MARX, Karl. - Filosofo, politico ed economista, n. a Treviri il 5 magg. 1818, figlio dì genitori provenienti da famiglie rabbiniche, m. a Londra il 14 mar. 1883.
Sommario: L. Vita e le opere. II. Il pensiero: 1. Superamento di Hegel con Feuerbach. - 2. La critica di Ludwig Feuerbach. - 3. Il pensiero come praxis e la filosofia come realizzazione di una totalità. - 4. L'etica inclusa nella politica rivoluzionaria. - III. La critica dell'economia politica. - IV. Dopo il crollo del muro.
I. Vita e le opere. - Si dedicò agli studi di giurisprudenza a Bonn, poi a quelli di storia e filosofia, prima a Berlino e poi Jena. Fra il 1839 e il 1841 redige la dissertazione di dottorato sulla Differenza delle filosofie della natura di Democrito e di Epicuro (inedita). Secondo il giovane filosofo, nella concezione epicurea del clinamen si può individuare lo sforzo per superare il meccanicismo democriteo, in direzione di una visione dialettica della natura. Divenne, con B. Bauer, redattore a Colonia della «Rheinische Zeitung» (1842); scacciato dalla Prussia per le sue idee politiche, emigrò a Parigi, ove iniziò con A. Ruge i «Deutsch-französische Jahrbücher» (1844), in cui apparvero di Marx Zur Kritik des hegelschen Rechtsphilosophie e Zur Judenfrage (1843); già a metà del 1843 aveva terminato la Kritik der hegelschen Staatsrecht (rimasta a lungo inedita, l'opera sarà pubblicata per la prima volta solo nel 1927). Nel 1844, dopo la rottura con Ruge e la conseguente fine dell'esperienza degli «Jahrbucher», si dedicò alla stesura di un denso testo di analisi economico-filosofica (Ökonomisch-philosophische Manuscripte aus dem Jahre 1844), che comprende Per la critica dell'economia politica e un capitolo finale: Critica della dialettica e della filosofia hegeliana in generale, rimasto inedito fino al 1932, quando compare la Gesamtausgabe di Mosca. Nello stesso anno, conobbe a Parigi F, Engels e iniziò quell'amicizia e quella collaborazione di studio e di pubblicazioni fra i due uomini che durerà fino alla morte di Marx. L'anno seguente apparve coi due nomi, Marx-Engels, l'opera Die heilige Familie, oder Kritik der kritischen Kritik, eine Streitschrift gegen B. Bauer und Konsorten (Paris 1845; a far la «sacra famiglia» entrano anche gli altri due fratelli Bauer, Edgar e Egbert). Ma in questo stesso anno Marx fu espulso da Parigi e si trasferì a Bruxelles, ove scrisse prima Die deutsche ideologie (ultimata nell'estate del 1846, ma pubblicata soltanto nel 1932), e poi in francese Misere de la philosophie, réponse à la Philosophie de la misere de Proudhon (Bruxelles 1847). Dalla medesima città venne lanciato anonimo il famoso Manifest der kommunistischen Partei (London 1848). Costretto a lasciare anche la capitale del Belgio (1848), Marx ritornò a Parigi e di lì a Colonia, ove fondò la «Neue Rheinische Zeitung», e poi di nuovo a Parigi, che lasciò presto per trasferirsi a Londra, stabilendovisi per il resto della vita. A partire dall'inizio degli anni cinquanta, e fino al 1859, Marx si concentra esclusivamente sullo studio dell'economia politica, senza scrivere o pubblicare nulla, a parte quel primo monumentale «abbozzo» della sua opera, redatto nel 1857 e noto come Grundrisse der Kritik der politischen Ökonomie, rimasto a lungo inedito, e poi pubblicato per la prima volta nel 1932-33. Il primo frutto di questo progetto di ricerca a vasto raggio fu Zur Kritik der politischen Okonomie, Berlin 1859. A partire dal 1867 viene pubblicato a Berlino il primo libro della sua opera maggiore (Das Kapital. Kritik der politischen Ökonomie), mentre i libri II e III furono editi da Engels, fra il 1885 e il 1894. Fra i suoi numerosi scritti inediti, oltre a quelli già citati, interessano la filosofia: Thesen über Feuerbach, composte a Bruxelles nel 1845, ma pubblicate da F. Engels nel 1888 in appendice al suo Ludwig Feuerbach und der Ausgang der klassischen deutschen Philosophie, la cosiddetta Introduzione del '57, redatta contestualmente alla stesura dei Grundrisse e destinata ad avere enorme fortuna dopo la sua prima pubblicazione, avvenuta nel 1932, e infine i 4 voll. della Storia delle teorie del plusvalore, a cura di K. Kautsky, 1905-10.
