Giuseppe Fiori

Vita di Antonio Gramsci

Laterza, Bari 2008

AVVERTENZA

Cominciai le ricerche sulla vita di Gramsci all'inizio degli anni Sessanta. Del grande pensatore erano in libreria, all'epoca, le Lettere dal carcere (ma ancora nell'edizione ridotta e purgata di Togliatti e Platone: solo 218 lettere, e con tagli di censura; saranno il doppio, 428, tutte integre, nell'edizione Caprioglio-Fubini, del 1965), i Quaderni del carcere (sei volumi tematici), gli articoli apparsi sull'«Ordine Nuovo» e gli Scritti giovanili. Fervidi gli studi, già la bibliografia intorno alle categorie gramsciane straripava. A nessuno degli specialisti era però venuto in mente di darci di Gramsci un ritratto a figura intera, con i tuffi del sangue e della carne.

Da un quindicennio, del grande intellettuale sardo non vedevamo che «la testa», lo storico degli intellettuali, l'analista delle tre «quistioni» del Mezzogiorno d'Italia (il Napoletano, la «quistione siciliana», la «quistione sarda»), lo studioso originale del capitalismo americano, il teorico dell'«egemonia», cioè del socialismo innervato di consenso. Poco sapevamo della sua vita, la famiglia, l'infanzia in Sardegna, i primi studi, il breve processo di formazione, e poi l'integrazione a Torino, il ruolo effettivo nel Congresso di Livorno (1921), i veridici rapporti (dopo l'arresto) con Togliatti, la rottura con i comunisti incarcerati a Turi, l'eterodossia rispetto a Stalin. Pensai allora che l'operazione di aggiungere «gambe e corpo» alla «testa» - così da avere di Gramsci il ritratto intero - potesse non essere fuori dalla portata del cronista ostinato.

Terminai il libro nel 1965. Era un'opera - se posso ancora usare una parola oggi consumata - trasgressiva. Di che?

Della vecchia ortodossia a quel tempo dominante nel Pci. In breve - io socialista, non comunista - portavo in superficie i contrasti fra Gramsci e l'Internazionale, fra Gramsci e lo stesso Togliatti. E questo modo di affrontare («un po' alla cavalleggera», avrebbe detto Umberto Calosso) lacerazioni e drammi dell'universo comunista fin lì elusi - era inevitabile che suscitasse diffidenze. Ve ne furono anche dentro la redazione laterziana. Vito le superò. Giudicava la biografia un sasso da gettare in acque stagnanti e ne organizzò la diffusione al meglio.

Da allora lo scaffale delle opere di e su Gramsci si è notevolmente arricchito. Era perciò naturale che mi ponessi un problema: se intervenire, e come, sulla vecchia biografia. Ho preferito lasciarla com'è anche per consiglio di cultori di Gramsci, italiani e stranieri, inclini a pensare che il suo impianto regga all'«urto» della grande quantità di materiali nuovi.

I bimbi nati quando questo libro usciva sono oggi uomini di ventinove anni, cresciuti in un passaggio d'epoca. Di Gramsci che cosa sanno? Poco o nulla. A loro e ai ragazzi ancor più giovani dedico questa riedizione.

G. F.

ottobre 1995

VITA DI ANTONIO GRAMSCI

PREMESSA

Scrisse Gramsci in una lettera a Tatiana: «Ho ricevuto le fotografie dei bambini e sono stato molto contento, come puoi immaginare. Sono stato anche molto soddisfatto perché mi sono persuaso coi miei occhi che essi hanno un corpo e delle gambe; da tre anni non vedevo che solo delle teste e mi era cominciato a nascere il dubbio che essi fossero diventati dei cherubini senza le alette agli orecchi».

Questo libro non vuole avere altra ambizione che di completare il ritratto di Gramsci, cioè di aggiungere alla «testa» (al Gramsci grande intellettuale e leader politico, meglio conosciuto) «gambe e corpo»: quegli elementi umani, dall'infanzia alla maturità, che aiutano a farci vedere il personaggio «intero», nei giorni della fame, dell'amore e del lento morirsene. È quindi specialmente il ritratto di Nino Gramsci.

Ricordo con affetto Gennaro Gramsci, morto tragicamente a Roma per un investimento automobilistico il 30 ottobre 1965, quando questo libro, che molto deve a Gennaro, era scritto.

Ringrazio:

Teresina Gramsci, cui debbo anche la consultazione d'un gruppo di lettere finora inedite;

Edmea e Carlo Gramsci;

Alfonso Leonetti, Elsa Fubini e Renzo De Felice;

Leonilde Perilli, dalla quale ho avuto notizie e documenti sulla famiglia Schucht; i ghilarzesi amici di Antonio Gramsci, suoi compagni di giochi e delle elementari; i compagni di ginnasio e di liceo; gli amici degli anni torinesi; quanti gli furono vicini nella lotta e nel carcere e che hanno voluto testimoniare sulla sua vicenda umana.

G.F.

CAPITOLO PRIMO

La casa dove una volta stavano i Gramsci, di pietra lavica rossastra, a un piano, è nel centro di Ghilarza, grosso paese a mezza via quasi tra Oristano e Macomèr, sull'altopiano del Barigàdu. Ora l'occupa e ci tiene bottega un negoziante di tessuti e mercerie, il signor Antioco Porcu, che di Nino Gramsci, come qui tutti chiamano Antonio, conobbe i genitori, il signor Ciccillo e Peppina Marcias. Notizie illuminanti sull'ambiente familiare del grande intellettuale sardo le si può cominciare a raccogliere capitando qua per una visita alla casa.

Francesco Gramsci, ma per noi era il signor Ciccillo, - racconta Antioco Porcu - era arrivato qui, giovanissimo, nel 1881. Aveva ventun anni ed era al primo impiego: veniva da Gaeta, sua città natale, per dirigere l'ufficio del registro. Forse, come tant'altri continentali che passano il Tirreno, pensava allora ad un soggiorno breve, i pochi anni che si è obbligati a scontare in residenza disagiata entrando in carriera. Ha finito per starci il resto della vita. Qui s'è sposato. E tolti gli anni di lavoro ad Ales ed a Sorgono, qui ha sempre risieduto, in questa casa dove adesso chiacchieriamo. È morto nel '37, cinquantasei anni dopo il suo arrivo a Ghilarza. Alla fine, anche lui a suo modo parlava il nostro dialetto. Alcuni avevano cominciato a chiamarlo tiu Gramsci.

S'è scritto, e comunemente si crede, che Antonio Gramsci fosse di origini molto umili. Il signor Antioco muove piano la testa prima di obiettare: «Non proprio. Suo padre, il signor Ciccillo, aveva la licenza liceale; studiava per avvocato sino a quando, morto il padre, dovette impiegarsi. E il padre del signor Ciccillo, a quanto ne so, era colonnello dei carabinieri. Poi anche per parte di madre Nino Gramsci apparteneva a una famiglia come si deve: non tanto ricchi, i Marcias, ma neanche di umili condizioni».

Ho potuto sentire, in proposito, il maggiore dei fratelli di Antonio, Gennaro. «Lo so. Una volta anche Togliatti, poi anche biografi di buona reputazione, hanno scritto di Nino come d'estrazione contadina, ma allontanandosi dal vero.»

È stato lo stesso Nino - ricorda - ad accennare in una lettera dal carcere all'origine della nostra famiglia. Quei dati glieli posso completare così. Un Gramsci greco-albanese, nostro bisnonno, era fuggito dall'Epiro durante o dopo i moti popolari del 1821 e subito si era italianizzato. Gli nacque in Italia un figlio, Gennaro, del quale io ho preso il nome. Questo Gennaro nostro nonno era colonnello della gendarmeria borbonica. Sposò una Teresa Gonzales: lei, figlia di un avvocato napoletano, discendeva da qualche famiglia italo-spagnola  dell'Italia meridionale, come tant'altre ne erano rimaste dopo la cessazione del dominio spagnolo. Ebbero cinque figli: papà era l'ultimo; nacque a Gaeta nel marzo del 1860, pochi mesi prima che le  truppe del generale Cialdini la cingessero d'assedio. Finito il regime borbonico, nonno venne inquadrato nell'arma dei carabinieri, sempre col grado di colonnello. Morì giovane. Dei cinque figli, l'unica femmina aveva sposato un Riccio di Gaeta, ricco signore; poi uno era funzionario  al mini stero delle Finanze, uno ispettore delle ferrovie dopo essere stato capostazione di Roma ed un terzo, lo zio Nicolino, ufficiale dell'esercito. Papà fu il meno fortunato: alla morte del padre, studiava leggi. Dovendosi trovare un lavoro, ecco l'occasione dell'impiego in Sardegna, all'ufficio del registro di Ghilarza, e partì. Anche lo zio Nicolino venne spedito in Sardegna: prima a La Maddalena, poi a Sassari, infine ad Ozieri, dove, da capitano, comandava il deposito di artiglieria (e lì è morto). Quella di nostro padre era dunque la tipica famiglia meridionale di buona condizione che alla burocrazia statale fornisce i quadri intermedi.

E Peppina Marcias? «Nostra madre», mi diceva Gennaro, «era figlia di un Marcias di Terralba e di una Corrlas di Ghilarza. Nonno faceva l'esattore delle imposte, con in più una piccola proprietà. Insomma i Marcias stavano in una via di mezzo: benino diciamo, il bene si capisce dei nostri paesi, la casa, un po' di terra, il tanto per vivere alla bell'e meglio».

Nata nel '61, Peppina Marcias aveva un anno meno di Ciccillo Gramsci. Alta, aggraziata, socialmente d'un gradino sopra la generalità delle altre fanciulle di Ghilarza («Vestiva all'europea», mi dirà un sarto di Ales che la conobbe ancor giovane) era di quelle che subito colpiscono. Aveva frequentato fino alla terza elementare, leggeva alla rinfusa di tutto, persino Boccaccio, e per quei tempi anche simile circostanza, il saper leggere e scrivere, costituiva, soprattutto in una donna, motivo di distinzione1. Francesco la chiese in sposa; ma in Campania i suoi ne furono contrariati. Soprattutto alla mamma non andava che lui, figlio di un colonnello e quasi dottore in legge, prendesse per moglie una ragazza d'oscura famiglia, non del suo rango. Si sposarono ugualmente: lei aveva ventidue anni e Ciccillo ventitré. L'anno appresso, nel 1884, nasceva Gennaro. Poi ecco, non molto dopo, il trasferimento all'ufficio del registro di Ales. Qui vennero altri figli: Grazietta nel 1887, Emma nel 1889; infine, il 22 gennaio del '91, Antonio. Lo battezzarono sette giorni dopo, il 29 gennaio.

Erano religiosi, i Gramsci? Trovo a Bonàrcado, piccolo paese non distante da Ghilarza, Edmea, la figlia di Gennaro così a lungo e assiduamente citata nelle lettere dal carcere. Ha 45 anni, i capelli le si sono ingrigiti. Moglie d'un medico, insegna nella scuola elementare. È lei a parlarmi della fede di Ciccillo e Peppina Gramsci.

Nonno - dice - non praticava molto. Ricordo però che, negli ultimi suoi mesi di vita, immobilizzato a casa dal male, gradiva molto la compagnia di un quaresimalista che spesso veniva a visitarlo. «Ma sa che lei somiglia proprio tanto a Giosuè Carducci?», capitava che il sacerdote gli dicesse per tirarlo su d'umore. Erano diventati amici. Insieme si trattenevano a discorrere di tutto. Prima di morire, nonno chiese di confessarsi... Più assidua era la nonna. Andava in chiesa di domenica all'alba. Poi s'ammalò, usciva poco. Ma anche allora, specie quando zio Nino fu buttato in carcere, sempre rivolgeva il pensiero al Signore, e la sentivo ripetere: Dio, Dio mio. Non ti chiedo nulla, nient'altro ti chiedo. Solo dammi la forza di resistere... Morente, mi chiamò per lasciarmi in dono alcune immagini benedette...

Poi, d'un altro familiare stretto, Grazia Delogu, la sorellastra nubile di Peppina rimasta a vivere stabilmente con i Gramsci, quasi una seconda mamma per Antonio, leggiamo questo ritratto in una lettera dal carcere:

Zia Grazia credeva fosse esistita una «donna Bisòdia» molto pia, tanto che il suo nome veniva sempre ripetuto nel Pater noster. Era il da nobis hodie che lei, come altre, leggeva donna Bisòdia e impersonava in una dama del tempo passato, quando tutti andavano in chiesa e c'era un po' di religione in questo mondo. Si potrebbe scrivere una novella su questa donna Bisòdia immaginaria che era portata a modello. Quante volte zia Grazia avrà detto a Grazietta, a Emma: Ah, tu non sei certo come donna Bisòdia!

Non fu, per Antonio Gramsci, il canonico Marongiu, allora parroco di Ales, a venire al battistero. La cerimonia ebbe solennità particolare. Battezzò il bimbo, vediamo scritto nei registri parrocchiali, «l'illustrissimo molto reverendo teologo Sebastiano Frau vicario generale» (padrino un notaio di Masullas, il cavalier Francesco Puxeddu).

C'è ad Ales chi ricorda la festa dopo il rito.

Le nostre famiglie - racconta il cavalier Nicolino Tunis, sarto finché le forze glielo permisero e adesso a riposo - erano amiche. Il signor Ciccillo e babbo, usciere di pretura, stavano spesso insieme, e la signora Peppina era, da noi, di casa. Aveva tenuto a battesimo una mia sorella, chiamata Peppina anche lei, per riguardo alla madrina. Quando Nino Gramsci fu battezzato, io avevo dieci anni. La ricordo e come l'allegria del giorno, con tanti dolci portati da Ghilarza e un mucchio di gente venuta a festeggiare il piccolo. Ero compagno di Gennaro; giocavo anche con Grazietta ed Emma, molto più piccole di me, però. E Nino chissà quante volte l'avrò tenuto in braccio. Era un bel bambino biondo, gli occhi chiari. Andò via da Ales piccolissimo, dopo il trasferimento del signor Ciccillo a Sorgono, e mai più m'è capitato di rivederlo. Memorie gramsciane ad Ales non se ne trovano. La casa natale, occupata dopo la partenza del signor Ciccillo da un sacerdote, prete Melis, e poi adibita per quasi vent'anni a sede del Fascio, è trasformata ora, al pianoterra, in bar, il «Bar dello Sport» dice l'insegna. Sopra l'entrata, una lapide messa qui nel '472 quasi scompare in mezzo a targhe metalliche pubblicitarie di amari, aperitivi e bibite. Sino al '47, prima che un comitato prendesse a Cagliari l'iniziativa di onorare Gramsci nel suo luogo di nascita, non molti ad Ales sapevano di avere un così illustre concittadino.

«Andò a Sorgono», mi dice Antioco Porcu, «che avrà avuto sì e no un anno. E lì a Sorgono, tolti i mesi estivi (sempre d'estate veniva a Ghilarza), rimase sino ai sette anni. Intanto la famiglia si era ingrandita, per la nascita di Mario nel '93, di Teresina nel '95 e di Carlo nel '97. Rientrarono definitivamente a Ghilarza nel 1898. Di qua il signor Ciccillo e la signora Peppina non dovevano più muoversi».

Era stato un ritorno drammatico. Vicende gravi, con povero sfondo di politichetta locale, avevano avuto per Ciccillo Gramsci sbocchi rovinosi: la perdita dell'impiego e il carcere. Tutto era cominciato con le elezioni politiche del 1897.

