Aurelio Macchioro e Bruno Maffi

Introduzione ai tre Libri de Il Capitale

I Grandi Classici dell’Economia - Il Sole 24 ore, Milano 2010

Introduzione alla lettura

Il capitale è stato divulgato in Italia per la prima volta da Carlo Cafiero che pubblicò, nel 1879, un Compendio del Primo Libro corredato da una lettera. La traduzione del testo integrale vide la luce, sotto l’egida della Utet, solo nel 1886 e rimase a lungo l’unica disponibile.

Nel 1970 fu pubblicata l’edizione integrale de Il Capitale dalla Einaudi curata da una schiera di valenti studiosi, tra cui Delio Cantimori, Renato Panzieri, Giorgio Backhaus, Bruno Maffi, ecc.

Bruno Maffi intraprese poi da solo l’impresa di una nuova traduzione integrale, che vide la luce nel 1974 presso la UTET. All’impresa si associò come curatore Aurelio Macchioro.

Di recente, il testo è stata pubblicato nuovamente per concessione della UTET da Il Sole 24 ore nella collana Classici dell’Economia.

Di questa opera riporto le Introduzioni ai tre volumi, che rivendicano il valore attuale del pensiero economico di Marx. Se la cosa non sorprende per quanto riguarda Bruno Maffi, che è stato sino alla fine (sopravvenuta nel 2003) il leader del Partito Comunista Internazionale, per quanto riguarda Macchioro il discorso è diverso. Tra i primi studiosi di Keynes, Macchioro si è avvicinato poi al marxismo, è entrato nel Partito Comunista italiano e ne è uscito nel 1958. E’ stato sempre critico nei confronti del Sovietismo, ma ha sempre sostenuto che, al di là delle vicende legate al socialismo reale, il pensiero di Marx rimaneva pur sempre una delle imprese intellettuali più alte realizzatesi nel corso della storia umana.

La sua Introduzione al Libro primo, di fatto, nonostante uno stile per alcuni aspetti desueto, è di una rara finezza e profondità.

Leggere Marx non è semplice. ma Marx non va letto, bensì studiato per apprendere un metodo di analisi della realtà storica che, nonostante i suoi limiti, rimane uno strumento formidabile.

Aurelio Macchioro
Introduzione al Libro Primo

I

1.

L'opera che Marx diede alla luce nel 1867, Il Capitale, critica dell'economia politica, concluse un periodo di ricerca laborioso e protratto nel tempo. Se sarebbe eccessivo dire che il Capitale, nella sua attuale struttura e logica interna, era in nuce nel pensiero di Marx fin dagli anni immediatamente post‑laurea di accostamento a Feuerbach e di critica alla filosofia hegeliana del diritto e quindi di approccio materialistico ai problemi della società, non è affatto eccessivo dire che ad una «critica dell'economia politica» Marx si diede a pensare proprio a ridosso delle sue immediate esperienze di ex hegeliano e tramite i suoi rendiconti con Feuerbach.

In effetti l'affacciarsi dell'economia politica e la critica al diritto statuale di Hegel sono riverberi l'uno dell'altro. Se sono del 1843 gli studi critici di Marx nei confronti della filosofia del diritto hegeliana, sono del 1844 i suoi primi studi di economia politica; è nel periodo parigino che Marx scopre Ricardo e i classici inglesi e francesi dell'economia politica, che si separa dal socialismo utopistico ecc. L'idea di una «critica dell'economia politica» prende consistenza allora, darà il titolo all'opera che egli progetterà in sei parti o volumi nel 1858, la ritroviamo nel sottotitolo de Il Capitale: segno che Il Capitale è, diciamo, un testo emerso da un contesto di critica dell'economia politica, secondo una problematica intravista fin dagli anni '40, e che col sottotitolo fa da complemento di specificazione all'intero volume del 1867.

Tutto sommato era inevitabile che una critica della filosofia hegeliana del diritto dovesse portarsi a ridosso una critica dell'economia politica: un sistema di diritto è un sistema di vincoli codificati, così come un sistema di domande e offerte è pure un sistema di vincoli codificati. Con la comune propensione, tanto dei giuristi che degli economisti, di concepire teologicamente (è espressione di Marx) la loro disciplina collocando vincoli e condizionamenti fuori della storia.

Nel momento in cui Marx individua la mistificazione delle categorie hegeliane del diritto (l'aver fondato in sé le categorie del giure), individua la mistificazione delle categorie ricardiane e sayiane dell'economia: l'aver fondato in sé le leggi del sistema capitalistico. Come il giure implica ‑ al di sotto del velo mistificato ‑ rapporti di forza storicamente determinati, altrettanto è a dire delle categorie dell'economia politica: proprietà privata dei beni di produzione, neutralità formale dello stato rispetto agli scambisti, libertà di lavoro salariale, libero movimento dei capitali mobiliari, appropriazione privata della rendita differenziale ‑ tutti presuppongono un sistema di riconoscimento giuridico‑statuale e quindi un ordine storicamente determinato di cui i teorizzamenti in sé sono il velo mistificante.

Possiamo dunque dire che se quando Marx diede alla luce il Capitale, nel 1867, aveva appena 49 anni, tuttavia questo Capitale era emerso con costante coerenza dagli studi che il poco più che ventenne Marx aveva incominciato quasi venticinque anni prima, man mano che l'hegelismo di sinistra si disfaceva in «materialismo storico », tramite l'esame dei vincoli che caratterizzavano il mondo della rivoluzione industriale e delle cosiddette libertà d'industria. Che era il mondo dei ceti mezzani imprenditoriali diventati adulti, e cioè capaci di plasmare di sé un'intera epoca e di codificare «strutture naturali» di mercato.

Abbiamo adoperato dianzi il termine marxiano di mistificazione: termine essenziale per capire il movimento tanto da e contro Hegel quanto da e contro l'economia politica. Mistificazione significa in Marx mascheramento; demistificazione significa smascheramento. Si tratta di termini ambigui, o meglio bivalenti, come ambiguo e bivalente sarà il concetto di derivazione in Pareto o il concetto marxiano stesso di sovrastruttura intellettuale. Ambigui e bivalenti in quanto nella mistificazione, derivazione, sovrastruttura più che la mala fede del singolo è impegnata la sua buona fede oggettivante. Un teoreta ragiona per schemi dimostrativi, pretese di oggettività; talvolta non crede a ciò che dice, ma il più delle volte ci crede.

Nella demistificazione non è, dunque, in gioco la buona fede di Hegel o Ricardo o J. S. Mill, ma il metodo e i presupposti, per scoprire l'effetto mistificante dei quali occorre, appunto, a seconda dei casi, una critica dell'economia politica o una critica della filosofia del diritto. Quei contrasti di classe che Ricardo, senza sapere che fossero di classe, aveva indicato (fra salario e profitto, fra profitto manufatturiero e profitto agrario o fra profitto e rendita) come modus operandi del mercato capitalistico‑concorrenziale, vanno indicati come essenziali del modo capitalistico di produzione in quanto modo storico di produzione, con caratteristiche storiche di classe.

E la demistificazione va proposta ab ovo: a cominciare dal concetto di mercato e di passaggio dal valore d'uso al valore di scambio. C'è una celebre espressione di Marx - assai provocante ‑ circa il tavolo che, di valore d'uso, smanioso di locupletarsi, diventa merce di scambio: «Una merce sembra a prima vista una cosa ovvia, banale. La sua analisi, tuttavia, rivela che è una cosa molto ingarbugliata, piena... di ghiribizzi teologici... Per esempio, la forma del legno risulta modificata quando se ne fa un tavolo: ciò malgrado, il tavolo rimane legno, un'ordinaria cosa sensibile. Ma, non appena si presenta come merce..., dipana dalla sua testa di legno grilli ben più stupefacenti che se cominciasse a ballare da sé».

Ebbene, demistificare il tavolo‑merce dei grilli in cui è coinvolto, per ridurlo alla prosa dei vincoli (di classe) che lo condizionano allorché diventa merce, è scopo appunto della «critica dell'economia politica» del Capitale; e precisamente è scopo della sezione del Capitale dedicata all'economia pura del mercato (la Sezione Prima, su Merce e Denaro).

Il termine di economia pura, come il lettore sa bene, non è marxiano: esso invalse a fine ‘800 con i marginalisti (Menger, Wieser, Edgeworth, Walras, Pantaleoni ect.), sull'analogia della fisica pura, intesa come fisica teorica, suscettibile di applicazioni ma in sé stessa non applicata, e quindi da studiare nelle strutture teorico‑matematiche. Considerando che Marx nella sezione suddetta del Capitale costituisce lo scambio‑merci nella sua forma astratta, possiamo ben dire che si tratta di una economia «pura».

Pertanto se è di economia pura, tale sezione, e quindi introduttiva al discorso complicante delle sezioni seguenti, il suo segreto, diciamo così, consiste nella demistificazione dell'economia pura degli economisti, sia essa l'economia dello scambio ipotetico‑naturale fra cacciatori di cervi e cacciatori di castori di Smith oppure l'economia delle naturali disposizioni di scelte della tabella mengeriana. Come chiariremo ancora, lo sforzo di Marx è di collocarsi dentro al metodo deduttivo‑costitutivo dell'economia borghese (e quindi di accettare un inizio puro di discorso), a patto che questo collocarsi dentro abbia una funzione ironica: di demistificazione critica delle categorie pure (borghesi), della loro (fallace) neutralità di presupposti e della loro (reale) contenutezza di vincoli storicamente determinati, nel loro gioco oggettivo di orchestrazione teorica della Rivoluzione industriale. La quale Marx identifica come rivoluzione borghese perché portatrice della rivoluzione industriale è, appunto, la borghesia.

In conclusione, mentre lo sforzo degli economisti borghesi è di trovare un fondamento astorico ed una collocazione in sé dell'economia pura, l'economia pura marxiana vuole mostrare la impossibilità di introdurre categorie in sé; e quindi la impossibilità di schemi teorici di mercato senza preventive implicazioni storico‑statuali. Basti pensare come Marx nella Sezione Prima istituisca lo scambio non solo già introducendo la moneta, ma introducendovela, oltre che come intermediaria di scambio, come accumulatrice, per rendersi conto come questa sezione è in effetti il contenuto astratto, sì, ma già implicativo dell'intero assetto capitalistico fondato sul sovrappiù lucrato dalle vendite.

2.

Per quanto tortuosa e lambiccata sia tale prima sezione del Capitale chi di essa non si è impadronito è destinato a diventare un lettore dilettantesco del Capitale: sarà indotto a soffermarsi sul Marx storico (poniamo, del colonialismo e delle compagnie coloniali) o sul Marx sistematico (poniamo del plusvalore e del tasso medio del profitto) ma non sul Marx storicista e quindi critico ‑ e quindi demistificante. Per dimostrare quanto sia irrinunziabile questa prima parte, che noi abbiamo chiamata di «economia pura », basti pensare come essa provenga dalla rifusione nel Capitale del quaderno di Per la critica dell'economia politica pubblicato da Marx nel 1859: segno che, appunto, per Marx tale parte era irrinunziabile.

Ma per capire appieno il discorso marxiano occorre riandare al modo con cui si sviluppò l'indirizzo teoricistico dell'economia politica nell'800.

Com'è noto, a latere dei teorici si costituirono nell'800 altri indirizzi di Economia Politica: un indirizzo storico‑sociologico: Roscher, il nostro grande Cattaneo, i seguaci del Comte o del Le Play. Tuttavia, per ragioni che qui possiamo soltanto accennare, Marx, mentre si mosse nei confronti dei teorici degli indirizzi storico-sociologici come recusatore, si mosse nei confronti dei teoricisti come avversario discorsivo. Gli è che Marx accettava il dato della Rivoluzione Industriale, dell'avvento delle classi medie, del sistema del profitto individuale, della imprenditorialità personale e del mercato della forza‑lavoro. Nonché accettava le conseguenze di questa accettazione storica: la polemica contro i misoneisti e gli agrarofili, gli integralisti cristiano‑sociali, i seguaci del paternalismo di stato, i pauperisti ecc. E chi vuole constatare quanto di accettazione della Rivoluzione Industriale vi sia nel marxismo non ha che da leggersi le pagine del Manifesto dei Comunisti del 1848, in cui Marx ed Engels celebrano l'avvento del regnum hominis industrioso borghese, in quanto epoca facente storia.

E’ da ricordare come la letteratura economica ottocentesca fu una letteratura: a) fondata su di un'intentio fortemente antisocialista, dove per «socialismo» si intendeva promiscuamente tanto l'interventismo dello stato quanto la pianificazione sociale; b) fondata su una ipotesi costitutiva, per cui gli schemi di curve utilitarie, di conversione del valore d'uso in valore di scambio, di prezzi naturali, di rendimenti decrescenti ecc.3 non sono solo protocolli di riferimento né schemi soltanto ipotetici ma operazioni intese a fornire in trasparenza l'ossatura reale della società economica.

L'economista ottocentesco (e specialmente fine Ottocento) era assai lontano da certa econometria attuale per la quale i modelli di sviluppo e quindi di comportamento sono ipotesi alternative fornibili a seconda delle macrofinalità proposte. L'economista ottocentesco per un verso escludeva il concetto stesso di macrofinalità, visto che macrofinalità importava ingerenza attiva dell'Ente Pubblico e una sommazione di utili in

«utile collettivo» che i marginalisti fine Ottocento fieramente contestavano; per altro verso l'economista ottocentesco muoveva dal presupposto di concomitanze spontanee e oggettivamente possibili che spettava, appunto, al teorico individuare e descrivere.

Lo sforzo di Marx sarà, appunto, di seguire la logica astrattizzante e nel contempo costitutiva dell'economia politica, ma, in quanto costitutiva, gravata di istituti storici, ancorché ansiosa di paludarsi di neutralità agnostica di fronte ai vincoli storici, mistificati sotto velo di «purismo». Per Marx il fatto teorico incominciava al livello stesso dei parametri politico-istituzionali: una teoria di mercato è valida in quanto teoria a patto che né ignori i contenuti istituzionali e né che soltanto li presupponga; è valida soltanto quando li avrà inclusi ed espressi fra i propri parametri.

Si esamini, ad es., il concetto di capitale accumulato, fondamentale per intendere il meccanismo bancario‑investitivo privatistico. Mentre l'economista borghese concepisce l'accumulazione come una operazione microeconomica di astensione dal consumo (l'astinenza di Senior), di rinunzia alla impazienza di consumare (I. Fisher) e simili, per Marx la formazione del capitale privato implica senza dubbio un non consumo, ma lo implica come condizione necessaria e pre-economica al tempo stesso... visto che chi dilapida il proprio vestito non può più indossarlo.

Una volta che noi abbiamo riconosciuta questa condizione di pre-economia politica, l'economia politica dell'accumulazione‑investimento incomincia nel momento stesso in cui si esaminano le condizioni economico‑politiche sufficienti perché essa possa diventare teorizzamento: un sistema dato di classi, di apparati di governo, di eventi tecnologici e civili ecc. senza dei quali la virtù dello sparagno non riesce a diventare potenza investitiva e movimento macrodinamico.

Senza l'inclusione di quegli eventi un teorizzamento non diventa economico, ma rimane nell'ambito del pre-economico e delle condizioni precedenti un discorso di economia. Togliete alla logica ricardiana i riferimenti storici determinati, e le avrete tolto tanto la propria oggettività di cose quanto il diritto stesso a farsi teoria. La logica ricardiana non è soltanto una logica ma è un cosmo di istituti storici in essa implicati ancorché Ricardo si reputasse puro economista.