II. Il pensiero.
I. Superamento di Hegel con Feuerbach. - Il periodo della sua attività strettamente filosofica comprende pochi anni (1840-48), che sono però decisivi per il suo orientamento successivo. Non sarebbe infatti esatto pensare che egli abbia successivamente abbandonato gli studi filosofici per il raggiunto convincimento che la sua vera vocazione fosse quella dell'economista e del rivoluzionario. Al contrario, il suo passaggio all'attività di politico e di teorico dell'economia non può venire effettivamente inteso se non si ha riguardo per le tesi del nesso di teoria e di pratica e del conseguente superamento del tipo del filosofo in quello del rivoluzionario, che sono state da lui raggiunte attraverso un processo strettamente filosofico. Il Capitale è infatti lo studio di quell'alienazione economica in cui già aveva riconosciuto, per via filosofica, la forma fondamentale dell'alienazione dell'uomo e al tempo stesso la molla della sua liberazione. Perché questa alienazione appaia è necessaria la critica dell'economia politica, giustificazione illusoria dei rapporti economici propri dell'epoca capitalistica (Critica dell'economia politica, 1859; primo libro del Capitale, 1867); le categorie usate in questi lavori sono però condizionate dal processo di pensiero del periodo filosofico ed è ad esso che occorre risalire per intenderle esattamente. La formula più complessiva per esprimerlo può essere questa; la riaffermazione contro Feuerbach della scoperta di Hegel; l'unità del razionale col reale, accolta la critica che Feuerbach aveva mosso alla forma in cui questa unità era stata pensata da Hegel. Dopo l'accettazione della critica di Feuerbach, la contraddizione di Hegel non poteva per Marx che configurarsi in questi termini: Hegel non ha visto come l'unità del razionale col reale importi la caduta del vecchio concetto speculativo della filosofia; c'è perciò in Hegel una contraddizione tra il suo metodo rivoluzionario (la dialettica) e il suo sistema conservatore. La filosofia speculativa è in realtà una filosofia della trascendenza (una filosofia teologica); trasportata in un clima dì immanenza essa genera una nuova trascendenza interna allo storicismo, la conclusione dell'ordine presente del reale e la sua opposizione come sacro al futuro. Se ci si mette, cioè, dal punto di vista della filosofia speculativa, la ricerca della comprensione dell'unità del razionale col reale si determinerà come sforzo di intendere la ragione di cui il reale è fenomeno (apparenza, allegoria ecc.). Ma nel far ciò si scinde di nuovo il razionale dal reale, lo si disincarna e lo si fissa. Intendere la razionalità del reale comporta che la ragione, così disincarnata, sia presa come il soggetto di cui il reale, il particolare, l'empirico, è predicato. Ma allora avviene che il particolare, elevato a predicato, finisce col venir considerato come «manifestazione essenziale» della ragione; al posto dell'unità del razionale col reale si sostituisce la confusione del razionale con l'empirico, la mistificazione teologica dell'empirico (cfr. su questo punto soprattutto la Critica del diritto statuale hegeliano e i Manoscritti economico-filosofici).
2. La critica di Ludwig Feuerbach. - Ma come si potrà, dopo un simile estremo sviluppo dell'istanza antihegeliana, mantenere l'unita del razionale col reale ed evitare l'umanismo feuerbachiano, la sua tesi della ragione accidente dell'uomo, conciliare, cioè, la realtà del razionale con la sua radicale ateologizzazione. Non c'è per Marx che una via obbligata, la critica dell'essenza uomo, della natura umana; la tesi che l'essere uomo di una determinata situazione storica esaurisce l'essere umano. «Ma l'essere umano non è un'astrazione immanente all'individuo singolo. Nella sua realtà esso è l'insieme di rapporti sociali. Feuerbach che non intraprende la critica di questo essere reale è di conseguenza obbligato [...] a considerare l'essere umano soltanto come genere, come generalità interna, muta, che leghi solo naturalmente i molti individui» (VI Tesi su [ Feuerbach), Si può dire che l'uomo è così ridotto a momento del processo della prassi; quando però si avverta che ciò non significa affermare la passività dell'uomo, perché con una simile affermazione si ricreerebbe una trascendenza della prassi rispetto all'uomo. Marx pensa cioè che l'uomo non è un prodotto passivo dell'ambiente, che anzi agisce su di esso per trasformarlo, non però arbitrariamente, ma nel senso fissato dall'evoluzione economica e sociale (teoria del «rovesciamento della prassi»). Conseguenza immediata di tutto questo è la considerazione, diversa dalla feuerbachiana, che Marx fa delle forme dì alienazione; per Feuerbach essa indicava il fatto che l'uomo si trova «spossessato di qualcosa che gli appartiene per essenza a profitto di una realtà illusoria» (nell'Essenza del cristianesimo); e ciò veniva applicato all'interpretazione della religione. Per Marx, invece, l'alienazione religiosa, fenomeno derivato e secondario, ha la sua radice nell'alienazione economica: nel fatto che nel regime economico attuale l'uomo i aliena la propria sostanza nel prodotto del suo lavoro che, prendendo forma di denaro, di capitale, lo rende servo. L'alienazione può essere eliminata soltanto per mezzo di una rivoluzione sociale, provocata dallo svolgimento stesso del regime economico che crea nel proletariato lo strumento della propria rovina. Nel significare la frattura che esiste oggi tra l'uomo e la natura, la religione esprime quindi uno stato di cose effettivo, legata a questa situazione, che avrà termine soltanto dopo la soppressione della proprietà privata, operata dalla rivoluzione comunista.