Verso la fine del secolo in Sardegna «l'attività pubblica non si alimentava», scrive lo storico Bellieni, «del dibattito di idee: i partiti non erano altro che le clientele di pochi personaggi». Abbiamo in proposito anche la testimonianza diretta di Francesco Pais Serra, deputato di Ozieri. Crispi gli aveva affidato nel dicembre del '94 lo svolgimento di una inchiesta sulle condizioni economiche e sulla sicurezza pubblica nell'isola. Un anno e mezzo appresso, a metà del '96, nella relazione consegnata al ministro Di Rudinì, il Pais Serra affermava:

Meno che in pochi centri, e anche in una piccola minoranza, conservatori e liberali, democratici e radicali sono parole senza contenuto; il socialismo e l'anarchia e il clericalismo politico non sono conosciuti nemmeno di nome, eppure i partiti sono vivi, tenaci, intransigenti, battaglieri: ma non sono partiti politici, né partiti mossi da interessi generali o locali, sono partiti personali, consorterie nello stretto senso della parola... Sotto le grandi ali di questi più vasti partiti personali... pullulano i microscopici partiti personali nei diversi Comuni, tanto più astiosi e violenti quanto le ragioni del dissidio sono più prossime, e il contatto necessario e quotidiano... Si mettono alla dipendenza dei maggiori partiti, da cui ricevono in cambio protezione ed aiuto efficace nelle piccole contestazioni locali e soprattutto protezione personale per ottenere favori e per sfuggire alle conseguenze delle violazioni di legge e talvolta di delitti.

«È una specie di graduale vassallaggio», concludeva il Pais Serra, «che con peggiori e più tristi conseguenze si è sostituito  all'antica  soggezione  feudale».

Nel collegio di Isili, comprensivo di Sorgono, dove a quel tempo il padre di Antonio Gramsci era gerente dell'ufficio del registro, dovevano aspramente fronteggiarsi, per le elezioni del marzo '97, Francesco Cocco Ortu e Enrico Carboni Boy. Il Cocco Ortu, uomo di grande spicco e con un lungo passato di parlamentare, ormai da ventun anni deputato e già sottosegretario in due ministeri, prima all'Agricoltura e poi alla Giustizia, era, secondo Camillo Bellieni, «il rappresentante principale di questo stato d'animo di consorteria». Ma la vicina competizione si profilava difficile, per l'influente uomo di governo; giacché il suo giovane antagonista, d'un paese compreso nel collegio elettorale, Nuragus, godeva di buon seguito, oltre che nel villaggio della sua famiglia, anche in centrichiave, come Tonara e Sorgono. Ciccillo Gramsci si schierò dalla parte di Carboni Boy. Era una battaglia incerta, combattuta sino all'ultimo senza risparmio. Riuscì eletto Cocco Ortu (la cui potenza sarebbe ulteriormente cresciuta di lì a pochi mesi: quando, per la prima volta, divenne ministro dell'Agricoltura, industria e commercio nel Gabinetto Di Rudinì). Infine, quel che poteva essere, dopo la vittoria, l'atteggiamento dei «cocchisti», cioè dei piccoli partiti paesani «astiosi e violenti» che per Cocco Ortu avevano parteggiato, vediamo di ricavarlo ancora dalla relazione del deputato Pais Serra:  «Che a Roma prevalga questo o quel programma politico, poco importa... Ciò che importa è che il capopartito sia influente presso il Governo centrale, così che egli possa dominare in Sardegna, e quivi dominando, siccome conquistatore, benefichi i vincitori, annienti i vinti». Ciccillo Gramsci era tra i vinti, con tutti i pericoli intrinsechi a simile condizione, compreso quello di cadere vittima di «giustizia trafficata»3.

Alcuni mesi dopo le elezioni del marzo '97, fu una circostanza triste a costringere Ciccillo Gramsci ad assentarsi da Sorgono: il 17 dicembre gli era morto, appena quarantaduenne, il fratello Nicolino, che ad Ozieri comandava il deposito di artiglieria. Andò dunque ai funerali ed anche per vedere come si potevano far continuare gli studi a Gennaro, ospite fino a quel momento dello zio Nicolino. Era appena partito, quand'ecco subito, da Sorgono, un telegramma a Cagliari. Lo spediva la fazione contraria per suggerire, profittando di quei giorni d'assenza del gerente, un'ispezione all'ufficio del registro. Al ritorno da Ozieri, Ciccillo seppe di un'inchiesta a suo carico.

Qualche leggerezza doveva rimproverarsela; disordine in ufficio ce n'era. Fu sospeso dall'impiego e, senza più una lira di stipendio, se ne tornò con la famiglia a Ghilarza. Alcuni mesi li visse nel tormentoso dubbio che potessero anche imprigionarlo. Stava sempre chiuso in casa, oppresso da pensieri cupi. Aveva trentotto anni, e da un momento all'altro, dopo la perdita dell'impiego, poteva accadere di peggio... I carabinieri vennero a prenderlo il 9 agosto del '98. L'addebito era di peculato, concussione e falsità in atti.

Finito nelle carceri di Oristano, Ciccillo Gramsci vi rimase sino alla sentenza di rinvio a giudizio. Il 28 ottobre del '99, la sezione d'accusa della Corte d'Appello di Cagliari ne ordinava la traduzione al capoluogo. Il processo si svolse a Cagliari l'anno seguente. Allora il peculato era di competenza della Corte d'Assise, e fu appunto la Corte d'Assise ad emettere il 27 ottobre del 1900 la sentenza di condanna. La circostanza del «lieve danno e valore», stante l'esiguità della cifra che l'ispettore aveva riscontrato in ammanco, risulta in sentenza.

Ma a quei tempi il codice non scherzava per simili reati e, malgrado gli si fosse applicato il minimo della pena con l'attenuante del «lieve valore», Ciccillo Gramsci fu condannato a cinque anni, otto mesi e ventidue giorni.

Peppina Marcias era travolta dalla sventura avendo sulle spalle il peso di sette figli, l'ultimo dei quali, Carlo, ancora in fasce, ed il maggiore, Gennaro, sui quattordici anni (Antonio ne aveva sette). Fin'allora i Gramsci avevano vissuto, se non nell'agiatezza, certamente entro limiti d'assoluta tranquillità: la vita sobria, ed a conti fatti senza scosse, di chi ogni mese vede entrare in casa un po' di soldi, preziosi soprattutto in luoghi dove, prevalendo l'economia sussistenziale degli scambi in natura, poco era il danaro in circolazione. Adesso all'improvviso, con la perdita dello stipendio e la carcerazione di Francesco, il clima in famiglia mutava. Vennero tempi di umiliazioni e di miseria estrema. Così a disgrazia si aggiungeva disgrazia: perché da qualche anno Antonio aveva cominciato a dar segni di sviluppo malforme.

Note

1 «Le persone che in tutto il paese sanno leggere e scrivere», ricaviamo dalla testimonianza di uno scrittore del tempo, Vittorio Angius, «saranno in circa duecento»:  già allora Ghilarza contava 2200 anime.

2 «Dieci anni dopo il suo martirio / ad Antonio Gramsci / nella casa dove nacque / questa pietra posero / l'affetto dei concittadini / e la riconoscenza degli uomini liberi.»

3 «È questa la vera parola - avvertiva in quegli anni Alfredo Niceforo -. Fu troppo grave, troppo nauseante il disgusto che noi provammo in ogni paese della Sardegna nel notare la grande potenza che qualche deputato e qualche prefetto esercitavano nell'amministrazione della giustizia.»

CAPITOLO SECONDO

È la Nennetta Cuba, di cui troviamo cenno in una lettera dal carcere, a parlarmi di Gramsci bambino. Ha 78 anni. Coetanea ed amica di Grazietta, abitava a Ghilarza dirimpetto ai Gramsci ed in casa loro era come una di famiglia.

Nino - ricorda - non è stato sempre... diciamo... gobbo. Anzi, era un bel bambino, da piccolo. Delicatino, magari. Però bello, un fiore... Aveva quattro anni meno di me, ci scherzavo, e lo ricordo bene com'era prima di ammalarsi, un bel maschietto normale, riccioluto, i capelli ricci e chiari e gli occhi azzurri. Poi, non so la causa, era cominciata a venirgli sulla schiena una specie di noce, e lui non cresceva, se ne stava bassottino, piccoletto. Tia Peppina, poveretta, le provava tutte, per combattere il male. Era confusa, e sempre con quest'aria di spavento. Lo metteva sdraiato per fargli lunghi massaggi con tintura di jodio, e nulla. La noce ingrandiva ogni giorno di più. Così decisero di andarlo a far vedere a Oristano. Lo fecero vedere anche a Caserta: tiu Gramsci lo aveva portato da uno specialista. Al ritorno, la cura consigliata era di tenerlo appeso a un trave del soffitto. Gli avevano combinato un busto con anelli. Nino indossava il busto, e tiu Gramsci o Gennaro lo mettevano agganciato al soffitto lasciandolo sospeso in aria. Si pensava che fosse questo il modo giusto per raddrizzarlo. Ma l'ingrossamento sulla schiena e poi anche davanti aumentò, e mai c'è stato rimedio. Sempre Nino ha continuato ad essere piccoletto. Anche grande, non passava il metro e cinquanta.

I suoi attribuiscono la gibbosità ad una caduta. «Tante volte», mi dice Teresina Gramsci, l'ultima delle sorelle di Antonio, «ho sentito da mamma com'era Nino i primi anni, un fiore. E un giorno gli scoprono sulla schiena un gonfiore, senza che si riuscisse a capirne il motivo. La mamma, fortemente impressionata, non se ne dava pace. Le viene un pensiero, chiama la domestica e dice: T'è caduto dalle braccia? Dì la verità, se così è stato. La donna insisteva sul no, ma all'ultimo finì per ammetterlo. In seguito, a nulla servirono le molte cure». Oltre l'imperfezione fisica, frequenti erano i malesseri dei quali Antonio soffriva. «Da bambino, a quattro anni», scriverà, «ho avuto delle emorragie per tre giorni di seguito che mi avevano completamente dissanguato, accompagnate da convulsioni. I medici mi avevano dato per morto, e mia madre ha conservato fino al 1914 circa una piccola bara ed il vestitino speciale che dovevano servire per seppellirmi».

Ora dippiù, a mettere avvilimento e povertà in una casa dove già era il dolore per la poca salute del bambino, ecco Cicillo in carcere. Peppina Marcias non s'arrese. L'orgoglio le impediva di rivolgersi alla suocera ed ai cognati, dopo che essi, al tempo del matrimonio, l'avevano male accolta in famiglia. I fratelli di Ciccillo, tutti ben sistemati, e la sorella, sposata ad un facoltoso possidente, avrebbero potuto ben aiutarla. Sennonché lei voleva farcela da sé, non umiliandosi a chiedere assistenza a parenti quasi sconosciuti.

Donna di grande carattere, combattiva e ancora piena di energie (aveva 37 anni quando il marito le fu arrestato), affrontò dunque la situazione, per tanti versi sconvolgente, con estrema forza d'animo. Disfacendosi del po' di terra avuta in eredità dai suoi, era arrivata a costituirsi un fondo, anche se modesto, per pagare gli avvocati e per sovvenire ai bisogni della famiglia. Poi teneva a pensione un veterinario, il dottor Vittore Nessi. Ma soprattutto lavprava. «Nostra madre», ricorda Teresina, «era molto brava nel cucito e confezionava camicie o altri capi di vestiario che poi, messi in vendita, fruttavano qualche soldo. Noi eravamo tutti molto piccoli. Lei dunque doveva anche accudire alla casa. Trovava il tempo per i lavori di cucito rinunziando al sonno». Parecchio dopo, riferendosi a quegli  anni  tormentati, Antonio Gramsci  scriverà della madre:

Saremmo capaci di fare ciò che ha fatto la mamma trentacinque anni fa? Di porsi lei sola, povera donna, contro una terribile bufera e di salvare sette figli? Certo la sua vita è stata esemplare per noi e ci ha mostrato quanto valga la pertinacia per superare difficoltà che sembravano insuperabili anche a uomini di grande fibra [...] Ha lavorato per noi tutta la vita, sacrificandosi in modo inaudito; se fosse stata un'altra donna, chissà che fine disastrosa avremmo fatto tutti fin da bambini; forse nessuno di noi oggi sarebbe vivo.

A quel tempo Antonio frequentava a Ghilarza le elementari. La mamma, tenendo conto della sua precaria salute, ce lo aveva mandato che già era grandicello, a sette anni e mezzo, e perché non s'affaticasse riusciva anche a trovare il tempo di seguirlo negli studi1.In prima era andato a capitare in una classe di ben quarantanove alunni, col maestro Ignazio Corrias; in seconda aveva un nuovo maestro, Celestino Baldussi; ed in terza un altro ancora, Luigi Cossu. Era sempre il più bravo della classe: i voti oscillavano, in questi primi anni, tra il dieci e il nove. «Il sistema di scuola che io ho seguito», sappiamo da una lettera, «era molto arretrato; inoltre la quasi totalità dei miei condiscepoli non sapeva parlare l'italiano che molto male e stentatamente e ciò mi metteva in condizioni di superiorità, perché il maestro doveva tener conto della media degli allievi e il saper parlare correntemente l'italiano era già una circostanza che facilitava molte cose». Ma a facilitare le cose contribuiva anche l'accanimento messo dal ragazzo nel divorare qualsiasi foglio stampato gli capitasse tra le mani. «Stava settimane senza farsi vedere», mi dice un suo compagno di giochi, Felle Toriggia, «e quando gliene chiedevo il motivo, rispondeva d'aver passato tutti quei giorni a leggere».

Già intanto cominciava a manifestarsi in lui, oltre che tendenza allo studio, il gusto per le attività pratiche.

«S'era costruita», mi raccontano i suoi, «una doccia spedale. La si può descrivere così: un grande recipiente di lamiera appeso a un chiodo a uncino. Questo recipiente, un bidoncino, pendeva dal soffitto della cucina. Nel lato superiore Nino aveva praticato tanti forellini. Lo riempiva d'acqua calda e lo tirava su. Per capovolgerlo, bastava allora tirare una cordicella e l'acqua zampillava subito per il bagno».

Per questa disposizione alle attività pratiche, si fabbricava da sé anche i giocattoli, barche e carretti. «Il mio più grande successo», leggiamo, «fu quando un tolaio del paese mi domandò il modello in carta di una superba goletta a due ponti, per riprodurla in latta». Ed ancora:

Ricordo benissimo il cortile dove giocavo con Luciano [Guiso, figlio del farmacista di Ghilarza] e la vasca dove facevo manovrare le mie grandi flotte di carta, di canna, di ferule e di sughero, distruggendole poi a colpi di schizzaloru... Parlavo sempre di brigantini, sciabecchi, tre alberi, scfrooners, di bastingaggi e di vele di pappafico... Mi dispiaceva solo che Luciano possedesse una semplice robusta barchetta di latta pesante che in quattro movimenti affondava i miei più elaborati galeoni con tutta la complicata attrezzatura di ponti e di vele. Tuttavia ero molto orgoglioso della mia capacità.

