All'indomani della rivoluzione francese, la Germania era uno stato sottosviluppato. Quella che con una espressione corrente dell'epoca veniva definita la «miseria» tedesca era evidente se paragonata alla situazione della Francia, la cui economia stava passando dall'agricoltura alla manifattura, o ancor più a quella dell'Inghilterra, che entrava già nello stadio industriale. La Germania - a quel tempo null'altro che una espressione geografica con cui si usava indicare un gruppo di stati con una lingua comune e una comune appartenenza, in passato, al Sacro Romano Impero - era ancora in gran parte uno stato rurale: i tre quarti della sua popolazione, ventitre milioni di persone, vivevano unicamente sull'agricoltura. L'elemento caratterizzante dell'economia tedesca durante il trentennio che va dalla sconfitta di Napoleone alla rivoluzione del 1848 fu una rapida ascesa alla condizione di potenza industriale, uno sviluppo realizzato mediante l'imposizione ferrea di un'economia di mercato su una società rurale.
In Prussia, la vecchia struttura feudale della proprietà terriera veniva profondamente intaccata da tre riforme: nell'ottobre del 1807, il ministro degli Interni di Federico Guglielmo III, barone von Stein, aboliva il veto relativo alla compravendita della terra ed eliminava la figura sociale del servo della gleba, nonostante i contadini continuassero ad essere debitori di tributi e servizi ai loro padroni; nel 18 11, il ministro prussiano Hardenberg presentava un'altra riforma con cui i contadini, per poter diventare indipendenti, dovevano cedere parte della propria terra ai grossi latifondisti; nel 1821, infine, una legge consentiva ai contadini di saldare i tributi di cui erano ancora debitori a un prezzo medio venticinque volte più alto del loro valore annuo. Le conseguenze di queste riforme furono di grande portata: l'agricoltura prussiana fu razionalizzata e le proprietà si ingrandirono notevolmente; tra il 1815 e il 1848 la superficie delle tenute di piccole e medie proporzioni diminuì del 40 per cento, con un passaggio di terreni nelle mani dei grossi proprietari fondiari per un milione di ettari. Questi ultimi diedero inizio allo sfruttamento economico della terra, cosa mai fatta prima d'allora, e rispetto allo sviluppo economico si allinearono sempre di più sulle posizioni della borghesia. Una volta acquisita la libertà di matrimonio e di domicilio, gli ex servi della gleba poterono scegliere se rimanere a fare i braccianti nelle grandi proprietà terriere, o raggiungere le città e infoltire il proletariato allora nascente.
All'inizio del XIX secolo i prodotti tessili erano gli unici manufatti tedeschi diffusi su larga scala, grazie al blocco continentale decretato nel corso delle guerre napoleoniche. Venuti a mancare questi presupposti, la Germania fu invasa dai tessuti inglesi a buon mercato che rischiarono di mandare in rovina le manifatture allora esistenti. Queste si videro così costrette a rimodernarsi o a chiudere, e ci misero quindici anni per riprendersi.
L'occupazione napoleonica e le diverse leggi che questa impose comportarono un certo squilibrio nello sviluppo economico degli stati tedeschi. La punta di diamante dell'evoluzione industriale fu senz'altro la Renania-Vestfalia, quella terra natale di Marx che, annessa alla Francia dal 1795 al 1814, aveva beneficiato di riforme economiche, amministrative e politiche. Con la divisione dei cento e otto piccoli stati in quattro regioni, l'organizzazione feudale cessò di esistere e venne sancita l'eguaglianza politica, giuridica e fiscale. Le corporazioni e le barriere doganali furono eliminate, si incominciò ad esportare in Francia, e i produttori vennero protetti dalla concorrenza inglese. L'espansione fu così massiccia che nel i810 il prefetto della Ruhr poteva affermare a buon diritto di essere a capo della regione più industrializzata d'Europa. L'industria tessile fu alla testa di questo sviluppo, in quanto non necessitava di grandi investimenti di capitali e poteva contare sull'abbondanza di manodopera non specializzata. Dopo la soppressione del blocco continentale, di fronte alla necessità di una rapida ristrutturazione delle aziende, al lino si preferì una fibra più facile da lavorare a macchina come il cotone. Un altro risultato dell'occupazione consistette nella profonda simpatia per la Francia e le idee francesi da parte della popolazione renana che, nel 1815, non accettò di buon grado la decisione del Congresso di Vienna di riannetterla alla Prussia, a quel tempo povera e lacerata dalla guerra; questa antipatia venne superata solo gradualmente con la ripresa economica della Prussia intorno al 1830.
Nel complesso, la produzione industriale tedesca era ancora ridotta rispetto a quella francese o inglese, ma il ritmo di crescita era sbalorditivo: la produzione mineraria aumentò del 50 per cento circa nel primo trentennio del secolo, per poi raddoppiare tra il 1830 e il 1842; quella metallurgica triplicò, mentre nel decennio 1830-40 quella dei beni di consumo aumentò di otto volte rispetto al periodo i800-10. Ma si dovette attendere fino al 1834, quando i diciotto stati diedero vita allo Zollverein (unione doganale), per assistere ad un processo di espansione eccezionalmente rapido. Lo sviluppo della produzione della macchina a vapore fu lento fino intorno al 1830, e nel '31 il ritardo rispetto all'Inghilterra era ancora di cinquant'anni; fino al 1835 circa le acciaierie Krupp non diedero un particolare impulso alla loro attività, che si espanse particolarmente in concomitanza col boom delle ferrovie: in Germania, la posa della prima rotaia avvenne nel 1835, mentre nel 1847 l'estensione della rete ferroviaria ammontava a duecentocinquanta chilometri. La produzione del ferro passò da 134 000 tonnellate nel 1934 a 170 000 nel 1841, l'importazione del cotone aumentò da 187 000 tonnellate nel 1836 a 446 000 nel 1845, mentre nel periodo 1837-48 il numero delle macchine a vapore triplicò.
