10.1 Genio e società
Se si può dire che Marx aveva trovato in Inghilterra una
seconda patria, non si deve però davvero esten dere troppo
il concetto di patria. Sul suolo inglese egli non fu mai importunato
per la sua propaganda rivoluzionaria, che non da ultimo era diretta
contro lo Stato inglese. Il governo dell’«avido, invidioso
popolo di mercantucoli» aveva rispetto di se stesso e
coscienza delle sue forze in misura maggiore di quanto non ne
possedessero quei governi continentali che, con la paura che viene
dalla cattiva coscienza, davano la caccia ai loro avversari con
tutte le armi della polizia, anche se questi si muovevano soltanto
sul terreno della discussione e della propaganda.
Soltanto in un altro senso più profondo Marx non ha trovato
più patria, da quando ficcò il suo sguardo geniale nel
cuore e nelle viscere della società borghese. Il destino del
genio in questa società è un lungo capitolo, sul quale
si sono pronunciate le più differenti opinioni; dall’innocua
fede in Dio del filisteo, che predice ad ogni genio la vittoria
finale, fino alle malinconiche parole di Faust:
I pochi che ne hanno capito qualche cosa,
Che furono abbastanza folli da non custodire il loro cuore
E rivelarono al volgo il loro sentimento e le loro visioni
Sempre li
hanno crocifissi e bruciati.
Il metodo storico che Marx ha sviluppato consente anche a proposito
di questa questione uno sguardo più profondo nella
connessione dei fatti. Il filisteo predice ad ogni genio la vittoria
finale appunto perché è un filisteo; ma se un genio
una volta tanto non viene crocifisso o bruciato, è soltanto
perché alla fin fine si rassegna a divenire un filisteo.
Senza il codino che pende dalle loro teste, i Goethe e gli Hegel non
sarebbero mai stati riconosciuti come i grandi della società
borghese.
La società borghese, che per questo aspetto non è che
la forma più marcata di ogni società classista,
può avere quanti meriti vuole, ma non è mai stata una
patria ospitale per il genio. E nemmeno può esserlo,
perché l’intima essenza del genio consiste proprio nel
mettere in gioco lo slancio creativo di una forza umana originaria
contro le usanze tradizionali, e nello scuotere i limiti entro i
quali soltanto può sussistere una società classista.
Il solitario cimitero sull’isola di Sylt, che ospita i morti ignoti
che il mare getta sulla spiaggia, porta questa pia iscrizione:
«Patria pei senza patria è la croce sul Golgota». In queste parole è descritta inconsapevolmente, ma
non per questo cogliendo meno nel segno, la sorte del genio in una
società classista: senza patria com’egli è in essa,
trova la sua patria soltanto nella croce sul Golgota.
A meno che il genio in un modo o nell’altro non si metta d’accordo
con la società classista. Quando esso si pose al servizio
della società borghese per rovesciare la società
feudale, acquistò apparentemente una forza smisurata, ma questa forza si disfece nel momento in cui
egli volle atteggiarsi a padrone di sé: e dovette finire
sulle rocce di Sant’Elena. Oppure il genio si avvolse nel soprabito
del piccolo borghese, e potè arrivare ad essere ministro
granducale della Sassonia a Weimar o regio professore prussiano a
Berlino. Ma guai al genio che in superba indipendenza e
inaccessibilità si contrappone alla società borghese,
che sa scorgere nelle sue più intime giunture il suo vicino
tramonto, che forgia le armi che le assesteranno il colpo mortale.
Per questi geni la società borghese ha soltanto torture e
tormenti, che esternamente possono apparire meno brutali, ma
intimamente sono più crudeli del legno del martirio degli
antichi e del rogo della società medioevale.
Nessuno degli uomini di genio del secolo decimonono ha sofferto di
questa sorte più duramente del più geniale di tutti,
di Karl Marx. Già nel primo decennio della sua
attività pubblica, egli dovette lottare con la miseria
quotidiana, e quando si trasferì a Londra lo accolse l’esilio
con tutti i suoi orrori; ma quello che si può chiamare il suo
destino davvero prometeico, cominciò però soltanto
quando, dopo il faticoso ascendere verso l’alto, egli, nel pieno del
suo vigore virile, per anni e decenni fu preso ogni giorno dalle
ordinarie necessità della vita, dalle preoccupazioni
umilianti per il pane quotidiano. Fino al giorno della sua morte non
riuscì ad assicurarsi sul terreno della società
borghese una sia pur modesta esistenza.