| 3. Il pensiero come praxis e la filosofia come realizzazione di una totalità. A partire da questa fondamentale critica a Feuerbach si possono dedurre tutte le figure del marxismo strettamente filosofico come di quello politico. Se infatti | l'uomo pensa non in quanto partecipa a una ragione, o comunque a un'essenza universale, ma in quanto uomo di una determinata situazione storica, sorge la figura dell'«uomo sociale» nel senso specificamente marxista di questo termine; è a partire da questa premessa che si intende pienamente il significato del «materialismo storico». Con la caduta dell'idea di partecipazione il pensiero perde ogni carattere rivelativo per diventare attività trasformatrice del reale («l'uomo-lavoro»): «nella prassi soltanto l'uomo può provare la verità, cioè la realtà e potenza, l'oggettività del proprio pensiero» (II Tesi su Feuerbach). Quest'affermazione rende conto dell'ideale comunistico. Per Marx il regime della proprietà privata è infatti la conseguenza sociale della distinzione e della priorità della cultura e dell'interiorità al lavoro; ma se l'uomo non soltanto lavora, ma è lavoro, si intende come il regime della proprietà privata debba essere considerato regime di asservimento. Si vede pure come la tesi del rovesciamento della prassi significhi il radicale capovolgimento dell'ideologia platonico-agostiniana; non reagisco al mondo per l'idea presente in me, ma le mie idee sono l'articolarsi della mia reazione, storicamente condizionata, al mondo. Poiché il pensiero è pensiero dell'uomo sociale, l'uomo pensa in rapporto con altri esseri, in quanto corpo: è 1'«essere» dell'uomo che spiega il suo pensiero. Se poi il pensiero è praxis, cioè attività sensitiva umana, è pensiero espressivo e non rivelativo e non è nulla oltre la sua manifestazione sensibile; si ha dunque un materialismo integrale che coincide con un «umanismo reale» perché non si tratta di fare del pensiero l'epifenomeno della materia. Al materialismo dei dati obiettivi della natura si sostituisce il materialismo delle situazioni sociali. Il materialismo volgare non sarebbe per il marxismo che la traduzione decaduta di questo materialismo sul piano della filosofia speculativa. È questo il senso della prima Tesi su Feuerbach. «Il difetto capitale di tutto il materialismo passato è che il termine del pensiero, la realtà, il sensibile, è stato concepito sotto la forma di oggetto o di intuizione, e non già come attività sensitiva umana, come praxis, non soggettivamente. Quindi è avvenuto che il lato dell'attività fu sviluppato dall'idealismo in opposizione al materialismo, ma solo in astratto, perché naturalmente l'idealismo non sa nulla dell'attività reale e sensitiva come tale». Il materialismo dunque, per essere coerente, deve rinunciare a presentarsi come una filosofia speculativa e deve intendere il pensiero non già come rivelazione, ma come attività trasformatrice della realtà; reciprocamente, soltanto il materialismo riesce a una filosofia che sia azione, non potendo l'idealismo trattare dell'azione che in astratto. Si intende a questo punto il rigoroso senso delle espressioni «materialismo storico», «materialismo dialettico», in cui dialettica significa per il marxismo negazione delle verità assolute: quindi storicismo. Ora lo storicismo assoluto non può, a suo giudizio, realizzarsi se non unendosi con l'integrale materialismo di cui si è detto; altrimenti si avrebbe la dialettica «mistica» o «mistificata», che perde il movimento del reale. Occorre ancora osservare che lo svolgimento del pensiero di Marx in forma di materialismo dialettico, come inserimento del divenire umano nel divenire generale della realtà, è stato opera di Engels, approvato però da lui. Nell'ultima delle Tesi su Feuerbach si legge che «i filosofi si sono limitati a interpretare il mondo in modi diversi; si tratta però di mutarlo». Evidentemente questa frase non vuole semplicemente dire che l'uomo si varrà della conoscenza delle leggi della storia per modificarla. Allude invece a un superamento della filosofia che deve essere insieme la sua realizzazione. La filosofia non sarà più per Marx l'autocoscienza di una totalità realizzata, ma si esprimerà nella realizzazione di una totalità: nella costruzione di una società senza classi in cui l'universalità del pensiero sarà il risultato della soppressione delle classi. Se le idee sono sempre idee di un uomo in una determinata situazione storica, criticare vorrà dire mutare la situazione storica (si consideri il rovesciamento marxista della posizione di Feuerbach in rapporto alla religione), la critica filosofica coincide perciò con la rivoluzione. Il che chiarisce pure come il passaggio di Marx all'attività rivoluzionaria non debba venir inteso come abbandono della filosofia.
4. L'etica inclusa nella politica rivoluzionaria. Marx non ha trattato espressamente di etica. Tuttavia il suo atteggiamento al riguardo si può ricostruire a partire dalla sua radicale negazione della concezione platonica e cristiana; si giunge così a un'esatta comprensione della sua critica del socialismo utopistico ed «etico». Da questa negazione discende un totale rifiuto del giusnaturalismo. Si può parlare di etica del marxismo solo nel senso che la ricerca della effettiva liberazione dell'uomo non può non coincidere, data la concezione dell'«uomo sociale», con quella della liberazione di tutti. Naturalmente, questo compito non si presenta come un Sollen, ma come un Müsse:. la liberazione degli altri è inscindibile dalla mia, se il rapporto con la società è costitutivo della mia natura (si consideri l'idea per cui il proletariato, portato dalla sua situazione storica a lottare per la sua liberazione, libera, liberando se stesso, l'intera umanità). È già implicita perciò nel pensiero marxista quell'inclusione dell'etica nella politica rivoluzionaria che sarà poi realizzata nel leninismo. È dunque radicalmente errata l'ancora diffusa opinione secondo cui l'idealità e l'assolutezza della morale, nel senso tradizionale del termine, siano presupposto necessario dell'intera ricerca marxista. Sulla base di siffatta asserzione si tentò spesso (da parte, per esempio, dei filosofi della Scuola di Marburgo) un accostamento fra il pensiero marxista e l'etica kantiana; si deve invece dire che l'etica kantiana è proprio la forma dell'etica tradizionale in opposizione alla quale il marxismo si è costituito. La Critica del diritto statuale hegeliano, uno dei più importanti tra i suoi scritti filosofici, può venire interpretata come l'estensione alla posizione di Hegel della critica che questi aveva mosso all'etica kantiana, riguardo all'arbitrarietà dell'universalizzazione e alla conseguente possibilità di mistificazione morale di ogni contenuto immorale. Anche qui, come sempre, Marx rimprovera a Hegel l'infedeltà al suo assunto iniziale.