Lo sviluppo industriale avanzò di pari passo con un'esplosione demografica che nella regione registrò un aumento del 50 per cento tra il 1815 e il 1855, e interessò in modo radicale le strutture socioeconomiche del paese. Di solito l'incidenza si rivelava maggiore nelle zone rurali orientali piuttosto che in quelle occidentali, in parte per l'attenuazione delle restrizioni che regolavano l'età matrimoniale, in parte per l'aumento stesso della coltivazione della patata che permetteva di sfamare famiglie più numerose. L'esplosione demografica riguardò anche i bacini industriali della Renania-Vestfalia, la valle del Meno e la Sassonia, e questo per l'impossibilità di limitare l'insediamento delle famiglie degli operai, e, in un secondo tempo, per l'affluenza di nuovi immigrati dalla campagna circostante. In Germania la sottooccupazione cronica iniziò nelle zone agricole che non riuscivano a stare al passo con l'aumento demografico; solo più tardi si pensò di trasferire questa eccedenza nelle città. In pari tempo, si registrò anche un grande flusso di emigrazione verso altri paesi europei o in America – 750.000 persone nel trentennio che precede il 1848.
Il fatto, quindi, che proprio in quegli anni si assistesse a un tale sviluppo è dovuto in parte alle precedenti riforme agricole, all'esplosione demografica, e alla quantità di manodopera allora disponibile a basso costo; in parte a quelle industrie tedesche che, sopravvissute ai colpi della concorrenza straniera, potevano ora rifiorire liberamente; in parte alla riforma del sistema doganale che contribuì non poco a favorire il commercio; da ultimo, al fatto che intorno al '30 la generazione più giovane degli uomini d'affari consisteva di persone che avevano fruito di un'istruzione tecnica e dell'opportunità di viaggiare ampiamente sia in patria sia all'estero: emancipati dalle credenze tradizionali, erano i soli in grado di comprendere appieno la potenzialità dell'esplosione demografica.
Questo sviluppo industriale, favorito dalla crisi rurale e dall'aumento della popolazione, ponendo la fabbrica come unità di produzione, comportò necessariamente molti cambiamenti nella struttura sociale. I grandi latifondisti, che sfruttavano le loro tenute secondo le leggi di mercato, continuavano a mantenere certi privilegi feudali: erano esenti dal pagamento delle imposte sul patrimonio, avevano la loro polizia e i loro tribunali, godevano della protezione ecclesiastica e dominavano i parlamenti provinciali. Sebbene non tutti di nobili origini, essi riuscirono comunque ad accumulare delle fortune che, di solito, erano il frutto di speculazioni maturate con il prestigio della tradizione; e per quanto tendessero a perdere controllo sull'amministrazione delle città, ricoprivano ancora le cariche civili e militari più elevate.
I beneficiari effettivi dello sviluppo industriale furono i borghesi: favoriti dalla legislazione napoleonica, si trasformarono da grandi mercanti in industriali e imprenditori. Erano momenti difficili - in particolare dopo le guerre di liberazione - e la necessità di concentrarsi sul proprio interesse economico spiega in parte il loro lentissimo processo di acquisizione di una coscienza politica. Inoltre, a differenza della borghesia francese prima della rivoluzione del 1789, il tedesco medio era fortemente pietista; una zona tipica era la valle del Wupper, dove fu allevato Engels. Qui, lo spirito calvinista conferiva un rigido senso della gerarchia e del dovere di accrescere la ricchezza da Dio concessa per Sua maggiore gloria. L'eccezione era costituita dalla borghesia renana che, a causa della sua industria già progredita e dall'influenza francese, incominciava a richiedere una rappresentanza più consistente al parlamento provinciale, una libertà di espressione maggiore, e più solide garanzie legali.
Molto più numerosi dei borghesi erano gli artigiani, la cui posizione sociale era maggiormente minacciata dallo sviluppo economico; con il termine di «artigiano» in senso stretto si intendeva un mastro artigiano che lavorava nella propria abitazione e impiegava dei «compagni». Nell'organizzazione originaria del lavoro, il mercante affidava a ognuno dei suoi artigiani l'intero processo produttivo. Poi si passò alla manifattura, cioè alla divisione del lavoro ; in certi casi gli attrezzi appartenevano al proprietario dell'azienda, e allora l'indipendenza degli artigiani era ancora inferiore. Il terzo stadio consistette nell'introduzione della fabbrica, vale a dire la centralizzazione e la meccanizzazione della produzione; in questo processo gli artigiani furono gradualmente emarginati dall'industria e vennero a perdere la loro indipendenza; alcuni si misero a lavorare per i commercianti all'ingrosso, altri si videro costretti ad andare in fabbrica.
In un primo tempo, gli artigiani avevano goduto della protezione di corporazioni restrittive, di innumerevoli barriere doganali in tutta la Germania, e di circolazioni monetarie differenti nella maggior parte degli stati: la Prussia aveva sessantasette barriere doganali, mentre nelle province occidentali esistevano ben settantun valute. Nel corso degli anni '30, gli artigiani che lavoravano nell'edilizia, nella meccanica e nei beni di lusso erano benestanti, in quanto l'inizio dello sviluppo industriale aveva dato loro un mercato: ma ben presto la sua travolgente rapidità portò all'eliminazione della vitalità economica in tutti i commerci. Il numero dei compagni diminuiva, e sia fuori che all'interno delle fabbriche c'era molta agitazione: quelli che restavano erano contrari alle conseguenze del capitalismo e volevano il ripristino delle corporazioni.
I mastri artigiani si trovavano nella stessa situazione dei compagni, anzi, erano ancora phí conservatori, perché, se privati della loro posizione, avevano maggiormente da perdere nella scala sociale. Così, nel corso di quel periodo, gli artigiani erano in una posizione ambivalente: se l'abolizione delle corporazioni e la crescita delle città aveva dato a molti di loro una prosperità temporanea, l'avvento dell'industria li metteva alle dipendenze della borghesia.
L'esplosione demografica maggiore si ebbe, naturalmente, tra gli operai, con un aumento di sette volte tra il i 8oo e il 1848. Era il tempo del prolungamento del numero di ore lavorative e dell'utilizzazione di mano d'opera femminile e infantile, e se è vero che quantomeno si dava la possibilità di lavorare ai contadini senza terra e agli artigiani disoccupati, comunque la vita di un operaio non era molto remunerata. I salari continuavano a diminuire: se si adotta un coefficiente eguale a 100 per il 1800, nel 1830 si scende a 86, entro il 1848 a 74, fino a un minimo di 57 nell'anno di crisi 1847; degli studi a questo riguardo indicano come la maggioranza degli operai vivesse molto al di sotto del livello minimo di sussistenza. Eppure, questi lavoratori non erano ancora ascesi al ruolo di proletariato con una coscienza di classe; in primo luogo, per il loro numero limitato (verso il 1845 in Prussia c'erano ancora piü artigiani che operai); secondariamente, perché ogni tipo di lavoratore tendeva a rimanere radicato alla sua qualifica professionale, alle sue usanze e al suo modo di lavorare.