Poi s'era combinato gli attrezzi per la ginnastica. Forte sin da bambino d'una volontà che ha del favoloso e risoluto a correggere in tutti i modi possibili l'imperfezione fisica, ogni giorno con metodo si applicava al sollevamento dei pesi. Nel cortile della casa dove abita adesso Teresina, vedo sfere di pietra. È lei a raccontarmi:

Servivano per manubri. Le aveva ricavate lo stesso Nino, con l'aiuto dei fratelli, da grandi massi. Insieme li scalpellavano; poi lui stava ore ed ore a levigarli sino a fargli prendere una forma sferica. Aveva fatto sei palle di pietra per tre manubri di peso diverso. Le coppie di sfere erano unite da bastoni, manici di scopa. Il ferro costava molto, allora; e metterci l'asta metallica non si poteva. Del resto, anche con l'asta di legno, il manubrio serviva bene allo scopo. Con regolarità, tutte le mattine, Nino faceva gli esercizi. Desiderava irrobustirsi, avere più muscoli nelle braccia; e impegnandosi al massimo tirava su i pesi fin quando le energie  non lo abbandonavano.  Ricordo che una  volta arrivò sino alle sedici flessioni di seguito...

Teresina s'intenerisce, rievocando l'episodio. Era la prediletta: quella, delle tre sorelle, che ad Antonio più somigliava per vivacità intellettuale2. Ha settant'anni, da lungo tempo è vedova del gerente postale Paolo Paulesu. Figura bianca e gentile, con qualcosa d'altri tempi nell'acconciatura, il vestito nero tagliato alla vecchia moda, e discreta, schiva, lo sguardo che si vela di tristezza ad ogni memoria di giorni difficili, sembra appena uscita da una illustrazione di libro antico. Anche lei, come il marito, lavorava nelle poste di Ghilarza: pensionata dal '60, vive chiusa in casa, uscendo pochissimo. «Certo», riprende, «anche quel suo essere così, fisicamente infelice, può aver influito sulla formazione del carattere di Nino. Era un po' chiuso, s'appartava... Ma anche senz'essere espansivo, perché espansivo proprio non era, aveva tuttavia per noi tante manifestazioni di tenerezza: io che ero la sorellina di quattro anni più piccola, mi viziava, spendeva i suoi pochi soldi per comprarmi i giornalini...».

Sono parole che sentirò ripetute da compagni di giochi e di scuola, con poche varianti. Nennetta Cuba lo ricorda «riservato ma non orso». Dice Felle Toriggia:

Era un bambino malinconico. Se però qualcuno gli mostrava amicizia, lui s'espandeva, scherzava... Un anno, sarà stato il 1900-901, andammo insieme, per i bagni; a Bosa Marina. Si viaggiava allora su carri a buoi. In quel tempo trascorso quasi sempre insieme, prima sullo stesso carro e poi nella spiaggia, io non posso dire che Nino Gramsci fosse un bambino chiuso. La compagnia lo allietava, a momenti era persino ìlare.

Si sentiva però tagliato fuori da un certo tipo di giochi all'aria aperta, movimentati e a loro modo guerreschi. Un compagno delle elementari, Chicchinu Mameli, ricorda:

Era della corporatura che lei sa, e naturalmente la deformità gli impediva di partecipare a certi nostri giochi. I ragazzi, ora e sempre, lottano, si sfiatano: i nostri giochi preferiti erano prove di valentia fisica e di resistenza, e lui, Nino, al più poteva starsene a guardare. Veniva di raro, per questo, con noi. In genere rimaneva in casa, occupato a leggere, a disegnare figure colorate, a metter su costruzioni di legno, a giocherellare in cortile. Oppure se ne andava a girare in campagna. Lo vedevo spesso con Mario. Degli altri fratelli, Gennaro era troppo grande, sette anni in più, per fargli compagnia;  e Carlo troppo piccolo, sei anni in meno.

Sono di quel tempo le scorribande tra la valle del Tirso sotto San Serafino e gli orti e i ruscelli di Canzola e la casa di zia Maria Domenica Corrias ad Abbasanta. Aveva letto, ancora piccolo, Robinson Crusoe, trovato nella bibliotechina che una signora Mazzacurati, moglie del collettore delle imposte, trasferita altrove, gli aveva lasciato in dono, e l'impressione gli era rimasta a lungo: «Non uscivo di casa», scriverà, «senza avere in tasca dei chicchi di grano e dei fiammiferi avvolti in pezzettini di tela cerata, per il caso che potessi essere sbattuto in un'isola deserta e abbandonato ai miei soli mezzi». Si distraeva acchiappando lucertole o tirando sassi per il gusto di vederli rimbalzare tre-quattro volte sull'acqua e di sentirli zufolare. E specialmente lo dilettavano i momenti passati a spiare la vita degli animali.

Una sera d'autunno, quando era già buio, ma splendeva luminosa la luna,  sono  andato  con  un  altro ragazzo, mio  amico, in un campo pieno di  alberi  da frutta, specialmente di  meli. Ci siamo nascosti in un cespuglio, contro vento. Ecco, a un  tratto, sbucano i ricci, cinque, due più grossi e tre piccolini. In fila indiana si sono avviati verso i meli, hanno girellato tra l'erba e poi si sono messi al lavoro: aiutandosi con i musetti e con le gambette, facevano ruzzolare le mele, che il vento aveva staccato dagli alberi, e le raccoglievano insieme in uno spiazzetto, ben bene vicine una all'altra. Ma le mele giacenti per terra si vede che non bastavano: il riccio più grande, col muso per aria, si guardò attorno, scelse un albero molto curvo e si arrampicò, seguito da sua moglie. Si posarono su un ramo carico e incominciarono a dondolarsi, ritmicamente; i loro movimenti si  comunicarono al ramo, che oscillò sempre più spesso con scosse brusche, e molte altre mele caddero per terra. Radunate anche queste vicino alle altre, tutti i ricci, grandi e piccoli, si arrotolarono, con gli aculei ritti, e si sdraiarono sui frutti, che rimanevano infilzati: chi aveva poche mele infilzate (i riccetti), ma il padre e la madre erano riusciti a infilzare sette o otto mele per ciascuno. Mentre stavano ritornando alla loro tana, noi uscimmo dal nascondiglio, prendemmo i ricci in un sacchetto e ce li portammo a casa. Io ebbi il padre e due riccetti e li tenni molti mesi, liberi, nel cortile.

Poi quest'altro ricordo:

Coi miei fratellini andai un giorno in un campo di una zia dove erano due grandissime querce e qualche albero da frutta; dovevamo fare la raccolta delle ghiande per dare da mangiare a un maialino. Il campo non era lontano dal paese, ma tuttavia tutto era deserto e si doveva scendere in una valle. Appena entrati ael campo, ecco che sotto un albero era tranquillamente seduta una grossa volpe, con la bella coda eretta come una bandiera. Non si spaventò per nulla; ci mostrò i denti, ma sembrava che ridesse, non che minacciasse. Noi bambini eravamo in collera che la volpe non avesse paura di noi; proprio non aveva paura. Le tirammo dei sassi, ma essa si scostava appena e poi ricominciava a guardarci beffarda e sorniona. Ci mettevamo dei bastoni alla spalla e facevamo tutti insieme bum! come fosse una fucilata, ma la volpe ci mostrava i denti senza scomodarsi troppo. D'un tratto si sentì una fucilata sul serio, sparata da qualcuno nei dintorni. Solo allora la volpe dette un balzo e scappò rapidamente. Mi pare di vederla ancora, tutta gialla, correre come un lampo su un muretto, sempre con la coda eretta, e sparire in un macchione.

E c'erano le sagre, l'impeto dei cavalli in corsa attorno alla chiesa di Sedilo per la festa di Santu Antlne, le bancherelle dei torronai illuminate da deboli lucignoli a carburo, i palchi eretti per le gare poetiche dialettali. Scriverà dal carcere alla mamma:

Quando ti capita mandami qualcheduna delle canzoni sarde che cantano per le strade i discendenti di Pirisi Pinone di Bolotana e se fanno, per qualche festa, le gare poetiche, scrivimi quali temi vengono cantati. La festa di S. Costantino a Sedilo e di S. Palmerio, le fanno ancora e come riescono? La festa di S. Isidoro riesce ancora grande? Lasciano portare in giro la bandiera dei quattro mori e ci sono ancora i capitani che si vestono da antichi miliziani? Sai che queste cose mi hanno sempre interessato molto; perciò scrivimele e non pensare che sono sciocchezze senza cabu né coa.

Ma queste immagini che possono dare un'idea di vita spensierata sono parziali. Ben profondamente turbavano Antonio - oltre la deformità - la spaventosa miseria in famiglia dopo l'arresto del padre e il contraccolpo psicologico per la sciagurata vicenda. In principio, solo Gennaro, ormai grandicello, era stato messo al corrente della sventura3. Sarebbe stato del resto difficile nascondere a un ragazzo di quell'età la vera condizione del padre. Semmai le pietose bugie, i sotterfugi, le storielle inventate per spiegare la lunga lontananza del papà potevano valere per gli altri; e fino all'ultimo Peppina Marcias badò a tenere segreto in famiglia il dramma. Francesco Gramsci era incarcerato a Gaeta, a poche centinaia di metri dalla casa dove stava la madre. Da lui la signora Peppina si faceva spedire biglietti che poi, col timbro di Ghilarza, inoltrava alla suocera. Ai bambini continuava a dire che il papà era a Gaeta per visitare nonna Teresa Gonzales. Solo che, in un piccolo ambiente com'era Ghilarza, il castello di fantasiose motivazioni del distacco doveva presto o tardi cadere: impossibile, anche data la notorietà dell'episodio, che da una mezza parola obliqua, da un'allusione, da frasi afferrate al volo mentre i grandi parlano credendosi non ascoltati, i piccoli Gramsci non arrivassero almeno a intravvedere, pur confusamente, le autentiche ragioni per le quali da così lungo tempo il loro papà stava lontano. Trent'anni dopo, essendosi riproposta una situazione per qualche verso uguale, Antonio scriverà dal carcere a Tatiana:

Non so pensare perché è stato nascosto a Delio che io sono in prigione, senza riflettere appunto che egli avrebbe potuto saperlo indirettamente, cioè nella forma più spiacevole per un bambino, che incomincia a dubitare della veridicità dei suoi educatori e Incomincia a pensare per conto proprio e a far vita a sé. Almeno così avveniva a me quando ero bambino: lo ricordo perfettamente... Perciò bisognerebbe convincere [Giulia] che non è né giusto né utile, in ultima analisi, tener nascosto ai bambini che io sono in carcere: è possibile che la prima notizia determini in loro reazioni sgradevoli, ma il modo di informarli deve essere scelto con criterio. Io penso che sia bene trattare i bambini come esseri già ragionevoli e coi quali si parla seriamente anche delle cose più serie; ciò fa in loro una impressione molto profonda, rafforza il carattere, ma specialmente evita che la formazione del bambino sia lasciata al caso delle impressioni dell'ambiente e alla meccanicità degli incontri fortuiti. È proprio strano che i grandi dimentichino di essere stati bambini e non tengano conto delle proprie esperienze; io, per conto mio, ricordo come mi offendesse e mi inducesse a rinchiudermi in me stesso e a fare vita a parte ogni scoperta di sotterfugio usato per nascondermi anche le cose che potevano addolorarmi; ero diventato, verso i dieci anni, un vero tormento per mia madre, e mi ero talmente infanatichito per la franchezza e la verità nei rapporti reciproci da fare delle scenate e provocare scandali4.

A lui bambino la verità s'era svelata nel modo peggiore, per vie traverse. Ne fu sconvolto. Subì un trauma che in seguito, per tutto il resto della vita, sino all'ultimo, influenzerà i suoi rapporti con il padre. Verranno incomprensioni, asprezze, lunghi silenzi. Era un colpo di quelli destinati a lasciare tracce profonde. Confiderà, da grande: «Se ella [mamma] sapesse che io conosco tutto quello che io conosco e che quegli avvenimenti mi hanno lasciato delle cicatrici, le avvelenerei questi anni di vita...»5.

Certo, la grande tenerezza per la mamma veniva in Gramsci maturo anche dal sapere «le traversie ben più gravi e le amarezze ben più profonde» che ella aveva subito nello stesso tempo:   quando, prigioniera in casa per l'avvilimento, usciva, col buio, solo dalla porticina del cortile e nascosta sotto uno scialle nero, evitando di passare nel corso e ne andava rasente i muri sino alla vicina parrocchia e lì, in un angolo, rimaneva a lungo a pregare e finalmente a piangere.

Note

1 «Mi è riapparso chiaramente», le scriverà Antonio dal carcere, «il ricordo di quando ero in prima o in seconda elementare e tu mi correggevi i compiti: ricordo perfettamente che non riuscivo mai a ricordare che "uccello" si scrive con due e e questo errore tu me lo hai corretto almeno dieci volte... Prima ci avevi insegnato molte poesie a memoria; io ricordo ancora Rataplan e l'altra "Lungo i clivi della Loira / che qual nastro argentato / corre via per cento miglia / un bel suolo avventurato"... Ricordo anche quanto ammirassi, dovevo avere quattro o cinque anni, la tua abilità nell'imitare sul tavolo il rullo del tamburo quando declamavi Rataplan.»

2 «Ricordi, Teresina, come eravamo fanatici per leggere e scrivere? Mi pare che anche tu, sui dieci anni, non avendo più libri nuovi, ti sei letta tutti  i codici.»

3 «Frequentavo ad Ozieri la quarta ginnasiale, ospite dello zio Nicolino», mi raccontava Gennaro. «Zio morì sotto Natale, ma papà fece in modo che io potessi terminare a Ozieri l'anno scolastico. Tornai a Ghilarza per le vacanze. Alla riapertura delle scuole (papà non stava più in casa) seppi da mamma che per il momento non avrei proseguito gli studi, e me ne disse il motivo. Ero in quel momento il solo, di sette fratelli, a sapere di papà in carcere.»

4  Il corsivo è mio.

5  Il corsivo è mio.

CAPITOLO TERZO

Nel 1900, sedicenne appena, Gennaro fu il primo dei Gramsci a trovare un'occupazione e quindi a contribuire, se anche in misura modesta, alle esauste finanze familiari.

Vivevamo in grande povertà - racconta Teresina - Mamma era una donna tenace, ancora piena d'energie e decisa a battersi contro la malasorte. Ma per quanto nel lavoro fosse instancabile, sette figli sono sette figli, ed a casa, man mano che si spendevano i soldi ricavati dalla vendita del po' di terre dell'eredità Marcias, tirare avanti diventava sempre più una complicazione. Risparmiavamo sino all'incredibile. Ricordo che, bambine ancora, Grazietta, Emma ed io, raccogliendo la cera delle candele steariche già consumate, fabbricavamo altre piccole candele, in modo che Nino potesse leggere anche dopo venuto il buio.

In quegli anni a cavallo tra il vecchio e il nuovo secolo, Ghilarza era un paese di risorse limitate, non tra i più arretrati dell'isola ma neanche prospero: e ciò per i caratteri primitivi della sua economia; prevalentemente agricola.

Il ghilarzese divide il lavoro tra il raccolto delle biade, la vigna, la legna da ardere, il frutto del bestiame, la cinta e la conservazione dei predi colla possibile esclusione di altre braccia che le sue... Inoltre il patrimonio del paese è scompartito in modo che tutti gli abitanti sono più o meno proprietari di fondi; motivo per cui manca il numero delle braccia ad un'ampia coltura, ed i  contadini che  non hanno  servi  attendono  alla coltivazione  ed al raccolto a cambìos, a manu torrada,  cioè collo scambio della manodopera1.