III. La critica dell'economia politica. Per un periodo relativamente molto lungo, all'incirca fra la morte di Marx e gli ultimi tre decenni del Novecento, si è ritenuto necessario distinguere rigidamente fra gli scritti redatti negli anni quaranta, di taglio esplicitamente filosofico, e le opere pubblicate o redatte durante gli oltre trent'anni dell'esilio londinese, dedicate alla realizzazione del grande progetto di critica dell'economia politica. Di qui il consolidamento di alcuni schemi interpretativi, tanto tenaci quanto privi di ogni serio fondamento critico e filologico, secondo i quali occorrerebbe distinguere (e spesso anche contrapporre) il Marx «giovane» rispetto al Marx «maturo», il filosofo dall'economista, il rivoluzionario sentimentale e utopista dallo «scienziato» della rivoluzione. Ulteriore, e ancora più esiziale, conseguenza di siffatta impostazione, è stata l'oblio o la negligenza degli scritti marxiani più propriamente «economici», del tutto a torto considerati poco o per nulla rilevanti dal punto di vista filosofico. Viceversa, già in precedenza si è fatto cenno allo stretto intreccio riconoscibile fra gli scritti «giovanili» e quelli della maturità. Ancora più importante è ora sottolineare la valenza intrinsecamente «filosofica» delle opere che Marx redige per realizzare il progetto generale della critica dell'economia politica. Una svolta in questa direzione è stata impressa, verso la fine degli anni sessanta del Novecento, soprattutto dagli studi di Louis Althusser ed Etienne Balibar in Francia, Helmut Reichelt e Iring Fetscher in Germania, Roman Rosdolsky in urss, Lucio Colletti e Mario Tronti in Italia.
Già più che abbozzato ne La miseria della filosofia, il disegno marxiano di una rigorosa e analitica «resa dei conti» con l'economia politica classica prende definitivamente corpo e si consolida a partire dall'esilio a Londra. Per molti anni, Marx trascorre buona parte delle sue giornate presso la biblioteca del British Musem, dedicandosi alla lettura dei testi dei grandi economisti - Francois Quesnay, Adam Smith, David Ricardo, Thomas Malthus, soprattutto - senza preoccuparsi di tradurre i risultati delle sue letture e delle sue meditazioni in testi destinati alla pubblicazione. La situazione muta radicalmente nel corso del 1857, in concomitanza con il diffondersi di una crisi economica internazionale che suggerisce a Marx la convinzione che sia ormai imminente il «dies irae» del capitalismo. Di qui la decisione assunta da Marx, compendiata in una lettera inviata a Engels. «Lavoro come un pazzo le notti intere a riordinare i miei studi economici, per metterne in chiaro almeno le grandi linee [Grundrisse], prima del déluge» (Lettera a Engels dell'8 dicembre 1857). Ritrovati fra le carte inedite di Marx, i sette grossi quaderni manoscritti contenenti i risultati di questa «anticipazione» di Das Kapital saranno pubblicati col titolo di Grundrisse quasi un secolo dopo (Intel, Moskva 1939-41), ma saranno in realtà «riscoperti» solo dopo l'edizione tedesca, pubblicata da Dietz Verlag nel 1953. Contestuale alla redazione dei Lineamenti fondamentali è anche la stesura di uno scritto, non destinato alla pubblicazione, contenuto in un quaderno siglato M e datato 23 agosto 1857, intitolato Einleitung, rimasto inedito fino al 1903, quando Karl Kautsky lo pubblica nella «Neue Zeit». Entrambi questi testi risulteranno decisivi per una più adeguata valorizzazione del programma marxiano di critica dell'economia politica, oltre che per demolire definitivamente la distinzione fra il Marx «giovane» e il Marx «maturo». A ciò si aggiunga che, forse anche per il carattere di «stenografia intellettuale privata a volte indecifrabile» (Hobsbawm), i Grundrisse mostrano con maggiore chiarezza, rispetto a Das Kapital, la filigrana filosofica che è alla base della critica dell'economia polìtica, non solo nel senso della persistenza dell'originaria matrice dialettica, ma anche come riproposizione di alcune tematiche «giovanili», legate soprattutto alla teoria dell'alienazione. In ogni caso, il nucleo fondamentale della ricerca condotta da Marx negli ultimi trent'anni di vita può essere compendiosamente indicato nello sforzo di smascherare il carattere apologetico dell'economia politica classica, la quale «tende a interpolare, del tutto sotto banco, i rapporti sociali di produzione capitalistici come indiscutibili leggi naturali della società in abstract» (Einleitung). In altre parole, pur dimostrando di averne analiticamente studiato le opere, Marx rimprovera a Smith e Ricardo di aver contrabbandato come scienza «oggettiva» e «neutrale» quella che, in realtà, era soltanto una falsificazione ideologica, volta a presentare l'organizzazione capitalistica della produzione non per quello che essa effettivamente è - vale a dire una formazione economica storicamente determinata, come tale provvista di una propria origine storica, e quindi anche suscettibile di essere superata - bensì come modalità «naturale ed eterna» di produrre, in quanto tale del tutto immodificabile. Il significato più autentico della «critica» elaborata da Marx non consiste dunque in un esercizio meramente teoreticistico di «critica critica» (da lui stesso censurato negli scritti degli anni quaranta), ma deve essere invece individuato nella dimostrazione della costante implicazione fra teoria e prassi, e delle conseguenze di ordine pratico-politico derivanti dalle formulazioni teoriche degli economisti classici.