«Le questioni sociali» furono portate per la prima volta alla ribalta dai settori inquieti della borghesia, e sebbene incominciassero a sorgere i Bildungsvereine (circoli di studio), erano i tedeschi emigrati all'estero a possedere maggiormente una coscienza di classe.
Sebbene si possa affermare che in Germania lo sviluppo industriale non si manifestò fin dopo il 1850, che lo stato era ancora prevalentemente rurale, e che le corporazioni e gli Junkers continuavano ad esercitare un controllo considerevole sulla società, tuttavia la riforma agricola, l'aumento vertiginoso della popolazione, le società urbane sconvolte dai neoricchi e dagli artigiani disoccupati, la repentina mutevolezza e le crescenti opposizioni di classe fornirono un terreno fertile per lo sviluppo e la diffusione del dibattito politico.
In Germania, prima del 1848, le opinioni politiche non corrispondevano affatto ai gruppi socio-economici qui descritti. Inoltre, non esistevano partiti politici, e certi stati, come la Prussia, non possedevano neanche una costituzione. Ciononostante, le posizioni politiche si possono raggruppare in cinque correnti principali: il conservatorismo, il cattolicesimo politico, il liberalismo, il radicalismo, e l'allora nascente socialismo.
a) Il conservatorismo.
Il conservatorismo tedesco non fu semplicemente una reazione negativa alle forze crescenti del liberalismo e della democrazia, e neppure un movimento con lo scopo di restaurare i vecchi poteri; suo obbiettivo era di conferire alla società una specie di ordine immanente. Mentre in Inghilterra la nobiltà conservava intatta la propria influenza con il controllo sui parlamento, e in Francia non era che un rimasuglio clericale sopravvissuto alla perdita del potere nel 1789, in Germania l'aristocrazia conservatrice era potente ma disorganizzata; non aveva un partito e i suoi unici raggruppamenti erano costituiti da certi movimenti pietisti.
A capo della corrente principale del pensiero conservatore vi furono i fratelli Geriach, il filosofo politico Stahl, il teologo Hengstenberg e lo storico Leo. Uniformemente ostili a ogni genere di razionalismo, e quindi antiliberali e antidemocratici, costoro erano contrari anche al tipo di assolutismo esercitato da Federico Guglielmo Ill o da Giuseppe d'Austria, partendo dal presupposto che quella dei due sovrani era una concezione razionalista del potere; giudicavano il tutto chiaramente superiore alle sue parti, guardavano con ammirazione all'impero medievale e appoggiavano la Santa Alleanza supernazionale, ponevano l'accento sulla tradizione e la legittimità, e quindi erano degli accesi monarchici che integravano queste idee in una prospettiva organica e gerarchica, desunta dal pensiero dei filosofi politici romantici, quali Muller e Friedrich Schiegel. Di conseguenza, erano anche sostenitori risoluti dello « stato cristiano», e se favorevoli alla costituzione la volevano basata sulle vecchie divisioni di classe.
Certi conservatori con un elevato grado di coscienza sociale furono tra i primi a dirigere la propria attenzione verso i problemi sociali e la miseria delle classi meno abbienti'. Alcuni ereditarono questa capacità dallo stesso senso di responsabilità che i predecessori feudali avevano posseduto nei confronti di chi godeva della loro protezione; tra essi Victor-Aimé Huber e Lorenz von Stein, i quali sostenevano una «monarchia sociale» e invitavano il re ad aiutare le classi diseredate contro i possidenti. Federico Guglielmo IV, ad esempio, ne fu molto interessato, e diede disposizioni perché si istituissero delle organizzazioni di assistenza. Tra questi conservatori liberali vi era anche un gruppo abbastanza isolato, guidato da Ranke e Radowitz, i cui obbiettivi politici principali erano il consolidamento dell'unità della Germania e la creazione di un governo discretamente rappresentativo.
b) Il cattolicesimo politico.
Tra protestanti e cattolici non vi fu mai una differenziazione confessionale in materia di opinioni politiche fino al 1837, l'anno dell’« affare di Colonia» che risvegliò in tutta la Germania la coscienza politica cattolica. Il nuovo arcivescovo di Colonia aveva deciso di far osservare quel trascurato editto papale sui matrimoni misti in cui si richiedeva a entrambi i genitori la promessa di allevare i figli nel cattolicesimo; poiché questo era in netto contrasto con l'editto reale del 1825, non avendo altre alternative il re fece arrestare l'arcivescovo, il quale riusci in tal modo a fare la parte del martire. L'avvenimento rese compatta l'opposizione cattolica nei confronti del governo; alla fine, quando nel 1840 Federico Guglielmo IV salì al trono, l'alto prelato venne scarcerato. Il fatto che era stato il governo prussiano a dover cedere diede ai cattolici una sensazione di trionfo e contribuì alla ripresa dello spirito ultramontano. Ma il risveglio cattolico non fu di tipo liberale, come in Francia e in Belgio, in quanto i suoi sostenitori erano degli antidemocratici romantici che, nella certezza della divina fondazione della chiesa come strumento di salvezza eterna e quindi al di fuori di ogni subordinazione rispetto allo stato, condividevano solo in questo senso la tesi liberale della separazione tra stato e chiesa, ed erano favorevoli alla libertà di espressione, di informazione e di assemblea finalizzate però in questa prospettiva.
