria di Francia, e vedeva soprattutto in Marat il proprio
modello. Più vecchio di Marx di un anno, quando Marx dirigeva
la Rheinische Zeitung, era già nella redazione del Northern
Star, il principale organo dei cartisti. Qui lo venne a trovare nel
1843 Engels, “un giovane snello, di aspetto estremamente giovanile,
quasi un ragazzo, che già allora parlava un inglese
straordinariamente corretto“. Nel 1847 Harney conobbe anche Marx e
si unì a lui entusiasticamente.
Nel suo Red Republican egli ristampò una traduzione inglese
del Manifesto comunista, con la postilla che esso era il documento
più rivoluzionario che si fosse mai avuto al mondo, e nella
sua Democratic Review tradusse gli articoli della Neue Rheinische
Zeitung sulla rivoluzione francese, come la “vera critica“ delle
vicende di Francia. Nelle lotte degli emigrati però egli
tornò in seguito ai suoi antichi amori, ed ebbe con Jones un
dissenso violento non meno che con Marx ed Engels. Subito dopo si
trasferì sull’isola di Jersey e poi negli Stati Uniti, dove
Engels lo visitò nell’anno 1888. Subito dopo Harney
tornò in Inghilterra, e vi “morì in età
inoltrata, ultimo testimone di una grande epoca.
Ernest Jones discendeva da un vecchio ceppo normanno, ma era nato ed
era stato educato in Germania, dove suo padre viveva come addetto
militare del duca di Cumberland, che fu poi il re Ernesto Augusto di
Hannover. Questo libertino ultrareazionario, a cui la stampa inglese
rimproverò tutti i misfatti ad eccezione del suicidio, tenne
a battesimo il piccolo Ernest, senza che questo padri nato e le
relazioni di corte della sua famiglia abbiano avuto alcuna
influenza su di !ui. Ancor ragazzo, egli manifestava un indomabile
ardore di libertà, e, fatto adulto, ha resistito a tutti i
tentativi di stringerlo entro catene d’oro. Aveva circa ventanni
quando si dedicò agli studi di diritto e fu ammesso
all’avvocatura. Sacrificò tutte le prospettive apertegli
dalle sue brillanti capacità e dalle relazioni
aristocratiche della sua famiglia, per dedicarsi alla causa
cartista, che sostenne con tanto ardore da essere condannato nel
1848 a due anni di prigione. Come punizione per aver tradito la sua
classe, in prigione fu trattato come un detenuto comune, ma nel
1850 lasciò il carcere senza esserne stato piegato e
dall’estate del 1850 in poi, per circa due decenni, fu in stretti
rapporti con Marx ed Engels, tra l’uno e l’altro dei quali stava
come età.
A dire il vero, anche questa amicizia non è stata del tutto
senza nuvole: furono offuscamenti dello stesso genere di quelli che
si ebbero nell’amicizia con Freiligrath, col quale Jones aveva in
comune il dono della poesia, o anche con Lassalle, sul quale Marx
dava un giudizio analogo, ma solo incomparabilmente più
aspro, di quello che, nel 1855, scriveva di Jones: “Jones, con tutta
l’energia, la tenacia e l’attività che bisogna
riconoscergli, però rovina tutto con la sua ciarlataneria,
la sua inopportuna smania di trovar pretesti di agitazione, e la sua
impazienza di bruciar le tappe”. Anche in seguito non sono mancati
gli scontri duri, quando l’agitazione cartista s’insabbiava sempre
più e Jones si avvicinava al radicalismo borghese.
Ma nella sostanza rimase un’amicizia sincera e schietta. Jones da
ultimo visse a Manchester come avvo cato e morì
inaspettatamente nel 1869, ancora nel pieno delle sue forze; Engels
mandò la triste notizia a Londra con un foglio scritto in
fretta: “Un altro di quelli vecchi!“, e Marx rispose: “ La notizia
di E. Jones ha destato a casa nostra naturalmente una profonda
costernazione: era uno dei pochi vecchi amici“. Engels poi dava
ancora la notizia che Jones era stato sepolto, seguito da un enorme
corteo, nello stesso cimitero dove già riposava uno dei loro
fedeli, Wilhelm Wolff. Era davvero un peccato che se ne fosse
andato; le sue frasi borghesi erano in fondo solo finzioni, e fra
gli uomini politici, era pur sempre l’unico inglese colto che in
fondo fosse completamente dalla loro parte.
11.3 Famiglia e amici
In questi anni Marx si tenne lontano da ogni relazione politica,
anzi quasi da ogni compagnia. Si era ritirato completamente nel suo
studio, che lasciava soltanto per dedicarsi alla sua famiglia, che
nel gennaio del 1855 si accrebbe di un’altra bambina, Eleanor.
Egli era un grande amico dei bambini, come anche Engels, e se
qualche volta sottraeva un’ora al suo incessante lavoro, era per
giocare coi suoi figli. Essi lo idolatravano, sebbene, o magari
proprio perché rinunciava ad ogni autorità paterna;
lo trattavano come un compagno, e lo chiamavano “Moro“, con un
soprannome che era dovuto ai suoi capelli neri e al colore scuro
della sua pelle. “I bambini devono educare i genitori“, egli soleva
dire. Soprattutto essi gli proibivano di lavorare la domenica; la
domenica egli doveva appartenere tutto a loro, e le gite domenicali
in campagna, durante le quali sostavano in qualche modesta osteria
per bere birra allo zenzero e mangiare un po’ di pane e formaggio,
erano dei raggi di sole in mezzo alle nuvole pesanti sempre sospese
sulla casa.
Queste gite erano dirette con particolare preferenza verso Hampstead
Heath, la landa di Hampstead, una linea di colline a nord di Londra,
senza costruzioni, sparsa di gruppi di alberi e di ginestre.
Liebknecht ha descritto con molta grazia queste gite domenicali.
Oggi la landa non è più quella che era sessanta anni
fa, ma dall’antica osteria, Jack Straws Castle, ai cui tavoli Marx
si è spesso seduto, si gode ancora una splendida vista su di
essa, col suo pittoresco alternarsi di colline e di valli,
soprattutto quando la domenica sono animate di gente in festa. Al
sud della città gigantesca, con le sue masse di case,
sovrastate dalla cupola della cattedrale di S. Paolo e dalle torri
di Westminster, appaiono tra i vapori della lontananza le colline di
Surrey, al nord un tratto di terreni fertili, fittamente popolati,
sparsi di numerosi villaggi, all’ovest l’altra collina di Highgate,
dove Marx dorme il suo sonno eterno.