Al di là delle infinite controversie, fiorite già all'indomani della morte di Marx e poi proseguite con andamento discontinuo fino agli ultimi decenni del secolo scorso, il modo migliore per cogliere la peculiarità del programma marxiano di critica dell'economia politica è riferirsi a quanto lo stesso autore afferma in una famosa lettera indirizzata a Engels, recante l'annuncio dell'imminente pubblicazione del primo libro di Das Kapital: «Il meglio dì tutta la mia opera consiste essenzialmente in due scoperte. La prima è l'individuazione del duplice carattere del lavoro incorporato nelle merci, a seconda che esso produca valore d'uso ovvero valore di scambio. La seconda è la trattazione del plusvalore, indipendentemente dalle sue forme particolari». Nella rivendicazione dei risultati raggiunti, è evidente che Marx si astiene da ciò che, viceversa, successivamente gli sarà attribuito, vale a dire la costruzione di un'organica teoria economica, «alternativa» rispetto alla Political Economy, ovvero la definizione di una visione filosofica generale, una Weltanschauung proletaria, «dedotta» da premesse di carattere economico. La sobrietà delle affermazioni marxiane consente invece di comprendere la peculiarità di un programma privo di ogni ambizione fondativa, e proiettato piuttosto a proporsi come esempio di una critica radicale delle superfetazioni ideologiche connesse con le posizioni dell'economia politica classica. D'altra parte, la scoperta di quello che Marx chiama il Doppelkaracter del lavoro, unitamente all'analisi dell'origine del plusvalore, lascia emergere un punto nodale dell'intera ricerca teorica marxiana, vale a dire la comprensione dell'intrinseca ambivalenza di tutto ciò che costituisce la realtà del modo di produzione specificamente capitalistico, e della società borghese che su di esso si è costituita. Per comprendere meglio questo aspetto, rintracciabile lungo tutto l'arco della ricerca marxiana, è possibile riferirsi a uno fra i temi più importanti della critica marxiana della Political Economy, significativamente presente tanto nei Grundrisse (si veda il cosiddetto «frammento sulle macchine»), quanto nel libro 1 di Das Kapital (in particolare, tutta la quarta sezione, capp. X-XIII), vale a dire l'analisi del rapporto fra sviluppo scientifico-tecnologico e forma dell'organizzazione capitalistica della produzione. Marx prende le distanze sia da ogni esaltazione acritica delle potenzialità connesse con il progresso della scienza e della tecnologia, sia dalla non meno unilaterale svalutazione del progresso, quale quella propugnata dal movimento luddista, giunto all'estremo di predicare e concretamente attuare la distruzione delle macchine, assunte quali concrete manifestazioni del carattere antiumano del progresso. Secondo il filosofo di Treviri, invece, occorre cogliere la costitutiva e ineliminabile ambivalenza di quello che egli chiama il «cervello sociale»: da un lato, infatti, l'impiego tecnologico della scienza pone le premesse per un affrancamento della classe operaia (e, attraverso essa, di tutta la società), anche se contemporaneamente istituisce nuove e più insidiose forme di comando capitalistico. Da questo punto di vista, a differenza dall'atteggiamento assunto da molti teorici a lui successivi, Marx è ugualmente lontano dal prometeismo illuministico-positivistico, quanto da ogni aprioristica svalutazione della scienza di stampo romantico o irrazionalistico, il riferimento alla concezione marxiana del rapporto scienza-produzione consente anche di capire quale sia, in termini più generali, il motivo conduttore di tutto il monumentale programma di critica dell'economia politica. Il capitale, nella prospettiva marxiana, rappresenta una tappa fondamentale nel processo storico di liberazione della società, in quanto condizione necessaria per lo sviluppo della forza produttiva del lavoro sociale. Al tempo stesso, esso introduce forme di sempre maggiore alienazione del lavoro. È, dunque, insieme motore del progresso e fonte di schiavitù. Da questo punto di vista, per usare le sue stesse parole, si può dire che «il capitale è esso stesso la contraddizione in processo, per il fatto che tende a ridurre il tempo di lavoro a un minimo, mentre, d'altro lato, pone il tempo di lavoro come unica misura e fonte della ricchezza (...] Il capitale lavora così alla propria dissoluzione come forma dominante della produzione» (Lineamenti fondamentali, vol. II, pp. 395-396).
IV. Dopo il crollo del muro. Il collasso dei sistemi politici dell'Europa orientale, culminato. col crollo del muro di Berlino nel 1989, ha sovente indotto a ritenere che la fine del comunismo portasse con sé ineluttabilmente anche la definitiva archiviazione della ricerca teorica marxiana. Al contrario, la drammatica conclusione di quella vicenda storico-politica, disimpegnando Marx da una troppo immediata identificazione con le sorti del comunismo, può e deve consentire di rileggerne oggi il pensiero come grande autore «classico», come uno fra gli autori più originali e influenti della ricerca teorica contemporanea. Si può anzi affermare che la svolta storica del 1989 pone le premesse per una rilettura dell'intero corpus delle opere marxiane al di fuori delle deformazioni ideologiche introdotte dalla ricerca teorica che si è definita «marxista», oltre che al riparo delle controversie alimentate da coloro che individuavano, spesso a torto, nell'elaborazione marxiana la cornice dottrinale entro la quale si era storicamente sviluppato il fenomeno storico-politico del comunismo. D'altra parte, si deve anche rilevare (come risulta nitidamente dalla bibliografia citata infra) che gli studi sul pensiero di Marx, in precedenza numerosissimi e quanto meno molto impegnati, si sono diradati fino quasi a sparire completamente dopo il 1989. Dopo un necessario periodo di decantazione critica, vi è da attendersi che le opere del filosofo di Treviri possano essere nuovamente studiate per quello che sono e che valgono, vale a dire non come impropri manifesti politici, ma come documenti di una ricerca teorica che costituisce un punto di riferimento importante nel quadro del pensiero contemporaneo.
MARXISMO. - Sommario: 1. Premessa. - II. L'origine del termine. - III. Il marxismo come «scienza». - IV. 11 marxismo nel Novecento.
I. Premessa. - Forse in nessun'altra fase della storia del pensiero si è potuta registrare una situazione paragonabile a quella che ha caratterizzato la costituzione, il consolidamento, la diffusione, e poi la definitiva crisi di quel movimento filosofico denominato marxismo. Questa constatazione deve essere assunta come dato di partenza pressoché assiomatico, allo scopo di inquadrare adeguatamente la vicenda storica della teorìa marxista. Difatti, la peculiarità (per certi aspetti, la vera e propria anomalia) di questo orientamento di pensiero è fondata soprattutto su due elementi caratterizzanti. Il primo, e più importante, è il rapporto fra il marxismo e Marx, fra un movimento teorico multiforme ed estremamente variegato, sviluppatosi per circa un secolo e mezzo e diffuso in ogni parte del mondo, e l'autore dal quale esso desume la propria denominazione.