Tuttavia, la maggioranza dei cattolici con delle opinioni politiche era profondamente conservatrice e auspicava l'avvento di una monarchia cristiana in cui la chiesa, libera in materia disciplinare e d'insegnamento, impregnasse lo stato con la forza dei suoi precetti morali. Questi cattolici non tendevano alla restaurazione del vecchio potere secolare della chiesa, ma volevano il riconoscimento pubblico e la garanzia della posizione della chiesa in merito alla sua efficacia spirituale; e questo comportava l'accettazione ufficiale del matrimonio cristiano come istituzione fondamentale dello stato e la condanna dei matrimoni misti. Inoltre, ritenevano che anche l'istruzione fosse di competenza della chiesa: a quell'epoca, le scuole laiche venivano guardate con grande sospetto. Per le questioni strettamente politiche, tra i cattolici non c'era molta unità, sebbene la maggior parte dei fedeli più impegnati provenisse dall'aristocrazia della Slesia e della Germania meridionale e occidentale. A ogni concezione sulla libertà individuale, i loro filosofi Baader e Jarcke opponevano una organica filosofia dello stato; erano favorevoli alla rappresentanza per classi, e l'idea della restaurazione del vecchio impero e dei suoi ordinamenti esercitava un forte ascendente su di loro.
Il gruppo principale dei cattolici politici si formò intorno a Joseph Görres che, seguace di Kant ed entusiasta dei principi della rivoluzione francese in gioventù, negli anni '30 diventò il portavoce del partito cattolico guadagnandosi una grande influenza con la pubblicazione di certi opuscoli, di cui il pili diffuso fu l'Athanasius dove si appoggiava la posizione della chiesa in merito all'«affare di Colonia». Altri membri erano Baader, Jarcke e Dollinger, divenuto poi famoso per essersi opposto ai decreti del Concilio vaticano. Tra la borghesia renana si diffuse anche una specie di cattolicesimo politicamente liberale che non escludeva i principi della rivoluzione francese; e intorno a Buss e al vescovo von Ketteler si formò un terzo gruppo, interessato alle questioni sociali, che auspicava una specie di «stato sociale». In ogni caso, queste due ultime correnti avevano un'importanza relativa.
c) Il liberalismo.
Il desiderio della borghesia commerciale di avere maggiore voce in capitolo nel processo decisionale diede vigore alle varie correnti del pensiero liberale.
Si possono distinguere due posizioni principali.
Le concezioni della prima e più conservatrice, il cui teorico più autorevole fu Dahlmann, avevano parecchie affinità con le teorie dei sostenitori dello stato organico e conservatore. Per questo gruppo, l'individuo non era un atomo isolato e privo di collegamenti con i propri simili, ma ricopriva il ruolo di membro libero e responsabile di una società. Lo stato era una persona giuridica e in esso, in quanto tale, risiedeva la sovranità. Questi liberali rifiutavano in egual misura la tesi della sovranità regia e quella della sovranità popolare e sostenevano che solo la sovranità statale avrebbe potuto garantire quella libertà individuale che poteva essere facilmente danneggiata, se non distrutta, dalla prevalenza del potere regio o di quello popolare. Naturalmente, il potere statale non era illimitato, essendo vincolato da un equilibrio di poteri e da una costituzione scritta. Inoltre, ogni cittadino fruiva di una duplice condizione: i suoi diritti e doveri come individuo non potevano essere in contrasto con i diritti congeniti che possedeva come cittadino. In questo caso, il liberalismo dell'Inghilterra era preso a modello molto più di quello della Francia, in quanto lo sviluppo inglese sembrava organico, meno artificiale, e quindi attirava gli uomini dotati di una visione storicistica ed evolutiva della politica. I liberali tedeschi, più conservatori, erano contrari a un sistema di tipo parlamentare e auspicavano una monarchia costituzionale con una equa ripartizione del potere tra monarca ereditario e rappresentanti del popolo debitamente eletti. Il potere esecutivo sarebbe stato di pertinenza dei ministri di nomina regia, responsabili di fronte al Parlamento, ma non sottoposti ad esso. Queste concezioni erano molto radicate nella Germania settentrionale, diffuse com'erano dai Giovani hegeliani liberali come Strauss e Rosenkranz, e in special modo in Renania dove uomini d'affari come Camphausen e Mevissen lottavano strenuamente per salvaguardare il Codice civile e il principio dell'uguaglianza di tutti i cittadini davanti alla legge. Questa forma d'impegno servi a mantenere vivo in Renania uno spirito di autonomia e di avversione di fronte alla politica religiosa e all'assolutismo semifeudale della Prussia.
In Prussia orientale, una parte dell'aristocrazia, spinta dall'incapacità della burocrazia statale ad affrontare i problemi dei mercati agricoli in diminuzione e della miseria rurale in aumento, appoggiò un movimento liberale che ebbe il suo centro nella città di Konigsberg, dove aveva vissuto e insegnato Kant. Il presidente della Prussia orientale, von Schön, scrisse un volumetto in cui si poneva in evidenza il fatto che gli Stati generali appartenevano ai diritti fondamentali di ogni paese, mentre il dottor Johann Jacoby fu accusato di alto tradimento per aver pubblicato un'opera in cui chiedeva al re di accordare la costituzione promessa.
L'altra posizione principale del pensiero liberale si rifaceva in primo luogo alla libertà individuale e subiva l'ascendente dei liberali francesi come Benjamin Constant che, dopo aver lottato contro la restaurazione borbonica, aveva conosciuto la vittoria nella rivoluzione di luglio. Questa corrente era orientata verso la Francia e i principi del 1789: lo statista del Baden, Rotteck, fu un tipico esempio di questi liberali particolarmente numerosi in Occidente, in stati (come il Baden) dove esisteva già un parlamento e si poteva discutere tranquillamente di politica; essi stimavano molto Rousseau e Montesquieu, davano un'importanza fondamentale alla sovranità parlamentare, e auspicavano una monarchia sui genere di quelle «borghesi» della Francia e del Belgio.
ci) Il radicalismo.
Se il liberalismo, col suo programma pratico e ben definito - avere voce in capitolo nel governo del paese -, poteva contare su un grande sostegno (quantomeno tacito) in ampi strati della popolazione, la circolazione delle idee radicali rimase invece limitata a gruppi di intellettuali, di cui il più importante fu quello dei Giovani hegeliani. A parte la diffusione delle composizioni poetiche di Hoflmann von Fallersleben, Freiligrath e Herwegh, e l'adesione a movimenti d'opposizione all'interno delle istituzioni ecclesiastiche come il protestante Lichtfreunde o il cattolico Deutschkatholizismus, il radicalismo non godeva di una solida base popolare. I liberali non avevano un atteggiamento di rifiuto sistematico delle proposte del governo e tenevano in gran conto la legalità; disprezzavano profondamente l'anticonformismo e il settarismo; loro scopo era modificare, e non distruggere, il sistema monarchico: Rotteck e i liberali del Baden erano contrari a votare in parlamento e volevano che tutte le decisioni fossero prese all'unanimità. I radicali, invece, erano dei rivoluzionari ante litteram e accettavano pochissimi compromessi nella loro difesa della sovranità popolare, del suffragio universale e persino dell'istituzione repubblicana.