Ma su questa modesta felicità familiare si abbatté la
folgore; il venerdì santo del 1855 gli fu strappato dalla
morte l’unico figlio maschio, di circa nove anni, Edgar o “Musch”,
come veniva chiamato in casa. Il ragazzo, che già rivelava
delle qualità notevoli, era il beniamino di tutti. “Una
perdita così triste e tremenda che non posso proprio dire
quanto mi abbia colpito”, scriveva Freiligrath in Germania.
Le lettere in cui Marx dava notizia ad Engels della malattia e della
morte del bimbo strappano il cuore. Il 30 marzo egli scriveva: “Mia
moglie da una settimana in qua è stata ammalata come mai
prima d’ora per un’angoscia morale. E anche a me sanguina il cuore e
brucia il capo, sebbene io debba naturalmente darmi un contegno.
Durante la malattia il bambino non smentisce un solo istante il suo
carattere particolare, cordiale e nello stesso tempo indipendente“.
E il 6 aprile: “Il povero Musch non è più. Si è
addormentato (nel vero senso della parola) tra le mie braccia oggi
tra le 5 e le 6. Non dimenticherò mai come la tua amicizia ci
ha reso più leggero questo terribile periodo. Il mio dolore
per il bambino tu lo capisci”. E il 12 aprile: “La casa è
naturalmente del tutto desolata e vuota dopo la morte del caro
bambino che ne era l’anima. Non si può dire come il bambino
ci manchi a ogni istante. Ho già sofferto ogni sorta di guai,
ma solo ora so che cosa sia una vera sventura... Tra tutte le pene
terribili che ho passato in questi giorni, il pensiero di te e della
tua amicizia, e la speranza che noi abbiamo ancora da fare insieme
al mondo qualche cosa di intelligente, mi hanno tenuto su“. Ci
volle molto tempo prima che la ferita cominciasse sia pure a
rimarginarsi. Il 28 luglio Marx rispondeva a una lettera di
condoglianze di Lassalle: “Bacone dice che gli uomini veramente
significativi hanno tanti rapporti con la natura e col mondo, tanti
oggetti del loro interesse che superano facilmente il dolore di ogni
perdita. Io non appartengo a questi uomini significativi. La morte
del mio bambino mi ha scosso profondamente il cuore e il cervello, e
soffro della perdita ancora come il primo giorno. Anche la mia
povera moglie è del tutto affranta”. E il 6 ottobre
Freiligrath scriveva a Marx: “Che tu non ti sia ancora ripreso della
tua perdita è cosa che mi addolora profondamente. Comprendo
e rispetto il tuo dolore, ma cerca di dominarlo, per non esserne
dominato. Non commetterai così un tradimento verso la memoria
del tuo caro piccino“.
La morte del piccolo Edgar fu la conseguenza di continue malattie
che da un paio di anni avevano im perversato in famiglia, e che
dalla primavera avevano preso anche Marx, per non abbandonarlo mai
più del tutto. Lo tormentava soprattutto una malattia di
fegato, che credeva di avere ereditato dal padre. Ma
contribuì molto alle cattive condizioni di salute anche la
misera abitazione e il quartiere malsano in cui sor geva.
Nell’estate del 1854 il colera vi dilagò con particolare
violenza, forse perché i canali di scolo scavati nello stesso
tempo erano stati immessi nei pozzi dove erano sepolti i morti della
peste del 1665. Il medico ingiunse di lasciare “la zona infetta di
Soho Square”, la cui aria Marx aveva respirato ininterrottamente da
anni. Un nuovo lutto in famiglia ne creò la
possibilità. Nell’estate del 1856 la signora Marx si era
recata a Treviri con le tre figlie, per rivedere la sua vecchia
madre. Ma arrivò appena in tempo per chiuderle gli occhi dopo
sofferenze durate undici giorni.
La sua eredità era modesta, tuttavia un paio di centinaia di
talleri toccarono alla signora Marx, e vi si ag giunse, a quanto
pare, anche una piccola eredità da parte dei parenti
scozzesi. Così nell’autunno del 1856 la famiglia poté
trasferirsi in una casetta non lontana dal loro amato Hampstead
Heath: 9 Graftonterrace, Maitlandpark, Haver-stockhill. La pigione
ammontava a 36 sterline l’anno. “E’ un’abitazione davvero prin
cipesca, confrontata col buco dove stavamo prima — scriveva la
signora Marx ad una amica — e sebbene tutto l’arredamento non sia
costato tutto compreso molto più di 40 sterline (una parte
notevole è roba di seconda mano), al principio mi sentivo
proprio grande nel nostro salotto. Tutta la biancheria e altri
residui dell’antica grandezza sono stati liberati dalle mani dello
‘zio’ (il Monte) e ho riscontrato con gioia le salviette di damasco
che venivano da antica fonte scozzese. Sebbene la magnificenza non
sia durata a lungo, per ché ben presto un pezzo dopo l’altro
ha dovuto emigrare di nuovo nel Pop-haus (così i bambini
chiamano il misterioso negozio con le tre palle), però per
una volta ci siamo sentiti soddisfatti della nostra agiatezza
borghese“. Fu un momento di respiro anche troppo breve.
La morte miete anche tra i loro amici. Daniels morì
nell’autunno del 1855, Weerth nel gennaio del 1856 a Haiti, Konrad
Schramm al principio del 1858 nell’isola di Jersey. Marx ed Engels
si adoperarono con ardore perché la stampa pubblicasse almeno
un breve necrologio di loro tutti, ma senza successo. Essi
lamentarono spesso che la vecchia guardia scomparisse e che non ci
fosse nessun nuovo afflusso. Per quanto al principio fosse loro
piaciuto il loro “pubblico isolamento”, e per quanto sicura fosse la
fede nella vittoria con la quale i due solitari prendevano parte
alla politica europea, essi erano tuttavia dei politici troppo appassionati per non sentire alla lunga la mancanza di un
partito; perché i pochi loro seguaci, come lo stesso Marx
ebbe a dire una volta, non erano un partito. E tra loro non c’era
nessuno che fosse all’altezza dei loro pensieri, ad eccezione del
solo nei riguardi del quale essi non poterono mai superare la loro
diffidenza.
A Londra Liebknecht era tutti i giorni da Marx, soprattutto
finché questi abitò in Deanstreet, ma egli doveva
lottare duramente con le miserie della vita nella sua angusta
soffitta, e io stesso era per i vecchi compagni della Lega dei
Comunisti, per Lessner e per il falegname Lochner, per Eccarius e
per il “peccatore pentito“ Schapper. Altri erano dispersi: Dronke
faceva il commerciante a Liverpool e poi a Glasgow, Imandt il
professore a Dundee, Schily l’avvocato a Parigi, dove era anche
Reinhardt, segretario di Heine durante gli ultimi anni della di lui
vita, che apparteneva anche lui alla cerchia ristretta dei fedeli.