In proposito, il lettore è invitato a tener presente come la moneta giochi un ruolo essenziale in Marx; la funzione di mezzo di accumulazione della moneta è posta in luce da Marx fin dall'inizio del Capitale. La moneta non è già pronta quando fa da intermediaria di distribuzione ma è non ancora pronta. La moneta è finalmente tale quando intermedia non lo scambio ma l'accumulazione. Il concetto di circuito D‑M‑D' quale circuito fra merce e moneta già accumulativo è concetto base, per Marx: senza moneta come serbatoio di valori un discorso d'economia politica neppure può incominciare.

Ovviamente, perché assieme allo scambio accumulativo si generi anche l'economia politica, occorre che esse insidano in una società divisa in proletariato e borghesi, fondata sul lavoro astratto ecc. ‑ categorie storiche, già abbiamo detto, che fanno parte della teoria stessa. Il fatto che primordialmente la moneta sia nata come numerario non toglie che essa sia primariamente serbatoio di valori e cumuli di capitale; e non toglie che è in questa veste primaria, e niente affatto primordiale, che essa va accolta in una economia politica che non voglia essere mistificatrice4.

Un discorso di tipo analogo per la categoria del valore di scambio. Esiste un «valore naturale» di scambio per Marx? Parrebbe di sì; ma se andiamo a vedere in che cosa consiste per Marx questo «valore naturale» delle merci nel sistema capitalistico noi vediamo che dobbiamo presupporre una serie di condizioni che naturali non sono. Esse si chiamano libertà della forza‑lavoro, libertà del capitale mobiliare ecc. che sono diventate naturali in epoca assai recente. II concetto del valore‑lavoro va fatto risalire a Petty ma la sua realizzazione totale la si ha soltanto in un sistema storicamente fondato sul lavoro astratto5.

Astrazione che è, a sua volta, concretissima, visibile situazione (storicamente necessaria, posto che la rivoluzione borghese sia stata una necessità storica!) una volta liberato il lavoratore dalle servitù personali e costretto a diventare forza‑lavoro sul mercato dove si contrattano le unità lavoro secondo il criterio della efficienza del profitto. E dove, s'intende, la forza‑lavoro cerca di arginare la propria fungibilità mediante le leghe sindacali e, al limite, mediante la rivoluzione comunista che abolirà la società divisa in classi.

3. Procedendo tramite un apparato concettuale teorico, fondando una sistematica teorica che il Capitale I intendeva proiettare nel Capitale Il e III ‑ pur rifiutando una sfera di economicità in sé - Marx è riuscito nella duplice operazione: di, per un verso, giustificare la presenza del Capitale dentro all'arringo della economia borghese; e, per altro verso, di collocarsi nell'arringo come sistematica avversaria dell'economia borghese stessa. Tutto sommato l'apparizione del Capitale nel 1867 ha segnato una svolta radicale nella polemica antisocialistica degli economisti. I quali dapprima, al tempo di Mercier de la Rivière, Malthus, Senior, Bastiat, Say tu vedevi impegnati contro Mably, Godwin, Tom Paine, Saint Simon ecc.; poi, al tempo di Chevalier. Dunoyer, e Ferrara e Bastiat, tu vedevi impegnati nelle quarantottesche polemiche contro il « diritto al lavoro

Senonché, una volta che il socialismo avrà trovato la maniera di entrare dentro alla cittadella del ragionamento economico come «critica dell'economia politica », l'economia politica non avrà più avversaria l'utopia ugualitaria della tradizione pauperistica o il rifiuto storico del salariato ma avrà come avversaria l'accettazione storica del salariato e un discorso interno alla economia politica stessa. Tutto sommato le destructiones, infinite volte ripetute, della sistematica marxista dagli economisti borghesi, da Pareto a G. U. Papi, da Bohm‑Bawerk a Von Mises a L. Robbins ecc. sono destructiones che hanno dovuto accettare la regola del gioco accettato a sua volta da Marx: quella di una sistematica costitutiva del capitalismo che accomuni nel medesimo parlamento tanto i descrittori apologeti (gli economisti borghesi) quanto i loro avversari economisti critici.

Tutto sommato quando nel 1886 G. Boccardo includeva il Capitale nella Biblioteca dell'Economista, con presumibile orrore di F. Ferrara che ne aveva dirette le prime due serie, compiva un'operazione emblematica di discorde concordia. Fu un assorbimento‑neutralizzazione, diciamo, di tipo professorale seppure ormai necessario; preludio delle infinite esercitazioni a venire attorno ad un Marx recepito ad uso professorale e «superato» nel contempo. Oggi (aprile 1973) non esiste economista accademico che non reputi indispensabile darsi almeno il fumus di una «meditazione» del Capitale: segno che l'operazione compiuta nel 1867 è ancora valida per un Marx assiso fra gli economisti, fastidioso ma almeno ornamentale. E addirittura ornamento, visto che oggi gli scrittori e scrittorelli che si occupano di marxologia si contano a bizzeffe e Marx, si dice, entra per ogni dove.

II

1. Nella precedente sezione abbiamo preso le mosse dalla demistificazione marxiana dell'hegelismo, per pervenire alla demistificazione marxiana dell'economia teorica borghese. Abbiamo insistito che si tratta di due arrovesciamenti conseguenti l'uno dall'altro: la fondazione filosofica del materialismo storico (contro l'idealismo hegeliano) essendo la stessa operazione che si sviluppa come fondazione della critica dell'economia politica. Non a caso, nella introduzione alla Zur Kritik Marx fa la propria autobiografia filosofica.

Nei venticinque anni di preparazione del Capitale Marx attendeva a studi del più svariato ma internamente connesso contenuto: di storia economica, di storia della tecnologia (si potrebbe fare storia economica senza storia della tecnologia?), storia civile (la Rivoluzione Francese, anzitutto!), antropologia, diplomatica, finanza ‑ e ovviamente e anzitutto: di storia del pensiero economico. Non senza gli impegni, diciamo, occasionali: vastissimi epistolari, organizzazione operaia, con al culmine la fondazione della I Internazionale del 1864, giornalismo militante, libellistica contro Napoleone III, sulla Comune, contro Vogt ecc. Finanziariamente aiutato da Engels, barcamenandosi fra una sempre aggressiva vena intellettuale e gli alti e bassi della salute; e gli andirivieni dei creditori, con una solidità di affetti familiari che, assieme all'amicizia di Engels, non lo lasceranno mai in solitudine.

Frammezzo, un divorante ritmo di stesure, di estratti di letture, spunti critici e, per fortuna, visto il rischio enorme del disperdersi, una potenza di sintesi eccezionale6.

Nel 1858 Marx si illudeva d'essere ormai preparato per pubblicare (in sei parti) la sua critica dell'economia politica, cui aveva pensato da più che quindici anni 7. Trovatogli Lassalle l'editore, Marx si mise al lavoro ma l'opera, che avrebbe dovuto uscire in una serie di fascicoli, si fermò al primo fascicolo, la Zur Kritik del 1859, destinata a rifondersi nell'opera del 1867. Dopo del 1861 vi saranno altre stesure, che porteranno finalmente nel 1867 alla edizione del Capitale I.

Abbiamo accennato a come ciò che stupisca in Marx si è, oltre all'acume intellettuale, la mole del lavoro e il gran numero di rifacimenti, brogliacci, abbandoni di progetto, progettamenti ecc. che oggi costituiscono la mole enorme dei c. d. inediti sui quali s'è gettata una famelica e sovente dilettantesca letteratura. Facendo la storia delle stesure e ridistesure marxiane, con i connessi lavori collaterali che le accompagnavano, noi abbiamo un'ansia progettante inesausta. Lo stesso Capitale I verrà finalmente alla luce nel 1867 come parte tuttavia di un ben più vasto progetto inevaso, Marx intendendo farlo seguire da altri tre libri pei quali, già prima di stendere il definitivo Capitale I, aveva predisposto numerosi lavori (i libri II, III, IV che verranno editi fra il 1885 e il 1910, i più illustri fra gli inediti destinati a veder luce postuma).

Nel contempo, in queste stesure e ridistesure tu puoi trovare una straordinaria coerenza di sviluppo. Nella formazione e crescita intellettuale di Marx non vi sono fasi di autoripudio, di pentimento esistenziale e simili; ed altrettanto potremmo dire per Engels; in effetti i due erano simili fra di loro oltre che per taglia anche per taglio: il taglio di uno storicismo di lotta intellettuale dal dubbio sempre critico e mai esistenziale, sempre di eurisi e mai di abrenunzia o di disperazione o di smania. Non vi sono ripudi nella vita intellettuale di Marx ed Engels: il rifiuto di Hegel sarà sempre, in effetti, un assorbimento di quanto Hegel aveva fornito ad essi di « dialettica »; così come il rifiuto di Ricardo sarà sempre assorbimento di quanto Ricardo aveva fornito come «critica dell'economia politica ». E per questo rifiuto mai fatto di ripudio che Marx ed Engels sono passati... per hegeliani, mentre non lo sono affatto; e per ricardiani... mentre non lo sono affatto.

2. E poiché siamo in tema di accettazione‑rifiuto di Ricardo cerchiamo di precisare meglio qualcosa in tema di valore‑lavoro. Che cosa è che determina per Ricardo il tasso normale del profitto? Ripetiamo che Ricardo supponeva un sistema giuridico‑statuale in cui il capitale fosse liberamente circolante, tanto nel mercato dei valori mobiliari quanto nel mercato dei valori immobiliari, quanto nel circolo fra l'un mercato e l'altro. Poiché il regime fondiario inglese era largamente ancora pre-borghese, fondato sulla primogenitura e sul patronato della nobiltà fondiaria, per Ricardo (in generale per tutti i Classici inglesi, a cominciare da Smith) la circolazione del capitale mobiliare nell'investimento fondiario avveniva non tanto tramite l'acquisto della proprietà ma tramite la lunga affittanza capitalistica: il farming, di cui è piena la letteratura agronomica‑economica inglese dell'epoca.

Attraverso la separazione fra ciò che spetta, del reddito lordo terriero, al proprietario (che è un proprietario di tipo feudale, coincidente con la nobiltà dei Pari) e ciò che viene all'impresario-affittuario (farmer) e concependo la quota dell'impresario agricolo come la parte eminentemente dinamica della conduzione agricola e del tutto omologo al profitto del manifattore, Ricardo poteva concepire unitariamente il problema del profitto. Il quale si presentava come un reddito che implica l'intera area dell'investimento mobiliare, tanto in manifattura che in agricoltura. E’ in questa concezione mobiliare del profitto agrario Ricardo non era solo; con tale concezione unitaria del profitto, e nel contempo pilota del profitto agrario nei confronti del profitto manifatturiero, Ricardo camminava sul filo di una tradizione che va da Smith a J. S. Mill sugli interni distinguo della quale sarebbe lungo qui far discorso.

L'unico riferimento rapido che qui possiamo fare è alla storia economica e civile inglese. Dovendosi far risaltare l'iniziativa imprenditoriale e il correlativo profit of capital di contro alle rendite di posizione acquisite dalla proprietà fondiaria, l'accentuazione del profitto come elemento industrioso e quindi dinamico, del sistema economico seguiva di conseguenza. Come seguiva di conseguenza il concetto di mobilità del capitale, e per ciò stesso di un tasso del profitto che fosse medio rispetto all'intera area di mercato. Nel quale tasso medio il profitto del farmer (conduttore agrario) aveva una particolare importanza strategica pel fatto che spetta alla terra produrre le sussistenze.

Per quanto riguarda il lavoro salariale Ricardo muoveva dall'assunto di una quantità di lavoro che il salariato offriva liberamente sul mercato del lavoro, senza asservimenti di servitù personali; nel mercato del lavoro le unità‑lavoro individuali si suppongono fungibili le une rispetto alle altre e calcolabili per quantità di lavoro supponibili multiple e summultiple le une rispetto alle altre in termini di una quantità‑metro di lavoro che faccia da termine di paragone teorico: il lavoro sociale medio (da ora in poi lsm) .

La chiave di volta è dunque il lavoro‑quantità incorporabile nei beni misurato in lsm come criterio di spiegazione razionale (Marx insiste più e più volte sulla funzione di «spiegazione razionale » fornita dal valore‑lavoro) dei valori naturali che, in definitiva, sono i valori che dominano gli scambi fra i beni, ciascun bene valendo «razionalmente» rispetto all'altro a seconda delle quantità di lsm che costa rispettivamente il produrli.

Com'è noto svariate sono le difficoltà che la teoria del valore-lavoro comporta. Ricardo era perfettamente consapevole delle difficoltà analitiche cui il valore‑lavoro andava incontro pur preferendo proprio questa teoria e non altra (il valore‑lavoro comandato, ad es., o il valore-prezzo di vendita che Say sosteneva sul Continente).

a) La presenza del capitale fisso, la maggiore o minore durata delle anticipazioni, la presenza del rischio, la funzione valorifica che sovente esercita il tempo (il «vino che invecchia» di Mac Culloch, ad es.) ecc. erano tutti elementi ben presenti alla mente di Ricardo ‑ e ai Classici inglesi ‑ come elementi di deviazione o di forzatura per mantenere in piedi una teoria dei valori naturali fondata sulle quantità di lavoro produttivo.

D'altra parte, man mano che, specialmente dopo la riforma del 1844, il sistema bancario inglese diventerà sempre più articolato sullo sconto commerciale e sull'apertura di credito, nazionale e internazionale, il problema del prezzo del denaro entrerà sempre più prepotentemente a disturbare la teoria del valore‑lavoro.

b) A queste difficoltà altre se ne aggiungono della cui individuazione andranno particolarmente forti le scuole economiche dopo del 1870, quando riprenderanno, raffinandole con la c. d. psicologia del consumatore, polemiche antiricardiane che già erano state di Say, Ferrara, Senior o Banfield. Si tenga presente che quest'ultimo tipo di difficoltà sollevate verso il valore‑lavoro è diverso dal primo ordine di difficoltà. Le difficoltà del primo genere come considerare l'interesse, il capitale fisso ecc. nella costituzione ‑Mi valori naturali di scambio ‑ sono difficoltà inerenti alla struttura produttiva stessa del mercato capitalistico. Le scuole del marginalismo e dello psicologismo economico posteriori al 1870 avanzeranno, invece, un'economia «del punto di vista del consumatore ». Tale punto di vista, analiticamente frutterà alla teoria economica il concetto di «margine» il cui uso più importante, tuttavia si realizzerà quando il margine si allargherà, con Marshall, dalla curva del consumatore alla curva del produttore; il tutto frutterà, almeno in abbozzo, tematiche sui benessere globale e sulla imposizione progressiva.

Siamo di fronte, cioè, ad importanti meriti teorici dell'economia del «punto di vista del consumatore»; tuttavia essa fornirà altresì l'occasione per fabbricare bizantinismi di comportamento sulla base di una pretesa psicologia degli atti del consumo e formalismi di equilibrio aventi a paradigma base il consumatore concepito come il re del mercato. Re silenzioso ma cui tuttavia gli equilibri produttivi obbediscono tendenzialmente.., proprio in un'epoca in cui, a cavallo fra i due secoli, l'organizzazione capitalistica veniva velocemente organizzandosi verso la mancanza di rispetto del re consumatore stesso!

A cavallo fra i secoli XIX e XX, infatti, ci si avviava velocemente verso i primi gigantismi e le prime gigantomachie oligopolistiche, sospinte dalle veloci innovazioni tecnologiche (elettrificazione, petrolio e motore a scoppio, chimica sintetica, siderurgia a ciclo integrale, telefonia ecc.). Siamo in un'epoca a partire dalla quale l'ipotesi del re consumatore non serviva de facto che a fare... da economia mistificante rispetto alle evoluzioni reali. Sicché le crisi strutturali del primo dopoguerra troveranno un'economia politica talmente formalizzata negli equilibri ai margini da trovarsi disarmata di fronte alla gravità degli eventi e inetta a fornire canoni di orientamento diversi dal nostalgico richiamo al pre‑1974 come era‑parametro di riferimento. Col risultato, addirittura ribaltante, di portare i meccanismi di salvataggio e di ripresa nelle braccia del nemico numero uno dell'economia politica del consumatore: lo Stato.