Eppure egli era molto lontano da quella che il filisteo suole
chiamare nel senso corrente e superficiale una condotta di vita
«geniale». Alla sua capacità gigantesca
corrispondeva la sua gigantesca operosità; l’abitudine di
lavorare giorno e notte cominciò presto a intaccare la sua
salute, originariamente salda quanto il ferro. Egli diceva che
l’incapacità di lavorare era la condanna a morte per ciascun
uomo che non fosse una bestia, e quando parlava così parlava
sul serio; una volta che fu malato per parecchie settimane,
scriveva ad Engels: «In questo tempo essendo del tutto
incapace di lavorare, ho letto: Carpenter Physiology, Lord io
stesso, Kòlliker Istologia, Spurzheim Anatomia del cervello e
del sistema nervoso, Schwann e Schleiden sulla merda delle cellule»[i]1. E con tutta l’insaziabilità della sua sete di
sapere, Marx fu sempre consapevole, come aveva già detto da
giovane, che lo scrittore non doveva lavorare per guadagnare, ma
guadagnare per lavorare; Marx non ha mai «frainteso la
imperiosa necessità di un lavoro per guadagnare».
Ma tutti i suoi sforzi fallirono davanti al sospetto o all’odio o,
nel caso più favorevole, alla paura di un mondo ostile. Anche
quegli editori tedeschi, che solevano altrimenti vantarsi della loro
indipendenza, rifuggivano davanti al nome del malfamato
demagogo. Tutti i partiti tedeschi lo calunniavano ugualmente,
e poiché i puri tratti della sua figura balenavano sempre
tra i vapori artificiali, allora subentrava la perfida astuzia del
silenzio sistematico. In nessun altro caso il più grande
pensatore di una nazione è scomparso così
dall’orizzonte di essa.
L’unica relazione per mezzo della quale Marx si sarebbe potuto
assicurare in parte il terreno sotto i piedi, era la sua
collaborazione per la New York Tribune, che dal 1851 in poi gli
procurò un decennio discreto. La Tribune coi suoi 200.000
abbonati era allora il giornale più letto e più ricco
degli Stati Uniti, e con la sua agitazione a favore del fourierismo
americano si era pur sempre innalzata al di sopra del piatto
affarismo di un’impresa puramente capitalistica. In sé e per
sé le condizioni alle quali Marx doveva lavorare per essa non
erano nemmeno del tutto sfavorevoli; egli doveva scrivere due
articoli alla settimana e ogni articolo sarebbe stato compensato
con 2 sterline (40 marchi). Sarebbe stato un incasso annuo di 4.000
marchi, e con esso, limitandosi allo strettamente necessario, Marx
avrebbe potuto mantenersi a galla anche a Londra. Freiligrath, che
continuava a vantarsi ancora di mangiare «la bistecca
dell’esilio», da principio non incassava di più per la
sua attività commerciale.
Naturalmente non si trattava in nessun modo di sapere se il
compenso che Marx riscuoteva dal giornale americano corrispondesse
o no al valore letterario e scientifico della sua collaborazione.
Un’impresa editoriale capitalistica calcola soltanto sulla base dei
prezzi del mercato, e ne. ha tutto il diritto nella società
borghese. Né Marx pretese di più; ma quello che pure
lui avrebbe potuto pretendere anche nella società borghese,
era il rispetto del contratto una volta concluso e magari anche un
certo rispetto per il suo lavoro. Ma la New York Tribune e il suo
editore fecero mancare del tutto l’uno e l’altro. Dana era, si, in
teoria un fourierista, ma in pratica era uno yankee di tre cotte, il
suo socialismo si riduceva alla più pidocchiosa
abilità piccolo-borghese di truffare il prossimo, diceva
Engels in un momento d’ira. Quantunque Dana sapesse bene che collaboratore avesse in Marx e se ne vantasse non poco coi
suoi abbonati, se pure non faceva passare le corrispondenze che Marx
gli mandava come suo lavoro redazionale, cosa che accadeva anche
troppo spesso e provocava la collera giustificata del loro autore,
tuttavia non esitò di fronte a nessuna di quelle mancanze di
riguardo che uno sfruttatore capitalistico crede di poter osare
verso la forza lavorativa da lui sfruttata.