Ma anche tra i più fedeli la vita politica si veniva
spegnendo, Wilhelm Wolff, che viveva passabilmente a Manchester
dando lezioni, era sempre lo stesso, era come la signora Marx
scrisse una volta: “una natura schietta, viva, plebea”, solo che con
gli anni crescevano le fìsime dello scapolo e le sue
“battaglie più grandi“ erano ormai quelle con la padrona di
casa per il tè, lo zucchero e il carbone. Spiritualmente
nell’esilio non ha rappresentato molto per i vecchi amici.
Così anche Freiligrath rimase il vecchio amico fidato; anzi,
da quando nell’estate del 1856 gli fu affidata l’agenzia londinese
di una banca svizzera, egli sfruttò le accresciute
possibilità di aiutare finanziariamente Marx con tanta
maggiore larghezza in quanto gli anticipava subito in contanti le
cambiali della New York Tribune, che abbastanza spesso mostrava di
non avere troppa fretta nel pagare. Freiligrath restò saldo
anche nelle sue convinzioni rivoluzionarie ma si estraniò
sempre più dalla lotta di partito. Per quanto affermasse con
onesta convinzione che in nessun luogo il rivoluzionario poteva
farsi seppellire con decoro se non nell’esilio, tuttavia il poeta
tedesco non poteva essere contento dell’esilio. Di fronte alla
nostalgia della donna amata, e alla schiera dei bambini che
accendevano l’albero di Natale su terra straniera, la fonte della
poesia s’inaridiva sempre più. Egli ne soffriva e fu un bene
per lui che la patria tornasse a poco a poco a ricordarsi del famoso
poeta.
E ora la lunga serie dei “morti vivi“! Avvenne a Marx di incontrare
a Londra qualche compagno della sua giovinezza filosofica: Eduard
Meyen, che era sempre il vecchio rospo velenoso, Faucher, che,
segretario di Cobden, pretendeva di “fare la storia“
liberoscambista, Edgar Bauer, che all’opposto faceva l’agitatore
comunista, ma che Marx seguitò a chiamare il “clown”. Quando
Bruno venne per un certo periodo di tempo a Londra in visita al
fratello, Marx si incontrò più volte col vecchio amico
di gioventù. Dato che Bruno Bauer era tutto entusiasta della
forza primitiva russa, e invece nel proletariato vedeva solo del
“volgo“ da guidare con la forza e con l’astuzia, e che in caso
estremo si poteva comprare elargendogli un Groschen d’argento,
naturalmente ogni possibilità d’intendersi era esclusa. Marx
lo trovò visibilmente invecchiato, con la fronte più
alta e le maniere da professore pedante, ma dette tuttavia notizie
circostanziate ad Engels sulle sue conversazioni col “piacevole
vecchio signore“.
Ma anche i “morti vivi“ di un passato più recente erano
troppi e crescevano ad ogni anno. Così i vecchi amici della
Renania: Georg Jung, Heinrich Bùrgers, Hermann Becker e
altri. Alcuni di loro, come Becker e dopo di lui il bravo Miquel,
sistemarono tutto “scientificamente”: bisognava che la borghesia
vincesse completamente sulla feudalità degli Junker, prima
che il proletariato potesse pensare alla propria vittoria. Becker
spiegava: “Là dove arriva il tarlo della canaglia degli
interessi materiali, là la marcia armatura della
feudalità degli Junker cade in polvere, e la storia al primo
alito dello spirito del mondo di là da tutto l’intonaco
esterno passa all’ordine del giorno estremamente semplice”. Una
teoria molto carina fin qui, che anche oggi può incantare
qualche furbacchione. Ma quando Becker divenne primo borgomastro di
Colonia e Miquel ministro prussiano delle finanze, si erano talmente
innamorati della “canaglia degli interessi mate riali“, che si
opposero con le mani e coi piedi “al primo alito dello spirito del
mondo“ e al suo “ordine del giorno estremamente semplice“.
Era comunque un compenso alquanto problematico alla perdita di
uomini come Becker e Miquel, quel tale Gustav Levy, commerciante di
Colonia, che nella primavera del 1856 si presentò a Marx per
offrirgli pari pari un’insurrezione nelle fabbriche di Iserlohn,
Solingen ecc. Marx si espresse molto aspramente contro questa pazzia
inutile e pericolosa; fece dire da Levy agli operai, su mandato vero
o presunto dei quali egli era venuto, di mandare di nuovo qualcuno a
Londra dopo qualche tempo, ma di non fare nulla senza accordo
preventivo.
Di fronte all’altro mandato che Levy pretendeva di aver avuto dagli
operai di Dusseldorf, Marx non rispose con un rifiuto altrettanto
deciso: quando cioè questi lo mise in guardia contro
Lassalle, dicendo che era un individuo malsicuro, che dopo l’esito
vittorioso del processo Hatzfeldt viveva sotto il giogo vergognoso
della contessa, si faceva mantenere da lei, voleva andare con lei a
Berlino, per crearle una corte di letterati, e gettava via gli
operai come strumenti già sfruttati, per passare dalla parte
della borghesia, e altre chiacchiere del genere. Questa volta si
può dubitare a buon diritto del fatto che degli operai renani
abbiano mandato a Marx una siffatta ambasciata, perché gli
stessi operai pochi anni dopo annunciarono con solenni manifesti e
con appelli festosi che la casa di Lassalle a Dusseldorf nel periodo
del terrore bianco del decennio tra il 1850 e il 1860 era stata
“l’asilo sicuro dei più intrepidi e decisi sostenitori del
partito”. È più che verosimile che il messaggero si
sia inventato di testa sua l’ambasciata; quel brav’uomo era adirato
al massimo con Lassalle, perché questi, alla sua richiesta di
un prestito di 2.000 talleri, gliene aveva accordati solo 500.
Se Marx fosse stato informato di ciò, avrebbe sicuramente
mantenuto di fronte a questo Levy il più assoluto riserbo.
Ma l’informazione stessa era già tale da far nascere i
maggiori sospetti. Marx era rimasto con Lassalle in contatto
epistolare non certo frequente, ma tuttavia ininterrotto; aveva
trovato sempre in lui, sia personalmente che politicamente, un amico
e un compagno di partito fidato; anzi, aveva egli stesso lottato
contro la diffidenza che ai tempi della Lega dei Comunisti era
comunque esistita contro Lassalle nei circoli degli operai renani a
causa del fatto che egli era implicato nell’affare Hatzfeldt. Ancora
appena un anno prima, quando Lassalle gli scrisse da Parigi, gli
aveva risposto in maniera assolutamente cordiale: “Naturalmente sono
sorpreso di saperti cosi vicino a Londra, senza che tu pensi di
venir qua sia pure per pochi giorni. Spero che ci rifletterai ancora
e che ti accorgerai quanto il viaggio da Parigi a Londra sia breve e
costi poco. Se le porte della Francia non fossero sbarrate per me,
ti farei una sorpresa a Parigi“.