In questo villaggio di «bassi e oscuri casamenti, vie storte e brutte, vesti tradizionali, patriarcali costumi» e di agricoltura poco più che nuragica, con il contadino assuefatto a vedere «sulle sue fatiche nascere e tramontare il sole», le operazioni cominciate verso la fine del 1899 per la revisione delle vecchie mappe catastali, formate fin lì con rilevazioni a vista, dovevano ripercuotersi beneficamente a più livelli, come accennerò più avanti. Gennaro ebbe dunque al catasto un'occasione di lavoro e i suoi primi guadagni.

Si era nell'estate dopo la seconda elementare di Antonio. I voti ottenuti in seconda (tre dieci, un nove, due otto ed un sette) non erano evidentemente tali da costituire testimonianza di qualità prodigiose. Ad ogni modo, senza essere il genio precoce raffigurato in tante pagine agiografiche, il piccolo Gramsci spiccava di gran lunga su tutti gli altri. Gli era venuta perciò l'idea di saltare un anno:

Avevo fatto la seconda classe elementare e avevo  pensato di fare nel mese di novembre gli esami di proscioglimento, per passare alla quarta saltando la terza classe: ero persuaso di  essere capace di tanto, ma quando mi presentai al direttore didattico per presentargli la domanda protocollare, mi sentii fare a bruciapelo  la  domanda: «Ma conosci gli ottantaquattro articoli dello Statuto?». Non ci avevo neanche pensato, a questi articoli: mi ero limitato a studiare le nozioni di «diritti e doveri del cittadino» contenute nel libro di testo. E fu per me un terribile monito, che  mi impressionò tanto più in quanto il 20 settembre precedente avevo partecipato per la prima volta al corteo commemorativo, con un lampioncino veneziano, e avevo gridato con gli altri: «Viva il leone di Caprera! Viva il morto di  Staglieno!» (Non ricordo se si gridava il «morto» o il «profeta» di  Staglieno: forse tutt'e due, per la verità), certo come ero di essere promosso all'esame e di conquistare i titoli giuridici per l'elettorato... Invece non conoscevo gli ottantaquattro articoli dello Statuto.

Frequentò la terza regolarmente nell'anno scolastico 1900-1901. Poi in quarta ebbe per maestro il cavalier Pietro Sotgiu, che era appunto il direttore degli Ottantaquattro Articoli, e se la cavò collezionando, nello scrutinio finale, undici dieci, un nove e due otto (in ginnastica ed in lavoro). Aveva undici anni. Venuto il tempo delle vacanze (estate del 1902), anche lui finì, come Gennaro, al catasto.

Non che avesse abbastanza salute per lavorare a quell'età. A casa però si andava di male in peggio, e il denaro bisognava procurarselo con sacrificio di tutti, anche dei piccoli, e Antonio dovette adattarsi. «Mi dirigevo da me già da bambino. Ho incominciato a lavorare da quando avevo undici anni, guadagnando ben nove lire al mese (ciò che del resto significava un chilo di pane al giorno) per dieci ore di lavoro al giorno compresa la mattina della domenica e me la passavo a smuovere registri che pesavano più di me e molte notti piangevo di nascosto perché mi doleva tutto il corpo». Non era senza riflessi psicologici l'estenuazione fisica in un bambino già fisicamente tormentato. Tutt'un insieme di circostanze, l'afflizione del corpo, l'avvilimento per il padre in carcere, il clima greve in famiglia e le inevitabili rinunzie (pur se, in casa, tutte le attenzioni erano per lui: la stanza meglio esposta, il cibo migliore) lo portarono a immalinconirsi sempre più. Dirà di sé:

Sono da molti, da molti anni abituato a pensare che esista una impossibilità assoluta, quasi fatale, a che io possa essere amato... Da ragazzo, a dieci anni, ho incominciato a pensare così dei miei genitori. Ero costretto a fare troppi sacrifizi e la mia salute era così debole che mi ero persuaso di essere un sopportato, un intruso nella mia stessa famiglia. Sono cose che non si dimenticano facilmente, che lasciano tracce molto più profonde di quanto non si possa pensare.

Sento dire da Nennetta Cuba: «Alle volte anche rideva, giocava... Solo, il suo non era riso di ragazzo. Mai l'ho visto ridere con gioia».

Quello di quinta elementare (1902-03) doveva essere l'anno del suo primo trionfo scolastico. Ecco i voti: componimento dieci; dettatura dieci; aritmetica dieci nello scritto e nell'orale; lettura spiegata delle cose lette e nozioni grammaticali dieci; storia e geografia dieci.

Ma adesso, finite le elementari? Ghilarza era troppo distante dalle città sarde con ginnasio, e ci volevano soldi, che a Peppina Marcias mancavano, per andarci a vivere. Capitava così ad Antonio Gramsci, malgrado i dieci della licenza elementare, ciò che era capitato a tant'altri bambini poveri non solo del suo paese:  doveva rinunziare agli studi. La povertà in famiglia e il doversi anche lui impegnare nel mal remunerato lavoro provvisorio al catasto gli impedivano di andare al ginnasio. Con i Gramsci del continente non c'erano rapporti: mai Peppina Marcias avrebbe chiesto ad essi di ospitare Antonio, e del resto il ragazzo, partecipe dei sentimenti di fierezza della mamma, non lo avrebbe gradito, se la cosa rischiava di costare a lei una umiliazione. Così anche questa, che poteva essere una soluzione (com'era accaduto per Gennaro, quando, ospite a Ozieri dello zio Nicolino Gramsci, frequentava le prime classi ginnasiali), veniva a cadere. Antonio dovette rassegnarsi a non proseguire, almeno fino all'uscita del padre dal carcere, gli studi. Ma non era rinunzia senza scatti. L'impossibilità di studiare lo inaspriva. Nacque in lui il primo sentimento di rivolta2; continuò a isolarsi: appariva freddo, pungente, con tendenza all'ironia. Scriverà vent'anni dopo alla moglie Giulia: «Io sono stato abituato dalla vita isolata, che ho vissuto fino dalla fanciullezza, a nascondere i miei stati d'animo dietro una maschera di durezza o dietro un sorriso ironico... Ciò mi ha fatto male, per molto tempo: per molto tempo i miei rapporti con gli altri furono un qualche cosa di enormemente complicato».

Solo Mario, il fratello di due anni più piccolo, riusciva in quel tempo a far breccia in lui. Me lo descrivono stravagante e gioviale.

È stato sempre - dice Teresina - l'allegria di casa. Tutto il contrario di Nino, per carattere. Come Nino era posato, lui era irrequieto, chiassoso, incline a bizzarrie comiche. Nino parlava poco, Mario solo cucendogli la bocca si riusciva a farlo star zitto. A tanti spariva di casa il gatto, ed era stato lui, poi si sapeva, e farselo arrostire da un fornaio. Ricordo che una volta mamma lo aveva rinchiuso in casa. Per essere sicura che non se ne uscisse, gli aveva tolto e nascosto le scarpe. Mario, deciso a svignarsela ugualmente, s'era tinto i piedi con lucido nero da scarpe. Capitava allora che, proprio per obbligarlo a starsene in casa, mamma lo vestiva da femminuccia, con qualcuno dei nostri abiti. Solo così Mario era messo nella condizione  di non scappare in giro.

Anche Antonio rideva; alle trovate di questo suo fratello arguto e scatenato. Si facevano buona compagnia. Alle volte, il loro divertimento era di cimentarsi in improvvisazioni poetiche, simili alle gare in uso per le feste patronali, e in queste gare dei fratelli Gramsci erano messi in burla i più curiosi personaggi di Ghilarza. Antonio, bene immerso nell'ambiente paesano ma con tendenza all'ironia, aveva una lunga serie di bersagli sui quali esercitarsi. Parecchio dopo, nei primi mesi del carcere, gli verrà in mente di dedicare ai personaggi della sua infanzia una canzone ricalcata sulla Scomuniga de predi Antiogu a su populu de Masuddas, che è una composizione satirica divulgata verso la fine dell'Ottocento. Leggiamo in una lettera alla mamma:

Vorrei che tu mi mandassi, sai che cosa? La predica di fra' Antiogu a su populu de Masuddas. Ad Oristano si potrà comprare, perché ultimamente l'aveva ristampata Patrizio Carta nella sua famosa tipografia. Poiché ho tanto tempo da perdere, voglio comporre sullo stesso stile un poema dove farò entrare tutti gli illustri personaggi che ho conosciuto da bambino: tiu Remundu Ciana con Ganosu e Ganolla, maistru Andriolu e tiu Millanu, tiu Micheli Bobboi, tiu Iscorza alluttu, Pippotto, Corroncu, Santu Jancu zilighertari ecc. ecc. Mi divertirò molto e poi reciterò il poema ai bambini, fra qualche anno.

I momenti lasciatigli liberi dal lavoro nel catasto Antonio li occupava studiando da sé un po' di latino. Non aveva completamente rinunciato a riprendere, in tempi migliori, la frequenza regolare delle scuole. E per non rimanere molto indietro, nei due anni trascorsi a Ghilarza lontano dalle aule scolastiche, fece da sé. Di quando in quando, prendeva lezioni da uno che aveva fatto gli studi ginnasiali. Si chiamava Ezio Camedda, era un infelice, anche lui gobbo: il non molto che sapeva di latino lo comunicava al piccolo Gramsci. Non si poteva dire, per Antonio, un tirocinio ideale. Ma era già qualcosa. Questa applicazione agli studi almeno lo distraeva.

Infine, un po' di luce. Il 31 gennaio del 1904, Francesco Gramsci finì di espiare la pena, accorciata di tre mesi da un'amnistia; e dopo tanto, verso Pasqua, Peppina Marcias e i figli lo riebbero in casa.

Felle Toriggia ricorda la sera del suo ritorno a Ghilarza.

Noi studenti - racconta - eravamo soliti riunirci in un ponte all'entrata del paese. Le spallette del ponte facevano da sedili, e si stava lì, per quattro chiacchiere. Ed una sera, verso l'imbrunire, ecco il signor Ciccillo e Nannaro che a piedi venivano da Abbasanta, dov'è la stazione ferroviaria. Padre e figlio camminavano in silenzio, affiancati. Quando furono vicini, smettemmo di parlare. Il signor Ciccillo era molto invecchiato. Era serio. Lo salutammo, ci guardava con timidezza. Nannaro gli mise una mano sulla spalla e sempre zitti proseguirono verso il paese.

Con lui, almeno un poco della serenità perduta tornò in famiglia.

 Note

1 Cfr. Michele Licheri, Ghilarza. Note di storia civile  ed ecclesiastica. Monografia  stampata proprio all'alba  del  1900.

2 Ricordava anni più tardi: «Che cosa mi ha salvato dal diventare completamente un cencio inamidato? L'istinto della ribellione, che da principio era contro i ricchi, perché non potevo andare a studiare, io che avevo preso dieci in tutte le materie nelle scuole elementari, mentre andavano il figlio del macellaio, del farmacista, del negoziante in tessuti...».

CAPITOLO QUARTO

Antonio Gramsci aveva tredici anni e, finite da un anno le elementari, se ne stava a Ghilarza a «strascicar registri» nell'ufficio del catasto quando, nel settembre del 1904, a Buerru, grosso centro minerario sulla costa sud-occidentale della Sardegna, la truppa sparò contro gli operai in sciopero, uccidendone tre. Era il primo sbocco violento della lunga crisi cominciata (o la cui accentuazione era cominciata) a un dipresso una quindicina d'anni prima.

Certo, dire florida l'economia sarda sino al 1887 sarebbe un'enormità. Comunque, anche se in un quadro di generale arretratezza, l'avvio ai mercati francesi di tanti prodotti dell'agricoltura isolana, i vini, l'olio, il bestiame bovino, aveva ben contribuito fin lì ad impedire almeno la prostrazione to tale. Vennero poi le grandi catastrofi bancarie: chiusi gli sportelli della Cassa di risparmio di Cagliari nel 1886; andato in dissesto nel 1887 il Credito agricolo industriale sardo; messa in liquidazione, in seguito, la Banca agricola sarda. La prima conseguenza doveva essere l'usura, con la rovina di tanti piccoli produttori: i quali, per il fenomeno di frantumazione della proprietà fondiaria in fettucce, in fazzoletti di terra, erano moltitudine. Ma ciò che soprattutto colpì a morte l'agricoltura sarda fu nel 1889 la disdetta dei trattati commerciali con la Francia, effetto degli aggravi doganali introdotti dal governo italiano a protezione della grande borghesia industriale del Nord. Privata del suo mercato tradizionale, l'agricoltura sarda, anche per cause concorrenti, come l'epidemia fillosserica di quegli anni, toccò il fondo della crisi. Mancavano oltre tutto in Sardegna le industrie capaci di attenuare le conseguenze del collasso agricolo e di assorbire la manodopera eccedente in campagna. Ne derivarono quattro conseguenze: l'assalto ai bacini minerari del Sulcis-Iglesiente, dove però il lavoro per tutti non c'era; l'intensificarsi del flusso migratorio; la disoccupazione e la sotto-occupazione avviate a indici inquietanti; la recrudescenza del banditismo.

Un quinto effetto del blocco delle esportazioni fu la caduta del prezzo del latte. Giudicando il fenomeno propizio all'apertura in Sardegna di nuovi caseifici, molti industriali del formaggio napoletani, romani e toscani si insediarono nell'isola. Erano, almeno in principio, in concorrenza tra loro, e il prezzo del latte ricominciò a salire. Parve così ai sardi che la pastorizia fosse ora più remunerativa  delle  colture  tradizionali: vigne e campi di grano diventarono pascoli; di conseguenza, ortaggi, olio, pasta e tant'altri generi di consumo elementare, dei quali diminuiva l'offerta per la sottrazione all'agricoltura di troppe terre destinate alla pastorizia, subirono un rialzo di prezzo: non a vantaggio dei piccoli proprietari, i quali solitamente potevano raccogliere appena il tanto della provvista familiare, ed a scàpito delle plebi urbane e minerarie. Poi anche per gli allevatori cominciò la spirale regressiva. Mano a mano che gli industriali del formaggio si organizzavano in corporazione e scoprivano mercati nuovi, il potere contrattuale dei pastori cadeva del tutto. Ormai i padroni dei caseifici erano in grado di imporre il prezzo del latte e di vendere anche in Sardegna il formaggio ai prezzi, altissimi, del mercato internazionale. Ebbe diffusione in quei tempi, tra le classi umili, un modo di dire abbastanza eloquente: «Chie mandicat casu hat dentes de oro» (chi mangia formaggio ha denti d'oro).

Dominavano l'economia isolana, con gli industriali del formaggio, i concessionari di riserve minerarie, per lo più stranieri, ed i grandi proprietari terrieri arricchitisi anche con l'usura.

I ribelli ai feudatari - scrive Camillo Bellieni - i cavaglieris che avevano seguito Angioy e che avevano attizzato le sommosse popolari, una volta riusciti ad abbattere la feudalità ed a rendersi padroni delle terre che erano state dei baroni dai sonanti nomi spagnoli, ne avevano rincrudito i sistemi di esazione, e con la loro sorveglianza avevano aggravato la servitù della minuta gente ch'era un tempo alleviata dall'assenteismo signorile. Più feroci dei gastaldi, erano giunti a un'oppressione così assillante da non permettere altra reazione fuor che quella del gesto violento del bandito.