Non soltanto, appena gli affari andarono male, egli mise subito Marx
a mezzo salario, ma in generale pagava soltanto gli articoli che
stampava effettivamente, e non era così balordo da buttare
via tutto quello che non trovava posto tra la sua roba. Capitava che
per tre, per sei settimane gli articoli che Marx inviava andassero a
finire nel cestino. A dire il vero, quei pochi giornali tedeschi coi
quali Marx trovò un introito passeggero, come la Wiener
Presse, non facevano meglio. Così egli poteva dire a ragione
che col suo lavoro per i giornali se la cavava peggio del peggior
scribacchino.
Sin dal 1853 egli sentiva il bisogno di qualche mese di solitudine,
per occuparsi dei suoi lavori scientifici:
«Sembra che io non debba riuscirci. Il continuo scribacchiar
per i giornali mi annoia. Mi prende parecchio tempo, mi disperde e
non se ne cava nulla. Indipendente quanto si vuole, si è
legati al giornale e al suo pubblico, specialmente se si è
pagati in contanti come lo sono io. Lavori puramente scientifici
sono qualche cosa di assolutamente diverso». Un tono del
tutto differente Marx usò dopo aver lavorato qualche anno di
più sotto il mite scettro di Dana: «E’ schifoso in
realtà che si sia condannati a considerare una fortuna che
un simile fogliaccio di carta ti prenda nella sua barca. Il lavoro
politico a cui si è abbondantemente condannati in simili
imprese si riduce a pestare ossa, macinarle e farne una zuppa come i
poveri nel workhouse». Non soltanto nelle ristrettezze della
vita, ma specialmente nella totale mancanza di sicurezza
dell’esistenza, Marx ha condiviso la sorte del proletario moderno.
Quello che prima si sapeva soltanto in generale, le sue lettere ad
Engels lo mostrano nella forma più palpabile; come una volta
dovesse starsene chiuso in casa perché non aveva né
cappotto né scarpe per uscire, come un’altra volta gli
mancassero i centesimi per comprarsi della carta da scrivere o per
leggere i giornali, come un’altra volta ancora andasse alla caccia
di un paio di francobolli per potere mandare una manoscritto
all’editore. Per di più l’eterno litigare con rivenduglioli e
mercantucoli, a cui non poteva pagare i viveri indispensabili, per
tacere del padron di casa, che ad ogni istante minacciava di
mandargli in casa l’usciere, e poi, come costante rifugio, il Monte
di Pietà, le cui cedole a tassi usurari si inghiottivano le
ultime risorse che avrebbero dovuto tener lontano dalla soglia della
sua casa lo spettro della disperazione.
Ed essa non soltanto posava sulla soglia, ma sedeva con loro a
tavola. Abituata sin dall’infanzia a una vita senza preoccupazioni,
la moglie, donna di alto sentire, vacillava sotto i colpi di un
destino feroce e desiderava di morire coi suoi bambini. Nelle sue
lettere non mancano tracce di scene familiari, e all’occasione egli
diceva che per chi avesse delle aspirazioni di carattere universale
non c’era asineria peggiore che quella di sposarsi e di abbandonarsi
così alle piccole necessità della vita privata. Ma
sempre, quando i lamenti di lei lo spazientivano, egli la scusava e
la giustificava; per lei tutto era molto più duro che per lui
nell’affrontare le umiliazioni, i tormenti e i timori che bisognava
superare nella loro situazione, tanto più che a lei era tolto
di rifugiarsi nelle sale della scienza, nelle quali lui finiva
sempre per salvarsi. Veder sottrarre ai loro figli le gioie
innocenti della giovinezza, era cosa che colpiva con uguale amarezza
i due genitori.
Per quanto questo destino di un grande spirito fosse triste,
tuttavia esso divenne tragedia soltanto in quanto Marx
accettò consapevolmente l’aspro martirio di decenni e
respinse ogni tentativo di salvarsi nel porto di una professione
borghese, che avrebbe potuto trovare con tutti gli onori. Quel che
c’è da dire in proposito, egli lo disse semplicemente e
pianamente senza parole solenni: «Devo mirare al mio scopo
attraverso ogni ostacolo, e non devo permettere alla società
borghese di trasformarmi in una macchina per far de naro».