Così mal si spiega che Marx abbia comunicato ad Engels le
sciocche chiacchiere di Levy, e vi abbia aggiunto: “Questi non sono
che fatti singoli, colti a volo e annotati saltuariamente. Tutto
insieme ha fatto su di me e su Freiligrath un’impressione definitiva
per quanto io fossi favorevolmente prevenuto nei confronti di
Lassalle e diffidente dei riguardi delle chiacchiere degli operai“.
A Levy aveva detto che era impossibile giungere a una decisione
sulla base del resoconto di una sola parte, ma che in ogni caso era
utile stare in guardia; si sorvegliasse Lassalle, ma evitando per il
momento ogni scandalo pubblico. Ed Engels fu d’accordo, con alcune
osservazioni che sulla sua bocca colpiscono meno, dato che conosceva
Lassalle meno di Marx. Era un peccato per lui, dato il suo grande
talento, ma queste cose passavano davvero ogni limite. Lassalle era
sempre un tipo dal quale bisognava stare maledettamente in guardia;
da vero ebreo del confine slavo, era sempre all’erta per sfruttare
ciascuno per i suoi scopi personali, sotto pretesti di partito.
Così Marx interruppe la sua corrispondenza con quell’uomo che
qualche anno più tardi poteva scrivergli con tutta
verità: non hai in Germania un altro amico come me.
11.4 La crisi del 1857
Quando nell’autunno del 1850 Marx ed Engels si ritirarono dalle
lotte pubbliche dalla vita di partito, avevano dichiarato: “Una
nuova rivoluzione è possibile soltanto in seguito a una nuova
crisi. Ma è anche altrettanto sicura quanto questa“. Da
allora essi avevano spiato, e ogni anno più impazientemente,
i segni di una nuova crisi. Liebknecht racconta che Marx la
prediceva talvolta e che gli amici stuzzicavano in proposito: ma
quando nel 1857 essa venne sul serio, Marx fece effettivamente
annunciare a Wilhelm Wolff da parte di Engels che avrebbe dimostrato
che normalmente essa sarebbe dovuta scoppiare due anni prima.
Essa cominciò negli Stati Uniti, e i suoi prodromi furono
avvertiti da Marx per il fatto che la New York Tribune lo mise a
mezza paga. Il colpo lo toccò tanto più duramente in
quanto nella nuova abitazione si era installata già la
vecchia miseria o una miseria ancora maggiore. Qui Marx non poteva
“tirare avanti da un giorno all’altro come in Deanstreet“, senza
prospettive e con spese familiari sempre crescenti. “Non so proprio
che devo fare, e sono davvero in una situazione disperata più
che cinque anni fa”, scriveva ad Engels 20 gennaio 1857. E questi fu
colpito dalla notizia “come da un fulmine a ciel sereno“ ma si
affrettò a dare il suo aiuto e si lamentò soltanto
perché Marx non aveva scritto due settimane prima: si era
appena comprato un cavallo, per il quale suo padre gli aveva mandato
il denaro necessario come regalo di Natale: “mi dà proprio
fastidio che io debba qui mantenere un cavallo mentre a Londra tu
stai nei guai con la ma famiglia“. E fu molto contento quando, un paio di mesi
dopo, Dana chiese a Marx di collaborare, in particolare anche con
articoli militari, a un’enciclopedia da lui pubblicata. La faccenda
capitava per lui “proprio a punto“ e gli faceva “un piacere
immenso“ perché sarebbe stata un enorme aiuto per liberare
Marx dalle sue eterne necessità finanziarie; questi doveva
soltanto prendere più voci che poteva, e organizzare a poco a
poco una redazione.
Di questo non si fece nulla, se non altro per mancanza di persone. E
del resto la cosa si dimostrò non tanto brillante quanto
Engels aveva supposto; il compenso alla fine risultò di
nemmeno un penny a riga, e sebbene molte cose potessero anche essere
soltanto lavoro di seconda mano, però Engels era troppo
coscienzioso per sbrigarsela a cuor leggero. Quello che ne trapela
nel loro carteggio, non giustifica in alcun modo il giudizio
sprezzante che Engels pronunciò più tardi sopra queste
voci redatte in parte da Marx in parte da lui: “Puro lavoro
commerciale e non altro, possono tranquillamente restare sepolte”.
A poco a poco questa attività, pur sempre secondaria,
cessò, e pare che la collaborazione regolare dei due amici
all’enciclopedia non si sia estesa oltre la lettera C.
Essa venne sin dal principio ostacolata notevolmente dal fatto che
nell’estate del 1857 Engels fu colpito da una malattia glandolare,
che lo costrinse a recarsi per un periodo alquanto lungo al mare.
Anche per Marx le cose non andavano bene. I suoi dolori al fegato si
manifestarono in un nuovo attacco così violento che egli
potè compiere i lavori necessari soltanto grazie a uno sforzo
immenso. Nel luglio sua moglie partorì un bambino nato morto,
in condizioni che fecero una terribile impressione sulla sua
fantasia e lo ossessionarono con un ricordo tormentoso; “Bisogna che
ti vada assai male prima che tu scriva così” rispondeva
Engels spaventato, ma Marx rimandava tutto a una spiegazione a voce,
perché non poteva scrivere su queste cose.
Ma ogni guaio personale fu subito dimenticato quando in autunno la
crisi passò in Inghilterra e poi anche sul continente. “Per
quanto mi trovi personalmente in financial distress, dal 1849 non mi
sono mai sentito tanto così come con questo outbreak“,
scriveva Marx il 13 novembre ad Engels. E questi, due giorni dopo,
si dimostrava soltanto preoccupato del fatto che gli sviluppi di
essa potessero precipitare. “Sarebbe desiderabile che, prima che
arrivasse un secondo colpo decisivo, si verificasse questo
‘miglioramento’ che rendesse la crisi, da acuta, cronica. La
pressione cronica è necessaria per un certo tempo per
riscaldare il popolo. Il proletariato in questo caso colpisce
meglio, con una migliore connaissance de cause e con maggiore
accordo; proprio come un attacco di cavalleria riesce molto meglio
quando i cavalli abbiano dovuto trottare per un 500 passi, prima di
arrivare alla carica. Non vorrei che scoppiasse qualcosa troppo
presto, prima che tutta l’Europa ne fosse contagiata; la lotta dopo
sarebbe più dura, più noiosa e più indecisa.