In effetti le scuole marginalistiche più che una critica alla teoria del valore‑lavoro proporranno punti di vista diversi: il punto di vista, come si è detto, dei consumatore (consumatore teorico, s'intende, fornito di curve di domanda) contrapposto al punto di vista del produttore cui il valore‑lavoro particolarmente si legava. E proporranno altresì la importanza delle coerenze formali, che il teorico doveva garantire con l'uso delle matematiche e delle equazioni simultanee, a sostituzione delle intuizioni macroeconomiche dei primi classici attinenti classi di reddito macroeconomicamente definite

Il risultato sarà che la diatriba fra economisti e socialisti si invelenirà ancora di più che ai primi dell'800, e si invelenirà proprio quando col 1867 il Capitale aveva acquisito al socialismo un seggio di oppositore garantito nel senato degli economisti professionali

3. Se, tuttavia, ci pare che nel complesso le critiche b) mosse alla teoria del valore‑lavoro non fossero gran che pertinenti al discorso cui il valore‑lavoro era interessato, questo non toglie che, specialmente sotto il profilo delle a), la teoria del valore‑lavoro non presentasse lacune ed incertezze. Di cui la principale può riassumersi così: come si possa ancora mantenere il punto di vista del produttore, secondo i moduli dell'economia classica, una volta che si conceda che l'atto produttivo non consta soltanto di forza‑lavoro viva ma anche di capitale fisso (che è lavoro accumulato) e di fattore tempo. Non c'è rischio che la teoria del valore‑lavoro sia un ostacolo per la formazione di una teoria generale degli atti produttivi, posto che una teoria generale occorra? E se il «punto di vista del consumatore» garantisce meglio le possibilità di teoria generale non è questo motivo sufficiente per disfarsi della teoria del valore‑lavoro?

E’ da notare che, in concomitanza col mercato concorrenziale e dell'investimento privato, le questioni di generalizzabilità sistematica esercitavano un grande dominio intellettuale sugli economisti ottocenteschi, specialmente dell'ultimo ottocento e del primo novecento. Con l'avvento odierno dell'economista quale modellista di sviluppi di programmazione il compito di «organizzatore generalizzante» dell'economista politico è molto (e forse troppo) passato in secondo ordine rispetto all'epoca tanto dei classici che dei Pareto, Pantaleoni, Wieser, Wicksteed ecc. a cavallo dei due secoli. Fu in quest'epoca, invero, che l'organizzazione teorica raggiunse il vertice del gusto formalizzante, sia in quanto gusto sistematico‑accademico e di analogia con la fisica matematica, sia perché un'economia politica generalizzante era necessaria per dar ragione di un mercato fondato sulla concordanza delle iniziative individuali, presupposto su cui l'economia politica si era costituita ai primi dell'800 e continuava a generalizzarsi a fine '900.

Si capisce, quindi, perché Ricardo avesse sentito vivamente i problemi dì organizzazione teorica che le difficoltà di tipo a) del valore-lavoro comportavano. Ciononostante la scuola classica rimase sempre ferma alla teoria del valore‑lavoro come quella che tutto sommato meglio poteva impostare una macroeconomia dei costi comparati internazionali e di libero scambio, di rendite agrarie differenziali, di fondo‑salari e di sussistenze ecc., in un'Inghilterra concepita come luogo di riferimento dello svolgimento capitalistico.

Si badi che se è ormai un luogo comune rifarsi al caso inglese primo ottocento come locus classico di decollo capitalistico non era ancora luogo comune al tempo del Manifesto del partito comunista e neppure al tempo de Il Capitale. Altro luogo comune storiografico è oggi ‑ ma non lo era ancora al tempo in cui Marx lo proponeva ‑ il connettere lo sviluppo egemonico dell'economia politica teorica (inglese) allo sviluppo egemonico del sistema industriale e civile britannico nel corso del XX secolo. Nella misura in cui è vero (ma è poi vero?) che chi sta dentro agli eventi li scorge meno bene di chi ad essi succede, dovremo dire che Marx ed Engels fecero eccezione. In effetti Marx ed Engels scorsero assai bene: a) la svolta storica costituita dall'industrialismo britannico, b) il nesso storico fra egemonia industriale inglese e egemonia dell'economia politica inglese, onde la superiorità teorica di Ricardo era la stessa della superiorità industriale britannica. Superiorità destinata a permanere a lungo.

Naturalmente in questa sorta di primazia dell'Inghilterra, che tenterà di sopravvivere fin dentro gli anni 1920, giocheranno anche elementi di mitizzazione. C'erano lo stile di vita vittoriano, lo stile coloniale inglese, lo stile bancario inglese, l'Inghilterra dapprima officina del mondo, poi, scavalcata come officina dalla Germania, rimasta emporio commerciale‑finanziario del mondo. E, frammezzo, un filone di pensiero economico tanto ricco di continuità quanto ricco di adattamenti al nuovo, da Ricardo e Bentham a Marshall e a Pigou; filone rimasto egemone nonostante che altri paesi entreranno tanto nell'arringo dell'economia politica (e si ebbero la scuola svedese, la scuola di Losanna, la scuola austriaca, la scuola americana, ecc.) che dello sviluppo del capitalismo: dagli Stati Uniti al Giappone alla Russia di S. J. Witte, per un verso associatisi alle nazioni pioniere di capitalismo e di economia politica del primo ottocento (Inghilterra e Francia), per altro verso dissociati per peculiarità nazionali. Notevoli o grandi furono i nomi di Kondratieff russo, Wicksell svedese, Pantaleoni italiano, J. B. Clark americano o Wieser austriaco, in questa diaspora dell'economia politica; e nazionalmente peculiari essi furono: ma, per quanto nazionalmente peculiari, non si riconoscevano essi tanto accomunati agli inglesi quanto debitori verso di essi che, primi, avevano saldamente accertato la verità della scienza economica e stabilitane la unità di discorso non meno che la unità di ricerca ‑ da Ricardo a Marshall?

Sicché si potrebbe svolgere un intero capitolo, diciamo, popolare di storia del pensiero economico dedicato all'ascendente esercitato dall'economia politica inglese, ascendente che avrà in Alfredo Marshall (morto nel 1924) il suo grande finale terminus ad quem e che tenterà la propria celebrazione nel ritorno della sterlina alla parità antebellica nel 1925, dopo che l’orgoglioso capitalismo tedesco della guglielmina Nuova Scuola Storica dell'economia era stato debellato sui campi di battaglia.

A noi, dunque, oggi risulta chiara la funzione strategica esercitata dall'economia politica inglese nello strutturamento teorico di una rivoluzione industriale in cammino lungo parametri costanti o che ci si illudeva sarebbero rimasti costanti e di una « naturale» divisione dei lavori internazionali fra paesi primo‑arrivati (l'Inghilterra ricardiana, naturaliter esportatrice di tessuti, macchine e capitali liquidi e paradigma di rivoluzione borghese) e paesi secondo‑arrivati (nell'esempio di Ricardo, i paesi tipo Portogallo, naturaliter produttori di generi agricoli).

Ma anche intelletti viventi nel medio ottocento potevano scorgere la funzione esemplare dell'economia politica inglese per le rivoluzioni del capitale industrioso a venire, fondate sul medesimo tipo di mercato astratto che aveva avuto il suo paradigma in Inghilterra.

Di qui le ragioni complesse che individuavano nel valore‑lavoro, quali ne fossero le mende, la linea di teorizzazione preferibile per comprendere le caratteristiche naturali ditale tipo di mercato. Se noi leggiamo il Manifesto del partito comunista del 1848 e il Capitale del 1867 noi vi scorgiamo chiaramente la consapevolezza di una svolta in atto: a) nella storia della tecnologia applicata, b) nella storia delle classi dirigenti, divenute ora classi mezzane (middle classes) e capitale mobiliare; c) nella storia dell'organizzazione imprenditoriale, incentrata ora nella fabbrica, luogo dello sfruttamento e del primo significato di valore-lavoro (cfr. postea); d) nella storia dell'organizzazione teorico‑culturale e nell'uso del valore‑lavoro nel secondo significato (cfr. postea), con la consapevolezza tanto e) della funzione strategica esercitata dall'Inghilterra, quanto f) della funzione demistificante spettante alla «critica dell'economia politica» all'interno del viluppo storico a)... e).

III

1. Abbiamo accennato a significati diversi di valore‑lavoro.

a) Significato primo, di contestazione. Che il valore naturale dei beni sia fondato sul lavoro dell'operaio e sul sudore della sua fronte sicché quanto va ai re e padroni è frutto di appropriazione indebita è enunciato tanto antico quanto antiche sono state le rivolte sociali: le quali hanno sempre preso le mosse da una teoria del valore‑lavoro come teoria di contestazione.

b) Significato secondo. Peraltro il concetto di lavoro come fondamento del valore naturale ha un suo versante borghese, se per borghesia intendiamo negozio lucrativo, rischio operativo ecc. in contrasto con l'otium delle classi viventi di rendita. E’ un concetto di valore-lavoro carico di sollecitazioni medio ceto, di nuovi valori di tecnologia applicata che eserciterà grande influsso, come categoria di pensiero, nella rivoluzione industriale.

E’ questo il significato di valore-lavoro che interessa principalmente Marx per il suo valore tanto mistificante e apologetico che costitutivo del sistema. Quando, fra la fine del '700 e gli inizi dell'800 si cominciò ad esaltare la divisione dei lavori (e Marx ed Engels in ideologia tedesca del 1845 scrissero notazioni estremamente interessanti in tema di divisione dei lavori), l'associazione dei lavori, l'auto‑aiuto individuale, la libertà dei lavori, l'inventiva come lavoro ecc., si vorrà accomunare tanto il lavoro salariale quanto il lavoro padronale in una associazione avente a comune avversario l'otium dell'assenteista e del percettore di rendite; di cui unico atto economico è il consumo, che come tale fa da sola distruzione di beni, in contrapposto alla industria padronal‑operaia creatrice di beni.

E’ chiaro che se Marx doveva fare una critica dell'economia politica che fosse al tempo stesso accettazione storica della rivoluzione borghese e del sistema d'industria, e non si limitasse ad una denunzia dello sfruttamento o ad un'invettiva, questo significato borghese di lavoro e di valore‑lavoro doveva giocare un ruolo maieutico assai rilevante.

c) Significato terzo. Tanto più che Marx si trovava di fronte ad un terzo significato assunto di recente dal valore‑lavoro, il significato che noi possiamo chiamare teorizzante. Significato, aveva intuito Marx fin dai suoi primi studi del 1844 dei classici inglesi, derivante dal carattere « astratto » che nel sistema capitalistico‑concorrenziale assume la forza‑lavoro. Se Tizio e Tizia diventano astratti (dis‑individuati, fungibili con Mevio e Mevia) nel sistema di mercato della libertà del lavoro, è chiaro che il mercato del lavoro reale non è altro che realizzazione delle astrazioni teoriche ricardiane, così come le astrazioni teoriche ricardiane non sono altro che momento astratto del mercato del lavoro capitalistico.

Che l'economia politica sia diventata scienza autonoma con Ricardo e che i sicofanti dell'economia politica la proclamino addirittura scienza in sé (teologale, ironizza Marx) fondata sulla natura dell'atto economico, non è che il riverbero teorico di un fatto reale: il fatto del lavoro reso astratto nei processi di libera assunzione cui corrisponde, appunto, una sistematica del valore‑lavoro mediante cui elevare l'ethos borghese a schema tanto descrittivo che asseverativo. La connessione di b) con c) porta ad un'economia politica intesa come generalizzazione sistematica. Questa generalizzazione sistematica si muoverà con le proprie gambe e, instaurato il marginalismo e il «punto di vista del consumatore» a fine secolo, potrà aspirare a farsi «fisica pura » di equilibri simultanei.

Tutto sommato, nel 1867, alla vigilia della rivoluzione marginalista, Marx si può dire abbia compiuto una ricognizione storiografica: ha riacciuffato la teoria del valore‑lavoro svolgendola nel senso di un'economia critica proprio quando gli economisti accademici saranno presi dall'ansia di «superarla»..

E’ ovvio, dunque, che se a Marx interessava riscrivere l'economia politica i nessi b), c) del valore‑lavoro dovevano interessano precipuamente. Il che significava che la rilevanza dei significati a), b) c) del valore‑lavoro veniva nel criticismo di Marx completamente capovolta. La tradizione antiusurpativa socialistico‑ugualitaria era essenzialmente fondata sulla versione a) del valore‑lavoro, e quindi sulla contestazione del dato, a scapito di una accettazione storica del dato capitalistico. Di qui la costante fuga verso il socialismo utopistico proprio della versione a) del valore‑lavoro. La versione marxiana di «socialismo scientifico» vuole essere invece e anzitutto accettazione assieme demistificante, polemica e sovvertente del «sistema capitalistico» ‑ di cui Marx vuole mostrare la interna transitorietà storica non già miticamente fondata ma analiticamente fondabile muovendo dalle versioni b) c) del valore lavoro, di cui i contenuti a) di sfruttamento sono, diciamo, il «conseguente di classe », e nel contempo la condizione di efficienza funzionale del sistema.

La versione riformistica di Marx, che impegnerà la polemica della Seconda Internazionale ha, diciamo, un principio di aggancio in tale impegno sulle versioni b), c) del valore‑lavoro piuttosto che sulla versione a). La deformazione riformistica di questo aggancio nascerà dall'avere obliato l'altro polo del discorso marxiano, onde per Marx la accettazione storica del sistema capitalistico è altresì la sua relativizzazione, della quale la lotta di classe è l'elemento attivo; è la lotta di classe che relativizza storicamente il sistema capitalistico e che, secondo Marx, lo rende caduco proponendo, e imponendo, il comunismo.

2. Cerchiamo di individuare rapidamente i termini specifici dell'approccio marxiano al valore‑lavoro. Marx chiarisce anzitutto il non senso di intendere il valore‑lavoro come valore del lavoro. Né aveva torto visto che nei classici tale versione compare ed è per Marx essenziale procedere alla sua demistificazione. Se si assume che la quantità di lavoro faccia da unità di misura dei valori naturali di scambio evidentemente non c'è valore del lavoro più di quanto vi sia lunghezza dell'unità di lunghezza. Come l'unità di lunghezza (poniamo 1 metro) non serve per misurare assurdamente quanta lunghezza stia nell'unità di lunghezza, bensì per misurare la lunghezza di stoffe o strade, altrettanto è a dire del lavoro, le cui unità non servono per valorificare il lavoro ma per valorificare tanto i beni prodotti dal lavoro quanto chi li produce. Chi li produce è la forza-lavoro. In altri termini come noi misuriamo in unità di lsm (lavoro sociale medio) le merci, altrettanto è a dire per una merce di tipo particolare che si chiama forza‑lavoro, e cioè Mario o Maria in quanto forze‑lavoro convergenti sul «mercato in generale» per produrre scarpe, acciaio, grano, sedie ecc.

Abolite la schiavitù o le servitù personali, la forza‑lavoro non è più comprabile ma soltanto affittabile, e affittabile dietro libero consenso. La forza‑lavoro, infatti, può muoversi liberamente nella area di mercato (secondo l'ipotesi di perfetta mobilità del lavoro), rifiutando persino di farsi locare; in genere, tuttavia, per sopravvivere si fa locare dietro salario. La peculiarità, peraltro, della forza‑lavoro rispetto alle altre merci è che essa non è solo un conglutinamento di costi (in lsm) di produzione (essa costò il proprio allevamento, la propria qualificazione professionale ecc.) o di riproduzione (essa costa la propria conservazione) ma è altresì una merce che può erogare unità di lavoro (il pluslavoro) oltre a quelle corrispondenti al proprio costo di riproduzione.