La criminalità tornò ad essere uno dei peggiori flagelli dell'isola. Testimonia Togliatti che, nei primi anni torinesi, Gramsci stimolava i compagni a riflettere «sulla struttura dei rapporti commerciali della Sardegna, isola, con il continente italiano, con la Francia, con altri paesi, e del rapporto che si poteva stabilire tra la modificazione di questi rapporti e fatti di ordine apparentemente assai lontano, come lo sviluppo della delinquenza, per esempio, la frequenza degli episodi di brigantaggio, la diffusione della miseria e così via». In realtà il nesso c'era. Lo aveva statisticamente dimostrato nel '96 Francesco Pais Serra denunciando la progressione discendente dei delitti negli anni tra il 1880 ed il 1887, cioè gli anni dei traffici aperti con la Francia (da 225 omicidi nel 1880 a 148 nel 1887; da 184 rapine a 92) e la progressione ascendente in seguito alla chiusura del mercato di Marsiglia (di nuovo 211 omicidi e 222 rapine nel 1894, cinque anni dopo la disdetta dei trattati commerciali con la Francia). «La lotta di classe», scriverà nel 1919 Antonio Gramsci riferendosi ai contadini in generale ma con parole che lucidamente rispecchiano la realtà sarda di quegli anni, «si confondeva col brigantaggio, col ricatto, con l'incendio dei boschi, con lo sgarrettamento del bestiame, col ratto dei bambini e delle donne, con l'assalto al municipio: era una forma di terrorismo elementare, senza conseguenze stabili ed efficaci».

Pochi tuttavia riuscivano a individuare allora i limiti e l'intrinseca sterilità dello scatto anarchico, della protesta individuale del bandito. Un alone di leggenda rischiarava anzi la figura del fuorilegge. Si diffondeva il mito del «baiente», del «vendicatore» intrepido, ed alla solidarietà di fatto dei pastori e dei contadini, pronti sempre ad approvvigionare e a nascondere il latitante, si accompagnava la solidarietà intellettuale di poeti e di scrittori. Usciva nel 1894 su «L'Isola» di Sassari l'intervista di Sebastiano Satta coi banditi Derosas.

Delogu e Angius, raggiunti alla macchia; ed ecco un ritratto del Derosas, come lo vedeva il poeta di Barbagia: «Ha certi scatti di fierezza, certe tenerezze per tutto ciò che è sua famiglia, certe devozioni per le amicizie. L'orgoglio, in lui fortissimo, di non essere un sicario, l'idea, l'illusione, quasi, di adempiere coi suoi terribili atti a una missione di giustizia, lo mettono in assai più alto livello di un volgare assassine». Era uno dei banditi «belli feroci prodi» che, del resto, non soltanto il Satta inclinava a epicizzare. Nel '97 il saggista e romanziere Enrico Costa dava alle stampe Giovanni Tolu. Storia di un bandito sardo narrata da lui medesimo. I primi racconti di Grazia Deledda già includevano figure che in qualche misura anticipano il Simone Sole di Marianna Sirca. Era un continuo circolo di succhi umorali che le classi subalterne comunicavano ad alcune zone di intellettuali e che, arricchiti dal vigore fantastico di questi, tornavano al popolo con aumentata carica suggestiva. Così, poco a poco, le vecchie glorie nazionali-sarde (nazionali entro una dimensione di patria sarda), Eleonora d'Arborea, Leonardo Alagon e poi Giovanni Maria Angioy, sbiadivano, sostituite nell'immaginazione popolare da quest'altra mitologia barbarica. E seppure nelle scuole di Ghilarza il maestro cavalier Pietro Sotgiu s'attardava a far cantare ai suoi alunni (Gramsci tra questi): «Fulminar la superba Aragona | t'han veduto le attonite genti | rinnovare gli obliati portenti | del romano e del greco valor», davvero poca era la partecipazione sentimentale dei ragazzi a simili gesta. «A noi, ricordo», scrive Antonio Gramsci, «non riusciva di immaginare queste "genti attonite" per l'eroismo del marchese di Zuri; piuttosto piaceva Giovanni Tolu e anche Derosas, che sentivamo più sardi anche della grande Eleonora».

Il fatto è che, mancando allora in Sardegna un qualsiasi tipo di organizzazione politica in grado di disciplinare la rivolta e di indicare ad essa obiettivi chiari, lo sfogo anarchico del bandito, insensato e bestiale e infecondo che fosse, era nondimeno, in quella data situazione storica, il solo possibile. I partiti non esistevano se non come clientele, ideologicamete annebbiate, di potenti largitori di benefizi. La massoneria, pur eccitatrice di animi, in effetti non era altro che una mscheratura del gran gioco borghese. Il radicalismo poteva trascinare al delirio le folle, e quando Felice Cavallotti venne in Sardegna, una prima volta nel gennaio-febbraio del 1891 e poi nel novembre del '96, ed allo sperpero di denari del Crispi per le avventure africane oppose l'abbandono in cui l'isola era tenuta, entusiastico fu il consenso delle piazze ai suoi discorsi; ma, partito lui, tutto continuò a rimanere come prima. Dal suo canto il socialismo (appena 128 iscritti in tutta l'isola nel '96) muoveva i primi faticati passi, per di più svuotato in principio, salvo che nel Sulcis-Iglesiente, da un processo di decolorazione locale. A Tempio, scrive Camillo Bellieni, «il socialismo significava sopratutto la lotta, per il trionfo del Libero Pensiero e proibizione assoluta ai paladini suoi di battezzare la prole». Anche altrove, Cagliari compresa, era solo un po' più di grinta barricadiera e di infuocati spiriti quarantotteschi ogni 17 febbraio, ricorrenza dell'incenerimento di Giordano Bruno, quando in corteo gli si andava a deporre fiori davanti al busto. Il «sole rosso» aveva appena cominciato a spuntare. Veicoli delle nuove idee erano uomini capitati in Sardegna occasionalmente.

Così fu anche per Ghilarza. Isola nell'isola come tutti i paesi sardi fin verso il 1870 (e ciò per le notevoli distanze fra loro, per le poche e disagevoli strade, simili spesso a tratturi, per l'insufficienza delle comunicazioni, affidate a diligenze con cavalli, e per un tipo di economia familiare che aveva l'effetto di ridurre a poco i commerci tra villaggio e città), Ghilarza era rimasta a lungo in posizione eccentrica rispetto al mondo moderno. Aveva legami solo con i paesi vicini. Molto raramente succedeva che forestieri mettessero radici qua. «Nel cimitero», leggiamo nel Dizionario scritto a metà secolo dall'Angius, «non si seppellisce che qualche straniero che muoia nelle carceri». Solo più tardi, costruita la ferrovia (che passa ad Abbasanta, centro unito oggi a Ghilarza), il paese cominciò ad essere tolto dall'isolamento. Ma un inserimento effettivo nella storia del tempo si ebbe nel 1899 con la venuta dei catastali, grosso plotone di tecnici e di impiegati, in gran parte giovani, che il governo aveva spedito nei paesi della Sardegna per la revisione delle vecchie mappe. Ce n'erano molti di regioni settentrionali. Una ventata di idee nuove entrava con essi a Ghilarza. Altre abitudini di vita, più moderne aspirazioni irrompevano a smuovere l'aria ferma del paese. Ed i giovani ghilarzesi reclutati per lo stesso lavoro nel catasto avevano infine nuovi modelli cui ispirarsi, altri giornali da leggere, libri che prima da queste parti non circolavano. Il maggiore dei fratelli Gramsci, Gennaro, scoprì l'«Avanti!» e prese gusto a quel giornalismo di denuncia. Ascoltò i discorsi di chi rievocava l'eccidio del '98 a Milano, con centinaia di lavoratori inermi assassinati dalla gendarmeria di Bava-Beccaris; così anche seppe della croce di grande ufficiale dell'ordine militare di Savoia subito personalmente conferita da re Umberto al generale massacratore... Partecipava a simili discorsi con curiosità di ragazzo. Aveva allora, nel 1900, sedici anni, e fu questa la sua prima iniziazione alle idee nuove.

L'effettivo terreno di cultura del socialismo era però il Sulcis-Iglesiente. Un settentrionale di umili origini, Giuseppe Cavallera, trasferitosi poco più che ventenne a Cagliari per sfuggire alle persecuzioni politiche in Piemonte e laureatosi l'anno dopo, nel '96, in medicina, divulgava lì, tra i minatori, la dottrina socialista.

Chi erano questi minatori? E come vivevano? Era stata la grande crisi delle campagne a spingere migliaia di contadini e di pastori a cercare lavoro nella sola industria capace allora in Sardegna di assorbire parte del bracciantato agricolo senza occupazione: l'industria estrattiva. Le condizioni di lavoro non erano molto diverse da quelle degli schiavi ad metalla, al tempo di Roma, o delle «compagnie delle fosse», che lavoravano per l'opulenza pisana. Era cambiato il padrone, ora rappresentato dal capitale in prevalenza straniero, francese o belga; lo sfruttamento schiavistico dell'operaio rimaneva inalterato. Gens taillables et corvéables à merci, i contadini e i pastori sardi assunti in miniera verificavano sulla propria pelle quali stimmate lascia un certo modo d'applicare la legge del profitto. «Nelle numerose autopsie che ho fatto, ho trovato i polmoni dei minatori completamente anneriti dal carbonio e le glandole peribronchiali completamente infiltrate di fumo di candela ad olio.» Sono parole di un medico intervistato dalla commissione parlamentare d'inchiesta venuta in Sardegna ai primi del secolo. Un altro medico dichiarò: «I lavoratori sputano nero». Ed ancora stralciando dai verbali della commissione d'inchiesta: «Nella laveria di Seddas Moddizzis si lavora per undici ore consecutive, e cioè dalle sei della mattina alle cinque della sera, e l'operaio è costretto a mangiare quel tozzo di pane nero mentre lavora, avendo per companatico polvere di calamina». I medici interni, stipendiati dalle compagnie minerarie, avevano interesse a collaborare con queste non ammettendo troppe malattie contratte sul lavoro. La commissione parlamentare dovette raccogliere testimonianze come questa: «Quando mi fu venuta la malattia, il medico mi dichiarò di essere ubbriaco e provò a darmi il chinino sciolto che lui credeva di rifiutarcelo per potermi sospendere e invece lo bevvi volentieri perché sapevo come stavo e la malattia mi cambiò rimanendomi una gran furia alla testa».

Così, gravati da turni di lavoro spaventosamente lunghi e corrosivi anche per il tipo di fatica, senza mai un giorno di riposo alla settimana, senza diritto alle ferie, privati del salario nei giorni d'assenza per malattia, pagati ad arbitrio del concessionario nella misura e nelle scadenze (ogni due o quattro mesi) e quindi esposti al taglieggiamento delle cantine di generi alimentari che le compagnie minerarie gestivano direttamente o cointeressando personale di fiducia, e poi alloggiati in cameroni o in catapecchie uguali a stalle e costretti a nascondere la tubercolosi per non rischiare il licenziamento - in queste condizioni subumane vivevano negli anni a cavallo tra il vecchio e il nuovo secolo circa quindicimila contadini e pastori andati in miniera. Giuseppe Cavallera svolgeva il suo lavoro di organizzatore in mezzo ad essi.

Lavoro difficile perché su due fronti. Primo, l'antica massima socialista «Lo stato non è che il comitato direttivo della classe borghese» era a quei tempi tutt'altro che una metafora settaria. Secondo, le maestranze minerarie del Sulcis-Iglesiente erano in realtà sottoproletariato rurale da poco insediato in zone industriali e perciò con tutti i caratteri tipici del mondo contadino d'allora: l'individualismo (la riluttanza all'aggregazione anche se in vista della difesa comune) e la rassegnata passività di fronte al male per paura del peggio (la perdita del posto, ad esempio). Alla rassegnazione poteva semmai darsi l'alternativa della sommossa violenta, non della lotta paziente e disciplinata1.

La durezza del primo fronte,  Cavallera  potè  verificarla subito. Dopo l'eccidio del '98 a Milano, aveva mandato a una sottoscrizione aperta dall'«Avanti!» per le famiglie degli uccisi un po' di soldi raccolti a Carloforte. Gli si addebitò il delitto di questua illecita e fu condannato a sei giorni di reclusione (in appello, il tribunale di Cagliari assolse). Aveva costituito nel settembre del '97 a Carloforte una lega tra i battellieri che trasportavano il minerale estratto a Bugerru (lega sciolta d'autorità nel giugno del '98 in seguito all'eccidio di Milano e poi ricostituita). Fu arrestato nell'agosto del 1900 insieme ad altri diciotto compagni, ed ecco la grandinata degli sbalorditivi capi d'accusa: l'essersi riuniti in lega diventava, nientemeno, associazione a delinquere; le quote pagate dai soci erano pretesto per addebiti di truffa e di appropriazione indebita; ancora: l'aver consigliato l'associazione e il pagamento dei tributi veniva rubricato come estorsione. Poi su tutte, immancabile, l'accusa di eccitamento all'odio di classe. Il processo durò dal 17 luglio al 3 agosto del 1901. L'incredibile montatura era destinata a cadere. Cavallera si ebbe tuttavia una condanna a sette mesi, sei dei quali condonati (ma aveva già scontato undici mesi di carcere in attesa di giudizio). Non si arrese. La riduzione a strumenti di classe di prefetture, polizia ed esercito doveva darsi in fondo per scontata. Anche era da mettersi nella logica  delle  cose  che la  magistratura, allora espressa quasi per intero dalla classe proprietaria, ne conservasse l'ideologia. Dunque non si scoraggiò. Aveva, all'uscita dal carcere, ventisette anni e lo slancio non affievolito di chi fermamente crede in qualcosa. Giolitti, suo compaesano (entrambi di Dronero), lo definirà «un sassaiuole». Era, al contrario, un giovane mite, lucido sempre nel distinguere tra il desiderabile e il possibile, tra il prezzo che è necessario pagare per una conquista almeno probabile e l'imporre ai lavoratori dei sacrifìci senza speranza di risultati positivi. Costituì la prima lega tra operai di miniera a Bugerru nel 1903 (l'avrebbe diretta Alcibiade Battelli). Altre, per sua iniziativa, ne fiorirono in breve tempo. Aveva dato vita ad un periodico, «La Lega», affidandone la direzione prima a Efisio Orano e poi a un giovane studente in legge, Jago Siotto. Nel 1904 era a capo della federazione regionale dei minatori, con sede a Iglesias. Il 4 settembre di quello stesso anno avvenne l'eccidio di Bugerru.

Da cinque giorni gli operai erano in sciopero: reagivano all'introduzione di nuovi orari giudicati inammissibili; nulla faceva tuttavia presagire la tempesta. Sin dal primo pomeriggio Cavallera e Battelli trattavano col direttore della compagnia francese «Malfidano», l'ingegner Achille Giorgiades, un turco naturalizzato greco, e col suo assistente Steiner, uno svizzero, le basi di composizione della vertenza. Fu nel corso di quelle trattative che a Bugerru arrivò la truppa: non molto era cambiato in Italia, per simile aspetto, dagli anni del Di Rudinì e del Pelloux. Come i soldati ebbero finito di concentrarsi tutt'intorno agli uffici direttivi della miniera, venne dato l'incarico ad alcuni operai di preparare un magazzino per l'alloggiamento della truppa. Essi obbedirono, ma a tant'altri parve che quell'opera fosse da crumiri. Volarono sassi. La truppa sparò, e tre minatori caddero uccisi, più undici feriti.