Quasi quasi maggio o giugno sarebbe ancora troppo presto. Per la
lunga prosperità le masse debbono essere cadute in profondo
letargo... Per il resto sto come stai tu. Da quando ce stato il
crollo a New York, non stavo più tranquillo a Jersey,e mi
sento allegrissimo in questo general downbreak1. Questa schifenza
borghese degli ultimi sette anni mi si era in certo qual modo
attaccata addosso, ora mi sento lavato, e torno ad essere un altro
uomo. Fisicamente la crisi mi farà bene quanto un bagno di
mare, me n’accorgo fin d’ora. Nel 1848 dicevamo: ora viene il
momento nostro, e in a certain sense è venuto, ma questa
volta viene in pieno, si tratta di vita o di morte“.
Non si trattò di vita o di morte. La crisi ebbe a suo modo un
effetto rivoluzionario, ma diverso da quanto Marx ed Engels
supponevano. Non che loro si fossero abbandonati a sognare speranze
utopistiche; essi studiavano anzi con estrema cura di giorno in
giorno il decorso della crisi, e il 18 dicembre Marx scriveva:
“Lavoro moltissimo. Per lo più fino alle 4 del mattino.
Perché è un lavoro doppio: 1) elaborazione delle
linee fondamentali dell’economia. (È assolutamente
necessario andare al fondo della questione per il pubblico, e per
me, individually, to get rid of this nightmare). 2) La crisi
attuale. Su di essa, oltre agli articoli per la Tribune, mi limito a
prendere appunti, cosa che però richiede un tempo notevole.
Penso che in primavera potremo scrivere insieme un pamphlet sulla
faccenda, a mo di riapparizione davanti al pubblico tedesco, per
dire che siamo sempre qui, always the same”. Poi, di questo
opuscolo, non se ne fece nulla perché la crisi non mise in
movimento le masse, ma proprio per questo Marx ebbe l’agio di
eseguire la parte teorica del suo piano.
Dieci giorni prima la signora Marx aveva scritto a Konrad Schramm
ormai morente, a Jersey: “Sebbene noi risentiamo parecchio nella
nostra borsa gli effetti della crisi americana, in quanto Karl
scrive soltanto una volta alla settimana invece di due per la
Tribune, che ha licenziato tutti i corrispondenti europei eccetto Bayard Taylor e Karl, tuttavia Lei può bene immaginarsi
quanto il Moro sia su d’umore. È tornata tutta la sua vecchia
capacità e facilità di lavoro, e anche la freschezza e
la serenità dello spirito, che da anni era stata spezzata, da
quando avemmo quel grande dolore, la perdita del nostro bimbo
prediletto, che farà sempre triste il mio cuore. Karl lavora
di giorno per provvedere al pane quotidiano, di notte per portare a
termine la sua Economia. Ora che questo lavoro è divenuto una
necessità, si troverà anche un miserabile editore“. E
lo si trovò, grazie alle premure di Lassalle.
Nell’aprile del 1857 egli aveva scritto a Marx, col vecchio tono
amichevole d’una volta, meravigliato, sì, che Marx avesse per
tanto tempo lasciato dormire la loro corrispondenza, ma senza
sospettare il perché. Sebbene Engels consigliasse di
rispondere a questa lettera, Marx non lo fece. Nel dicembre dello
stesso anno Lassalle scrisse di nuovo, per un motivo esterno: suo
cugino Max Friedlander lo aveva pregato di invi tare Marx a
collaborare alla Wiener Presse, alla cui redazione Friedlander
apparteneva. Ora Marx rispose, respingendo l’offerta di Friedlander,
poiché egli era, sì, “antifrancese“, ma non meno
“antinglese“ e meno che mai poteva scrivere a favore di Palmerston.
Ma alla confessione di Lassalle, di essere addolorato, per quanto
estraneo ad ogni sentimentalismo, per non aver avuto nessuna
risposta alla sua lettera dell’aprile, Marx rispose “brevemente e
freddamente” che non aveva risposto per motivi che difficilmente si
potevano mettere per iscritto. Per il resto aggiungeva soltanto
poche righe, comunicandogli che pensava di pubblicare un’opera di
economia.
Nel gennaio del 1858 arrivò a Londra una copia di Eraclito di
Lassalle, il cui invio era stato annunciato dall’autore nella sua
lettera del dicembre, insieme con alcune osservazioni
sull’entusiastica accoglienza che la sua opera aveva avuto nel mondo
culturale di Berlino. Già la tassa postale di due scellini“
gli assicurò una cattiva accoglienza“. Ma anche sul contenuto
Marx giudicò alquanto sfavorevolmente. La “enorme
esibizione“ di erudizione non gli incuteva soggezione; pensava che
costasse poco ammucchiare citazioni quando si aveva tempo e denaro e
ci si poteva far mandare a casa i libri dalla biblioteca
universitaria di Bonn; avvolto in questo orpello filosofico Lassalle
si muoveva proprio con la grazia di chi porti per la prima volta un
vestito elegante. Questo significava giudicare troppo ingiustamente
dell’effettiva dottrina di Lassalle, tuttavia si spiega benissimo
che Marx si sentisse sfavorevolmente impressionato dal libro per lo
stesso motivo per il quale secondo lui si erano rallegrati i grossi
professori, cioè perché trovava un carattere
così “antico“ in un uomo così giovane che passava per
un grande rivoluzionario. Era noto che la maggior parte dell’opera
era stata scritta dieci anni prima della sua pubblicazione.
Nemmeno dalla risposta “breve e fredda“ alla sua lettera di
rimostranze, Lassalle si era accorto che c’e ra qualche cosa che
non andava. Egli — palesemente in buona fede e non appositamente,
come Marx sospettò —i intese la necessità di una
spiegazione verbale nel senso innocente che Marx volesse raccon
targli qualche cosa per cui ci dovessero entrare affari privati. Nel
febbraio del 1858 egli rispose con tutto candore, descrisse
drasticamente le vertigini d’entusiasmo della borghesia di Berlino
per il fidanzamento del principe ereditario prussiano con una
principessa inglese, e per il resto si offrì di trovare un
editore per il libro di economia politica. Marx accettò, e
già alla fine di marzo Lassalle aveva pronto il contratto col
suo stesso editore, Franz Duncker, e anche a condizioni più
favorevoli di quanto Marx avesse preteso. Questi voleva perfino che
l’opera uscisse a dispense, ed era pronto a rinunciare a ogni
compenso per le prime dispense. Ma Lassalle gli garantì sin
dal principio tre federici d’oro — il normale compenso per un
profes sore ammontava a due federici soltanto — per ogni foglio di
stampa. Soltanto per il caso che la vendita non coprisse le spese,
l’editore si riservava di rifarsi sulla terza dispensa.