In altri termini, per Marx, la forza‑lavoro è un congegno erogativo di tipo speciale: una macchina è un ammontare di lsm il cui costo va reintegrato (ammortizzato) in anni K, in base alle unità di lsm che la sua presenza nel circuito produttivo attuale vale, e non è in grado di erogare unità di lsm oltre il proprio capitale costante 14; la forza‑lavoro, invece, oltre alle spese di ammortamento (e cioè di reintegro del proprio valore di costo in lsm) è in grado di fornire unità di lsm oltre al proprio valore di costo. Ovviamente chi richiederà alla forza lavoro di produrre pluslavoro sarà l'assuntore della forza‑lavoro: il capitalista, cioè, che nel sistema capitalistico è l'elemento organizzatore-dirigente, e antagonista di classe, della forza-lavoro. Senza presupporre questa capacità supererogativa della forza-lavoro, e quindi la differenza che passa fra capitale costante e capitale variabile ‑‑ e precisamente fra la costanza del capitale investito in macchinari, materie prime ecc., e la variabilità del capitale investito nella locazione della mano d'opera, in quanto questo capitale si trova pluscompensato alla fine del processo produttivo; senza presupporre tale differenza, dico, viene a mancare, secondo Marx, ogni base razionale di spiegazione del processo capitalistico.

E da tener presente che il c. d. lavoro passato non ha grande rilevanza, come tale, in Marx; e certo ne ha assai meno che in Ricardo, che appunto per ciò si trovò ad affrontare difficoltà teoriche particolari. Il discorso di Marx è da intendere, sì, in termini di quantità di lavoro, ma di quantità di lavoro non assolutamente proposte bensì relativamente (e quindi, di nuovo: storicamente) date; ricorderemo quanto e come aspramente F. Ferrara levasse rimproveri alla teoria ‑ ricardiana in specie, e socialistica in genere ‑ del valore‑lavoro, in quanto, diceva, soleva asservire i valori attuali al costo‑lavoro passato; nel suo linguaggio spesso oratorio questo significava pretendere di asservire le cose vive alle cose morte. Se ricordiamo la polemica antimarxiana di Pareto e, in genere, la polemica antisocialistica di tutta la scuola uscita dal «punto di vista del consumatore» l'accusa è stata ripetuta, fino a pervenire alla banalità delle cose trite: la teoria del valore‑lavoro essere sciocca perché pretenderebbe remunerare il molto lavoro a poco rendimento del maldestro mettendolo a pari del molto lavoro a molto rendimento del destro; oppure remunerare il lavoro incorporato nella macchina antiquata tanto quanto il lavoro incorporato nella macchina nuova efficiente 15.

Peraltro se Pareto avesse realmente letto quel Capitale che si divertiva a confutare avrebbe afferrato che Marx ragionava in termini di quantità‑lavoro considerate al livello a) del lavoro sociale medio (lsm), b) e quindi del lavoro attuale e non passato. Man mano, cioè, che scoperte o economie esterne o/e interne rendono più efficiente la media del lavoro sociale (e cioè di una comunità data), i contenuti di valore antichi vengono ribaltati, svalutati, ecc. In termini ferrariani Marx calcolava per costi‑lavoro di riproduzione non per costi-lavoro di produzione. In quanto a questa media nei cui termini in ciascun momento attuale vanno ricalcolati i valori, si tratta di una media non aritmetica ma concorrenziale: il sistema di Marx, cioè, accetta, lo si ripete, i presupposti della economia borghese: fondamentale il presupposto del «mercato astratto» e cioè del mercato pienamente concorrenziale, con unità di forza‑lavoro fluide. Talché l'unità di lsm che pretenda d'essere remunerata (in lsm) di più di quanto corrisponda al tasso medio di remunerazione (in lsm) viene espulsa dal mercato .

Premettiamo che esiste una tradizione storiografica secondo cui Ricardo non avrebbe identificato la categoria del profitto, avrebbe confuso il rendimento da capitale (l'interesse, come tale) dal rendimento impresario (il profitto come tale). In effetti se esiste teorizzazione in cui il protagonista sia il profitto di intrapresa questa è la teorizzazione ricardiana, assai più, poniamo, che in Marshall ‑ incerto se ridurre l'impresario al «salario di organizzazione» facendogli scomparire di tasca il profitto differenziale», oppure se riconoscergli come sua pertinenza, proprio, il «profitto differenziale ». La teorizzazione ricardiana è essenzialmente basata sul concetto a) di profitto, b) di profitto come lucro emergente dal rapporto di produzione, e) di profitto come lucro differenziale dalla cui permanenza la dinamica stessa del capitalismo deve essere garantita. Marx non aveva dubbi che la chiave «di classe », e quindi la chiave interpretativa stessa dell'economia ricardiana, stesse nella sua concezione del profitto, nel suo essere, anzi, una economia del profitto. Che Ricardo considerasse l'interesse sul capitale come una deduzione che l'imprenditore dovesse fare dal profitto lordo per compensare il mutuante è concezione che Marx del pari accoglie, proprio perché essa ribadisce nel profitto ‑ direi: nel gioco del profitto ‑ la chiave di volta di una economia capitalistica, almeno nei termini offerti dal capitalismo ottocentesco.

E’ chiaro che questa deduzione dal profitto lordo delle quote (l'interesse al prestatore‑danaro, l'affitto al proprietario fondiario o immobiliare) riesce tanto più difficile a concepirsi quanto più noi consideriamo microeconomicamente i loci del processo deduttivo. L'apparenza di mercato, cioè, è la pariteticità fra impresario e mutuante-banchiere di fronte al tasso di interesse, quale prezzo di contratto pel capitale imprestato. Ma la realtà è, per Marx, invece, diversa: l'impresario è da vedere come classe, il cui termine di opposizione contrattuale è la forza‑lavoro donde la capacità più che autoriproduttiva che possiede il capitale (variabile) quando si investe in forza‑lavoro. L'imprenditore come individuo ha come luogo il fairplay concorrenziale nella domanda di capitale‑danaro a mutuo. Ma come classe l'imprenditore ha come luogo il produit net (non si dimentichi l'importanza esercitata dal Tableau di Quesnay sulla formazione di Marx),

rispetto alla forza‑lavoro, la sola che possa fornire, tramite il pluslavoro, le quote ripartitive ai cosiddetti fattori della produzione.

Ma per fare calzar tutto questo nella struttura ricardiana e nel contempo per arrovesciarla (demistificarla) occorre giocare sull'elemento c) di cui sopra. Il carattere differenziale del profitto non è da intendere come differenzialità emergente dai processi di distribuzione ‑ il lucro eventuale (downfall earning) dei marginalisti o di Say o Senior o Malthus derivante dai «buoni prezzi». Ma è da intendere come scaturiente all'interno del «punto di vista del produttore», e cioè, per Marx, tramite il contrasto di classe fra il detentore del capitale variabile e la forza‑lavoro. Il differenziale dD (D = denaro) che viene dalle vendite al singolo impresario non è che l'apparenza di denaro che riceve nel libero mercato del capitalismo concorrenziale un altro differenziale: il differenziale dPlv (Plv = plusvalore), che è di classe. Basta questo mistificarsi di dPlv in dD per far capire come la D del primo algoritmo non sia punto numerario ma sia già e intrinsecamente serbatoio di valori e capitalizzazione di sfruttamento nel momento stesso in cui si presenta come capitale variabile.

E’, per così dire, riscrivendo la categoria c) che noi siamo in grado di riscrivere Ricardo e di demistificare la veste‑danaro del profitto cui Ricardo era rimasto legato. La funzione del tasso medio del profitto, il rischio della decrescenza tendenziale del tasso medio del profitto, l'importanza della divisione internazionale dei lavori in relazione al tasso medio del profitto giocano una parte essenziale in Ricardo, così come giocano una parte essenziale nella realtà del sistema capitalistico ottocentesco e quindi nella « critica dell'economia politica ». Ma quello che Ricardo aveva dato in termini di deduzione sistematica Marx vuole dare in termini di costruzione sistematica: costruzione che prende le mosse non dal valore del lavoro, concetto tautologico, ma dal valore della forza‑lavoro, e quindi dalla capacità più che autoriproduttiva che possiede il capitale variabile nel processo di assunzione della mano d'opera.

4. Possiamo, sicché, riassumere il discorso come segue, assumendo lsm come la unita di lavoro sociale medio assunta dal capitalista, v come valorizzazione, Plv come plusvalore, D come denaro di uscita, D’ come denaro di entrata, D'‑D come una grandezza che può essere positiva, zero, negativa a seconda che, ammortizzato il consumo del capitale costante e reintegrato il capitale variabile, risulti oppure no un netto al capitalista di profitto. Avremo f(lsm) = v che esprime il flesso generale fra le unità di lavoro sociale medio svolte nel processo lavorativo e la connessa valorizzazione. Non in ogni punto del processo lavorativo la funzione f(lsm) si svolge per fornire un netto al capitalista ma solo dopo che il capitale anticipato ha ricevuto la sua quota d'ammortamento. Se io scrivo la relazione f'[ v(lsm)] = D'‑D scrivo una relazione valida ma mistificante al tempo stesso in quanto sul lato destro stanno processi di denaro mentre sul lato di sinistra stanno processi di valorizzazione.

Come mai D'‑D possa essere maggiore di zero io non potrò razionalmente (geneticamente) spiegare che prescindendo dalla sfera del danaro stessa; a sua volta la sfera del danaro mi chiarisce: a) la funzione essenzialmente mistificante che la sfera della circolazione ha nei confronti della sfera della produzione; b) la funzione capitalizzatrice, e niente affatto primamente numeraria e intermediatrice, che ha nell'intero assetto dell'espressione il danaro. Il bravo impresario è colui che sa ricordarsi d'essere ricardiano quando D'‑D non segna più positivo o non è abbastanza al positivo; in questo caso guarderà alla sfera della produzione per giocare sui fattori interni a f'[ v(lsm)]. Senonché è un ricardiano che si vergogna, perché non ha il coraggio di dire quello che sa: che D'‑D emerge soltanto dalla sezione variabile del capitale totale anticipato. Dunque come si trasformi, se è lecito dire, il lato sinistro della espressione nel suo sembiante di destra è di estrema importanza tanto per quello che si vede (la neutralità dei prezzi, la circolarità del danaro, il profitto corrente) quanto per quello non si vede ma che ne è il sostrato di assunzione di forzalavoro e di classe.

Com'è noto da Loria e Bohm‑Bawerk in poi, a fine '800, la teoria del profitto marxiana è stata attaccata ‑ e, da Bortkiewicz in poi, variamente difesa e corretta. Precisamente è stata attaccata la soluzione che dà Marx nel libro III del Capitale alla trasformazione del plusvalore in profitto corrente. Com'è noto altresì è stato questo uno dei punti principali di distruzione teorica del Capitale da parte accademica, il che non ha impedito tuttavia al Capitale ‑ in genere alla «critica dell'economia politica)» ‑ di sopravvivere e di acquisire posizioni di influenza culturale sempre più consolidate specialmente a partire dagli anni 1920.

E’ nota l'importanza di principio che il problema della trasformazione riveste per il marxismo tanto come « teoria scientifica» del sistema capitalistico, quanto come «critica scientifica» del capitalismo stesso. Se, in effetti il Capitale è una sistematica fondata sul plusvalore e sullo sfruttamento della forza‑lavoro, e se invece la economia politica è «scienza mistificante » istituita sulle parvenze di prezzi e di un tasso del profitto correnti, rimane il grosso problema di mostrare come il meccanismo, diciamo, esoterico fondato sullo sfruttamento della forza lavoro si trasformi essotericamente in meccanismo di prezzi e di tasso del profitto corrente. E’ in questa trasformazione ‑ o meglio nella giustificazione di questa trasformazione ‑ che il Capitale (dal primo al terzo libro) aspira a valere come spiegazione razionale dei fatti di mercato di fronte alla economia politica borghese che di razionale ha solo le parvenze.

Non meraviglierà quindi che del problema critico implicato nella trasformazione Marx per primo fosse consapevole. Sicché quella soluzione ch'egli aveva destinato al libro III del Capitale, e che in effetti Engels renderà nota nel 1894, era stata composta già nel 1864-65, prima ancora del Capitale I sicché qui Marx potrà predisporre note di rimando al Capitale III a venire.

Lo scrivente trova poco soddisfacente la deduzione teorica del tasso del profitto corrente dal plusvalore che Marx aveva predisposto pel libro III fin dal 1864‑65. Peraltro reputa che qui si debba porre in rilievo, più che la soluzione, la prospettiva di Marx. Il quale, essendo un buon allievo arrovesciato di Ricardo, si rendeva ben conto del carattere cruciale di un discorso attorno al tasso medio del profitto in una economia capitalistica di tipo concorrenziale (oggi che l'economia capitalistica non è più concorrenziale reputo che il concetto di tasso medio corrente del profitto sia largamente da rivedere). Peraltro Marx escludeva che la soluzione del profitto al livello delle entrate di distribuzione propri ell'economia politica borghese potesse essere razionale conoscitivamente; la sua «razionalità» è tale solo descrittivamente e apologeticamente, e cioè sotto il profilo mistificante o di classe. Marx reputava che proprio per la incapacità di giustificare strutturalmente il tasso del profitto la stessa scuola ricardiana aveva finito col fare déroute. Che s'ha, dunque, da intendere per razionalità di spiegazione in Marx?

Razionalità per Marx non significa coerenza formale ma significa coerenza genetica. Gli equilibri dei fattori produttivi non vanno soltanto descritti ma vanno spiegati. E una spiegazione ‑ qui Marx si connette saldamente a Ricardo ‑ è razionale solo quando individua la genesi dei processi ripartitivi all'interno stesso dei processi di produzione. I quali per Marx (e qui si allontana da Ricardo) trovano la loro chiave nel pluslavoro che il detentore di capitale variabile può imporre alla forza‑lavoro.

Si è detto come Marx fosse soddisfatto tanto della impostazione del problema che della soluzione che aveva trovata (e destinata al libro III) per trasformare il tasso del plusvalore in tasso del profitto. Se anche lo scrivente non trova soddisfacente la soluzione, questo non toglie che la impostazione proposta da Marx (e quindi il tipo di problema proposto) abbia una dose notevole di razionalità. La impostazione marxiana è che la chiave razionale (in senso genetico) dei processi visibili di prezzi e quantità e, in definitiva, delle quote distributive, sono le strutture socio‑economiche sottostanti, sicché una economia politica che si limiti a indicare gli «equilibri simultanei» e i punti di soddisfazione relativa o che si limiti ad inquisire del profitto l'aspetto corrente anziché la formazione ‑ una siffatta economia politica, dico, si priva di ogni effettiva base razionale. Essa è incapace di trasformarsi in una politica economica globale proprio perché una politica economica globale vuole essere una individuazione strutturale degli equilibri e quindi una valutazione in termini di politica strutturale degli equilibri formali stessi.

Limitandoci ad un discorso retrospettivo ‑ di storia del pensiero economico degli anni '920 ‑ lo scrivente ha pochi dubbi che, al livello della ortodossia economica degli anni 1920 e 1930, ossia nel momento drammatico d'urto fra la ortodossia maturata nella dimensione «vittoriana» pre‑1914 e i fatti che nel primo dopoguerra avevano luogo, la impostazione marxiana potrà offrire prospettive se non di spiegazione certo di impostazione assai maggiori dei formalizzamenti offerti dagli epigoni del marginalismo.