Era il primo sangue sparso nell'isola per lotte sociali. Fu proclamato in tutt'Italia lo sciopero generale, il primo di simile ampiezza nella storia del movimento operaio italiano. In Sardegna, per debolezza di organizzazioni, tutte ancora allo stato larvale, e non perché le plebi urbane e contadine e il semi-proletariato minerario non partecipassero sentimentalmente alla tragedia di Bugerru, il movimento di protesta non ebbe echi. E tuttavia si era ugualmente a una svolta. La morte di tre minatori, scrive Angelo Corsi, aveva «commosso e rese attente, se non sveglie anch'esse» le popolazioni sarde. Segnava l'inizio del passaggio dalla rivolta anarchica del bandito a un metodo più giusto di lotta collettiva, e il sangue sparso poteva essere l'elemento di consacrazione di quest'inizio di svolta. Certo, un nuovo capitolo di storia si apriva.

Note

1 Velio Spano ricorderà le arrabbiature di Gramsci per «l'astrattismo facilone che considera un minatore di Montevecchio alla stregua di un operaio della Fiat».

CAPITOLO QUINTO

Tornato a Ghilarza dal carcere, Francesco Gramsci non ebbe, soprattutto nei primi tempi, vita facile. Usciva pochissimo evitando di incontrare la gente: l'umiliazione per la disavventura patita gli pesava, né aveva un qualsiasi lavoro. L'impossibilità di accesso ai pubblici impieghi (solo più tardi sarà riabilitato) era di grave impedimento alla reintegrazione nella vita attiva, perché al di fuori di quegli uffici le occasioni di lavoro mancavano. Aveva continuato a vivere dunque da segregato. I ghilarzesi però guardavano a lui con simpatia. Spietati con chiunque si fosse meritato il discredito, nondimeno avvertivano che nei confronti di Francesco Gramsci, dato lo sfondo politico della sua disgrazia, si era un po' troppo calcata la mano, e il sospetto di ingiustizia li spingeva a manifestare solidarietà per chi l'aveva sofferta. Lo ammisero al Circolo di lettura, ambiente chiuso e con soci rigorosamente selezionati. Dopo che fu costituita una mutua per l'assicurazione del bestiame bovino, gliene affidarono la segreteria. Venne la riabilitazione e, favorito dai suoi studi universitari in legge, potè fare il patrocinante in conciliatura. Volentieri i ghilarzesi gli fornivano lavoro. Era una buona pasta. La sua compagnia allietava. Di esuberanza meridionale, intelligente, umano, era il compagno che a tutti piaceva, la sera, avere al tavolo del quintiglio. Otterrà infine un posto di amanuense al catasto, e con i magri proventi di questo impiego tirerà avanti per tutta la vita.

Naturalmente in famiglia, dopo il suo ritorno, l'aria era cambiata. Continuavano ad essere assillanti, però, i problemi pratici: prima per la forzata inattività del signor Ciccillo e poi per la modestia dei suoi guadagni, appena trovato il lavoro. Gennaro, andato a Torino per il servizio di leva, non poteva più dare l'aiuto di prima. Anche Mario era fuori casa: nel 1904, dopo aver finito le elementari, era entrato nel seminario di Oristano. Dei maschi, portava soldi a casa, dunque, il solo Antonio. Carlo, bambino ancora, frequentava le prime classi elementari. Poi qualcosa riuscivano a guadagnare Peppina Marcias con lavori di cucito e Grazietta ed Emma sferruzzando su calze, maglie e sciarpe che vendevano. Solo verso la fine del 1905, Francesco e Peppina, fatti i conti, conclusero che, magari con nuovi sacrifici, avrebbero potuto mandare Antonio al ginnasio di Santulussurgiu. Nei due anni trascorsi a Ghilarza lontano dai banchi scolastici, il ragazzo s'era preparato da sé e con qualche lezione privata. Ora vicino ai quindici anni, pensava di potersi iscrivere direttamente alla terza ginnasiale. Nell'istituto non gli fecero difficoltà: era una scuola comunale, non di stato. Così Antonio riprese gli studi regolari, anche se, come vedremo, di regolarità ben relativa, date le precarie condizioni di quel ginnasio.

Santulussurgiu dista da Ghilarza diciotto chilometri. C'è una corona stretta di monti, e sui bordi del catino sta il paese, uguale, per disposizione, a qualcosa di costruito sulla bocca di un vulcano. Verso metà secolo, due possidenti, Pietro Paolo Carta Ledda e Giovanni Andrea Meloni, avevano lasciato in anni diversi i loro beni agli Scolopi, all'espressa condizione che i congregati se ne servissero per istituire in paese «le scuole di latinità fino alla rettorica inclusiva». Nell'ipotesi di scioglimento dell'ordine, l'amministrazione dei lasciti era affidata, per lo stesso fine, al Consiglio comunale. In effetti, nel 1866, gli Scolopi dovettero andarsene: cominciò quell'anno la lunga controversia tra il Comune di Santulussurgiu e il demanio statale, liquidatore dell'asse ecclesiastico, finché la vertenza non venne chiusa da un decreto regio nel 1901. Il ginnasio comunale aprì i battenti subito dopo. In quali condizioni?

Antonio Gramsci lo ricorda come «un ginnasio in verità molto scalcinato», «un piccolo ginnasio in cui tre sedicenti professori sbrigavano, con molta faccia tosta, tutto l'insegnamento delle cinque classi». Andando a consultare i registri dove sono verbalizzate le sedute del consiglio d'amministrazione dell'istituto, si scopre che il giudizio non pecca di eccessiva severità, ed anzi molte sono le testimonianze dirette anche più gravi. Ecco ad esempio ciò che fu costretto a rilevare il presidente teologo Francesco Porcu nella seduta del 4 marzo 1905 (Gramsci sarebbe venuto a Santulussurgiu alcuni mesi dopo): «Due degli insegnanti di questo ginnasio sono sforniti dei titoli che li abilitino all'insegnamento. Per due anni consecutivi, vennero i medesimi mantenuti nel posto loro conferito, nella speranza che essi pensassero a regolarizzare la loro posizione. Non essendo ciò avvenuto», concludeva il presidente, «è il caso di bandire ora il concorso pel prossimo venturo anno scolastico 1905-6» (il primo anno di frequenza di Gramsci). In realtà il concorso venne bandito, ma la desiderata partecipazione di molti buoni insegnanti non ci fu, e, per giunta, alcuni di quelli finiti ai primi posti della graduatoria disertarono. Il futuro segretario della Camera del lavoro di Sassari, Massimo Stara Serra, destinato alla classe di Gramsci, presentò le dimissioni dopo appena un paio di settimane. Chi avrebbe dovuto subentrargli, il milanese Alfonso Franchini, chiese per venire a Santulussurgiu un anticipo. Non venne ugualmente. E solo il 7 febbraio, ad anno scolastico ben avanzato, Antonio cominciò ad avere lezioni di materie letterarie da due supplenti. Poi un ingegnere insegnava le materie scientifiche e la lingua francese. Per tutt'e tre gli anni del ginnasio, Antonio avrà questi insegnanti. Con quale profitto sappiamo da una lettera dal carcere: «Io avevo spiccatissime tendenze per le scienze esatte e per la matematica, da ragazzo. Le ho perdute durante gli studi ginnasiali, perché non ho avuto insegnanti che valessero un poco più di un fico secco». Era stato del resto un consigliere d'amministrazione della scuola, il dottor Giampietro Meloni, a denunciare nella seduta del 21 settembre 1906 (Gramsci aveva già frequentato la terza ginnasiale): «I risultati finora  ottenuti  da  questo ginnasio sono stati purtroppo sempre meschinissimi». Il consigliere giudicava addirittura vantaggiosa per tutti la chiusura dell'istituto e arrivò a proporre in votazione un ordine del giorno così formulato: «L'amministrazione, riconosciuto che il ginnasio non funzionò mai bene... delibera di chiudere per tre o quattro anni». L'ordine del giorno fu respinto, e in un modo o nell'altro, a strappi e a mozzichi, Antonio Gramsci potè comunque frequentare sino alla quinta ginnasiale. L'ultimo anno, a fine dicembre le lezioni non erano ancora cominciate. I professori, restii a venirsene a Santulussurgiu, domandavano un rinvio dopo l'altro, e il presidente, obbligato a subire, non sapeva più a che santo votarsi. Infine, ricaviamo sempre dal verbale, concluse:

Si dovrà far venire i professori anche in ritardo... Gli alunni ne avranno sempre un vantaggio, giacché per loro sarebbe ormai impossibile avere l'ammissione in altri istituti. Del resto, altre volte questo ginnasio si è aperto in gennaio o in febbraio, e non potrebbe sembrare strano se oggi per qualche settimana mancano i  professori.

La poca puntualità e la dubbia scienza dei professori non erano evidentemente le condizioni ideali perché Antonio Gramsci recuperasse il tempo perduto a Ghilarza nei due anni dopo la licenza elementare. E ancora, ad aggravare il disagio degli studenti, specie di quelli in non buona salute, come Antonio, contribuiva l'insalubrità dei locali dove le lezioni si svolgevano. Il ginnasio comunale Carta-Meloni, sappiamo dal consigliere d'amministrazione dottor Giomaria Manca, si era trasferito dagli «ambienti malsani del convento degli ex Minori Osservanti» ad una casa d'affitto; e qui l'istituto continuava ad essere in condizioni «deplorevoli», «collocato in ambienti malsani e alquanto ristretti e non sufficienti ai bisogni della scuola».

Poi non è che Antonio, uscendo di scuola, trovasse a casa un ambiente migliore. Abitava nel rione Sa Murighessa, pensionante d'una contadina di mezza età, Giulia Obinu, che era stata domestica del medico del paese: «Pagavo cinque lire mensili per l'alloggio, la biancheria del letto e la cucinatura della molto frugale mensa». Questa Giulia Obinu «aveva una vecchia madre un po' scema, ma non pazza, che appunto era la mia cuoca e governante, la quale ogni mattina, quando mi rivedeva, mi domandava chi ero e come mai avevo dormito in casa loro eccetera». A parte lo svanimento della vecchia, l'aria non doveva essere molto allegra, in questa casa, e ciò per il caratterino della ex domestica, impuntata a sbarazzarsi della madre: «Voleva che il Municipio la inviasse a sue spese nel Manicomio provinciale e perciò la trattava in modo così aspro e scellerato da vedere di costringerla a commettere qualche grave eccesso per aver modo di affermarne la pericolosità. La vecchia sempre diceva alla figlia che le parlava col lei secondo il costume: Dammi del tu, e trattami bene!».

Capitava abbastanza di frequente che Antonio, frastornato dalle scenate, se ne andasse a studiare in casa d'amici. Riusciva simpatico a tutti. Il ragionier Marco Massidda, suo compagno di banco, ricorda: «Era un giovane tranquillo e di buon cuore ed era felice di aiutare i compagni. È stato sempre il primo della classe in tutte le materie, e nei componimenti era meraviglioso» (ma, a proposito dei componimenti d'allora, è forse l'affetto a influenzare il giudizio).

Antonio veniva a Santulussurgiu il lunedì mattina su un carrozzone con quattro cavalli, due tra le stanghe e due liberi dietro per il cambio a metà percorso; tornava a Ghilarza il sabato, qualche volta a piedi, e magari con rischio, essendo quella zona, allora non meno d'oggi, teatro d'operazione di banditi. Vengono a svernarci i pastori delle Barbagie, e c'è tra Santulussurgiu e Ghilarza un'area di traffico degli abigeatari dai pascoli di pianura del Campidano oristanese su verso Borore. Mai Gramsci, ad ogni modo, ebbe fastidi, a parte l'avventura che egli stesso ricorderà in una lettera a Tania:

Ti voglio raccontare un episodio quasi natalizio della mia fanciullezza, che ti divertirà e ti darà un tratto caratteristico della vita dalle mie parti. ...Con un altro ragazzo, per guadagnare ventiquattro ore in famiglia, ci mettemmo in strada a piedi il dopopranzo del 23 dicembre invece di aspettare la diligenza del mattino seguente. Cammina cammina, eravamo a circa metà viaggio, in un posto completamente deserto e solitario; a sinistra, un centinaio di metri dalla strada, si allungava una fila di pioppi con delle boscaglie di lentischi. Ci spararono un primo colpo di fucile in alto sulla testa; la pallottola fischiò ad una decina di metri in alto. Credemmo a un colpo casuale e continuammo tranquilli. Un secondo e un terzo colpo più bassi ci avvertirono subito che eravamo proprio presi di mira e allora ci buttammo nella cunetta, rimanendo  appiattati un pezzo. Quando provammo a sollevarci, un altro colpo e così per circa due ore con una dozzina di colpi che ci inseguivano, mentre ci allontanavamo strisciando, ogni volta che tentavamo di ritornare sulla strada. Certamente era una comitiva di buontemponi che voleva divertirsi a spaventarci, ma che bello scherzo, eh? Arrivammo a casa a notte buia, discretamente stanchi e infangati e non raccontammo la storia a nessuno, per non spaventare la famiglia, ma non ci spaventammo gran che, perché alle prossime vacanze di carnevale il viaggio a piedi fu ripetuto senza incidenti di sorta...

A Ghilarza i sabati di Antonio si aprivano regolarmente con un po' di feste, un rimprovero materno e una lavata di testa da parte del padre.

Il rimprovero era per l'uso fatto a Santulussurgiu delle provviste settimanali. Di continuo si veniva a sapere in famiglia che Nino, desiderando comprare libri e giornali, vendeva un po' delle sue scorte (pasta, olio, formaggio e simili) a gente del luogo. Questo la mamma non riusciva a perdonarglielo. Chissà in quali condizioni, non si stancava mai di ripetergli, si sarebbe ridotto, lui così malaticcio, a non nutrirsi in modo conveniente.

Le lavate di testa erano per certa stampa sovversiva che Francesco Gramsci, inorridito, vedeva tra le mani del figlio. Quei giornali e quegli opuscoli venivano da Torino. Gennaro, già avviato a simpatizzare per le nuove idee quando a Ghilarza lavorava nel catasto con i giovani tecnici arrivati da regioni progredite, faceva adesso il soldato nella città più rossa d'Italia; e con il fervore di tutti i neofiti, via via che la sua adesione al socialismo diventava più convinta, era indotto a cercar proseliti un po' dappertutto, e naturalmente anche in famiglia. Antonio, il cui gusto per la lettura era cresciuto con gli anni, i giornali e gli opuscoli mandati da Gennaro li chiedeva subito, appena arrivato a casa il sabato sera. Di qua le dispute con il padre. Tentava di cavarsela celiando. «È proprio vero», gli diceva, «che discendi dai Borboni». Francesco aveva, non casualmente, il nome dell'ultimo re delle Due Sicilie, Francesco II. Era nato a Gaeta nel marzo del 1860, poco prima che l'esercito italiano la cingesse d'assedio, e il colonnello della gendarmeria borbonica Gennaro Gramsci, suo padre, era lì a difendere accanitamente l'ultimo presidio dei Borboni contro le truppe del generale Cialdini1. Raccontavano in famiglia che, durante l'assedio di Gaeta, nonna Teresa Gonzales, avendo Francesco di pochi mesi in braccio, fuggi dalla città assediata verso Formia, traversando a piedi le linee del Cialdini. A parte la formazione familiare, il conservatorismo di Francesco Gramsci discendeva anche da altre circostanze. Suo fratello Nicolino era stato a Caserta istruttore di Vittorio Emanuele III, e lui stesso un giorno lo aveva conosciuto. Mai più avrebbe dimenticato l'emozione provata sentendosi chiamare per nome e avendo la mano stretta dall'augusto erede al trono. Aveva in casa la fotografia di un cavallo: era il purosangue dato in dono dal futuro re d'Italia a Nicolino. Quella fotografia suscitava in lui orgoglio e pensieri di rispetto per la dinastia sovrana. Figurarsi lo sbigottimento da cui era preso nel vedere i suoi giovani figli disposti a lasciarsi intossicare dalla stampa sovversiva. Si deve anche aggiungere che allora esporsi con idee socialiste significava, al minimo, avere una scheda in questura. E il signor Ciccillo, scottato dagli anni passati in carcere per cose delle quali probabilmente nessuno si sarebbe occupato se non ci fosse stata di mezzo la politica, aveva assai poca voglia di rivedere in casa lucerne di carabinieri e baffi di poliziotti a causa dei figli sovversivi. La sua autorità paterna era però in crisi, dopo la disavventura giudiziaria. Per evitare le discussioni, Antonio chiese al postino che l'«Avanti!» e il resto del materiale inviato da Gennaro gli venissero consegnati personalmente, di nascosto dal padre, e di politica in casa si parlò sempre meno.