Il secondo elemento caratterizzante è costituito dall'intreccio che si è storicamente stabilito fra la «teoria» e la «prassi», vale a dire fra il marxismo come concezione filosofica generale e la storia del movimento operaio organizzato a livello internazionale. Per quanto riguarda il primo punto, balza agli occhi anzitutto un paradosso. Durante tutto l'arco della sua vita, Marx si rifiutò costantemente di riconoscersi come iniziatore ed eponimo di una vera e propria visione filosofica generale. Resta celebre la sua affermazione -«je ne suis pas marxiste!» - con la quale egli avrebbe voluto allontanare definitivamente da sé ogni responsabilità relativa alla circolazione di idee che venivano proposte come ispirate ai suoi scritti. Altrettanto nota, inoltre, è la sua riluttanza ad attribuire una valenza strettamente filosofica a un lavoro, quale è quello che egli condusse soprattutto a partire dai primi anni cinquanta, e proseguito poi fino alla morte, non traducibile in enunciazioni generali, perché coincidente con la critica dell'economia politica classica e con l'analisi delle forme concrete di organizzazione della produzione capitalistica. Perfino sul piano strettamente politico il pensatore dì Treviri giudicava erroneo e fuorviante ogni sforzo di prefigurazione di una ipotetica futura «società comunista», dichiarando di volersi sottrarre categoricamente alla formulazione di «ricette per le osterie dell'avvenire». Nonostante un disimpegno così netto e preciso, oltre che più volte reiterato, gran parte della parabola storica del marxismo è stata caratterizzata da controversie e contese, talora particolarmente aspre, tra fautori di interpretazioni divergenti, ciascuna delle quali reclamava per sé il connotato dell'ortodossia. In altre parole, benché la derivazione diretta da Marx sia contestata in radice proprio da colui che avrebbe dovuto essere il fondatore di questo movimento teorico, la pluridecennale storia del marxismo si identifica in larga misura con la competizione fra posizioni rivali, le quali si confrontano non sulla base della loro intrinseca attendibilità, o della capacità di descrivere le trasformazioni economiche e politiche della società capitalistica, bensì in nome della «fedeltà» all'autentico insegnamento marxiano. Di qui la prima e più importante caratteristica generale del marxismo: l'essere un orientamento di pensiero nel quale la teoria è concepita eminentemente come interpretazione degli scritti marxiani, piuttosto che come elaborazione autonoma o come approccio diretto ai problemi. Di qui, inoltre, la necessità di utilizzare sempre e comunque con molta prudenza termini come «marxismo» e «marxista», da qualcuno addirittura giudicati «abusivi e ingiustificabili» (Rubel). Non meno rilevante il secondo punto, al quale si è in precedenza accennato. A differenza di ciò che si può osservare per gli altri «ismi» - dall'idealismo al positivismo, dallo spiritualismo all'esistenzialismo, e così via - la storia del marxismo non è compiutamente descrivibile come pura vicenda teorica, come evoluzione più o meno continua, a partire da un originario impianto filosofico generale, per la cui comprensione sia possibile prescindere da riferimenti a vicende storico-politiche determinate. Al contrario, fin dalle sue origini, il marxismo si è storicamente intrecciato con le forme storiche assunte dal movimento operaio organizzato, ne ha costituito l'intelaiatura teorica, fino a diventare da esso praticamente e concettualmente inseparabile. Di conseguenza, qualunque ricostruzione storica, per quanto sommaria, riferita al marxismo, non può non tenere costantemente presente quanto accade (soprattutto, ma non esclusivamente, in Europa) sul piano storico-politico. Si comprende altresì, alla luce dell'intreccio indissolubile ora segnalato, per quale ragione di fondo al declino e poi al collasso dei sistemi politici del cosiddetto «socialismo reale» nella seconda metà del XX secolo abbia corrisposto una analoga involuzione della ricerca teorica programmaticamente ispirata al marxismo. Infine, il legame che stringe insieme forme del marxismo e forme del movimento operaio spiega in termini generali le differenze riscontrabili fra i diversi «marxismi» - in particolare fra quello «occidentale» e quello «orientale» - in quanto ciascuno di essi è espressione non solo di una peculiare impostazione di pensiero, ma rispecchia anche le condizioni politiche determinate in cui essi sono sorti e si sono sviluppati.
II. L'origine del termine.
Il termine «marxianer» fa la sua comparsa per la prima volta fra il 1853 e il 1854, nella polemica scoppiata dopo la dissoluzione della Lega dei comunisti, non già per designare un orientamento di pensiero o una teoria filosofica, bensì come espressione spregiativa, impiegata soprattutto da Wilhelm Weitling per indicare «i ciechi seguaci di Marx». A partire da questo periodo, e poi lungo tutta la fase storica della Prima Internazionale, la parola «marxianer», e poi il nuovo termine onomastico «marxisti», verranno diffusamente e generalmente impiegati come sinonimi per attaccare Marx, soprattutto da parte di Bakunin, o di Lassalle, nell'aspra lotta in corso per acquisire la supremazia politica all'interno della prima organizzazione internazionale operaia. Poco alla volta, pur persistendo l'accezione negativa e l'intenzione denigratoria, si registra una distinzione, tale per cui mentre l'etichetta «marxianer» viene affibbiata