Questo Prometeo non fu saldato alla rupe dalle catene di Vulcano, ma
da una volontà di ferro, che additava la meta più alta
dell’umanità con la sicurezza di una bussola. Tutta la sua
natura è flessibile acciaio. Nulla di più ammirevole
di quando, spesso nella stessa lettera, soffocato in apparenza dalla
più la mentevole miseria, s’innalza con meravigliosa
agilità a discutere dei problemi più importanti con la
serenità di spirito di un saggio al quale nessuna
preoccupazione segna di rughe la fronte pensosa.
Ma davvero Marx li ha sentiti i colpi con cui la società
borghese lo ha perseguitato. Sarebbe stoicismo da strapazzo
domandare: che cosa significano in sostanza tormenti come quelli che
ha sopportato Marx, per il genio che soltanto dalla posterità
riceverà quanto gli è dovuto? Se son fatui quei
letterati vani che desidererebbero vedere tutti i giorni il loro nome stampato sul
giornale, è però indispensabile a ogni perso
nalità creatrice trovare lo spazio necessario al proprio
dispiegarsi, e nell’eco suscitata trovare nuova forza per nuove
creazioni. Marx non era uno di quei retori della virtù che si
incontrano nei cattivi drammi e romanzi, ma un uomo pieno di gioia
di vivere, come lo era stato Lessing, e così non gli fu
estraneo lo stato d’animo con cui Lessing morente scriveva ai vecchi
amici di gioventù: «Non credo che Loro mi conoscano
come un uomo avido di lodi. Ma la freddezza con cui il mondo suole
far capire a certe persone che, secondo lui, non fanno nulla di
buono, se non uccide, certo agghiaccia». E’ la stessa
amarezza con cui Marx, alla vigilia del suo cinquantesimo
compleanno, scriveva: «Mezzo secolo sulle spalle e sempre
ancora povero! »
Così una volta si augurava di trovarsi cento
tese sotto terra, piuttosto che seguitare a vegetare così,
o la disperazione gli sgorgava dal cuore quando diceva di non
augurare al suo peggiore nemico di passare attraverso il pantano
nel quale lui si trovava da otto settimane, con la rabbia, per di
più, di vedere il proprio spirito demolito e la propria
capacità di lavoro spezzata da questo sudiciume.
Certo Marx non divenne per questo un «cane maledettamente
triste», come diceva scherzando, all’occa sione, e in
questo senso Engels poteva dire a ragione che il suo amico non
aveva mai ispirato tristezza. Ma se Marx amava definirsi un
carattere duro, nella fucina della sventura è stato forgiato
a maggior durezza. Il cielo sereno che si stendeva sui suoi lavori
giovanili si coprì sempre più di pesanti nuvole
temporalesche, di tra le quali i suoi pensieri prorompevano come
fulmini, e i suoi giudizi su nemici, e abbastanza spesso anche su
amici, acquistarono ima tagliente mordacità, che era
destinata a ferire non soltanto delle anime deboli.
Quelli che lo ingiuriavano come demagogo freddo come il ghiaccio,
sono su di una falsa strada non meno — anche se certo non più
— di quelle prodi anime di sottufficiali che in questo grande
lottatore vedevano soltanto un fantoccio da parata.
10.2 Un’amicizia senza pari
Tuttavia Marx deve la vittoria della sua vita non soltanto alla sua
forza possente. Secondo ogni umano giudizio, alla fine egli avrebbe
dovuto soccombere in un modo o nell’altro se non avesse avuto in
Engels un amico della cui fedeltà e della cui capacità
di sacrificio ci si può fare un’immagine esatta soltanto da
quando è stato pubblicato il loro epistolario.