Se ne riparlò, ma di nascosto, dopo il ritorno di Gennaro, che intanto, finito il servizio di leva, aveva ripreso il suo lavoro al catasto. La famiglia era nuovamente tutta unita. Mario, pur sapendo di dare un grosso dispiacere alla mamma, aveva lasciato la tonaca di seminarista. Non se la sentiva di continuare in quegli studi. «Voglio sposarmi» diceva. «Io l'idea di farmi prete non ce l'ho. Inutile continuare. Mandateci Nino in seminario, casomai. Lui alle ragazze non ci pensa e il prete può farlo».

Nino andò a Oristano a prendersi la licenza ginnasiale. Era l'estate del 1908; aveva diciassette anni e mezzo. Non poteva certo aspettarsi, dopo i due anni di preparazione privata a Ghilarza e gli avventurosi anni ginnasiali a Santulussurgiu, un esito particolarmente brillante. In luglio, due materie, matematica e scienze, neanche le diede. L'esame nella terza materia insegnata a Santulussurgiu dall'ingegnere, il francese, si risolse in una catastrofe: il voto fu tre. Riscosse invece voti tranquilli in tutto il resto (darà a settembre, e sarà promosso, il solo francese e le due materie rinviate). Prese dunque a luglio sei nello scritto d'italiano e sette nell'orale, sei nelle due versioni di latino e sette nell'orale, sette in geografia e, cosa pacifica, otto in storia. Ben da parecchio, le sue letture fuori dai libri scolastici erano in prevalenza orientate alla storia. Ricorderà la sua passione di ragazzo in una lettera al figlio Delio: «Io penso che la storia ti piace, come piaceva a me quando avevo la tua età, perché riguarda gli uomini viventi, e tutto ciò che riguarda gli uomini, quanti più uomini è possibile, tutti gli uomini del mondo in quanto si riuniscono tra loro in società e lavorano e lottano e migliorano se stessi, non può non piacerti più di ogni altra cosa».

Note

1 «Mio nonno», scriverà Gramsci, «era proprio colonnello della gendarmeria borbonica e probabilmente fu tra quelli che arrestarono lo Spaventa antiborbonico e fautore di Carlo Alberto».

CAPITOLO SESTO

Verso la fine del terzo anno ginnasiale di Antonio Gramsci, tra il maggio e il giugno del 1906 (Gramsci aveva allora quindici anni), la Sardegna fu sconvolta da una «tempesta di uomini». Elementi disparati si confondevano dando in quei giorni all'isola un aspetto di terra in subbuglio: lotte disciplinate di leghe operaie, scoppi anarchici di plebi contadine non raggiunte ancora dall'organizzazione e incapaci perciò di porsi obiettivi diversi dall'incendio dei caseifici o dei casotti daziari; intrighi di fazioni urbane impegnate a dar l'assalto al potere civico o a difenderlo; infiltrazioni teppistiche nei movimenti di protesta con l'esito di saccheggi e di sassaiole contro vetrine di negozianti incolpevoli; ritorni di furore in ristrette categorie per interessi feriti dall'avvento delle macchine, e ne erano un esempio i carrettieri di Quartu, Selargius, Monserrato, nei sobborghi di Cagliari, costretti, dalle più basse tariffe che le Tramvie praticavano per il trasporto delle merci, a ridurre anch'essi i prezzi, e quindi subito scagliatisi, nei giorni del tumulto, a dar fuoco alle stazioni tramviarie ed a rovesciare le vetture. Al fondo era l'esasperazione di masse affamate. E in simili condizioni, ogni scintilla, anche se fatta sprizzare (il caso di Cagliari) da consorterie estranee agli interessi popolari per il solo fine di abbattere altre consorterie, era naturale che provocasse larghe fiammate. Il moto partì da Cagliari e subito si propagò nelle miniere e nelle campagne.

Il Sulcis-Iglesiente continuava ad essere funestato da una economia di rapina. La produzione cresceva, i livelli salariali diminuivano. S'erano estratti, nel 1905, minerali per 22 milioni 885 mila lire; e l'anno appresso, d'un balzo, per 25 milioni 609 mila lire. Nel corrispondente periodo, le paghe, al contrario, erano state ridotte: i minatori avevano visto scendere il salario giornaliero da lire 2,54 a 2,30; i muratori da 3,12 a 3; i conduttori di macchine da 3,39 a 3. Ed alle rivendicazioni, legittimate anche dalla circostanza che nelle miniere toscane gli operai guadagnavano quasi una lira in più al giorno, le Compagnie opponevano argomenti di evidente intonazione razzistica. L'opinione dell'ingegnere Erminio Ferraris, consigliere delegato della Monteponi, è affidata ai verbali della commissione parlamentare venuta nel bacino metallifero ai primi del secolo per una inchiesta sulle condizioni del lavoro in miniera. «Il rendimento del lavoro manuale in Sardegna»,  egli dichiarò, «è molto inferiore in media a quello del continente. Vi contribuisce», così argomentava, «la tendenza all'ozio, il clima, la mancanza di iniziativa e di energia. Vi sono certamente delle eccezioni», concludeva, «ma la media è bassa e non può valutarsi che a circa il 60 per cento del lavoro continentale». Simili discorsi da «uomo bianco» in colonia, puro alibi a giustificazione di salari inferiori al costo di mantenimento di uno schiavo, dovevano essere confutati più tardi da uno studioso isolano, il professor Giovanni Lòriga, il quale, analizzando i dati del quadriennio 1904-1907, giunse alla conclusione che la produzione per operaio nelle miniere sarde (esclusi il ferro e i combustibili solidi) era stata di 1665,08 lire: superiore di 281,80 lire alla produzione media per operaio nelle altre miniere italiane della stessa natura. Dal che è facile dedurre l'inconsistenza della tesi padronale a motivazione dei bassi livelli salariali. Il peggio è che la mentalità da «uomo bianco» affiorava, oltre che nella determinazione dei compensi, anche laddove i minatori chiedevano una più umana disciplina del lavoro. Un gruppo di operai della Seddas Moddizzis venne licenziato per aver chiesto un po' di regolarità nella corresponsione dei salari (non ogni due o quattro mesi), due giorni di riposo pagato al mese, la riduzione a dieci delle ore di lavoro e un'ora di riposo da mezzogiorno all'una per mangiare. I rifiuti grandinavano. La posizione padronale era rigida anche su richieste di colloqui per rivendicazioni minime. È rivelatore l'argomento dell'ingegnere Ferraris in tema di riposo festivo:

Là dove il riposo domenicale fu introdotto già da molti anni - egli disse alla commissione parlamentare d'inchiesta - è rarissimo il caso di operai che riescono a mettere da parte qualche cosa; mentre lo si riscontra sovente negli operai delle miniere isolate dove il lavoro è continuo, e quindi manca loro l'occasione di spendere. In queste miniere il riposo di un giorno ogni sei di lavoro è veramente eccessivo, perché, lontani dai centri abitati, non sapendo come occupare il tempo durante il giorno di riposo, molti lo consumerebbero abbandonandosi a libazioni eccessive, che comprometterebbero anche il lavoro del giorno successivo.

Quanto alla poca puntualità nella corresponsione dei salari, la perseveranza delle Compagnie in simile pratica arbitraria dipendeva da una politica di rastrellamento delle paghe operaie mediante le cantine: a queste infatti i minatori dovevano ricorrere quando, senza più denaro contante, la sola possibilità rimastagli era di procurarsi i più elementari generi di consumo con buoni. Il sistema, di cattura delle paghe operaie cambiava di miniera in miniera. Una forma consisteva nel corrispondere tutto o parte del salario in mercanzie, che sempre si quotavano a un prezzo maggiorato rispetto alle botteghe esterne; un'altra forma si aveva quando la cantina era gestita dal padrone della miniera, e l'operaio, pagato con danaro contante, doveva approvvigionarsi lì; oppure allorché persone di fiducia gestivano la cantina per conto della Compagnia, cui spettava una parte dei guadagni; infine il sistema più brutale si aveva quando il commercio era esercitato in proprio da impiegati o da capo-mastri della miniera con l'abuso tollerato di  escludere  dal lavoro l'operaio che non frequentasse quella cantina. In tutti i casi, il criterio base della gestione era lo smercio a prezzi maggiorati di roba scadente e per ciò stesso pagata al grossista a prezzi di assoluta convenienza. Persino il francobollo, che dappertutto costava 15 centesimi, in cantina saliva a 17;  il vino da 30-35 centesimi al litro a 40; l'olio da una lira a 1,60; il formaggio da 1,25 a 2; la pasta da mezza lira a 60 centesimi. E così, in proporzione, tutto il resto. Il ciclo di sfruttamento delle risorse minerarie si chiudeva senza che alla  Sardegna rimanessero neanche i trucioli. Non s'erano affiancate all'attività estrattiva le industrie di trasformazione. Non s'era favorito l'insediamento di industrie meccaniche accessorie. Il drenaggio delle povere paghe operaie attraverso le cantine completava il sistema coloniale instaurato dalle Compagnie minerarie. Alla Sardegna rimanevano solo un po' di tubercolotici1, e chi non sputava rosso era destinato alla vecchiaia precoce, quando non anche alla morte o alla mutilazione per infortunio sul lavoro. In un solo anno, il 1905, gli infortuni furono 2219. Non più felice, in quello stesso periodo, la condizione dei lavoratori agricoli. I piccoli proprietari erano esposti a ogni tipo d'intemperie, del cielo o del fisco; l'esosità e la spietatezza fiscale toccavano punte altissime, e frequenti erano le confische di beni (la provincia di Cagliari, rileva Alberto Boscolo, ebbe nell'esercizio 1904-1905 il primato in Italia dei contribuenti espropriati per debito d'imposta). Dal canto loro, gli allevatori di bestiame, costretti a un ruolo subalterno rispetto agli indstriali del formaggio (dai quali, avendo bisogno di liquido per l'affitto del pascolo, ottenevano il pagamento anticipato del latte, naturalmente al prezzo ed alle condizioni, sempre vessatorie, che l'industriale dettava), in pratica si accorgevano di lavorare per la floridezza dei caseifici e basta. Il bracciante agricolo, sul quale il malessere dell'agricoltura si ripercuoteva in grado più alto, per l'incidenza che la crisi aveva sul numero di giornate lavorative e sul salario e poi sul costo dei generi di prima necessità, era addirittura prostrato dalle poche occasioni di lavoro (andando bene, duecento giornate nell'annata agraria) e dalla tenuità delle paghe. Con riferimento sempre alle cifre degli anni 1905 e 1906, tolte le punte stagionali (allora il compenso aumentava), il contadino prendeva normalmente tra i 75 centesimi e una lira e 25 centesimi al giorno. Ciò significava, rapportato il salario al costo dei generi di base, che nella paga più alta di una lira e 25 centesimi al giorno potevano entrare al massimo un chilo di pane (30 centesimi), uno di patate (15 centesimi), uno di pasta (mezza lira) e tre decilitri d'olio (30 centesimi); poi più nulla. Schiavo di stagioni incerte, svigorito dalla denutrizione e dalle malattie che a quel tempo flagellavano l'isola (tubercolosi, malaria, tracoma) e in genere analfabeta, il contadino era, si può ben concludere, il va-nu-pieds, l'ultimo degli scalzati dell'Italia giolittiana.

Infine, anche le plebi urbane soffrivano del generale rialzo dei prezzi. I primi segni di un'insofferenza al limite della rivolta si erano avuti a Cagliari tra il febbraio e il maggio del 1906. L'organizzazione in leghe di molte categorie d'operai dava alle agitazioni un po' d'ordine e chiarezza nei fini da perseguire. Cominciò la lega dei portuali, forte di trecento iscritti. Gli scaricatori chiedevano la diminuzione delle ore di lavoro da 15 a 9 e un aumento di paga da 3,50 a 5 lire al giorno. Dopo il rifiuto delle imprese, il 24 febbraio 1906 proclamarono lo sciopero. Seguì l'agitazione dei commessi di negozio, che reclamavano un giorno di riposo alla settimana. Finalmente il 6 maggio 1906 i negozi rimasero chiusi e mai più avrebbero, aperto nei giorni festivi. L'indomani, 7 maggio, furono i lavoratori dei forni a entrare in agitazione. Ebbero subito accolta la richiesta di riduzione delle ore di lavoro da 15 a 12, ma altre rivendicazioni rimasero insoddisfatte; e poiché una parte dei lavoratori s'era ugualmente adattata a riprendere il lavoro, altri andarono all'assalto dei forni. È da rilevare che il grosso della cittadinanza, pur deplorando le violenze inutili, solidarizzava con i dimostranti: i comizi erano sempre affollati. Ciò dipendeva anche dall'azione puntigliosa e scaltra che un quotidiano interessato  a fomentare il malcontento, «Il Paese», svolgeva senza dar tregua. Dietro «Il Paese» era un giovane avvocato, Umberto Cao, capo della fazione avversa al sindaco d'allora, Ottone Bacaredda.

Si sbaglierebbe ora a dare una coloritura politica, se non molto approssimativa, ai due partiti. Umberto Cao era un giovane di talento, polemista agguerrito e di buona sensibilità nel fiutare gli umori della folla. Molti inclinano a raffigurarlo come un opportunista: monarchico-anarchico, socialconservatore, autonomista con punte di separatismo e poi, cambiato il vento, permeabile alle vocalizzazioni del vuoto che erano le frenesie nazionalistiche. Gramsci non lo stimerà molto. È Velio Spano a riferire questo episodio:

Una volta, un compagno, un ragazzo come me, rievocava in sua presenza le parole coraggiose con cui l'onorevole Cao aveva risposto al primo discorso di Mussolini alla Camera dopo la marcia su Roma, il famoso discorso dell'aula «sorda e grigia» e del «bivacco di manipoli». Andavamo su per via XX Settembre, a Roma, di notte. Serio, Gramsci sembrò cambiare discorso per raccontarci, attraverso due episodi, la vita dell'onorevole Cao. Ci narrò dapprima lo svolgimento della rivoluzione del 1906 a Cagliari, mettendo in luce come si erano realizzati i legami fra i lavoratori delle campagne, i lavoratori della città e gli intellettuali. Nelle sue parole», prosegue Spano, «noi vedevamo passare attraverso la marea delle folle che distruggevano e incendiavano la figura di Cao avvocato-filosofo che si mischiava alla masse senza perdere niente della sua «dignità» e della sua rigida freddezza di universitario. Senza transizione, Gramsci si mise ad analizzare l'opuscolo di Cao L'autonomia della Sardegna con il quale era nato, per molta gente e sopratutto per certi strati di intellettuali come me, il «sardismo». Nella narrazione storica e nella critica ideologica, senza dire una parola di giudizio diretto, Gramsci ci aveva tratteggiato la figura del deputato sardista: un intellettuale convinto di essere l'ombelico del mondo, che tenta di inserirsi nella storia per profittarne e resta infallibilmente fuori della storia e fuori della  vita.