ai «partigiani» di Marx, o a quelli che erano ingiuriosamente definiti i suoi «agenti», il termine «marxista» viene adoperato per designare l'orientamento e le azioni dei «marxianer». Resta il fatto che, in entrambe le varianti, l'aggettivo entra nell'uso con una forte accentuazione peggiorativa, poiché allude all'esistenza di una «setta», o comunque di una fazione organizzata, che bakuninisti e lassalliani (vale a dire proprio coloro che avevano dovuto subire per primi l'onta di vedersi etichettati con un aggettivo tendente a sottolinearne il settarismo) intendevano mettere in ridicolo o squalificare. Per comprendere appieno le ragioni di questo fenomeno, non bisogna dimenticare d'altra parte che, per tutto il periodo della Prima internazionale, Marx ed Engels erano conosciuti come dirigenti politici, più che come autori di scritti teorici. Da un lato, infatti, se si eccettua il Manifesto del partito comunista (redatto dai due amici, ma pubblicato anonimo), le poche opere edite erano poco e mal conosciute, anche fra gli aderenti al movimento socialista. Dall'altro lato, la maggior parte dei loro scritti non era stata neppure pubblicata, o perché non finalizzati alla stampa, ovvero perché non si erano trovate le risorse per assicurare ad essi una adeguata diffusione. Una prima svolta nella storia del termine si verifica all'indomani dei congressi dell'associazione internazionale dei lavoratori, svoltisi all'Aia e a Ginevra nei primi anni settanta dell'Ottocento, allorché le espressioni «marxista» e «bakuninista» escono dal gergo dell'AIL, e compaiono in quella che si chiamava la stampa «borghese», quali epiteti volti a far rimarcare sarcasticamente le molte divergenze in atto fra gli aderenti all'associazione. L'uso di questi termini da parte del «nemico di classe» induce una sorta di reazione di rigetto fra le file dei lavoratori organizzati, non più disposti a essere abusivamente assegnati a una setta o all'altra, e proiettati piuttosto a superare ogni personalizzazione dello scontro politico, anche mediante la rinuncia a servirsi delle denominazioni fino ad allora correnti. Ne consegue che, in un breve lasso di tempo, fra il 1874 e il 1877, le etichette scompaiono dal lessico socialista. Ma si tratta di un'eclisse solo temporanea, riflesso di un più generale tentativo di conciliazione fra le diverse componenti del movimento operaio, culminato nel congresso di Gand del 1877. Il fallimento di quel tentativo, e l'accentuazione delle polemiche fra le diverse aree del socialismo, non solo conduce alla riabilitazione degli aggettivi, e alla conferma di un uso spregiativo, ma nel medesimo contesto vede fare la sua prima comparsa il termine «marxismo». È probabile che il primo testo in cui esso viene impiegato sia un pamphlet violentemente polemico (Le marxisme dans l'internationale), scritto da Paul Brousse nel 1882, nel quale il sostantivo e l'aggettivo indicano non una teoria, ma una posizione politica, quella della socialdemocrazia tedesca e dei suoi alleati in terra di Francia. Un ulteriore impulso, per certi aspetti definitivo, all'impiego dì questi termini in senso più tecnico, per indicare un orientamento di pensiero, è fornito l'anno successivo nell'articolo che Karl Kautsky scrive nella «Neue Zeit» in occasione del settantesimo compleanno di Heinrich Dietz. Anche a seguito di questo scritto, a partire dalla fine degli anni ottanta, e soprattutto dopo il congresso di Parigi del 1889, «l'uso dei termini "marxista" e "marxismo" si precisa in seno alla socialdemocrazia tedesca. Anziché nomignoli peggiorativi, diventano indicazioni positive e penetrano con una nuova accezione nel vocabolario politico. L'armamentario ideologico cambia le sue funzioni, e la formazione dei partiti operai pone le premesse per la diffusione e la recezione del marxismo, che offre le basi alle loro ideologie ufficiali» (Haupt). In termini generali, è dunque possibile scandire il processo che conduce all'affermazione del marxismo come dottrina ufficiale del movimento operaio europeo in tre fasi successive, fino al 1874, anno di scioglimento dell'AIL, la bellicosa convivenza della fazione chiamata marxismo con altre «sette» interne all'associazione, quali il tradeunionismo, il lassallismo, il bakuninismo e il prou-dhonismo. Dopo il 1874, e fino al 1887, crisi delle varie «scuole» socialiste e impetuosa avanzata di quella che cominciava a essere definita come «la teoria proclamata nel Manifesto». Dopo quella data, identificazione del «socialismo continentale» con le «idee di Marx», e definitiva supremazia del «marxismo», inteso d'ora innanzi come concezione del mondo, all'interno del movimento operaio europeo. Si può cogliere, in questo importante passaggio storico, uno degli aspetti più significativi della complessa vicenda teorica del marxismo. Esso resta, infatti, un termine che designa una fazione politica, e non una teoria, e inoltre appare fortemente connotato in senso peggiorativo, almeno fino alla morte di Marx. Lo stesso pensatore di Treviri, d'altro lato, si oppone strenuamente all'uso di un'etichetta formata col suo nome, fino alla clamorosa affermazione, citata in precedenza, di non riconoscere se stesso come «marxista». Se ne può dedurre che deve essere accaduto qualcosa, all'incirca fra il 1883 e la fine del decennio, tale per cui questa situazione si rovescia, e il termine marxismo fa il suo ingresso ufficiale fra le concezioni filosofiche generali.