IV.

1. Con la chiusa della precedente sezione siamo arrivati alle soglie ‑ che tuttavia non valicheremo ‑ del Capitale nell'età contemporanea. Sia pure rimanendo al di qua della soglia, come riferirsi al Capitale nel momento contemporaneo?

E’ tale il dibattito di cultura intorno a Marx, oggi (1973), che la marxologia costituisce una ramificazione culturale se non specificata certamente differenziata e caratterizzata. Nel campo più ristretto del pensiero economico oltre i nomi impegnati (Napoleoni, poniamo, Meek, o Frank, Pietrancra, Sereni) vi sono da noi e all'estero pleiadi di giovani scrittori di economia che il loro Marx hanno voluto filtrare o come contenuto di ricerca o come strumento ermeneutico, e se non per prima e diretta lettura almeno per seconda e indiretta lettura. E poiché il momento etico‑civile di questo dopoguerra è tormentato, e tormentato specialmente nel nostro paese, è assai probabile che molta della presenza di Marx in atto sia dovuta a circostanze il cui stesso trascorrere farà da decantatore dell'utile dal soverchio e dall'occasionale.

Ma tralasciamo il momento in atto, in cui alla editrice Utet non compete altro che fornire un testo strumentalmente valido per lo studioso, qualunque ne sia la professione di fede. Quel che piuttosto tenteremo brevemente di prospettare è il progetto di discorso abbozzato qualche pagina addietro circa il tramandamento del Capitale lungo l'asse del primo novecento.

Dovendo abbozzare una storia del tramandamento e di come il Capitale si sia perpetuato fino ad oggi come testo non ancora passato ma attuale, a noi pare si debbano costantemente prendere le mosse dal giudizio già espresso: di fallimento dell'economia teorica uscita dalla rivoluzione marginalistica di fronte al crollo del «sistema vittoriano» che il secolo XIX aveva tramandato al XX. E’ solo chiedendoci che cosa molta economia accademica non era (o non sia) in grado di dire che noi ci possiamo spiegare che cosa invece il Capitale fu in grado di dire.

Con «sistema vittoriano» ci riferiamo, allusivamente, ad un sistema di rapporti di mercato coincidenti col tallone aureo, con la divisione internazionale dei lavori cui le stesse costituzioni fine secolo di imperi coloniali parevano contribuire in bennata partecipazione di utili cosmopolitici. Sistema vittoriano avente ad epicentro l'impresa marshalliana, capitanabile mediante un imprenditore‑persona proteso tanto verso le innovazioni (Schumpeter) quanto verso la gagliarda assunzione di rischi non assicurabili (Knight).

Abbiamo citato tre nomi ‑ Marshall, Schumpeter, lo Schumpeter del primo novecento, s'intende, Knight ‑ non a caso, ma come elementi da connettere all'altra più vasta allusione di «sistema vittoriano». Riferimenti ed allusioni da connettere ad altre ancora, già svolte in precedenza: di un'Inghilterra la cui economia politica aveva trovato, a cavallo dei due secoli, nel grande nome di Marshall un punto tanto di sutura con la tradizione macroeconomica classica (che Marshall surrogava volentieri con richiami «organicistici» di marca sociologizzante), quanto di accettazione dell'utilitarismo microeconomico (Marshall rivendicò di essere arrivato al marginalismo al di fuori degli influssi jevonsiani, wieseriani e mengeriani). Trattasi, ripeto ancora, di un'Inghilterra‑emblema, la cui tradizione di magistero in economia politica signoreggiava malgrado il diffondersi e il variegarsi internazionale di scuole ed accademie nei paesi in cui economia politica e capitalismo concorrenziale avevano via via messo piede.

2. Abbiamo parlato per riferimenti: si tratta, infatti, di discorsi cui, data la brevità dell'occasione, qui non possiamo dare svolgimento. Lo scopo era di riportarci, ancora una volta, alla svolta primo novecento e al Capitale nel contesto di economia inizio del '900. E’ noto, e vi ci siamo già richiamati, che l'avvento del marginalismo e della «fisica pura» dell'economia politica (si parlerà, infatti, da Walras in poi di economia pura e da Marshall in poi di economica) si accompagnò a violentissime riprese di polemica tanto genericamente antisocialistica, il che era conforme alla antica tradizione bastiattiana e molinariana (ancorché, come in Walras o Marshall, ad esempio, non mancassero professioni di sociofilia), quanto specificamente anti‑Capitale. Questa polemica dell'intero indirizzo marginalistico e postmarginalistico avrà i propri elementi di punta in Bohm Bawerk, Wieser, Pareto, G. Cassel e su su, fino agli indefessi Von Mises, Robbins, G. U. Papi ecc. del primo dopoguerra Dove la polemica specificamente anti‑Capitale era conforme all'essersi, codesto libro, assiso dentro alla economia politica: a) come critica di essa, b) come collegato alla disprezzata macroeconomia del valore‑lavoro, e collegato e) alla organizzazione di fatto dei partiti operai e allo sviluppo sindacale.

Ponendo ora il quesito degli effetti sulla «economia critica» della mai intermessa polemica anti‑Capitale (polemica che, dopo la pubblicazione del III libro, aveva trovato un facile bersaglio nelle approssimative soluzioni marxiane del tasso del profitto), sarebbe fatuo proclamare che l'economia critica uscirà dal dibattito prevalentemente civile e politico, per entrare nell'arringo dei dibattiti economici proprio... in corrispondenza della propria morte proclamatale addosso dagli ortodossi. Si affacciano nomi provenienti, intorno al primo novecento, da una comune matrice critica non labilmente legata ad un ceppo economico marxiano: Tugan Baranowskij sulle crisi di sproporzione, Kautsky sulla questione agraria, Hilferding, Graziadei ecc., fino, su, su, a continuare coi primo dopoguerra, allorché l'economia ortodossa, nel mentre che reiterava la morte dell'economia critica, verrà essa stessa travolta dille vicende del periodo. E poi, nel secondo dopoguerra, I'«economia critica» marxiana o paramarxiana si è ancora e poderosamente riaffacciata con le sue categorie ‑ teoreticamente lacunose, forse, ma euristicamente pregnanti.

Sarebbe fatuo, ho detto, ironizzare sull'efficienza omeopatica che hanno avuto le dichiarazioni di morte nei confronti dell'economia critica poiché, in effetti, le spiegazioni vanno trovate in una razionalità di eventi. E ci pare che la spiegazione debba trovarsi nei nostri accenni al termine della terza parte della Introduzione.

In effetti, proprio mentre Marshall perfezionava e riperfezionava il suo sistema di «vittorianesimo economico» erano ormai venuti a palese maturazione fatti organizzativi che già avevano incominciato a preoccupare economisti e sociologi sul finire del precedente secolo. Abbiamo, specialmente a muovere dalla Germania, le banche di credito misto (e quindi uno stretto legame fra credito bancario e credito mobiliare); nel contempo abbiamo l'avvento dell'energia elettrica e dall'elettromeccanica, del motore a scoppio e quindi dello sfruttamento petrolifero e dell'auto. Avanza una grandiosa era di turbine, e di bacini idroelettrici e di tramvie e di cementifici, di armature elettro‑telefoniche, di J. D. Rockefeller e di J. Ford, di vaste trasmigrazioni transoceaniche tanto di uomini che di capitali. Nonché di cannoniere, al servizio del big stick, che non era più soltanto maneggiato da Francia o Inghilterra ma anche dalla Germania o giovani ma robustosi ‑ da Stati Uniti o Giappone. Un'era che si giustappone, potenziandola, alla precedente era del forno Bessemer e della chimica agraria e che la integra pur sopravanzandola.

Organizzativamente parlando si ha l'enorme sviluppo della società anonima e delle cointeressenze incrociate e delle Borse. E si ha la preoccupazione che il capitalismo degeneri, al di là e al di fuori dell'impresa rappresentativa marshalliana e dell'imprenditore a profitto zero del concorrenzialismo walrassiano‑paretiano. Sicché negli Stati Uniti, dove queste degenerazioni si erano verificate su vasta scala, furono tentati ai primi del '900 interventi legislativi anti‑concentrazioni e si ebbero i celebri processi nei confronti del potentato rockefelleriano.

Orbene, proprio mentre Marshall perfezionava il suo placido sistema teorico fondato sull'impresario‑persona, spettava al versante marxiano centrare i grossi temi del capitale finanziario (R. Hilferding) e dell'imperialismo (R. Luxemburg). Temi che se oggi sono diventati luogo comune (quale economista borghese oggi non si sente in dovere di includere discorsi sugli oligopoli finanziari, sullo sviluppo del sottosviluppo e sullo scambio ineguale?) erano eterodossi nell'epoca in cui Pigou scriveva il Wealth and welfare (1912) o J. B. Clark gli Essentials of political economy (1907) o Pareto il Manuale (19o6). O in cui Wicksteed scriveva il suo Commonsense of political economy (1910), il più candido esempio, visto col senno degli assetti successivi, di come il teorizzamento scaturito dalla distribuzione come imputazione di valori a muovere da prezzi simultanei, fosse del tutto impotente a cogliere la realtà, destinata a divenire niente affatto accidentale, della impresa quale centro di potere, realtà di cui i succitati marxisti erano invece perfettamente consapevoli. Né erano certo i soli del genere, visto che si allacciavano a pagine del Capitale sulla concentrazione dei capitali che ai primi del novecento, a coloro che si occupavano della «degenerazione” del capitalismo concorrenziale, sembravano essere state profetiche.

La lettura del Capitale suggeriva infatti tanto ad Hilferding che alla Luxemburg che il fenomeno rappresentativo (non nel senso mediano marshalliano, ma nel senso evolutivo) della organizzazione capitalistica fosse ormai costituito non dall'impresario persona in proprio ma dall'impresario persona in altrui (l'amministratore delegato della anonima col suo gruppo manageriale) intento a ritagliare per sé e pel gruppo dirigente quasi‑rendite di posizione sia dentro l'azienda sia tramite l'azienda, accaparrando zone di mercato e finanziamenti bancari o statali, o intrufolandosi nella politica del big stick. Il che significava, in termini teorici, rivendicare la impostazione tanto ricardiana che marxiana del profitto come proveniente non tramite il meccanismo della distribuzione ma tramite la costituzione di strutture situate a tergo della distribuzione.

Ben s'intende, anche allora, ai primi del novecento non erano mancati, a latere dei marxisti, advocati diaboli del radicalismo borghese: Th. Veblen, ad esempio, o Hobson. Il quale ultimo, occupandosi della degenerazione imperialistica del capitalismo, aveva contribuito a creare il clima di discorso in cui i citati Hilferding e Luxemburg si erano inseriti e in cui, scoppiata la prima guerra mondale, si inserirà Lenin, così come, negli anni 1920 e seguenti, un altro advocatus diaboli della borghesia radicale inglese, J. M. Keynes, si inserirà sulle ereticali teorie hobsoniane del sottoconsumo.

S'intende che quando Hilferding e la Luxemburg scrivevano non erano ancora scoppiate la prima guerra mondiale e la Grande Crisi, e le tesi ortodosse che gli oligopoli fossero soltanto frizioni o, al più, degenerazioni artificiose (e non logiche di sviluppo, come pretendeva Marx, legate al passaggio dalla legge del plusvalore assoluto alla legge del plusvalore relativo) e che la moneta fosse precipuamente merce-intermediario, più che serbatoio dei valori, queste tesi, dico, potevano essere ancora difendibili. Senonché quello che a noi preme richiamare ancora una volta è il post‑eventum: il poco di servibile, per comprendere i fatti successivi al 1920, che, per taluni economisti che maturavano i loro trent'anni nel primo dopoguerra, sarà da trovare nei Principles marshalliani o nella Distribution of Wealth di J. B. Clark precedenti la prima guerra mondiale comparativamente col parecchio di servibile che sarà da trovare nel Capitale ‑ malgrado le antiquate teorie del valore‑lavoro o le imperfette soluzioni del tasso di profitto.

3. Finché non avremo fatta la biografia intellettuale di qualcuno dei maggiori fra quelli che nel primo dopoguerra maturarono i loro trent'anni (il percorso intellettuale, poniamo, di uno Sraffa, di un Dobb o di un Kalecki o di un Mandel) ci sarà molto difficile seguire come partitamente abbiano o non abbiano giuocato le categorie marxiane o paramarxiane in costoro quanto nei Lange, Kuczynski o Bettelheim o come, contemporaneamente o poco più tardi, nei Baran, Robinson, Meek, Pesenti, Sweezy, Dami o Pietranera o Shigeto Tsuru, Kula ecc.

Come dico, le biografie intellettuali in questi casi, sono le uniche che ci possono indicare rappresentativamente il gioco esercitato dalle riletture del Capitale e di Ricardo e dal revisionismo antimarshalliano. Ma non essendo questa la sede per un discorso analizzatore ci contenteremo di avanzare una prospettiva panoramica. La prospettiva che, mentre fra le due guerre, Hayek, Mises, Ropke, Robbins, Einaudi, Bresciani Turroni, ecc. ribadivano le loro categorie di polemica antisocialistica e antimarxiana di economia politica «vittoriana», nostalgica del mercato pre‑1914, gli «economisti critici» trovavano in Marx, letto che fosse in prima o in terza mano, il concetto che le crisi commerciali non sono di esito ma si radicano sul meccanismo dei processi produttivi del capitalismo e quindi eliminabili o fuori del capitalismo o anche dentro, ma non con la «moneta manovrata», secondo il gran parlare che se ne faceva allora, ma incidendo sui processi produttivi e sulla funzione di investimento tramite una programmazione di cui, fra le due guerre, si incominciavano a intravedere i primi discorsi. Nel Capitale, ancora, le generazioni degli anni '20 trovavano la funzione di capitalizzazione (ed anche di de‑capitalizzazione) esercitata dalla moneta, il profitto non inteso come lucro di emergenza eventuale dalla circolazione ma come differenza riscossa, sì, tramite la circolazione ma originata dall'interno del processo produttivo; e vi trovavano una spiegazione del procedere dualistico del capitalismo da un lato sviluppando collocazioni e sviluppo, dall'altro sviluppando dislocazioni e sottosviluppo.

Sicché quegli economisti, allora trentenni, i Lange o i Dobb sopracitati, che trovavano fatuo o comunque evasivo prendere le mosse dalle equazioni di equilibrio di Pareto o Fisher, o dai tentativi della Nuova Scuola di Vienna di rinverdire la psicologia del consumatore, si rivolgeranno ai criteri di razionalità della macroeconomia, del neoricardismo o del neomarxismo. Essi, nella impostazione del Capitale, trovavano se non risposte ai quesiti almeno delle domande; domande preoccupate che, come tali, saranno il riverbero del disagio di molti uomini della strada nel periodo fra le due guerre mondiali e dell'impatto mitico della pianificazione sovietica con le suggestioni positive o negative che essa proponeva. Essi saranno, altresì, il riverbero dei temi di concorrenza imperfetta (Robinson, Chamberlin) e cioè di quanto di più vitale, assieme alla Teoria della occupazione keynesiana, l'economia borghese del primo dopoguerra ha creato di innovazione nella continuità. Erano, questi, temi tutti che collimavano assai più con una tradizione critica di economia per «disequilibri strutturali» quale Hilferding, Tugan Baranowskij, Luxemburg avevano dato esempio prima del 1914, che con una tradizione per equilibri collocativi, cui si erano richiamati o si richiamavano Marshall o Pigou e gli ortodossi in genere.

Se così stanno le cose il crescente rafforzamento dell'influsso del Capitale dopo del 1920 e dopo del 1945 non ci appare più un miracolo ma uno svolgimento logico.

V.