Il punto centrale del radicalismo era la sovranità popolare, la cui interpretazione si ispirava ovviamente alla dottrina di Rousseau secondo cui la volontà generale è onnipresente e onnipotente, ed è dal popolo che traggono origine i tre poteri dello stato legislativo, esecutivo e giudiziario. Lontani dalle considerazioni storicistiche ed evolutive dei liberali, i radicali erano per una democrazia nazionale in uno stato unico e indivisibile; e poiché questo comportava il concetto di repubblica, osteggiavano incondizionatamente qualsiasi forma monarchica. Come i liberali, invocavano l'elezione di un parlamento nazionale e insistevano sulla unicameralità dell'istituzione, diretta emanazione dell'unicità della volontà popolare; il governo doveva essere un comitato esecutivo di questo parlamento cui però sarebbe stato subordinato; si rifiutava inoltre qualsiasi ipotesi di controlli ed equilibri; la partecipazione di tutti i cittadini al governo del paese sarebbe stata l'unica garanzia di libertà. Da queste enunciazioni emergeva una concezione dell'uguaglianza fondamentalmente diversa da quella dei liberali: quando questi parlavano di «popolo» non intendevano la totalità degli individui dello stato, e lo stesso Rotteck era ben lungi dal proclamarsi contro la « disuguaglianza naturale e reale dell'influenza politica a seconda del diverso talento, peso morale e ricchezza degli uomini». I radicali, invece, negavano recisamente la disuguaglianza di classe come fatto naturale e razionale, e cercavano di compensarla con la parità di diritti politici; il suffragio universale veniva perciò considerato l'elemento portante per una costituzione giusta e razionale.
Questo radicalismo, che non si separò dal liberalismo se non in modo graduale, e con cui non arrivò a una rottura definitiva fino agli inizi degli anni '40, aveva destato una enorme impressione di forza nel corso delle manifestazioni che in Germania avevano seguito la rivoluzione di luglio in Francia. Nel 1831, ci fu un coup di breve durata progettato da elementi radicali di Gottinga; nel 1832, a una dimostrazione politica di massa indetta a Hambach nel Palatinato per condannare la soppressione della associazione Johann With per la libertà di stampa, parteciparono trentamila persone, di cui molte ostentavano i colori nero, rosso e oro delle Burschenschaften (organizzazioni studentesche radicali) ormai fuorilegge; nel 1833, si arrivò persino a un attacco contro la città di Francoforte.
Nel 1832, queste manifestazioni indussero il cancelliere austriaco Metternich a introdurre nella dieta federale i sei articoli che ribadivano il potere assoluto dei principi, al cui governo i parlamenti non avevano diritto di porre ostacoli. I sei articoli riaffermavano altresì la censura, mentre leggi successive vietavano di fondare associazioni politiche e di indire riunioni pubbliche se non sotto stretta sorveglianza. Il fallimento delle dimostrazioni politiche spontanee dei radicali determinò fin d'allora i settori cui si sarebbe dovuta limitare l'attività dell'opposizione interna in Germania: quello letterario e quello religioso. In letteratura, l'inizio fu dato dal movimento Nuova Germania fortemente influenzato dalle teorie di Saint-Simon, con a capo Karl Gutzkow e Heinrich Heine , il più famoso scrittore del gruppo. A partire dalla questione della religione, i discepoli radicali di Hegel, tra cui Karl Marx, sferrarono un attacco alla sintesi religiosa e filosofica del maestro; ben presto il movimento assunse caratteri politici: alcuni membri abbandonarono la Germania per aderire alle associazioni radicali degli emigrati tedeschi che incominciavano a sorgere in Francia, Belgio e Svizzera, immediatamente dopo le misure repressive di Metternich. In questi paesi, le idee socialiste incominciavano già a propagarsi.
e) Il socialismo.
In Germania, non fu la classe operaia a dare l'avvio alle idee socialiste; il paese era in pieno processo di industrializzazione e gli operai costituivano quasi la maggioranza della popolazione, ma non erano abbastanza organizzati né rivoluzionari, anzi, provavano un senso di nostalgia per il passato. Così, le teorie socialiste vennero diffuse da quei settori della élite intellettuale che nelle masse proletarie vedevano un possibile strumento di rinnovamento sociale.
II socialismo utopistico francese aveva incominciato a influenzare il mondo germanico negli anni '30; nella stessa Treviri (città natale di Marx), Ludwig Gall diffondeva le idee fourieriste, mentre a Berlino l'attività poetica di Heine e le conferenze di Gans si rivolgevano a un pubblico più vasto. Il primo volume scritto da un comunista tedesco fu La sacra storia dell'umanità [Die heilige Geschichte der Menschheit], di quel Moses Hess che aveva conosciuto il comunismo dopo la fuga a Parigi da Colonia, dove il padre dirigeva una fabbrica. Il libro, nonostante il suo carattere mistico e tortuoso, esprimeva con una certa chiarezza il concetto della polarizzazione delle classi e dell'imminenza di una rivoluzione proletaria. L'anno successivo, il sarto Wilhelm Weitling, membro attivo dell'associazione degli operai tedeschi espatriati a Parigi e in Svizzera, pubblicò un volumetto dal titolo L'umanità come è e come dovrebbe essere [Die Menschheit, wie sie ist und wie sie sein sollte], un'opera messianica a difesa del diritto universale all'istruzione e alla felicità mediante l'uguaglianza sociale e la giustizia, e contro i ricchi e i potenti della terra che sono la causa di tutte le disuguaglianze e di tutte le ingiustizie. Ma il testo che contribuì maggiormente alla diffusione del pensiero socialista fu l'inchiesta di Lorenz von Stein dal titolo Il socialismo e il comunismo nella Francia contemporanea [Der Sozialismus und Kommunismus des heutigen Frankreichs]. All'inizio degli anni '40, alcuni discepoli radicali di Hegel, seguendo l'interpretazione umanistica della filosofia hegeliana proposta da Feuerbach progettarono un socialismo basato sulla concezione dell'uomo come «essere appartenente alla specie».
a) I principi del 1789.