Ma ci vollero ancora più di nove mesi prima che Marx venisse
a capo del manoscritto della prima dispensa. Nuovi attacchi di
fegato e preoccupazioni familiari gli impedivano di finirlo. A
Natale del 1858 la casa aveva un’aria “più cupa e più
triste che mai”. Il 21 gennaio 1859 il “disgraziato manoscritto“ era
pronto, ma non c’era “un centesimo“ per affrancarlo e assicurarlo.
“Non credo che nessuno abbia mai scritto sul denaro con una tale
mancanza di denaro. La maggior parte degli autores su questo subject
erano in pace assoluta“. Così scriveva Marx ad Engels, nel
chiedergli il denaro necessario per la spedizione.
11.5 «Per la critica
dell’economia politica»
Il piano di una grande opera di economia politica che dovesse
indagare a fondo il modo di produzione capitalistico era vecchio di
circa quindici anni, quando Marx cominciò a eseguirlo
praticamente. Egli lo aveva meditato già nel periodo
precedente alla rivoluzione, e io scritto contro Proudhon era stato
un primo anticipo di esso. Dopo aver partecipato alle lotte degli
anni della rivoluzione, Marx l’aveva subito ripreso e già il
2 aprile 1851 aveva annunciato a Engels: “Sono tanto avanti che
entro cinque settimane sarò pronto con tutta la merda
economica. Et cela fait, porterò a termine a casa il lavoro
sull’Economia, e nel British Museum mi butterò su di un’altra
scienza. Ca commence à m’ennuyer. Au fond questa scienza da
A. Smith e D. Ricardo in poi non ha più fatto progressi, per
quanto molto si sia fatto in singole ricerche, spesso molto
delicate”. Engels rispondeva tutto gioioso: “Sono contento che tu
abbia finalmente finito con l’Economia. La cosa si è
trascinata davvero troppo per le lunghe, e finché tu hai
ancora da leggere un libro che tu ritenga importante, non ti metti
mai a scrivere“. Egli inclinava sempre al parere che oltre a tutti
gli altri impedimenti, “la ragione prima del ritardo“ risiedesse
sempre negli “scrupoli personali“ dell’amico.
Questi scrupoli non erano, a dire il vero — e in fondo non lo
pensava neppure Engels — di natura superfi ciale. E perché
nel 1851 Marx si decidesse non a conchiudere, ma a ricominciare da
capo, lo ha spiegato lui stesso, nella prefazione al primo
fascicolo, con queste parole: “La enorme quantità di
materiali per la storia dell’economia politica che sono accumulati
nel Museo Britannico, il fatto che Londra è un punto
favorevole per l’osservazione della società borghese, infine
la nuova fase di sviluppo in cui questa società sembrava
essere entrata con la scoperta dell’oro dell’Australia e della
California“. E se egli aggiungeva che la sua collaborazione durata
ormai otto anni alla New York Tribune aveva reso inevitabile una
straordinaria disper sione dei suoi studi, bisognerebbe completare
dicendo che questa attività lo riconduceva fino a un certo
punto in quella lotta politica che era sempre in cima ai suoi
pensieri. Era proprio la prospettiva del ridestarsi del movimento
rivoluzionario degli operai a spingerlo a tavolino, per mettere
finalmente per iscritto quello su cui in tutti questi anni egli non
aveva cessato di meditare.
Di questo ci dà un’eloquente testimonianza il suo Carteggio con Engels, nel quale la discussione di questioni economiche non
cessa mai, ma anzi si estende in trattazioni che si possono appunto
definire “molto delicate“. E come in esse si configuri lo scambio di
opinioni tra i due amici lo mostrano alcune loro espres sioni
occasionali. Engels parlò una volta della sua “nota pigrizia
in fatto di teoria“ che, malgrado gli intimi rimbrotti del suo io
migliore si quietava senza andare al fondo della questione, mentre
Marx un’altra vol ta, allorché un industriale lo
salutò con la “divertente“ osservazione che lui stesso doveva
essere stato un industriale, non poteva trattenersi dal sospirare:
“Se soltanto la gente sapesse quanto poco io conosco di tutta questa
roba“.
Se, com’è giusto, in tutti e due i casi si fa la tara
all’esagerazione umoristica, resta il fatto che Engels conosceva
più esattamente l’intimo meccanismo della società
borghese, ma Marx sapeva indagarne Con maggiore acume di pensiero
le leggi di movimento. Quando egli espose all’amico il piano del
primo fascicolo, Engels rispose: “È in realtà un
abbozzo molto astratto, e non si poteva neppure evitarlo data la sua
brevità, e spesso debbo ricercarmi faticosamente i nessi
dialettici, perché non ho più familiarità col
ragionamento astratto“. Marx invece faticava alquanto a ritrovarsi
nelle risposte di Engels alle sue domande sul modo in cui gli
industriali e i commercianti calcolavano la parte dell’incasso che
consumavano essi stessi, o sul logorio delle macchine o sul calcolo
degli interessi del capitale circolante anticipato. Egli si
lamentava del fatto che nell’economia politica quello che era
praticamente interessante e quello che era teoricamente necessario
divergevano di molto.
Che Marx abbia cominciato ad elaborare per iscritto la sua opera
soltanto nel 1857 e nel 1858, risulta anche dal fatto che il piano
gli si veniva mutando tra mano. Ancora nell’aprile del 1858 egli
voleva trattare nel primo fascicolo “il capitale in generale“, ma
sebbene il fascicolo crescesse di due o tre volte rispetto
all’ampiezza preventivata, in esso non c’era ancora nulla sul
capitale, ma soltanto due capitoli su merce e denaro. Marx vi vedeva
il vantaggio che la critica non si sarebbe potuta limitare a
semplici ingiurie tendenziose, ma gli sfuggiva che tanto più
le si metteva a portata di mano l’arma efficace del più
assoluto silenzio.
Nella prefazione egli dava un rapido cenno del proprio svolgimento
scientifico, e le note frasi nelle quali egli compendiava il
materialismo storico non possono essere taciute qui. “La mia ricerca
[sulla filosofia del diritto di Hegel] arrivò alla conclusione che tanto i
rapporti giuridici quanto le forme dello Stato non possono essere
comprese né per se stesse né per la cosiddetta
evoluzione generale dello spirito umano, ma hanno le loro radici,
piuttosto, nei rapporti materiali dell’esistenza, il cui complesso
viene abbracciato da Hegel, seguendo l’esempio degli inglesi e dei
francesi del secolo XVIII, sotto il termine di ‘società
civile’; e che l’anatomia della società civile è da
cercare nell’economia politica... Il risultato generale al quale
arrivai e che, una volta acquisito, mi servì da filo
conduttore nei miei studi, può essere brevemente formulato
così: nella produzione sociale della loro esistenza, gli
uomini entrano in rapporti determinati, necessari, indipendenti
dalla loro volontà, in rapporti di produzione, che
corrispondono a un determinato grado di sviluppo delle loro forze
produttive materiali. L’insieme di questi rapporti di produzione
costituisce la struttura eco nomica della società, ossia la
base reale sulla quale si eleva una soprastruttura giuridica e
politica e alla quale corrispondono forme determinate della
coscienza sociale.