1. Valga, questa introduzione, ad incoraggiare il giovane a penetrare questo testo non solo per le sue ovvie e direi scontate suggestioni etico‑civili, ma anche per i suggerimenti analitici che esso possa contenere per una realtà, quale quella odierna, e specialmente nostrana, turbata non meno dal sottosviluppo che dallo sviluppo, non meno dalla presenza di un'economia del profitto che dalla sua assenza, tanto dalla presenza di discettazioni sulla casistica dell'impresa quanto dall'incertezza di una definizione della impresa. Se anche soltanto Marx potesse aiutarci a definire l'impresa ‑ o a ridefinirla, visto che impresa va sempre ridefinita man mano che si evolve ‑ una attenta rilettura del Capitale, non foss'altro per questo, sarebbe raccomandabile.

Lo studente che maneggi questo testo sappia che è un'opera dai presupposti assai complicati: occorre possedere presupposti storici e di metodologia storica; sociologici e di metodologia sociologica; economico‑sistematici e di metodologia economico‑sistematica; ed occorre possedere la più difficile delle arti: quella di saper connettere i presupposti stessi.

Voglia lo studente accostarsi a questo testo solo se pensa che esso sia per essergli euristicamente necessario. Nulla di più deviante del Marx di obbligo, del Marx gergato ecc. Non vi è una indispensabilità di Marx più di quanto vi sia indispensabilità di Kant o di Aristotele, dell'uno, dell'altro e dell'altro potendosi fare a meno e tuttavia capire molte cose. Per quanto importante sia leggere, e leggere diligentemente, è altrettanto importante leggere muovendo dall'interno di un proprio fabbisogno euristico. Si può essere ottimi economisti e sociologi senza aver letto un rigo di Marx e ottimi filosofi senza aver letto un rigo di Kant. Non c'è nessuna condizione d'obbligo che ci si dia almeno le arie di averlo letto, il Capitale. Meno che meno che si assuma questo testo quale interpretatore qualificato delle rigatterie colorate che circolano in suo nome. Di più, questo testo ha servito, storicamente, per fondare movimenti operai o partiti ma è servito anche per criticarli e distinguersi da essi. Giacché questo testo è, anzitutto, se stesso e non bene di consumo: non diversamente da altri testi‑base della cultura esso è da studiare se lo si vuole studiare, da gergare se lo si vuole involgarire, da non studiare e neppure gergare se si ha altro da studiare.

Questo diritto di esclusione è un rafforzativo critico, nei confronti del Capitale, e non un diminutivo; in definitiva proclamare il diritto di escludere Marx dal proprio fabbisogno intellettuale equivale al dovere dell'antidilettantismo se Marx va incluso nel proprio fabbisogno. E’ il richiamo, ripeto ancora, ad un'intransigenza problematica che muova dall'interno, se muove dall'interno.

Se, come abbiamo detto, il sistematico può fare a meno di Marx ‑ e rifarsi ad altre carte di eurisi su cui giocare ‑ non altrettanto è a dire dello storico. Lo storico del pensiero economico non può scegliere gli oggetti della storiografia.., visto che gli sono imposti ex ante. Ed oggi di Marx ce n'è tanto in giro, sia esso letto o soltanto vociferato, che lo storico della cultura (qualunque ne sia il ramo) non può non tenerne conto. E poiché lo scrivente è uno storico gli si permetta di delineare i due rischi della collocazione storica del tanto

Marx circolante al giorno d'oggi. a) Il primo rischio è il collocarsi di fronte al tantissimo Marx in atto prendendo per valido tutto, senza sforzarsi di separare ‑ e, in certo senso, prevedere ‑ il Marx cronaca dal Marx problema e impegno discriminante. b) oppure di cedere alla storicizzazione riduttiva ‑ nel momento stesso che la si nasconde nella celebrazione ‑ collocando il proprio oggetto quasi nella celebrazione e finalmente nel catafalco: un epinicio che suoni epicedio.

Dalla b) ai tanquam non esset paretiano, böhm‑bawerkiano, misesiano, robbinsiano ecc. il passo è breve. Lo storico che sminuisce il proprio oggetto di considerazione al punto di considerarlo ormai esaurito è un ben noto, antico mistificatore. E’ uno storico, in definitiva, falsificatore quanto l'altro, inteso al pluriconsumo.

Ad evitare questi approcci di falsa storiografia, ad un giovane che subisca il frastuono che gli sta dattorno, ci pare non rimanga che ribadirgli quanto già raccomandato: muoversi, primo, dall'interno del Capitale, se del Capitale ha bisogno; secondo, dall'interno del Capitale, se vuole sfuggire al Marx pretestuoso della magnificazione gergale, dell'opportunismo d'occasione ecc.; terzo, dall'interno del Capitale, se vuole sfuggire al vacuo del Marx accademicamente paludato e ormai concluso.

Agli ormai superatori ‑ stucchevoli perché sempre smentiti - va opposto che sarebbe assurdo che Marx sia diverso da Platone, Kant, Ricardo, Verga o Keynes, o Joyce o Gramsci. A tutti costoro toccheranno riletture e ripensamenti ora in un punto ora in un altro a seconda dello status storico delle generazioni a venire. Ai dilettanti gergali va opposto che Marx è morto fin dal 1883, sicché il discorrere marxologico va svolto non nello sciupio delle formule ma nel ripensamento critico. A tutti e due va opposto il buon diritto di fare a meno di Marx in toto se altri intrecci di studio sono richiesti alla propria sistematica. Buon diritto che è l'esatto contermine del punto primo sopra indicato: di non poterne fare a meno se un certo discorso s'ha da fare.

E' a questa specifica gamma di studiosi che gli sforzi tanto dell'introduttore che del traduttore si sono idealmente rivolti. Il dott. Bruno Maffi è stato il traduttore; ma è stato assai più che un traduttore. E' stato un collaboratore preparato e ben noto e rispettoso del testo da fornire in suppellettile. E soprattutto è stato molto paziente verso lo scrivente, che lo ringrazia affettuosamente.

Aprile 1973.

Bruno Maffi
Introduzione al Libro Secondo

«Il secondo Libro ‑ scriveva Engels a Kautsky il 18 settembre 1883 - lascerà molto delusi i socialisti volgari: contiene quasi soltanto ricerche strettamente scientifiche, molto sottili, su cose che avvengono in seno alla classe capitalistica; proprio nulla, dunque, con cui fabbricar declamazioni». E a Lavrov il 5 febbraio dell'anno dopo: «Il secondo Libro è puramente scientifico; non tratta che di questioni da borghese a borghese».

Chi tuttavia, da questo monito severo a non affrontare la lettura del Libro II del Capitale nello spirito dell'oratore (o del pubblico) da comizio, credesse di poter dedurre che si tratti di un'opera di fredda e distaccata registrazione dei meccanismi del processo di circolazione del capitale, di formulazione delle leggi che li regolano e di enucleazione degli equilibrii dinamici attraverso i quali esso si svolge, ora creandoli ed ora distruggendoli, prenderebbe un grosso abbaglio.

Indubbiamente, i manoscritti che Engels selezionò e infine decise di riunire, ispirandosi al duplice obiettivo di presentare un insieme organicamente collegato nelle sue membrature e di attenersi ad una rigorosa fedeltà al testo così come gli era pervenuto, appartengono cronologicamente all'ultima fase delle produzione teorica di Marx, seguono anziché precedere non solo le Teorie sul plusvalore, ma parte dello stesso Libro III; e al loro autore mancarono il tempo e le forze per rivestirli di carne e irrorarli di sangue come gli era magistralmente riuscito nelle versioni successive del Libro I. Nello stesso tempo, la legislazione antisocialista introdotta da Bismarck («dalla Germania ho ricevuto la notizia ‑cela est tout‑à‑fait confidentiel che il mio secondo volume non può essere pubblicato finché il regime insiste nel suo rigore attuale») , consigliava di procedere con un certo riserbo nella forma, se non nella sostanza, dell'esposizione.

Al di là di questi motivi contingenti, e di altri sui quali torneremo, v'era però una questione di metodo, che nulla potrebbe meglio illustrare di un brano dell'Introduzione ai Grundrisse der Kritik der Politischen Oekonomie (1857‑1858):

«Sembra giusto incominciare con ciò che è reale e concreto, con il presupposto reale, quindi ad esempio nell'economia con la popolazione, che è la base e il soggetto dell'intero atto sociale di produzione. Eppure, considerando le cose più da presso, ciò si rivela sbagliato. La popolazione è un'astrazione, se ad esempio non tengo conto delle classi di cui si compone. Queste classi sono a loro volta una parola priva di significato, se non conosco gli elementi sui quali esse si fondano. Ad esempio il lavoro salariato, il capitale ecc. Questi presuppongono lo lo scambio, la divisione del lavoro, i prezzi ecc. Il capitale, ad esempio, senza lavoro salariato non è nulla, come del resto senza valore, denaro, prezzo ecc.

Se dunque incominciassi con la popolazione, avrei un'immagine caotica dell'insieme, e attraverso una determinazione più precisa perverrei sempre più, analiticamente, a concetti più semplici; dal concreto immaginato ad astrazioni sempre più sottili, fino a giungere alle determinazioni più semplici. Da quel punto il viaggio dovrebbe esser ripreso in senso opposto, e infine giungerei nuovamente alla popolazione, che questa volta però non sarebbe più la rappresentazione caotica di un insieme, bensì una ricca totalità di molte determinazioni e relazioni.

La prima via è quella che l'economia ha imboccato storicamente al suo sorgere. Gli economisti del XVII secolo incominciano ad esempio sempre dall'insieme vivente, la popolazione, la nazione, lo stato, più stati ecc.; finiscono però sempre con l'individuare attraverso l'analisi alcune relazioni astratte e generali determinanti, come la divisione del lavoro, il denaro, il valore ecc. Appena questi singoli momenti furono più o meno fissati e astratti, sorsero i sistemi economici che dal semplice, come il lavoro, la divisione del lavoro, il bisogno, il valore di scambio, risalirono fino allo stato, allo scambio fra le nazioni e al mercato mondiale. Quest'ultimo è evidentemente il metodo scientificamente corretto. Il concreto è concreto perché è sintesi di molte determinazioni, dunque unità di ciò che è molteplice. Nel pensiero esso appare quale processo di sintesi, come risultato e non come punto di avvio, benché sia il reale punto di avvio dell'intuizione e della rappresentazione. Seguendo la prima via, la rappresentazione piena si volatilizza in determinazione astratta; seguendo la seconda, le determinazioni astratte conducono alla riproduzione del concreto nel cammino del pensiero».

Il «capitale in generale», che è l'oggetto del secondo come del primo Libro del Capitale, è dunque «un'astrazione» ‑ non però «un'astrazione arbitraria; bensì un'astrazione che coglie la differenza specifica del capitale rispetto a tutte le altre forme della ricchezza o modi di sviluppo della produzione sociale», e che, appunto perciò, permette di rifare il cammino a ritroso verso «il capitale nella sua realtà » (oggetto prevalente del Libro III) da un duplice punto di vantaggio, agli effetti della critica del modo di produzione e della società borghesi: il vantaggio di poter dimostrare che già dalla «comprensione rigorosa del presupposto fondamentale del rapporto (capitalistico)», dunque, dallo stesso «concetto di capitale», risultano «tutte le contraddizioni della società borghese» nelle quali ci si imbatte nella vita quotidiana, «come pure il limite raggiunto il quale il rapporto tende ad andare oltre se stesso» avendo già creato i presupposti oggettivi di una diversa società; il vantaggio di possedere ‑ come ogni scienza sperimentale che si rispetti ‑ il filo conduttore teorico per orientarsi nei fenomeni particolari e contingenti di questo stesso modo di produzione e di questa stessa società, e ritrovarvi la conferma delle leggi, già formulate sul piano rigoroso dell'astrazione, che ne governano gli sviluppi.

Da questo secondo punto di vista, i due primi Libri del Capitale appaiono come il necessario prologo al terzo, dal quale perciò non possono andare disgiunti, formando con esso un tutto unico.

«Nel primo Libro ‑ scrive lo stesso Marx in apertura al I capitolo del terzo ‑ si sono analizzati i fenomeni che il processo di Produzione capitalistico, preso in sé, presenta come processo di produzione immediato, in cui si è fatto ancora astrazione da tutti gli effetti secondari di circostanze ad esso estranee. Ma questo processo di produzione immediato non esaurisce il ciclo di vita del capitale. Nel mondo reale, esso è completato dal processo di circolazione, e questo è stato oggetto delle indagini del secondo libro. Qui, specialmente nella III sezione, trattando del processo di circolazione quale mediazione del processo di riproduzione sociale, si è visto che il processo di produzione capitalistico, preso nell'insieme, è unità di processo di produzione e processo di circolazione. In questo terzo libro non può trattarsi di esporre riflessioni generali su questa unità. Si tratta piuttosto di scoprire e rappresentare le forme concrete [corsivo nostro] che sorgono dal processo di movimento del capitale considerato come un tutto. Nel loro movimento reale, i capitali si presentano l'uno di fronte all'altro in tali forme concrete, per cui la forma del capitale nel processo di produzione immediato, come la sua forma nel processo di circolazione, appaiono solo come momenti particolari. Le forme del capitale, come le sviluppiamo in questo libro, si avvicinano quindi passo passo alla forma in cui essi si manifestano alla superficie della società, nell'azione reciproca dei diversi capitali, nella concorrenza «, e nella coscienza comune degli agenti stessi della produzione”.

È a questo stadio, infatti, che le categorie «primigenie» del valore, del plusvalore, del capitale costante e variabile, del saggio di plusvalore ecc. riappariranno metamorfosate nelle categorie borghesi del profitto, del prezzo di costo, del prezzo di produzione, del profitto medio, del saggio generale di profitto, e così via; le forme transitorie di esistenza del capitale analizzate nei primi due libri ‑ capitale denaro, capitale produttivo, capitale merce ‑ si cristallizzeranno in forme di esistenza particolari come il capitale finanziario, il capitale industriale, il capitale commerciale; il plusvalore, già trasformato in profitto, si ripartirà in utile d'intrapresa, interesse e rendita; concorrenza e credito introdurranno negli schemi «astratti» del processo complessivo del capitale le mille e mille «circostanze accessorie perturbatrici» di cui il «capitale nella sua realtà» offre continue manifestazioni, e, lungo questo percorso di «riproduzione del concreto per la via del pensiero », prenderanno volto e corpo le differenti classi della società borghese e si delineerà quello che doveva essere il coronamento dell'opera (rimasta purtroppo incompiuta, come tutti sanno): «Rapporti internazionali della produzione; divisione internazionale del lavoro; scambio internazionale; esportazioni ed importazioni; corso dei cambi; mercato mondiale e crisi.»

Dal primo punto di vista, fin dall'analisi della categoria economica più elementare, cioè la merce nella sua doppia faccia di valore di scambio e valore d'uso, e di qui in tutto il corso dell'analisi del «processo di produzione del capitale », il Libro I contiene la teoria e insieme la prova empirica sia dell'ineluttabilità dell'insorgere di «possibilità di crisi» destinate in ultima istanza a fondersi nella realtà della «crisi generale» del sistema , sia della necessaria trasformazione di questa crisi generale da puramente economica in sociale e politica, come già enunciato nel Manifesto del 1848.

È questo il filo rosso ‑ per riprendere l'espressione cara ai due editori della «Neue Rheinische Zeitung» ‑ che corre attraverso tutta l'opera di Marx, quindi anche attraverso tutto il Capitale. Lo è al punto che la ricerca astratta, anche quando si muove sul piano del «capitale nella sua media ideale» , si intreccia costantemente alla documentazione empirica, alla critica della sovrastruttura del modo di produzione capitalistico, della sua società e dei suoi ideologi, all'invettiva politica e, infine, all'annuncio del nuovo modo di produzione e della nuova società, le cui premesse materiali sono già contenute in grembo al modo di produzione e alla società attuali. Questo intreccio, che si ritrova quasi ad ogni pagina del Libro I e in innumerevoli scorci del III (per non parlare delle Teorie sul plusvalore), non è meno reale nel II, anche se è meno visibile.