Sia i liberali come Rotteck sia i socialisti molto dovettero ai pensatori della Francia del XVIII secolo - Voltaire, Diderot, Condillac, Helvétius e Rousseau. Profondamente razionalisti, convinti che la forza della ragione potesse spiegare e migliorare il mondo, essi mescolavano il razionalismo dogmatico dei metafisici classici come Leibniz con l'empirismo britannico di Locke e Hume. Erano sicuri di poter dimostrare che per natura gli uomini sono tutti buoni e razionali allo stesso modo, e che la causa prima della miseria umana è l'ignoranza; essa trae origine in parte da circostanze materiali sfortunate, in parte dalla soppressione o dalla mistificazione deliberata della verità ad opera dell'autorità - sia essa civile o religiosa - il cui ovvio interesse è di perpetuare gli inganni che opprimono l'umanità. Uno degli strumenti principali per eliminare questo stato di cose era l'istruzione, un altro il cambiamento delle condizioni ambientali. La maggior parte dei curatori della Enciclopedia concordava in una certa misura con la concezione deterministica elaborata dal materialista La Mettrie nel suo L'uomo macchina [L'homme machine]. Eppure i materialisti francesi ponevano soprattutto l'accento sulla ragione, sull'autocoscienza e sulla capacità di plasmare il futuro come caratteristiche di differenziazione tra l'uomo e la bestia; e intendevano fare per la vita sociale quello che Kepler o Newton avevano fatto per la fisica. Il più eminente fra i promotori di questa crociata per l'indagine libera e razionale in campo individuale e sociale fu Voltaire, la cui abilità propagandistica contribuì alla diffusione del nuovo pensiero. Anche Rousseau, sebbene le sue idee fossero fondamentalmente diverse da quelle dei radicali a lui contemporanei, fece causa comune con gli innovatori quando si trattò di opporsi all'ancien régime. Nell'insieme, il suo linguaggio era piuttosto emotivo e alla volontà assegnava un ruolo uguale, se non superiore, a quello della ragione; spesso, questa indeterminatezza mistica si aggiungeva all'attenzione che sapeva attrarre su di sé, e lo si citava per sostenere delle teorie incompatibili: da lui Kant derivò un approccio individualistico all'analisi politica, mentre i discepoli di Hegel lo definirono un sostenitore dello stato trascendentale
b) Hegel.
Nel frattempo, in Germania, dove la rivoluzione francese fu accolta con entusiasmo, fu soprattutto Kant a dare a questi principi una base filosofica e a radicalizzare la lotta contro la religione dogmatica accentuando quel valore della ragione umana che era già stato sottolineato da letterati quali il Lessing. Per Kant, la ragione umana era limitata al mondo dei fenomeni e le cose in se stesse erano al di fuori della sua capacità di comprensione; ma la ragione era libera di scoprire il mondo dell'esperienza e le sue leggi. La filosofia morale di Kant si basava sulla autonomia della coscienza individuale come fonte del dovere, e quindi, nonostante la reintroduzione di Dio, della libertà e dell'immortalità come ipotesi legittime, il suo accento sulla centralità della ragione umana si poneva nella stessa direzione di quello dei materialisti francesi.
La discussione sui problemi della conoscenza sollevati da Kant fu portata avanti da Fichte e Schelling. Il primo trovò l'unità fondamentale dell'essere, una ambizione di tutti gli idealisti, nella creatività della mente umana, una creatività che comprendeva l'insieme del mondo oggettivo. Anche Schelling pose l'accento sulla supremazia dello spirito, e descrisse con l'esempio dell'opera d'arte l'evoluzione dalla natura allo spirito, il quale a sua volta poi permeava la natura al punto da diventarne inscindibile. Oltre a questo tipo di ricerca di un principio singolo a partire dal quale fosse possibile spiegare tutto, gli idealisti tedeschi si preoccupavano di rifiutare qualsiasi trascendenza e ritenevano che il principio regolatore del mondo fosse immanente al mondo stesso. In terzo luogo, per una effettiva comprensione del mondo consideravano fondamentali i concetti di sviluppo e di cambiamento; infine, nella contraddizione e nell'opposizione vedevano l'origine di tutte le trasformazioni.
Il merito maggiore di Hegel fu di saper cogliere questo coacervo di argomentazioni e riunirle in un sistema articolato. Hegel era svevo, nacque a Stoccarda nel 1770, l'anno in cui Kant iniziò la propria docenza a Königsberg, e per cinque anni studiò teologia all'università di Tubinga per poi diventare precettore; intanto sviluppava il proprio pensiero in parecchi scritti di una certa ampiezza, di cui la maggior parte conobbe le stampe solo nel 1907. Un'eredità gli permise di raggiungere Schelling, suo vecchio compagno di scuola, all'università di Jena, ma dopo breve tempo incominciò ad allontanarsi dalle teorie di quest'ultimo, giudicate incerte e romantiche. La rottura diventò definitiva nel 1807, con la pubblicazione dell'opera principale e più autorevole di Hegel: Fenomenologia dello spirito [Pbanomenologie des Geistes]. La vittoria di Napoleone a Jena in quello stesso anno privò Hegel della fonte di sussistenza materiale, costringendolo a fare il direttore di una scuola elementare di Norimberga: in quel periodo, scrisse la sua seconda opera principale: Scienza della logica [Wissenschaft der Logik]. Nel 1816, ottenne una cattedra di filosofia a Heidelberg, nel 1818 accettò la cattedra di filosofia a Berlino dove rimase fino alla morte, avvenuta nel 1831. Nel periodo di permanenza a Berlino, pubblicò la sua opera politica più importante: Lineamenti di filosofia del diritto [Grundlinien der Philosophie des Rechts]; dopo la morte, fu data alle stampe una raccolta delle sue lezioni a cura dei discepoli.