Il modo di produzione della vita materiale condiziona, in generale, il processo sociale, politico e spirituale della vita. Non è la coscienza degli uomini che determina il loro essere, ma è, al contrario, il loro essere sociale che determina la loro coscienza. A un dato punto del loro sviluppo, le forze produttive materiali della società entrano in contraddizione con i rapporti di produzione esistenti, cioè con i rapporti di proprietà (il che è l’equivalente giuridico di tale espressione) dentro dei quali esse forze per l’innanzi s’erano mosse. Questi rapporti da forme di sviluppo delle forze produttive, si convertono in loro catena. E allora subentra un’epoca di rivoluzione sociale. Con il cambiamento della base economica si sconvolge più o meno rapidamente tutta la gigantesca soprastruttura. Quando si studiano simili sconvolgimenti, è indispensabile distinguere sempre fra lo sconvolgimento materiale delle condizioni economiche della produzione, che può essere constatato con la precisione delle scienze naturali, e le forme giuridiche, politiche, religiose, artistiche o filosofiche, ossia le forme ideologiche, che permettono agli uomini di concepire questo conflitto e di combatterlo.
Come non si può giudicare un uomo dall’ idea che egli ha di se stesso, così non si può giudicare una simile epoca di sconvolgimento dalla coscienza che ha di se stessa; occorre invece spiegare questa coscienza con le contraddizioni del la vita materiale, con il conflitto esistente tra le forze produttive della società e i rapporti di produzione. Una formazione sociale non perisce finché non si siano sviluppate tutte le forze produttive a cui può dare corso; nuovi superiori rapporti di produzione non subentrano mai, prima che siano maturate in seno alla vecchia società le condizioni materiali della loro esistenza. Ecco perché l’umanità non si propone se non quei problemi che può risolvere, perché, a considerare le cose dappresso, si trova sempre che il problema sorge solo quando le condizioni materiali della sua soluzione esistono già o almeno sono in formazione.
A grandi linee, i modi di produzione
asiatico, antico, feudale e borghese moderno, possono essere
designati come epoche che marcano il progresso della formazione
economica della società. I rapporti di produzio ne borghesi
sono l’ultima forma antagonistica del processo di produzione
sociale; antagonistica non nel senso di un antagonismo individuale,
ma di un antagonismo che sorga dalle condizioni di vita sociali
degli individui. Ma le forze produttive che si sviluppano nel seno
della società borghese creano in pari tempo le condizioni
materiali per la soluzione di questo antagonismo. Con questa
formazione sociale si chiude dunque la preistoria della
società umana“.
Nello stesso fascicolo, che egli intitolò Per la critica
dell’economia politica, Marx compì il passo decisivo oltre
l’economia borghese, quale si era sviluppata ad opera di Adam Smith
e David Ricardo. Essa culmi nava nella determinazione del valore
delle merci per mezzo del tempo di lavoro, ma in quanto considerava
la produzione borghese come la forma naturale eterna della
produzione sociale, supponeva nella produ zione del valore una
proprietà naturale del lavoro umano, quale è data nel
lavoro individuale concreto del singolo uomo, e andava a finire in
una serie di contraddizioni che non era in grado di risolvere. Marx
invece vedeva nella produzione borghese non la forma naturale
eterna, ma soltanto una determinata forma storica di produzione
sociale, che era stata preceduta da tutta una serie di altre forme.
Muovendo da questa considerazione, Marx sottopose a un esame
radicale la proprietà del lavoro di produrre valore; egli
ricercò quale lavoro e perché e come produce valore,
perché il valore non è altro che lavoro coagulato di
questo tipo.
Così arrivò al punto intorno a cui si muove la
comprensione dell’economia politica: il duplice carattere che il
lavoro ha nella società borghese. Il lavoro individuale
concreto crea valori d’uso, il lavoro indifferenziato, sociale crea
valori di scambio. In quanto produce valori d’uso, il lavoro
è proprio a tutte le forme sociali; in quanto attività
volta nell’una o nell’altra forma all’appropriazione di quanto
esiste in natura, il lavoro è condizione naturale
dell’esistenza umana, una condizione indipendente da tutte le forme
sociali del ricambio materiale tra uomo e natura. Questo lavoro ha bisogno
della materia come di sua premessa, e così non è
l’unica fonte di quanto esso produce, cioè della ricchezza
materiale. Per quanto il rapporto tra lavoro e materia naturale sia
diverso nei diversi valori d’uso, però il valore d’uso
contiene sempre un substrato naturale.
Diversamente avviene per il valore di scambio. Esso non contiene
nessuna materia naturale, ma il lavoro è la sua unica fonte,
e con ciò anche l’unica fonte della ricchezza, che consiste
di valori di scambio. In quanto valore di scambio un valore d’uso ha
altrettanto valore quanto un altro, supposto che esista in giuste
proporzioni. “Il valore di scambio di un palazzo può essere
espresso in un numero determinato di scatole di lucido da scarpe. Ma
al contrario i fabbricanti di lucido da scarpe di Londra hanno
espresso in palazzi il valore di scambio delle loro molteplici
scatole”. In quanto si scambiano merci, del tutto indifferentemente
al loro modo di esistenza naturale e senza riguardo ai bisogni che
esse devono soddisfare, esse, nonostante la loro variopinta
apparenza, rappresentano la stessa unità: esse sono risultati
di lavoro uguale, indifferen ziato, “per il quale è
altrettanto indifferente di comparire in oro, ferro, cereali, seta,
quanto lo è all’ossigeno di comparire nella ruggine del
ferro, nell’atmosfera, nel succo della vite o nel sangue dell’uomo“.
Se la differenza dei valori d’uso deriva dalla differenza del
lavoro che produce i valori d’uso, il lavoro che pone valori di
scambio è indifferente alla materia particolare del lavoro
stesso. Esso è lavoro uguale, indifferen ziato,
astrattamente universale, che si differenzia non più per il
modo ma solo per la misura, per le differenti quantità che
esso oggettiva in valori di scambio di differente grandezza. Le
differenti quantità di lavoro universale astratto hanno la
loro unica misura nel tempo, che ha la sua unità di misura
nelle misure naturali del tempo, ora, giorno, settimana e
così via. Il tempo di lavoro è l’esistenza vivente del
lavoro, indifferente alla sua forma, al suo contenuto, alla sua
individualità. In quanto valori di scambio, tutte le merci
sono sol tanto determinate quantità di tempo di lavoro
coagulato. Il tempo di lavoro oggettivato nei valori d’uso è
la sostanza che li rende valori di scambio e perciò merci, in
questo essa misura la loro determinata grandezza di valore.