È meno visibile, anzitutto, per la ragione «di superficie » cui si è già accennato: i Manoscritti utilizzati da Engels nel comporre il volume sono dei brogliacci composti in condizioni precarie di lavoro e di salute ‑ e basta pensare a che cosa divenne il Libro I nel passaggio dai Quaderni vergati fra la metà degli anni '50 e la metà degli anni '60 alle tre successive edizioni a stampa o a quelle francese e russa, per immaginare come Marx li avrebbe arricchiti assai più di quanto non appaia nella loro veste attuale ‑ di richiami alla storia contemporanea, di ulteriori polemiche con economisti e politici, di audaci excursus verso la società futura, se avesse potuto rielaborarli in modo completo e definitivo.

E’ meno visibile, inoltre, per una ragione di fondo: l'«arcano» del capitale come «valore figliante più valore» è racchiuso nel suo processo di produzione, non nel suo processo di circolazione, per quanto quest'ultimo si intrecci al primo; la conoscenza esatta del funzionamento dei meccanismi interni della rotazione e riproduzione del capitale, nell'alternarsi di equilibri, squilibri, riequilibri e crisi, che lo caratterizzano, è di indubbio interesse scientifico, ma poiché ‑ per riprendere le parole di Engels ‑ rimane conoscenza di «cose che avvengono in seno alla classe capitalistica», «da borghese a borghese», mal si presta alle potenti integrazioni e riflessioni nei campi più diversi ‑ politici, sociali, culturali ‑ tipiche del I e, a fortiori, del pur incompiuto Libro III.

Tuttavia, al lettore attento non sfuggiranno ‑ nelle pieghe, diciamo pure, di pagine ardue e complesse, fitte di formule e simboli ‑ non solo i frequenti richiami al materiale empirico fornito dalla storia recente, oltre che antica e medievale (alcuni di straordinaria efficacia nella loro brevità), ma tre essenziali filoni critici.

Il primo è costituito dalla dimostrazione, ricorrente in ogni capitolo delle tre Sezioni in cui è diviso il Libro II, che, anche visto sul piano più astratto ‑ dunque a prescindere dalla concorrenza, dal credito ecc. ‑ il processo di circolazione del capitale nel succedersi dei suoi complicati meandri aggiunge una miriade di possibilità di crisi a quelle già dimostrate inseparabili, su scala ben più vasta, dal processo di produzione del capitale individualmente e socialmente considerato, buttando all'aria i sogni e le teorizzazioni di armonie economiche e sociali di cui si pascono i «sicofanti» dell'ordine costituito, e riducendo sempre più nella realtà i margini di manovra nel ristabilimento degli squilibrii interni sia della produzione che della circolazione, non diciamo poi della distribuzione dei prodotti. E’ un tema nel quale ci si imbatte fin dal primo paragrafo del secondo capitolo; dunque, già nel caso più elementare della riproduzione semplice. A fortiori lo si ritrova via via nel corso successivo dell'indagine.

Il secondo filone critico è costituito dalla denunzia martellante dello sciupio di risorse sociali, primo fra tutti quello di forza lavoro viva, inscindibile come già dalla produzione del capitale così dalla sua circolazione e, nel suo àmbito, dall'indispensabile mediazione del denaro; dei giganteschi faux‑frais di ricchezza sociale sacrificati al processo di circolazione - denunzia che, se riguarda ogni forma mercantile di economia, colpisce in particolare quella sua manifestazione estrema ed «eletta» che è il capitalismo, completando l'analoga denunzia costantemente ribadita negli altri due Libri e nelle Teorie sul plusvalore, e così facendone uno dei più suggestivi leitmotiv della demolizione teorica dell'economia e della società esistenti, una prova ulteriore del loro modo d'essere e procedere intrinsecamente irrazionale, anarchico, dissipatore, distruttivo di ricchezze umane e naturali.

Infine, lo stesso lettore attento troverà in numerose pagine un ponte breve ma ardito lanciato verso quella società collettivistica che, secondo una letteratura interessata o superficiale, Marx avrebbe lasciata indefinita nei suoi caratteri distintivi, o che, addirittura, si sarebbe rifiutato di anticipare: una società che, come qui si ribadisce, esclude la merce, il lavoro salariato, il denaro, il calcolo monetario delle entrate e delle uscite, il profitto ecc., e poggia su un impiego razionale e pianificato delle risorse collettive, sul soddisfacimento dei bisogni reali della specie eretti a norma e principio della produzione, e sulla riduzione al minimo del tempo di lavoro socialmente necessario per la produzione materiale; quindi, sulla conquista di una frazione di tempo tanto più estesa alla «libera attività intellettuale e sociale degli individui» alla libertà vera ‑, appunto perché, come già era stato scritto da Marx nel Libro I, in essa non solo il lavoro sarà «generalizzato», ma avrà fine l'attuale «sperpero smisurato dei mezzi di produzione e delle forze lavoro sociali» e sparirà «un certo numero di funzioni oggi indispensabili, ma in sé e per sé superflue».

Aveva dunque ragione Engels di scrivere a Lavrov il 14 febbraio 1884 che «sarebbe un vero miracolo se il secondo Libro non contenesse materia sufficiente per farlo sequestrare e proibire in base alla legge del 1878», e a Daniel'son il 13 novembre del 1885, che «il cauto silenzio» con cui la «letteratura economica ufficiale» ne aveva accolto la pubblicazione si spiegava non solo con lo «stato miserando» nel quale era ricaduta «la scienza storica tedesca», ma con un «sano timore delle conseguenze» che una sua critica pubblica avrebbe portato con sé . Altro che fredda registrazione dei meccanismi interni della rotazione, riproduzione semplice e allargata del capitale ecc.; altro che analisi distaccata del presente e rinuncia all'anticipazione del futuro! Anche i «filistei » prosperanti nelle accademie europee si erano accorti che il volume conteneva ben di più.

Bruno Maffi
Introduzione al Terzo Libro

La storia, per quel che ne sappiamo (e non è molto), della stesura dei Quaderni che Engels riordinò, ritrascrisse, sfrondò o, secondo i casi, completò con pazienza sovrumana, per darci infine il terzo libro del Capitale, è una vivente testimonianza del modo di procedere tumultuoso ‑ perché antiaccademico ‑ di Marx nel corso pluridecennale della sua «critica dell'economia politica ».

E’ noto, prima di tutto, che i Quaderni furono scritti in un periodo compreso fra il 1864 e il 1865; dunque, precedettero l'epoca della versione originaria (1867) del primo libro del Capitale, per non parlare poi della maggior parte dei manoscritti del secondo, che si colloca fra il 1870 e il 1877, e seguirono immediatamente gli anni di elaborazione delle Teorie sul plusvalore, che avrebbero dovuto costituire il coronamento dell'opera, il suo «quarto libro», mentre risalgono al 1861‑1863. Che d'altra parte, per il III Libro, la stessa «data di nascita» abbia in sé scarso rilievo è dimostrato dal fatto che la dottrina dei prezzi di produzione si trova già sostanzialmente elaborata nelle Teorie, in cui sono pure in gran parte contenuti gli svolgimenti sul capitale produttivo d'interesse, il saggio d'interesse, l'utile d'intrapresa e il cosiddetto salario di sorveglianza e di sovrintendenza, nonché, almeno in nuce, la critica della «formula trinitana » cara all'economia classica e da questa tramandata come canone sovrastorico ai posteri; che la teoria del profitto in quanto distinto dal plusvalore, del saggio di profitto in quanto distinto dal saggio di plusvalore e della sua tendenza storica alla caduta, è già adombrata nei Grundrisse der Kritik der politischen Oekonomie, datati 1857‑1859; e che, infine, la teoria della rendita, sia differenziale che assoluta, è chiara in Marx ‑ come si vede fra l'altro dal Carteggio ‑ fin dal 1851, anche a non volerne indicare i primi rudimenti nella Miseria della filosofia (1847) e, addirittura, nei Manoscritti economico-filosofici del 1844.

Non è poi difficile immaginare che cosa ne sarebbe stato, del terzo libro, se i Quaderni rimasti giacenti per tanti anni così come erano stati impetuosamente redatti in un arco di tempo non occupato soltanto da studi e meditazioni (la I Internazionale nasce nel 1864, e la sua storia è anche «storia personale a di Marx», fossero stati completati almeno con il capitolo, interrottosi subito dopo le frasi di apertura, sulle tre grandi classi della società borghese, e forse, come era previsto nel piano dei 1857, sullo Stato; e se, chiuso in tal modo il ciclo immenso della teoria del capitale in una delle sue maggiori astrazioni («il movimento del capitale considerato come un tutto»), l'Autore avesse potuto ‑ libero non solo da travagli personali, familiari e politici, ma dall'impegno assorbente richiesto da tre edizioni successive del primo libro del Capitale, ognuna (più le traduzioni in francese e in russo e relative revisioni) equivalente in pratica a un’«opera prima» ‑ por mano ai capitoli o libri sulla concorrenza e sul credito, ovvero sul «capitale nella sua realtà», ripetutamente annunciati anche in questo volume.

Non è neppur difficile immaginare, inoltre, che cosa sarebbe avvenuto del testo degli anni Sessanta, se a Marx fosse stato dato di arricchirlo sia delle conclusioni raggiunte nel decennio successivo attraverso lo studio dei rapporti agrari in Russia e in genere nell'area slava, sia del materiale documentario raccolto durante le quotidiane ricerche al British Museum (come era già stato fatto per il I Libro e per alcuni capitoli minori del III, e come richiedeva in particolare la VI sezione di quest'ultimo sulla rendita fondiaria); o se Marx avesse avuto tempo e modo di riprendere e rielaborare le pagine sulla caduta tendenziale del saggio di profitto, che oggi conosciamo come possente abbozzo, ma pur sempre soltanto abbozzo, e di svolgere in tutte le sue complesse implicazioni il tema, ricorrente qui (come, in parte, già nelle Teorie) ad ogni passo della trattazione, delle crisi come manifestazioni cicliche della natura intrinsecamente antagonistica del capitalismo, specie se considerato nelle sue forme più evolute, che sono, nello stesso tempo, le più convulsive. E come non porsi lo stesso quesito per le molte pagine dedicate alla storia del capitale commerciale, del capitale per il commercio del denaro, del ruolo del credito, della funzione delle banche, etc., dove il lettore d'oggi ha, fra l'altro, la sorpresa di trovare anticipata la teoria del capitalismo nella sua fase imperialistica, del prepotere dei capitale finanziario, del giganteggia dei monopoli, della sostituzione dei managers ai capitani d'industria come «anime del nostro sistema industriale », e della separazione della gestione del capitale dalla sua proprietà ‑ tanto è vero che, per la dottrina marxista, non ci

sono novità di rilievo sotto il sole (se di sole può parlarsi) del sistema capitalistico?

Non c'è tuttavia nulla di fortuito e di inspiegabile nel fatto che, in Marx, le grandi conquiste teoriche assumano l'aspetto di vere e proprie eruzioni vulcaniche, isolate l'una dall'altra e asistematiche al punto di susseguirsi in ordine inverso a quello della successione logica; che ognuna rappresenti un blocco unitario e in sé concluso, e che ciononostante tutte attendano, per essere rese di pubblica ragione, di andare ad occupare ciascuna il proprio posto in un insieme concepito ed attuato nella più rigorosa osservanza di leggi inter tu

Se, a posteriori, ci si può rammarica che i Quaderni in questione siano stati abbandonati nel momento che stavano per essere definitivamente completati e rinviati ad epoca troppo tarda per consentire all'Autore di riprenderne l'elaborazione, è quindi giocoforza ammettere che, a prescindere da qualunque fattore contingente, così doveva essere: il «nato prima» doveva aspettare il suo turno in coda ai « nati dopo».

La verità è (primo punto) che tali conquiste non furono mai, in Marx, il frutto di riflessioni puramente intellettive al contrario, nacquero in uno scontro diretto e generalmente tempestoso con la realtà sociale, o come immediatamente si presentava nella violenza delle collisioni economiche e nell'asprezza degli antagonismi di classe, o come appariva capovolta nei riflessi mentali dei suoi portavoce ideologici, e dall'esigenza, che è del tutto conforme alla dottrina marxista chiamare pratica, di dare risposta scientifica alle molteplici sollecitazioni del mondo «esterno».

Per fare un esempio direttamente collegato al presente volume, a porsi il problema dei prezzi di produzione in quanto divergenti dai valori delle merci e, lungo questo percorso, ad affrontare il problema della formazione del saggio generale di profitto e della sua caduta tendenziale ‑ questo «pons asini di ogni economia trascorsa» e chiave alla previsione del crollo inevitabile del modo di produzione capitalistico ‑, Marx giunse (e li risolse) nel fare i conti con l'economia classica, a sua volta base di partenza della politica borghese e dei metodi di dominio del capitale sul lavoro, così come era giunto a formulare nelle grandi linee la teoria della rendita fondiaria nel misurarsi con gli epigoni di Smith e Ricardo associati nel club tutt'altro che aulico ed imparziale dell'economia volgare, o la dottrina del saggio d'interesse (e categorie derivate) nella polemica con i corifei del socialismo piccolo‑borghese, da Proudhon in su.

In questo come in tanti casi analoghi, tutti collegati direttamente o indirettamente a sviluppi reali o previsti della lotta fra le classi, la sua risposta fu immediata e globale: da un lato il problema, una volta posto, non tollerava di rimanere insoluto (non è un caso che lo scioglimento del nodo teorico rappresentato da un fenomeno come la caduta tendenziale del saggio di profitto, in cui già Ricardo aveva intravisto «il "crepuscolo degli dei" borghese, il giorno del giudizio universale» , sia coevo alla nascita dell'Associazione internazionale dei lavoratori); dall'altro non lo si poteva risolvere altrimenti che nel quadro di un'analisi del processo complessivo della produzione capitalistica». E seguendo a questo scopo il solo «metodo scientificamente corretto» consistente non nel muovere dal concreto all'astratto, ma viceversa nel partire dall'astratto e di qui giungere, di ciclo in ciclo e di processo in processo, al concreto come «sintesi di molte determinazioni, unità di ciò che è molteplice», che Marx penetra nel meccanismo rimasto per tanto tempo segreto in virtù del quale le forme del capitale rappresentate nella loro astrazione «si avvicinano» (e, nel III Libro, soltanto si avvicinano) alle forme in cui esso si manifesta «alla superficie della società, nell'azione dei diversi capitali l'uno sull'altro [...] e nella coscienza comune degli stessi agenti della produzione »; dunque, nella sua massima concretezza.

Ma (secondo punto) il problema una volta risolto, non come questione a sé stante, bensì come anello di una catena di cui si tengono saldi in pugno tutt'e due i capi, deve essere inserito ‑ perché solo così sarà pienamente comprensibile ‑ in un contesto generale il cui punto di partenza non può essere l'organismo, completo di tutti i suoi elementi, dell'economia capitalistica, ma la sua forma primigenia, la forma valore: infatti, è solo partendo di qui che si può pervenire all'esatta comprensione dell'origine e del significato dei prezzi di produzione, dal plusvalore giungere al profitto, dal saggio del primo al saggio del secondo, da quello individuale a quello generale, e salire o piuttosto scendere alla soluzione dell'arcano non solo e non tanto del moto oscillatorio dei prezzi di mercato, quanto e soprattutto della loro finale congruenza, alla grande scala, con i valori delle merci, così come del fatto che non sia la concorrenza a determinare il saggio generale di profitto, ma questo a generare e rendere possibile quella.