Un’immagine che non ha l’uguale in tutta la storia. Non sono certo
mancate, nemmeno nella storia tedesca, delle coppie storiche d’amici
la cui opera si confonda talmente da non potersi dire quello che
è di uno e quello che è dell’altro, ma restava sempre
un qualche rimasuglio di egoismo o di presunzione o magari anche
soltanto una resistenza segreta ad abbandonare la propria
personalità, che secondo le parole del poeta è «
la più alta ventura dei figli della terra». In fin dei
conti Lutero vedeva in Melantone soltanto un dotto dal cuore debole,
e Melantone in Lutero soltanto un rozzo contadino, e bisogna avere
scarsa sensibilità per non avvertire nel carteggio tra Goethe
e Schiller la segreta dissonanza tra il grande consigliere segreto
e il piccolo consigliere di corte. All’amicizia che legò Marx
ed Engels mancò anche quest’ultima traccia di debolezza
umana; quanto più il loro pensiero e la loro attività
si intrecciavano, tanto più anzi ciascuno dei due restava un
uomo intero.
Già esteriormente si distinguevano. Engels, il biondo
germano, slanciato, con le maniere di un inglese, come scrisse di
lui un osservatore, vestito sempre accuratamente, severamente
compreso della disciplina non soltanto della caserma, ma anche
dell’ufficio; voleva con sei impiegati metter su una sezione di
ministero mille volte più semplice e chiara che con
sessanta consiglieri di governo che non sapevano nemmeno scrivere
comprensibilmente e ti introiavano tutti i registri in modo tale che
nessuno ci capiva più niente: ma, con tutta la
rispettabilità di un membro della borsa di Manchester, negli
affari e nei piaceri della borghesia inglese, nelle sue cacce alle volpe e nei suoi banchetti di
Natale, restò il lavoratore e il combattente intellettuale
che nella casetta ai margini della città nascondeva il suo
tesoro, una popolana irlandese, tra le cui braccia si ristorava
quando si sentiva troppo stanco della canaglia umana.
Invece Marx, robusto, tarchiato, con gli occhi fiammeggianti e la
criniera leonina nera come l’ebano, che rivelavano l’origine
semitica, trascurato nell’aspetto esteriore; padre di famiglia
pieno di guai, che viveva lontano da tutta la vita di società
della metropoli, tutto immerso in uno snervante lavoro
intellettuale, che gli consentiva appena di consumare un rapido
pranzo, e che logorava le sue forze fino a notte alta; un pensatore
senza riposo, per il quale pensare era la gioia più alta e in
questo il vero erede di un Kant, di un Fichte, e soprattutto di uno
Hegel, di cui ripeteva volentieri il detto: «Anche il
pensiero delittuoso di uno scellerato è più nobile e
più grandioso di tutte le meraviglie del cielo», con
la sola differenza che il suo pensiero spingeva incessantemente
all’azione; poco pratico nelle cose piccole, ma molto nelle cose
grandi; anche troppo impacciato nel sistemare un piccolo
ménage familiare, ma incomparabile nella capacità di
arruolare e guidare un esercito destinato a sconvolgere il mondo.
Se per altri aspetti lo stile è l’uomo, essi si distinguono
anche come scrittori. Ciascuno di loro era a modo suo un maestro
della lingua, e ciascuno anche un genio per le lingue, che dominava
molti gruppi di lingue straniere e anche di dialetti. Engels in
questo era anche superiore a Marx, ma quando scriveva nella sua
lingua materna si controllava moltissimo anche nelle sue lettere,
per non parlare dei suoi scritti, e manteneva il suo stile libero da
ogni sia pur minimo tratto straniero, senza per questo andare a
finire nelle bizzarrie dei puristi teutonici. Scriveva semplice e
chiaro, in modo così comprensibile, che si può
contemplare sempre fino al fondo la corrente limpida del suo fluido
discorso.
Marx scriveva in modo più trascurato insieme e più
difficile. Nelle sue lettere giovanili, come nelle lettere giovanili
di Heine, si può ancora chiaramente avvertire una certa lotta
con la lingua, e nelle lettere dei suoi anni più maturi,
soprattutto da quando visse in Inghilterra, egli usava un suo gergo
misto di tedesco, inglese e francese. Anche nelle sue opere ci sono
più parole straniere di quanto fosse indispensabile, e non
man cano né gli anglicismi né i gallicismi, ma egli
è tanto un maestro della lingua tedesca, che non lo si
può tradurre senza perder molto. Engels, una volta che lesse
un capitolo dell’amico in una traduzione francese alla quale Marx in
persona aveva dato con cura l’ultima mano, sentì subito che
forza e vigore e vita se ne erano andate al diavolo.