Come scrisse Engels, la «filosofia tedesca moderna trovò la sua conclusione nel sistema hegeliano, nel quale, per la prima volta, e questo è il suo grande merito, tutto quanto il mondo naturale, storico e spirituale venne presentato come un processo, cioè in un movimento, in un cangiamento, in una trasformazione, in uno sviluppo che mai hanno tregua, e fu fatto il tentativo di dimostrare il nesso intimo esistente in questo movimento e in questo sviluppo». Hegel parte dalla convinzione che, come disse a proposito della rivoluzione francese, «il centro dell'esistenza dell'uomo sta nella sua testa, cioè nella ragione, con l'ispirazione della quale costruisce il mondo della realtà». Nella sua opera maggiore, la Fenomenologia dello spirito, Hegel traccia lo sviluppo della ragione o spirito, introducendo nuovamente nella filosofia il movimento storico, e sostenendo che la mente umana può raggiungere il sapere assoluto. Egli considera lo sviluppo della coscienza umana, dalla percezione immediata del qui e dell'ora al grado dell'autocoscienza, quella condizione razionale che permette all'uomo di analizzare il mondo e di regolare conformemente le proprie azioni. Successivamente, si passa allo stadio della ragione stessa, la comprensione del reale, dopo la quale lo spirito, mediante la religione e l'arte, raggiunge il sapere assoluto, il livello a cui l'uomo riconosce nel mondo gli stadi della propria ragione. Questi stadi vengono definiti «alienazioni», in quanto creazioni della mente umana ritenute però indipendenti da essa e ad essa superiori. Il sapere assoluto è contemporaneamente una specie di sintesi dello spirito umano, poiché ogni stadio successivo conserva gli elementi di quelli che precedono ma va anche oltre il loro contenuto.
Hegel chiama questo movimento che sopprime e che conserva Aufhebung, un vocabolo che in tedesco ha questa ambivalenza. Egli introdusse anche il concetto di «potenza del negativo», pensando ad una tensione continua tra la determinazione attuale di una realtà e ciò che essa sta per diventare; la determinazione attuale di una qualunque realtà, infatti, attraversa un processo di negazione di sé e di trasformazione in qualche cosa di diverso. Questo processo è ciò che Hegel intende per dialettica.
Vale la pena di analizzare più a fondo il pensiero hegeliano sullo stato e la religione, i due campi di indagine più criticati dai discepoli. Secondo la filosofia politica di Hegel, che è una delle direzioni in cui si esplica il suo sforzo generale per riconciliare la filosofia alla realtà, la coscienza umana si manifesta oggettivamente nelle istituzioni giuridiche, morali, sociali e politiche dell'uomo, che permettono allo spirito di ottenere una libertà piena, il cui raggiungimento è reso possibile dalla morale sociale presente nei gruppi successivi della famiglia, della società civile e dello stato. La famiglia educa alla autonomia morale, mentre la società civile organizza la vita economica, professionale e culturale. Solo il livello più elevato della organizzazione sociale - lo stato, che Hegel chiama «la realtà della libertà concreta» - è in grado di sintetizzare diritti particolari e ragione universale nello stadio finale dell'evoluzione dello spirito oggettivo. Così, Hegel respinge la teoria secondo cui l'uomo è libero per natura e lo stato rappresenta l'elemento riduttivo di questa libertà naturale: lo stato è l'unico strumento valido per realizzare effettivamente la libertà dell'uomo. Hegel si rifiutava di teorizzare strutture ideali astratte, ritenendo che nessun filosofo potesse uscire dal proprio tempo, ed era dell'opinione che lo stato da lui stesso descritto esisteva già, in una certa misura, in Prussia. La sua filosofia politica è indubbiamente abbastanza ambivalente: se da una parte il filosofo definisce la rivoluzione francese una «sublime aurora» (e durante la propria vita fu sempre pronto ad esaltare la presa della Bastiglia), dall'altra molte sue dichiarazioni, in particolare negli ultimi anni, tendevano a una posizione più conservatrice, per non dire reazionaria .
Anche il punto di vista hegeliano in materia religiosa, che ebbe un ruolo centrale nella formazione del filosofo, lasciava spazio alle più differenti interpretazioni: secondo il suo pensiero, la religione e la filosofia costituivano l'apice della vita spirituale dell'uomo. La religione - e per essa Hegel, rimasto tutta la vita luterano, intendeva il protestantesimo che considerava la forma religiosa suprema - era il ritorno dell'Idea assoluta a se stessa; il contenuto della religione era lo stesso della filosofia, anche se mutava il metodo di acquisizione; mentre la filosofia usava dei concetti, la religione si serviva dell'immaginazione. Le immagini insoddisfacenti fornite dalla religione non consentivano che una conoscenza frammentaria e imprecisa di ciò che la filosofia comprendeva razionalmente. Ma la religione si poteva collegare alla filosofia mediante una filosofia della religione, e Hegel pensò che i particolari contenuti dogmatici dell'immaginazione religiosa fossero stadi necessari dello sviluppo dello Spirito assoluto. La filosofia della religione interpretava a livello più elevato sia la fede ingenua sia la ragione critica. Così, Hegel respingeva la teoria dei razionalisti del diciottesimo secolo secondo cui la religione faceva male quello che competeva solamente alla scienza; ai suoi occhi, la religione, o l'interpretazione filosofica che egli ne forniva, realizzava la costante necessità psicologica dell'uomo di avere un'immagine di se stesso e del mondo su cui potersi orientare .
c) La scuola hegeliana.
Negli anni immediatamente successivi alla morte di Hegel, la sua scuola, ancora unita, conobbe il massimo sviluppo. Da Berlino, dove il maestro aveva avuto la cattedra, l'influenza dell 'hegelismo s'irradiava, attraverso il circolo filosofico e il suo giornale, in tutte le università della Germania; il ministro della cultura prussiano Altenstein, favorevole a questa «filosofia del mondo», si era addirittura adoperato per facilitare la carriera accademica degli hegeliani. Sette discepoli, per i quali il sistema del maestro era esauriente nel suo complesso, si limitarono a preparare un'edizione completa delle sue opere, senza apportarvi nuovi contributi sul piano filosofico: a loro bastava difendere i principi del maestro ed approfondire quei settori che il suo pensiero aveva appena sfiorato. «Hegel - disse Gans, uno dei sette - ha lasciato dietro di sé una schiera di talenti, ma nessun successore».