Il suo duplice carattere è una forma sociale del lavoro, che
è propria alla produzione di merci. Nel comuni smo
primitivo, che si trova alle soglie della storia di tutti i popoli
civili, il lavoro singolo era immediatamente inserito
nell’organismo sociale. Nelle servitù e nelle prestazioni in
natura del Medioevo la particolarità e non la
universalità del lavoro costituiva il suo legame sociale.
Nella famiglia rurale-patriarcale, nella quale le donne filavano e
gli uomini tessevano per i bisogni stessi della famiglia, il filo e
la tela erano prodotti sociali, filare e tessere erano lavori
sociali entro i limiti della famiglia. Il complesso familiare con la
sua naturale divi sione del lavoro imprimeva sul prodotto del
lavoro il proprio sigillo particolare: filo e tela non si
scambiavano l’uno contro l’altra come espressioni indifferenziate ed
equivalenti dello stesso tempo di lavoro universale. Soltanto con la
produzione di merci il lavoro singolo diventa lavoro sociale, per il
fatto che assume la forma del suo immediato antagonismo, la forma
dell’universalità astratta.
Ora la merce è unità immediata di valore d’uso e
valore di scambio. Il vero rapporto delle merci luna con l’altra
è il processo di scambio. In questo processo, nel quale
entrano individui indipendenti l’uno dall’altro, la merce deve
configurarsi nello stesso tempo come valore d’uso e di scambio, come
lavoro particolare che soddisfa particolari bisogni, e come lavoro
universale che è scambiabile contro uguali quantità di
la voro universale. Il processo di scambio delle merci deve
sviluppare e risolvere la contraddizione per cui il lavoro
individuale, che è oggettivato in una merce particolare, deve
avere immediatamente il carattere della universalità.
In quanto valore di scambio, ogni singola merce diviene misura del
valore di tutte le altre merci. Ma vi ceversa, ogni singola merce,
nella quale tutte le altre merci misurano il proprio valore, diviene
esistenza adeguata del valore di scambio, e così il valore di
scambio diviene una particolare merce esclusiva, che con la
riduzione di tutte le altre merci ad essa oggettiva immediatamente
il tempo di lavoro universale del denaro. Così in una sola
merce è risolta la contraddizione che la merce in quanto tale
racchiude, di essere, in quanto particolare valore d’uso,
equivalente universale e perciò valore d’uso per ciascuno,
valore d’uso universale. E questa sola merce è il denaro.
Nel denaro in quanto merce particolare, si cristallizza il valore di
scambio delle merci. La cristallizzazione denaro è un
prodotto necessario del processo di scambio, nel quale diversi
prodotti di lavoro vengono effettivamente equiparati l’uno all’altro
e perciò effettivamente trasformati in merci. Essa si
è sviluppata istintivamente per via storica. Il baratto
diretto, la forma naturale del processo di scambio, rappresenta la iniziale trasformazione del valore d’uso in merci, piuttosto che
delle merci in denaro. Quanto più il valore di scambio si
sviluppa e quanto più i valori d’uso diventano merci, quanto
più dunque il valore di scambio acquista una figura
indipendente e non è più direttamente legato al valore
d’uso, tanto più spinge alla formazione del denaro.
Inizialmente esercitano la funzione di denaro una merce o anche
più merci di più universale valore d’uso, bestiame,
cereali, schiavi. Hanno alternativamente esercitato la funzione del
denaro merci differentissime, più o meno disadatte. Se infine
questa funzione passò ai metalli nobili, fu per il motivo che
i metalli nobili possiedono le necessarie qualità fisiche
della merce particolare nella quale si deve cristallizzare l’esser
denaro di tutte le merci, quali risultano direttamente dalla natura
del valore di scambio; durevolezza del loro valore d’uso,
suddivisibilità a piacere, uniformità delle parti e
mancanza di differenza tra rutti gli esemplari di questa merce.
Tra i metalli nobili è di nuovo l’oro che sempre più
diventa l’esclusiva merce-denaro. Esso serve come misura dei valori
e come scala dei prezzi, serve come mezzo di circolazione delle
merci. Per mezzo del salto mortale1 della merce che diventa oro, il
lavoro particolare in essa accumulato si afferma in quanto lavoro
astratto universale, in quanto lavoro sociale; se questa sua
transustanziazione non riesce, essa ha fallito la sua esistenza non
soltanto in quanto merce ma anche in quanto prodotto, perché
essa è merce soltanto in quanto non ha alcun valore d’uso per
il suo possessore.
Così Marx dimostrava come e perché, grazie alla
proprietà di valore in essa inerente, la merce e lo scambio
delle merci devono generare il contrasto di merce e denaro; nel
denaro, che si presenta come una cosa naturale con particolari
proprietà, egli riconosceva un rapporto di produzione
sociale e mostrava che le confuse spiegazioni del denaro degli
economisti moderni derivavano dal fatto che quello che essi pensava
no goffamente di aver in mano come una cosa, compariva come rapporto
sociale, e ora quello che avevano appena fissato come rapporto
sociale, li stuzzicava poi di nuovo come cosa.
La pienezza della luce che promanava da questa indagine critica, da
principio accecò più che illuminare anche gli amici
dell’autore. Liebknecht pensava di non essere stato mai tanto deluso
da nessuna opera quanto da questa, e Miquel vi trovò “poco di
veramente nuovo“. Lassalle fece delle osservazioni molto belle sulla
efficacia artistica del fascicolo, che poneva senza invidia al di
sopra della forma dell’Eraclito, ma quando Marx derivò da
queste frasi il sospetto che Lassalle non avesse capito “molto di
economico“, questa volta era sulla via giusta. Lassalle
mostrò subito di non aver riconosciuto per l’appunto il punto
saliente, la differenza tra il lavoro che risulta in valori d’uso e
il lavoro che risulta in valori di scambio.
Se questo avvenne quando la cosa era ancor fresca, che doveva essere
quando essa non era più tale? Engels, a dire il vero nel
1885, diceva che Marx aveva fondato la prima esauriente teoria del
denaro, e che essa era stata accolta da tutti col silenzio, ma sette
anni dopo nel Dizionario di scienze politiche, l’opera classica
dell’economia borghese, apparve un articolo sul denaro che per
cinquanta colonne ripeteva le vecchie chiacchiere e, senza neppure
citare Marx, dichiarava che l’enigma del denaro non era ancora stato
risolto.
E come poteva non restare impenetrabile il denaro per un mondo di
cui esso è divenuto il dio?