III. Il marxismo come «scienza».
Se, come è stato autorevolmente affermato, «il marxismo come sistema di pensiero coerente venne formulandosi durante i dodici anni che intercorrono fra la morte dì Marx e quella di Engels» (Lichtheim), è possibile individuare alcuni testi nei quali questa elaborazione prende forma compiuta. Si tratta di scritti apparentemente «minori», opera di Engels, mediante i quali tuttavia si attua una radicale trasformazione nel significato della ricerca teorica condotta da Marx. Prima nella Prefazione all'edizione tedesca del 1890 del Manifesto, poi nella Prefazione all'edizione inglese dello stesso testo, successiva di due anni, e infine nella introduzione alla prima ristampa dell'opera marxiana Le lotte di classe in Francia, comparsa nel 1895, Engels accredita la «teoria elaborata nel Manifesto» quale dottrina ufficiale del socialismo continentale. Nei testi ora citati, l'amico e collaboratore di Marx introduce altresì l'espressione «materialismo storico» - in realtà mai usata dall'autore del Capitale - per indicare quella «concezione dello sviluppo della storia che cerca le cause prime e la forza motrice decisiva di tutti gli avvenimenti storici importanti nello sviluppo economico della società». Secondo la proposta contenuta nei testi engelsiani, tale concezione doveva ormai essere considerata come «unica teoria universalmente riconosciuta, di una chiarezza trasparente, definitivamente vittoriosa sugli oscuri evangeli delle sètte con le loro panacee», ed era altresì «in grado di formulare con precisione gli obiettivi finali della lotta per il solo grande esercito internazionale di socialisti». Trascorso poco più di un decennio dalla morte di Marx, e a pochi mesi dalla morte dello stesso Engels, il lungo e travagliato itinerario storicamente percorso dal marxismo può dirsi giunto al suo apogeo. A partire da questo periodo, infatti, il termine non designa più una fazione politica, e neppure soltanto una fra le molte «teorie» in competizione fra loro nell'universo in espansione del socialismo europeo, ma segnala piuttosto un metodo di analisi scientifica, e più ancora una vera e propria concezione del mondo. Come è d'altra parte intuitivo, il mutamento ora indicato porta con sé inevitabilmente anche modificazioni di grande rilievo per quanto riguarda le forme di ricezione e di interpretazione della ricerca marxiana. La prima e più rilevante riguarda quello che si potrebbe definire lo statuto epistemologico attribuito alla «teoria proclamata nel Manifesto»: essa non è considerata una semplice concezione filosofica, né è ancor meno paragonabile alle molte ideologie consolatorie da decenni diffuse nel movimento operaio, ma è invece assunta nei termini di teoria scientifica, in grado di fornire non solo una descrizione rigorosa ed esauriente del presente, ma anche di «predire con precisione gli obbiettivi finali della lotta».
IV. Il marxismo nel Novecento.
Questa evoluzione, proposta enfaticamente da Engels come passaggio del socialismo «dall'utopia alla scienza», finirà poi per configurarsi in termini esattamente opposti. Congelato in una vera e propria «Weltanschauung proletaria» (Fetscher), assurto a rango di dottrina ufficiale, non sostituibile né criticabile, adoperato come strumento di educazione di massa e come compendio di un approccio sedicente «scientifico» ai problemi dell'uomo e della società, poco alla volta il marxismo finirà per perdere ogni autentica spinta propulsiva. Per tutto il periodo della Seconda Internazionale (1889-1914), soprattutto a partire e dai primi anni del Novecento, e poi in maniera sempre più netta, soprattutto nei paesi, come l'URSS e poi la Cina popolare, nei quali si era imposta una rivoluzione proletaria, la ricerca teorica di ispirazione marxista assumerà via via il carattere di una scolastica, volta all'esegesi di quella nuova bibbia laica, rappresentata dagli scritti di Marx e più ancora di Engels. La teoria non e più ricerca del nuovo, ma solo interpretazione della presunta verità depositata in alcuni testi. Già a partire da coloro che succederanno a Engels nella direzione del movimento operaio europeo, già con Karl Kautsky e Edward Bernstein, con Lenin e Rosa Luxemburg, con Georgij Plechanov e Lev Trotszkij, e poi ancora più nettamente in quello che sarà chiamato il «marxismo orientale», coincidente con il materialismo dialettico sovietico (Diamat), il marxismo si allontanerà sempre più da una autonoma elaborazione teorica, per diventare piuttosto «patrimonio» permanente e immodificabile, pietra angolare sulla quale misurare l'«ortodossia» dei militanti socialisti. Ogni tentativo di rilanciare la ricerca in campo aperto, di collaudare nuovi schemi di analisi e di interpretazione, di perseguire l'innovazione teorica, sarà destinato a essere bollato con l'etichetta infamante di «revisionismo». Prima ancora che giunga al suo esito tragico l'esperienza storica dei sistemi politici comunisti, il fallimento di quella grande utopia sarà già stato anticipato dall'isterilimento del marxismo sul piano della ricerca teorica. Un tentativo di reagire alla fossilizzazione della ricerca insita nella sempre più estesa identificazione del marxismo con una dottrina filosofica assunta in forma dogmatica, viene compiuto con l'esperienza di quello che si chiamerà, in contrapposizione a quello sovietico, il «marxismo occidentale», sviluppato soprattutto da Karl Korsch e Georgy Lukàcs, i quali si concentrano prevalentemente sui temi della «coscienza di classe» e dell'alienazione, in polemica con l'ortodossia economicistica del marxismo sovietico. Una ripresa di queste tematiche, culminante con la riproposizione di un più stretto rapporto con la filosofia, anziché con l'economia politica, può essere rintracciata nell'elaborazione del cosiddetto «marxismo critico», sviluppato dalla Scuola di Francoforte (Herbert Marcuse, Max Horkheimer, Theodor Wiesengrund Adorno), secondo una prospettiva diametralmente opposta, rispetto a quella del Diamat sovietico. A questa accezione programmaticamente molto più «aperta» del marxismo, può essere ricondotta anche la ricerca di Antonio Gramsci, ravvisabile soprattutto in quell'autentico laboratorio intellettuale costituito dai Quaderni dei carcere, redatti dall'autore durante il lungo periodo trascorso nel confino decretato dal regime fascista.
Nel secondo dopoguerra si assiste in Europa, soprattutto in Italia, Francia e Germania, a una vivace ripresa di studi marxisti, caratterizzati prevalentemente dallo sforzo di «aggiornare» il lascito intellettuale marxiano, al vaglio delle profonde trasformazioni economiche e culturali intervenute nel corso di quasi un secolo. Fra i risultati più interessanti di questo rinnovamento, si possono annoverare gli studi di autori come Louis Althusser, Henry Lefebvre ed Etienne Balibar in Francia, di Galvano Della Volpe, Lucio Colletti e Mario Tronti in Italia, di Hans Jurgermas e di Roman Rosdolsky in Germania. Il crollo del muro di Berlino, nell'autunno del 1989, intervenuto fra l'altro in una fase di prolungato ristagno dell'elaborazione marxista a livello internazionale, può essere considerato anche come l'evento che simbolicamente chiude la parabola storico-teorica del marxismo.