Con il trascorrere del tempo, comunque, all'interno della scuola hegeliana incominciarono a manifestarsi quelle inevitabili differenze di opinione che dovevano portare a una scissione tra la sinistra e la destra. Nonostante l'origine politica di questi termini risalisse alla Convenzione francese, essi sottolineavano in questo caso esclusivamente degli atteggiamenti religiosi, e a volte erano molto poco appropriati sotto il profilo politico; Gans, ad esempio, era considerato un hegeliano tradizionalista, ma politicamente faceva capo alla sinistra.
K. Michelet schieratosi tra gli hegeliani ortodossi così descrisse la differenza tra le due correnti: la destra si atteneva al principio «tutto ciò che è reale è razionale», e non vedeva nulla di irrazionale nell'immagine tradizionale della religione: la sua raffigurazione principale, la personalità trascendente di Dio, l'unicità del Cristo, l'immortalità individuale dello spirito, erano parti integranti del suo contenuto essenziale. La destra appoggiava quindi la dottrina hegeliana dell'unità della filosofia e della religione. Questa unità era invece inammissibile per la sinistra che incominciò a chiedersi (seguita da molti luterani ortodossi che aborrivano qualsiasi forma di hegelismo) se la filosofia di Hegel non fosse piuttosto una forma di panteismo. Si incominciarono così a sollevare delle questioni sulla identità personale di Dio e sull'immortalità dell'anima: su questi punti, l'insegnamento di Hegel non era chiaro, e la tradizione verbale delle sue lezioni oscillava con una certa facilità. Il principio della sinistra era «tutto ciò che è razionale è reale»; all'ottimismo della destra si opponeva in questo modo un pessimismo inteso a distruggere i dogmi delle rappresentazioni religiose ormai fuori moda. Tutte queste rappresentazioni dovevano essere giudicate da una ragione progressiva che, come aveva detto il maestro, non si limitasse a «metter grigio su grigio» e a riconoscere ciò che esisteva già. Poiché Hegel aveva pure affermato che un'epoca concepita nel pensiero anticipava il tempo della propria realizzazione, la sinistra giunse alla conclusione che la comprensione della religione ne aveva già modificato il contenuto, mentre la sua forma diventava un mito puro e semplice.
Questa controversia emerse direttamente nel 1835, con la pubblicazione della Vita di Gesù [Das Leben Jesu] di David Strauss. Strauss aveva studiato teologia a Tubinga, dove ricevette gli insegnamenti di F. C. Bauer, un critico radicale dell'Antico Testamento, ed era arrivato a Berlino giusto in tempo per assistere alle ultime lezioni di Hegel. Mentre il maestro aveva considerato la storicità dei Vangeli relativamente irrilevante e si era concentrato sull'interpretazione del loro contenuto simbolico, per Strauss l'essenza del cristianesimo stava proprio nelle narrazioni evangeliche, che bisognava concepire non come simboli, ma come miti capaci di tradurre i desideri più profondi degli uomini. In questo modo, Strauss rifiutava la riconciliazione hegeliana della filosofia con la religione, e sosteneva l'impossibilità di ridurre il dogma a una concezione filosofica senza alterare profondamente il contenuto stesso della religione. Dopo aver verificato l'inutilità del tentativo di trarre dalle narrazioni dei Vangeli i connotati storici della figura di Gesù, Strauss pervenne alla conclusione che queste narrazioni altro non erano che delle raffigurazioni dell'idea messianica presente nella chiesa primitiva, dei miti che non si era mai preteso di considerare come avvenimenti storicamente reali. Nella conclusione del suo trattato, Strauss sosteneva di non aver affatto messo in dubbio con il suo lavoro il contenuto della rivelazione cristiana: l'unica differenza stava nel fatto che questa rivelazione non si era espressa in un individuo solo, ma in tutta la specie; quello che gli evangelisti avevano raccontato sulla persona di Cristo valeva per l'umanità intera:
«non è nello spirito dell'Idea di realizzarsi offrendo tutta la propria ricchezza a un solo esemplare, e rifiutarla a tutti gli altri, di esprimersi con pienezza in quell'unico individuo e in modo incompleto per tutti gli altri. Affatto, l'Idea preferisce spargere le proprie ricchezze su una moltitudine di esemplari che si completano reciprocamente...».
La pubblicazione dell'opera di Strauss spinse gli hegeliani a prendere posizione: Bruno Bauer, lettore di teologia a Berlino, che presto sarebbe diventato il più esplicito dei radicali, guidò l'attacco della destra. Le diverse interpretazioni cui dava adito il sistema di Hegel sono state correttamente messe a fuoco da Engels:
Il complesso della dottrina di Hegel lasciava, come abbiamo visto, uno spazio considerevole per le più differenti concezioni pratiche di partito; e pratiche, nella Germania teoretica di quel tempo, erano soprattutto due cose: la religione e la politica. Coloro che davano importanza soprattutto al sistema di Hegel, potevano in entrambi questi campi essere conservatori; coloro per cui l'essenziale era il metodo dialettico, potevano appartenere, tanto in religione che in politica, all'opposizione estrema. Hegel stesso, malgrado gli scoppi di sdegno rivoluzionario abbastanza frequenti nelle sue opere, in fondo sembrava abbastanza incline al lato conservatore; il suo sistema infatti gli era costato assai più «acre lavoro del pensiero» che il suo metodo. Verso la fine del decennio 1830-40, la scissione nella scuola hegeliana apparve sempre più marcata. L'ala sinistra, i cosiddetti Giovani hegeliani, nella lotta contro i pietisti ortodossi e i reazionari feudali rinunciarono, un pezzo dopo l'altro, a quel rispettabile ritegno filosofico verso le questioni ardenti del giorno, che sino allora aveva assicurato alla loro dottrina la tolleranza e persino la protezione dello stato.
Era quindi naturale che, all'inizio, la discussione fosse di carattere teologico, dal momento che la religione costituiva l'interesse maggiore per la gran parte dei membri della scuola hegeliana e, come ebbe a sottolineare lo stesso Engels nello scritto sopracitato, in quel periodo «la politica era un terreno assai spinoso». Eppure, data l'esistenza di una religione di stato in Germania e lo stretto collegamento tra questa e la politica, era inevitabile che un movimento di critica religiosa si secolarizzasse rapidamente in gruppo di opposizione politica. Fu appunto come membro di questo movimento in fulminea trasformazione che Karl Marx incominciò a elaborare per la prima volta le proprie teorie filosofiche e sociali.