Così, raggiunte d'impeto e in blocco, le conquiste teoriche di cui sono densi i capitoli del Libro III del Capitale, in quanto analisi del processo complessivo della produzione capitalistica, dovevano essere «lasciate giacere» in attesa che si gettassero le basi scientifiche dell'intera dottrina, innanzitutto col I Libro in quanto dedicato al processo di produzione del capitale, poi col II in quanto dedicato al processo di circolazione del capitale: solo così il cerchio della dottrina sarebbe stato dialetticamente e definitivamente concluso. Quale miglior testimonianza ‑ a conferma del carattere sistematico di un modo di procedere a prima vista asistematico ‑ dell'aspirazione alla scientificità di una dottrina, come il comunismo, che nasce sul terreno eminentemente storico degli scontri di classe e verte su fenomeni correntemente ritenuti irriducibili a leggi e, come tali, non passibili di trattazione scientifica?

Certo, l'attuazione di questo piano d'insieme dipendeva da tutta una serie di incognite, purtroppo rivelatesi troppo imperiose per non determinarne il finale insuccesso. Ma, per Marx, il piano in quanto tale non era da rimettere in discussione, e non lo fu ‑ a costo di dover lasciare incompiuto l'intero edificio, tuttavia già pronto nelle sue robuste membrature.

Si è detto che se, nell'analisi del «processo complessivo della produzione capitalistica», le forme del capitale tendono ad avvicinarsi a quelle che si presentano alla superficie della società e, di qui, nella coscienza comune degli agenti della produzione, esse vi si avvicinano soltanto, non vi si identificano.

E infatti probabile che a primo acchito, uscendo dall'atmosfera rarefatta delle due sezioni di apertura del Libro I e di tutto il II, ed entrando nell'universo policromo e polimorfo del Libro III del Capitale, l'operatore economico e l'ideologo borghese abbiano l'impressione di ritrovarsi, finalmente, a casa loro. Non si vedono più di fronte né le sole categorie minacciosamente contrapposte del capitale e del lavoro o, peggio ancora (quasi a sottolineare la strapotenza del secondo rispetto al primo), del lavoro morto e del lavoro vivo, nel processo di produzione, né quelle immateriali ed incorporee, anche se hegelianamente coinvolte nel turbine di un movimento dialettico molto concreto, del capitale merce e del capitale denaro, nel processo di circolazione; si vedono di fronte le cose (e le persone ad esse indissolubilmente collegate) con cui sono o vengono continuamente a contatto nella loro esperienza quotidiana di mestiere e di studio: non il capitale uberhaupt, ma il capitale industriale, commerciale, usurario, finanziario, bancario, investito nella terra o funzionante nel sistema creditizio; non il valore, ma i prezzi di costo, di produzione, di mercato; non il plusvalore (che rinvia unicamente alla forza lavoro) ma il profitto (che rinvia all'insieme del capitale, costante e variabile, investito), e non il profitto in generale, ma l'utile d'intrapresa, il profitto commerciale, l'interesse, la rendita fondiaria; non il salario come reintegrazione dei costi di riproduzione della forza lavoro, ma come suo prezzo di mercato e come «reddito» del lavoratore accanto al reddito del capitalista, del commerciante, del finanziere, del proprietario terriero; non le classi, ma i ceti sociali corrispondenti ad altrettanti tipi e «sorgenti» di reddito ‑ insomma, il paesaggio ad essi familiare dell'odierno modo di produzione e di vita associata.

Parallelamente, può nascere in loro la sensazione di aver lasciato per sempre la sfera del pensiero puro, con i suoi geroglifici astrusi e spesso ambigui, per immergersi nell'oceano a volte tempestoso, è vero, ma ben noto e, quindi, sicuramente navigabile, dell'empiria.

A smentire quest'ultima impressione basterebbe il richiamo al metodo ‑ come si è cercato di chiarire qui e altrove ‑ costantemente seguito da Marx nello sforzo non di descrivere i meccanismi della produzione capitalistica per allinearli in un museo di scienze sperimentali, ma di decifrarne le leggi di movimento (quindi anche di precipizio verso la catastrofe) per metterle a disposizione della storica lotta fra le classi; non di elencarne diligentemente le forme, ma di spiegarne e insieme denunciarne la funzione, come è solo possibile astraendo dalle accidentalità che formano il sale stesso dell'empiria.

In altre parole, la vicinanza alle manifestazioni di «superficie» del capitalismo è soltanto di ottica, non sopprime l'alterità di metodo e natura di una ricerca che non a caso pretende di sfociare nella «critica dell'economia politica» e che, a questo fine, non può non partire, ancora una volta, dall'astratto come premessa necessaria alla visione non distorta del concreto e, dopo il lungo viaggio attraverso le molte equazioni complesse del «capitale nella sua realtà», non finire per ricondurle tutte all'unica, fondamentale equazione semplice del valore‑lavoro.

Quanto all'altra e più diretta impressione, il lettore non tarderà ad accorgersi che il rigore e addirittura la «pedanteria» dell'analisi sul «movimento del capitale considerato come un tutto» non sono gli strumenti neutri ed asettici di una passione scientifica librantesi nella sua distaccata purezza al disopra della storia: sono le armi dichiaratamente «di parte» di una continua demistificazione non diciamo neppure degli ideologismi (parola troppo grossa per realtà così misere) ma dei pregiudizi e delle convenzioni di cui è intessuta la vita quotidiana degli operatori economici e dei membri, in generale, della loro classe.

Ognuna delle forme particolari che il Libro III analizza come altrettante sfaccettature delle due forme «capostipiti» che invece erano di scena nel Libro I, è infatti uno schermo dietro il quale si nascondono (ed è facile nascondere a se stessi) le realtà dei rapporti capitalistici; ognuna serve a generare e a tener viva la convinzione ‑ sistematicamente inculcata dalla classe dominante nella classe soggetta ‑ che Monsieur le Capital e Madame la Terre siano produttori di ricchezza allo stesso titolo del lavoro (non preceduto quest'ultimo da nessun titolo, neppure di cortesia), anzi ‑ come sembra suggerire l'esistenza di un «feticcio automatico» come il capitale produttivo d'interesse, questo valore autovalorizzantesi ‑ che in quelle due entità risieda una misteriosa capacità produttiva di cui la forza lavoro acquistata e messa in moto sarebbe al massimo, e neppure sempre, il veicolo inerte; ognuna è destinata a fornire una giustificazione teorica

ai rapporti di subordinazione pratica in cui, non per decreto della provvidenza e in eterno ma per determinazione materiale e nella storia, si trovano il lavoro vivo rispetto al lavoro morto, la forza lavoro rispetto al capitale, il proletariato rispetto alla borghesia, trasformandoli da brutali dati di fatto in valori morali ed ideali, eterni quanto sono caduchi gli eventi della storia, anzi (trattandosi di volgari rapporti economici e sociali) della cronaca.

E questo il leit‑motiv sempre ricorrente delle indagini sul profitto, il saggio di profitto, il capitale commerciale, l'utile di intrapresa, l'interesse, la rendita; è a questo punto di approdo che il lettore viene spinto, anticipando i tempi della ricerca nel suo graduale snodarsi, ad ogni passo del cammino da una pagina all'altra del volume; è nella demolizione degli innumerevoli feticci eretti nei templi della civiltà cosiddetta «dei lumi», che si risolve in definitiva lo studio sia dei meccanismi che delle leggi di movimento della produzione borghese. Non solo, ma crollano sotto l'impeto di questa generale offensiva le orgogliose certezze sulla missione storica dei «padroni del vapore», sul premio dovuto alla loro intelligenza, solerzia, capacità direttiva, preparazione tecnica, sul giusto compenso delle loro «fatiche» nei combinare, mettere in moto, dirigere e spingere fino a livelli mai neppure concepiti prima dei nostri giorni le forze produttive della società. A casa loro nelle pagine del III Libro, l'operatore economico e l'ideologo borghesi, o non piuttosto nelle sue rovine?

Per Marx, tuttavia, non si tratta soltanto di demolire le impalcature ideologiche, le convenzioni e i preconcetti di cui la borghesia si circonda servendosene, in economia come in politica, a copertura del proprio operato pratico. Si tratta ‑ e così avviene nel Libro III ancor più che nel resto del Capitale (come è logico, dato che qui ci si addentra nel vivo dell'intero processo di produzione, circolazione e distribuzione, e nel gioco complesso di interazioni tra le sue varie fasi e i suoi diversi elementi) ‑ si tratta di procedere, di pari passo con l'analisi dell'ingranaggio economico nelle sue parti costitutive e nella sua contraddittoria curva di sviluppo, alla individuazione delle cause interne ed oggettive di sfacelo del modo di produzione presente, contrapponendogli nello stesso tempo un altro modo di produzione le cui premesse materiali sono già contenute nel suo seno e attendono solo l'intervento di una forza «levatrice della storia» per essere trasformate negli assi portanti di un nuovo e superiore assetto della convivenza umana; un modo di produzione non soltanto diverso, ma antitetico. Se così non fosse, il Capitale non avrebbe nessun titolo per rappresentare, come scriveva Engels, «la Bibbia della classe operaia»; sarebbe, né più né meno, un comune trattato di economia.

Nelle brevi pagine introduttive alla traduzione italiana del Libro II, si è ricordato come, secondo Marx, «la possibilità generale della crisi a sia implicita già nella forma più semplice di compravendita delle merci, anzi nella merce stessa in quanto unità di valore d'uso e valore; il che è quanto dire che il capitalismo porta in sé fin dalla nascita la propria condanna a morte. E però necessaria tutta una serie di anelli intermedi per giungere da questa possibilità astratta alla realtà delle «crisi del mercato mondiale » in quanto «concentrazione reale e compensazione violenta di tutte le contraddizioni della economia borghese».

Ora tutti e due questi aspetti sono fra i temi dominanti del Libro III. Alcuni di quegli anelli formano, ad esempio, il filo rosso delle sezioni dalla III alla V, in particolare nelle pagine di quest'ultima in cui, sia pure in una sintesi concentratissima, si illustra il doppio ruolo del sistema creditizio come forza insieme propulsiva e dissolvente del processo di produzione e riproduzione del capitale, come fattore ad un tempo della potenza della sua espansione e della fragilità dei suoi equilibrii e come dimostrazione tangibile della sua natura essenzialmente critica ‑ sempre in potentia e periodicamente in actu. Altri anelli della catena ricorrono sparsi via via che la trattazione si svolge, recando ulteriore conferma del carattere per definizione anti‑armonico del capitalismo. Lo sbocco, cioè la crisi generale del «sistema», si annuncia, a sua volta, precipuamente in quella caduta tendenziale del saggio di profitto nella cui analisi ed esegesi culminano le due prime sezioni del Libro III, dove esplodono tutte insieme le profonde contraddizioni del sistema, massima quella per cui si ha crisi di sovraproduzione non perché si producano mezzi di sussistenza in eccesso rispetto ai bisogni umani, o mezzi di produzione in eccesso rispetto all'esigenza di ridurre al minimo il tempo di lavoro necessario e così alleviare il «tormento di lavoro» che pesa sulla maggioranza della specie, ma se ne producono troppi perché possano «funzionare come mezzo di sfruttamento dei lavoratori a un saggio di profitto dato a. Ovvero, «si producono troppe merci per poter realizzare nelle condizioni di distribuzione e nei rapporti di consumo dati dalla produzione capitalistica il valore in esse contenuto e il plusvalore ivi racchiuso, e riconvertirli in nuovo capitale, cioè per poter compiere questo processo senza esplosioni periodicamente ricorrenti a; il che è quanto dire che le crisi appartengono non alla patologia ma alla fisiologia del capitalismo.

Analogamente, se uno dei fili conduttori dei due primi libri del Capitale è la denuncia ‑ in base non a precetti morali e a paradigmi filosofici o religiosi, ma al nudo e crudo linguaggio dei fatti materiali ‑ della natura intrinsecamente disumana, irrazionale, dilapidatrice e distruttiva del capitalismo, a che cosa approda, tanto per fare un esempio, il capitolo V del presente volume, se non alla riprova del fatto che la produzione capitalistica, tanto «parsimoniosa in lavoro materializzato in merci», è invece «prodiga di uomini, di lavoro vivo, e dilapidatrice non solo di carne e sangue, ma di nervi e cervello, assai più di qualunque altro modo di produzione»? E a che cosa (per citare un tema più vasto) l'intera sezione VI sulla rendita fondiaria, se non alla dimostrazione (spesso fornita attraverso calcoli complicati che il lettore distratto può essere indotto a scambiare per esercitazioni puramente cerebrali ed accademiche) che in regime capitalistico l'agricoltura, quindi la base stessa della sopravvivenza umana, è condannata non solo alla cronica assenza di uno sviluppo razionale, ma ad una decadenza irrimediabile, ad uno sperpero sempre crescente delle sue risorse; e che quanto più si estende il raggio della sua diffusione sul pianeta, quanto più la scienza e la tecnica applicate alla coltivazione del suolo ne esaltano la forza produttiva, tanto più ‑ inversamente a quanto si verifica nell'industria ‑ il prezzo dei suoi prodotti e particolarmente delle derrate alimentari sale, e, lungi dal diminuire, la fame che la filantropia borghese vaneggia di poter sconfiggere «nel mondo» inesorabilmente cresce?

E, per restare in argomento, a che cosa mira la puntigliosa elencazione dei molteplici casi e sottocasi di rendita differenziale Il nel capitolo XLIII ad opera di Engels, ma a completamento delle indagini di Marx, se non alla dimostrazione che «il gigantesco tributo versato dalla società alla proprietà fondiaria sotto forma di sovraprofitti» è destinato non a diminuire ma a crescere, quanto più si sviluppa il modo di produzione capitalistico, con la sua «civiltà superiore»?

Ma appunto da questa constatazione di fatti e tendenze materiali scaturisce, per Marx, insieme e al di là della condanna del modo di produzione presente e delle sue sovrastrutture, l'ulteriore riconoscimento della necessità che esso ceda il posto a un modo di produzione di segno contrario, non piovuto dal cielo ma preparato dalla stessa dinamica di evoluzione del capitalismo, e nel quale non solo la terra (come si legge in una delle pagine più vibranti del Libro III) ma l'intera dotazione di risorse, di beni materali e immateriali accumulati dal lavoro in una storia millenaria di sudore, lacrime e sangue, venga amministrata «dai suoi usufruttuari e trasmessa, come boni patres familias, alle generazioni successive», arricchita e migliorata dall'apporto collettivo di «tutte le società di una stessa epoca» e di tutti gli individui idonei al lavoro di cui esse si compongono, infine armonicamente cooperanti nell'impegno comune non già di «valorizzare il capitale», ma di assicurare nelle condizioni migliori «la conservazione e lo sviluppo della vita».

Soltanto allora ‑ si legge in uno dei capitoli conclusivi del Libro III ‑, realizzata la sola libertà consentita nell'ambito dell'incessante lotta con le forze naturali, e consistente «in ciò, che l'uomo socializzato, i produttori associati, regolino razionalmente il loro ricambio organico con la natura, lo sottopongano al loro comune controllo, invece di esserne dominati come da una forza cieca», soltanto allora si aprirà al genere umano e il vero regno della libertà a, il regno di quel libero e pieno «sviluppo delle capacità umane» che «è fine a se stesso», e la cui fondamentale condizione è «la riduzione della giornata lavorativa», oggi assurdamente prolungata oltre misura nonostante la possibilità tecnica da gran tempo raggiunta di comprimerla fino a un minimo assoluto.