Se Goethe una
volta scriveva alla signora von Stein: «Nelle similitudini
io gareggio coi proverbi di Sancio Panza», Marx poteva
gareggiare nella concreta immaginosità della lingua coi
più grandi «autori di similitudini», un
Lessing, un Goethe, uno Hegel. Egli aveva compreso il detto di
Lessing, che per una figurazione completa ci vogliono concetto e
immagine, come maschio e femmina, e per questo i dotti delle
Università, dal decano Wilhelm Roscher fino al più
giovane libero docente io hanno convenientemente ripagato
stroncandolo. in quanto sarebbe riuscito a farsi capire soltanto in
una maniera approssimativa, «tutta rappezzata di immagini». Marx approfondiva le questioni che trattava soltanto fino
al punto in cui restasse al lettore feconda materia di riflessione;
il suo discorso è un gioco d’onde sulla profondità
purpurea del mare.
Engels ha sempre riconosciuto in Marx il genio superiore; accanto a
lui egli pretende di aver sempre avuto la parte del secondo violino.
Non è però mai stato soltanto il suo commentatore e il
suo aiutante, ma il suo collaboratore indipendente, un intelletto se
non uguale, certo degno del suo. Come agli inizi della loro
amicizia, Engels ha dato più di quanto ha ricevuto, e in un
campo decisivo, così venti anni dopo Marx gli scriveva:
«Tu sai che 1. a tutto io arrivo con ritardo e 2. che io seguo
sempre le tue orme. Nella sua armatura leggera Engels si
muoveva più agilmente, e se il suo sguardo era abbastanza
acuto per rico noscere il punto decisivo di una questione o di una
situazione, non penetrava abbastanza al profondo per considerare
subito tutti i se e i ma, di cui è piena anche la più
necessaria soluzione. Questo difetto a dire il vero è un
grande vantaggio per l’uomo d’azione e Marx non prendeva nessuna
decisione politica senza essersi prima consigliato con Engels, che
di solito l’imbroccava giusta.
Era conforme a questa situazione che il consiglio che Marx chiedeva
a Engels anche in questioni teoriche non si dimostrasse altrettanto
produttivo quanto in quelle politiche. Qui Marx si trovava di
solito già più avanti. E fece orecchie da mercante a
un consiglio che Engels gli dette spesso, per spingerlo a terminare
con una certa sollecitudine la sua maggiore opera scientifica:
«Sii una buona volta meno coscienzioso nei riguardi dei tuoi lavori; vanno sempre anche troppo bene per il
miserabile pubblico. La cosa principale è che il lavoro sia
scritto e che esca; i punti deboli che a te saltano agli occhi
questi somari non li scoveranno». In questo consiglio c’era tutto Engels; nel non tenerne
conto c’era tutto Marx.
Da tutto ciò risulta che per il quotidiano lavoro
pubblicistico Engels era meglio dotato di Marx; «una vera
enciclopedia», come lo definiva un amico comune, «pronto a lavorare ad ogni ora del giorno e della notte, sazio o
digiuno, vivace e tutto preso dallo scrivere come un diavolo».
Pare anche che, dopo la cessazione della Neue Rheinische Revue,
nell’autunno del 1850, essi avessero da principio concepito l’idea
di un’altra iniziativa comune a Londra; per lo meno nel dicembre del
1853 Marx scriveva ad Engels: «Se noi due — tu ed io —
avessimo cominciato a tempo giusto a fare a Londra il mestiere dei
corrispondenti inglesi, tu non te ne staresti a Manchester,
tormentato dall’ufficio, e io non sarei tormentato dai debiti». Se Engels alle prospettive di questo «affare»
preferì il posto di impiegato nella ditta paterna, certo lo
ha fatto in considerazione della situazione disperata in cui Marx si
trovava, e con la prospettiva di tempi migliori, ma non già
con l’intenzione di dedicarsi stabilmente al «maledetto
commercio». Ancora nella primavera del 1854, ma comunque per
l’ultima volta, Engels indugiava sul pensiero di tornare a Londra
per darsi all’attività letteraria; in questo momento deve
aver preso la decisione di assoggettarsi stabilmente all’odiato
giogo, non soltanto per aiutare l’amico, ma per conservare al
partito la sua maggiore forza intellettuale. Soltanto a questa
condizione Engels poteva affrontare il sacrificio e Marx
accettarlo; per affrontarlo come per accettarlo ci voleva un animo
egualmente grande.
Prima che col passar degli anni Engels divenisse comproprietario
della ditta, come semplice impiegato non stava proprio su di un
letto di rose; ma, sin dal primo giorno del suo trasferimento a
Manchester, ha mandato il suo aiuto e non si è mai stancato
di mandarlo. Incessantemente i fogli da una, da cinque, da dieci,
poi anche da cento sterline partivano per Londra. Engels non
perdette mai la pazienza, anche quando essa era messa a una prova
più dura di quanto sarebbe stato necessario da Marx e dalla
moglie di lui, le cui capacità in economia domestica pare non
siano state eccessive. Scosse appena la testa una volta che Marx,
dimenticandosi l’importo di una cambiale che era tratta anche su
lui, si trovò spiacevolmente sorpreso il giorno della sua
scadenza. O ancora, quando la signora Marx, in occasione di un
ennesimo risanamento del bilancio familiare, tacque per falsi pudori
una grossa somma, per risparmiarla a poco a poco col denaro delle
spese quotidiane, e ricominciare da capo così, nonostante
tutte le buone intenzioni, con la vecchia miseria; Engels
perdonò all’amico il gusto un po’ farisaico di sparlare della
«follia delle femmine» che «evidentemente
avevano sempre bisogno del tutore», e si limitò al
bonario ammonimento: «Cerca soltanto che una cosa del genere non si ripeta per
il futuro».
Tuttavia, non soltanto di giorno Engels sgobbava per l’amico
nell’ufficio e alla Borsa, ma gli sacrificava in gran parte le ore
di riposo della sera fino a notte inoltrata. Da principio ciò
accadeva per scrivere al posto di Marx, o per tradurre le
corrispondenze per la New York Tribune finché questi non
potè padroneggiare la lingua inglese; ma egli continuò
questa tacita collaborazione anche quando il suo motivo originario
non sussisteva più.
Ma tutto ciò appare di poco conto di fronte al sacrificio
maggiore che Engels affrontò: la rinuncia all’enorme
produzione scientifica di cui sarebbe stato in grado con la sua
incomparabile capacità di lavoro e le sue ricche doti. Anche
di questo si ha un’idea esatta soltanto dall’epistolario tra i due
amici, anche se ci si limita soltanto agli studi linguistici e
militari, che Engels praticava con particolare predilezione, sia per
una «antica inclinazione» che per le necessità
pratiche della lotta per l’emancipazione proletaria. Infatti, per
quanto gli ripugnasse ogni «autodidattismo» — «
è sempre una balordaggine», pensava sprezzantemente —
e per quanto solido fosse il metodo del suo lavoro scientifico,
tuttavia egli, come Marx, non era uno studioso da tavolino, e ogni
nuova cognizione aveva per lui un valore doppio, se poteva essere
subito utile per far saltare le catene del proletariato.
Così cominciò a studiare le lingue slave, per la
«opportunità» che «almeno uno di noi» conosca al prossimo grande avvenimento politico, la lingua,
la storia, la letteratura, le istituzioni sociali proprio di quelle
nazioni con le quali si verrà subito in conflitto. I torbidi
nell’oriente lo indussero a studiare le lingue orientali; davanti
all’arabo con le sue quattromila radici indietreggiò con
spavento, ma «il persiano... è un vero gioco di
bambini come lingua»[ii]6; voleva venirne a capo in tre
settimane. Poi vennero le lingue germaniche: «Sto tutto immerso nei testi di Ulfila, ora, dovevo una buona volta
venire a capo di questo maledetto gotico, che ho sempre studiato
così a sbalzi. Con mio stupore trovo di saperne molto di
più di quanto pensassi; se riesco ad avere un altro testo
sussidiario, penso di arrivarne completamente a capo entro due
settimane. Poi, sotto con la lingua nordica antica e con
l’anglosassone, coi quali pure sono sempre restato a mez zo. Finora
lavoro senza lessico e senza altri testi sussidiari, soltanto il
testo gotico e il Grimm, ma questo vecchione è proprio in
gamba»[iii]7. Quando, nel decennio 18601870, si acuì
la questione dello Schle swig-Holstein, Engels studiò
alquanto «filologia e archeologia
frisone-inglese-jutlandico-scandinava», e al nuovo divampare
della questione irlandese «un po’ di celtico-irlandese» e così via. Nel Consiglio generale
dell’Internazionale le sue vaste cognizioni linguistiche gli furono
poi di grande aiuto: «Engels balbetta in venti lingue», si diceva giustamente, dato che nei momenti in cui parlava
con più agitazione s’inceppava un po’.
Così egli si meritò anche il soprannome di «
generale» per i suoi studi, anche più assidui e
approfon diti, di scienza militare. Anche qui una «antica
inclinazione» fu nutrita da bisogni pratici della politica
rivoluzionaria. Engels contava sulla «importanza enorme che
la partie militane avrebbe avuto al pros simo movimento».
Con gli ufficiali che negli anni della rivoluzione avevano
combattuto dalla parte del popolo, non si era fatta troppo buona
esperienza. «Questa canaglia militare — diceva Engels —
ha un incomprensibilmente sporco spirito di corpo. Si odiano l’un
l’altro a morte, si invidiano l’uno all’altro come scolaretti la
più piccola decorazione, ma contro i civili sono tutti uniti». Engels voleva soltanto arrivare al punto di poter dire la
sua sul piano teorico senza rischiare di far brutta figura.
S’era appena ambientato a Manchester, quando cominciò a
«sgobbare sulla scienza militare». Cominciò
dalle cose «più piatte e più comuni, che si
richiedono negli esami per allievi ufficiali e ufficiali, e che
appunto per questo si presuppongono dappertutto come cose
note». Studiò tutta la struttura dell’esercito fin
nelle minuzie tecniche: tattica elementare, sistemi di
fortificazione di Vauban fino al sistema moderno dei forti isolati,
costruzione di ponti e trincee campali, scienza delle armi fino alle
diverse costruzioni di affusti da campo, organizzazione degli
ospedali da campo e altro ancora; infine passò alla storia
militare generale nella quale studiò l’inglese Napier, il
francese Jomini e il tedesco Clausewitz con intelligente diligenza.
Ben lungi dall’infervorarsi in una superficiale illustrazione della
irrazionalità morale delle guerre, Engels cercava piuttosto
di riconoscerne la ragione storica, e con ciò eccitò
più di una volta l’ira sfrenata della democrazia
declamatoria. Se una volta un Byron riversò la sua ira
ardente sui due condottieri che, come portabandiera dell’Europa
feudale, nella battaglia di Waterloo dettero il colpo mortale
all’erede della rivolu zione francese, così un caso
significativo volle che Engels nelle sue lettere a Marx abbozzasse
dei ritratti storici di Blùcher e di Wellington, che nei loro
brevi limiti sono disegnati con tanta chiarezza e acume che anche
allo stato attuale della scienza militare non hanno bisogno di
essere cambiati sia pure di un tratto.
Anche in un terzo campo, nel quale Engels lavorò molto e
volentieri, nel campo delle scienze naturali, non gli è stato
concesso di dare l’ultima mano alle sue ricerche dei decenni in cui
fece il suo servizio nel commercio, per dar campo libero al lavoro
scientifico di uno più grande di lui.
Tutto ciò era anche un tragico destino. Ma Engels non ci ha
mai piagnucolato su, perché ogni sentimentalismo era tanto
estraneo a lui quanto al suo amico. Egli considerò sempre
come la più grande ventura della sua vita, quella di essere
stato per quaranta anni accanto a Marx, anche a costo di vedere che
la figura possente di lui lo metteva in ombra. Non ha mai
considerato come una tardiva soddisfazione il fatto di essere stato
dopo la morte dell’amico per più di un decennio la prima
personalità del movimento operaio internazionale, e di essere
stato incontestabilmente in esso il primo violino; al contrario,
egli pensava che gli venisse attribuito un merito maggiore di
quello che gli spettava.
In quanto ognuno di loro si dedicò completamente alla causa
comune e ognuno di loro sostenne non il medesimo sacrificio, ma un
sacrificio ugualmente grande, senza alcun’ombra penosa di rammarico
o di orgoglio, la loro amicizia fu un legame che non trova l’uguale
nella storia.