Spano ricorda le parole conclusive di Antonio Gramsci: «Salvo che a se stesso, quell'uomo non ha mai creduto in niente». E rileva: «Un anno dopo, Cao passava al fascismo». È tuttavia un fatto che la campagna giornalistica promossa da Umberto Cao nel 1906 si nutriva di dati tutti verificabili nella realtà. Solo, la colpa del rialzo dei prezzi, insostenibile dalle classi lavoratrici, era esclusivamente attribuita al sindaco Baccaredda, e in ciò stava la strumentalizzazione del malcontento. La lotta si svolgeva dunque a due livelli: da un lato v'era la spinta popolare e dall'altro, sull'onda di questa, il gioco di una fazione contro l'altra.

Il 12 maggio 1906, una delegazione di sigaraie chiese di essere ricevuta dal sindaco. Alle cinque donne venute a dirgli il disagio dei lavoratori per il carovita, Baccaredda replicò: «Se le triglie vanno a due lire il chilogrammo, faccio loro tanto di cappello e compro baccalà». Fu nel sapere di questo discorso del baccalà che l'indomani mattina, in un comizio, la folla prese a riscaldarsi. Andò in corteo al Municipio: ma almeno per quel giorno tutto finì là. Erano state promesse misure idonee a calmierare i prezzi, e il corteo si sciolse. Sennonché l'indomani mattina, avendo trovato il mercato chiuso in seguito ad una rissa tra rivenditori e l'appaltatore del dazio, la folla corse alla Manifattura tabacchi. Gli operai uscirono, andarono in altri stabilimenti industriali, alle ferrovie, al gasometro, e via via il corteo s'ingrossava, preceduto da una sigaraia con bandiera rossa: sull'asta del vessillo era emblematicamente infilzata una grande pagnotta. Ormai con furia lavica, il corteo attraversò il centro di Cagliari. Gli uffici del dazio e della Quarta Regia, alla Scafa, furono presi d'assalto e incendiati. Poi via tutti verso l'area della stazione ferroviaria. Lì c'era una concentrazione di soldati. La folla fischiò, ci furono scontri, diluviarono i sassi, la truppa apri il fuoco: ventidue dimostranti caddero, e due morirono; erano tutti, meno un commesso, operai e pescatori. Ma gli incendi e le devastazioni non dovevano terminare. Ancora Cagliari parve squassata da un moto insurrezionale. Poi i cinquemila, tra fanti, marinai e carabinieri sbarcati dal 16 al 18 maggio, le diedero un aspetto di città in stato d'assedio.

La scintilla era tuttavia scoccata, e il fuoco della rivolta si estese alle campagne ed alle miniere. Era dappertutto un ribollimento di uomini lanciati con furia devastatrice a saccheggiare le cantine e a incendiare i caseifici. I soldati sparavano. E l'«Avanti!» scrisse il 24 maggio: «Perché il governo dirama sempre comunicati ufficiali in cui si parla di forza pubblica aggredita, mentre i morti stanno sempre dalla parte dei dimostranti?». Due ne caddero a Gonnesa, due a Villasalto, con in più dodici feriti, uno a Bonorva, uno a Nebida. Ma il sangue, invece di intimidire, eccitava. I caseifici di Ittiri e di Terranova (oggi Olbia) furono distrutti. La folla assaltò i caseifici e l'esattoria di Macomer. Ad Abbasanta il tumulto investì l'ufficio delle imposte. Via via la «tempesta di uomini» cresceva di violenza. «L'eccesso bestiale delle masse», telegrafò per l'edizione del 1° giugno l'inviato de «Il Secolo» di Milano Luigi Lucatelli, «fa perfettamente riscontro alla irragionevole compressione alla quale esse sono sottoposte». Già ai primi di luglio, placatosi l'uragano, cominciava la repressione.

Finirono in carcere centinaia di contadini, di operai, di intellettuali (e tra questi, a Cagliari, l'avvocato Efisio Orano,dirigente socialista). In miniera, i licenziamenti piovvero implacabili. L'opinione pubblica era comunque tutta con le vittime delle rappresaglie. Scesero dai piroscafi decine di magistrati e di cancellieri spediti in Sardegna per l'ondata di processi. A Cagliari i rivoltosi da giudicare erano 170, e si dovette aprire una chiesa sconsacrata, quella di Santa Restituta, per farci stare giudici, testimoni e imputati. Il dibattimento si svolse tra il 6 maggio e il 12 giugno del 1907, ed i giornali diedero alle ragioni della difesa grande risalto. Gramsci aveva allora sedici anni e mezzo: frequentava a Santulussurgiu la quarta ginnasiale.

Dall'ondata repressiva l'irredentismo regionalista dei sardi ebbe nuovo alimento. In quegli stessi anni, la scissione tra Nord e Sud era venuta aggravandosi. Come il regime di protezione doganale delle industrie ulcerava l'economia del Mezzogiorno e delle isole, le fabbriche del Nord, favorite dagli alti dazi, si espandevano, ed altre, nuove, ne fiorivano. In corrispondenza del boom di quei primi anni del secolo, proficuo anche per le casse erariali, sembrava però che si perpetuasse una sorta di separatismo alla rovescia, dello stato italiano dalla Sardegna. Luigi Lucatelli, giornalista de «Il Secolo», inviato in Sardegna in occasione dei moti, così scriveva il 29 maggio 1906:

Quanto a leggi, per quello che riguarda il lato odioso di esse, sopratutto il lato fiscale non v'è dubbio, ci sono tutte... Ma i diritti no. In Sardegna le tariffe ferroviarie sono le stesse e magari più elevate che in Italia, eppure qui si viaggia con una lentezza e una incomodità intollerabili; i cittadini pagano le stesse imposte che a Roma, Milano o Torino, eppure quando un funzionario ha dimostrato di essere bestia o disonesto lo regalano ai sardi, affinché porti nell'esercizio delle sue funzioni, oltre la constatata deficienza o colpevolezza, anche il rancore della punizione.

Così lo stato si riduceva ad essere, nella considerazione comune, una entità ostile, un mostruoso apparato capace solo di proliferare reggimenti per la repressione degli scioperi, impiegati d'imposte, prefetti e funzionari di polizia buoni commensali dei concessionari di miniere. Il «sardismo» divenne il sentimento dell'epoca. Ed anche Antonio Gramsci ne fu partecipe. «Io pensavo allora», scriverà, «che bisognava lottare per l’indipendenza nazionale della regione. "A mare i continentali!" Quante volte ho ripetuto queste parole».

Note

1 Un medico non legato alle compagnie minerarie, il dottor Gildo Frongia, riferì alla commissione parlamentare d'inchiesta: «Nel ventennio 1884-1905 trovai la morte per tubercolosi nel 35% degli operai».

CAPITOLO SETTIMO

Vicino ormai ai diciotto anni, Antonio Gramsci fece il salto dal paese alla città, per frequentare il Liceo Dettòri di Cagliari. Era la fine del 1908. I suoi avevano deciso che Gennaro avrebbe chiesto il trasferimento all'ufficio del catasto di Cagliari, e Antonio sarebbe andato a vivere con lui. Gennaro però nel catasto, una volta arrivato in città, non rimase a lungo. Gli si era presentata l'occasione di entrare, da contabile, nella fabbrica del ghiaccio dei fratelli Marzullo. Ritenendo quell'impiego più conveniente, dopo appena un mese di lavoro al catasto cambiò ufficio.

Cagliari era allora una città piccola ma vivace; si pubblicavano tre quotidiani: «L'Unione sarda», sulla linea dell'onorevole Cocco Ortu, «Il Paese», radicaleggiante, ed il «Corriere dell'isola», clericale; più alcuni periodici, tra i quali il socialista «La Voce del popolo», settimanale. I cartelloni di due buoni teatri, il Civico e il Politeama Margherita, includevano i più grandi nomi della prosa e della lirica. Al Valdès e nel cine-teatro Eden cominciavano a esibirsi le prime sciantose in jupe-culotte. Esisteva una fungaia di circoli che all'occorrenza erano sale da concerto o per conferenze. I filmoni a puntate dell'epoca (Rocambole, Le cantiche dantesche, I miserabili) li si andava a vedere all'Iris o all'Eden. Né mancavano i ritrovi e i ristoranti con musica. Per Antonio Gramsci, vissuto fin quasi ai diciotto anni in luoghi come Ghilarza e Santulussurgiu, il salto alla città non poteva avvenire senza spaesamento.

S'erano sistemati, lui e Gennaro, in una camera d'affitto al numero 24 di via Principe Amedeo, che dalla rocca del Castello porta giù al quartiere della Marina. Dovevano campare in due con lo stipendio di Gennaro, cento lire al mese: non molto allegramente, dunque.

Non mi sembra d'aver mai visto Nino Gramsci in soprabito - ricorda un suo compagno di liceo, Renato Figari - Vestiva sempre lo stesso abito, i pantaloni a tubo e corti e una giacchet-tina che gli stava stretta. Nei giorni freddi, veniva a scuola con una sciarpa di lana bene avvolta sotto la giacca. Non aveva libri, o non li aveva tutti. Ma era attento alle lezioni, e lo aiutava, oltre la grande intelligenza, una memoria fortissima. Io stavo nel banco di dietro: lo vedevo prendere appunti con calligrafia minuta. Alle volte capitava che i libri glieli prestassimo noi, o il professore.

Esordì al liceo con qualche incertezza. Scrisse al padre nel gennaio del 1909:

Ho saputo finalmente le medie del trimestre; certo sarebbero dovute essere diverse ma non è colpa mia; perché, come forse ti avrà scritto Nannaro, sono rimasto tre giorni fuori di scuola per non aver portato il diploma proprio nei giorni degli esami trimestrali; in modo che in storia naturale non ho avuto voto, e in storia 5; il professore mi ha anche dato una ramanzina, ma io non ne avevo colpa... Ma del resto, me l'ho cavata benino; perché in storia naturale bastano i due voti del 2° e 3° trimestre, e in storia sarebbe bella che non rimediassi. Ecco i voti: italiano 6/7 [in realtà il voto nell'italiano orale era 8 e non 7, come trascritto da Gramsci] latino 6-7/7; greco 6/7; filosofia 6; matematica 6; chimica 8. Come vedi ho avuto punti discreti, e devi contare che questo è il primo trimestre, e da Santulussurgiu non venivo con la migliore preparazione, specialmente in latino, greco e matematica1.

Già questa lettera, così ospitale di cadenze e di strutture sintattiche dialettali e stilisticamente zoppa anche rispetto a lettere del periodo immediatamente successivo, sembra testimoniare delle non buone condizioni di partenza del giovane Gramsci dopo i cinque anni di studi ginnasiali decisamente avventurosi, i primi due in privato a Ghilarza e gli ultimi tre nel Ginnasio Carta-Meloni di Santulussurgiu. Antonio aveva però doti di recupero davvero notevoli. Nel secondo trimestre corresse il cinque di storia in sette, e in storia naturale il voto era adesso sei. Ebbe infine la promozione a giugno con una pagella quasi tutta sul sei, meno due sette in latino e un otto in italiano orale. Segno che, in questo primo anno di liceo, i vuoti della preparazione ginnasiale erano in qualche misura colmati.

Di ritorno dalle vacanze, trascorse in famiglia a Ghilarza, cambiò casa, andandosene ad abitare al numero 149 di Corso Vittorio, dirimpetto a via Maddalena. Era una stanzetta «che aveva perduto tutta la calce per l'umidità e aveva solo un linestrino che dava in una specie di pozzo, più latrina che cortile». Il cambiamento di pensione conveniva ugualmente. Vediamo scritto in una lettera inedita del 26 novembre 1909, quasi all'inizio del secondo anno di liceo: «Per la padrona di casa stiamo abbastanza bene; è una donna onesta che non ci ruba nulla. E infatti io sto molto meglio dell'anno scorso». Gli mandavano da casa le provviste: mangiava in camera, o anche in una trattoria di piazza del Carmine, con Gennaro. Un compagno di pensione, l'avvocato Dino Frau, lo ricorda isolato, anche se non misantropo.

Faceva vita a sé - racconta - Lì, pensionanti della signora Doloretta Porcu, saremo stati sei o sette. Stavamo all'ultimo piano, ci si arrivava con un'unica rampa di scalini molto alti e ripidi. Antonio Gramsci saliva lentamente, gli veniva l'affanno. Poi si chiudeva in camera, senza familiarizzare con noi. Sono entrato nella sua stanzetta solo un paio di volte. Era disadorna, con odore di formaggio, e libri e carte alla rinfusa. Una sera, tutti i pensionanti fummo invitati ad andare da lui. Venivano dalla stanza canti e suoni. Trovammo un bel po' di gente sconosciuta, per lo più gente dei paesi. Cantavano, qualcuno ballava. Ed in mezzo e c'era Gramsci, intento a eseguire danze popolari sarde con un organetto a mantice.

Studiava adesso senza più le incertezze della prima liceo. Così, appena un paio di mesi dopo l'inizio dell'anno scolastico, poteva scrivere al padre (la lettera, inedita, è datata 5 gennaio 1909; ma è da supporre che, ai primi dell'anno nuovo, Gramsci ripetesse, per automatismo, il numero del vecchio:

voti e circostanze si riferiscono alla seconda liceale, frequentata nell'anno scolastico 1909-10): «In scuola vado a gonfie vele; a quel che so, in latino avrò 7 e 8 di media, in italiano non ho voto per la mancanza del professore, e nel resto bene ugualmente. Se posso sono decisissimo a dare la licenza con buona speranza». Poi, il 31 gennaio, a commento dei voti trimestrali (latino sette e otto; greco sette e otto; storia della cultura greca otto; storia e geografia storica otto; filosofia sei; storia naturale sei; fisica e chimica sei): «Come vedi ho avuto una buona votazione; e in questo trimestre spero di migliorarla, perché ho avuto quei 6 per disgrazia». Lo studio era del resto la sua sola occupazione. Svaghi se ne concedeva davvero pochi.

Se per combinazione ci capitava di incontrarlo - racconta Claudio Cugusi, ora medico - volentieri lui veniva con noi. «Antonicheddu, aio, andiamo», gli dicevo prendendolo a braccetto. E lui, felice dell'invito, si aggregava a noi. Ma solo per quattro passi al Corso, dalla pasticceria Clavot al caffè Tramer, dove a quel tempo si svolgeva sa passillada, la passeggiata serale dei cagliaritani. Parlava poco, preferiva ascoltare. Poi quando tutti insieme si finiva da Su Cau, una sala di biliardi del Corso, lui rimaneva alla porta. Salutava e via a casa.

Doveva mantenersi estraneo alle feste ed  agli incontri  nei ritrovi. Ricorda Renato Figari:

Non fumava, finché stette al liceo. Non beveva. E se avveniva che qualcuno di noi gli offrisse qualcosa, lui con garbo rifiutava: non ho mai capito se per orgoglio o per non prendere gusto a cose che non poteva permettersi. Veniva poco anche a un circolo fondato da giovani, l'Associazione anticlericale dell'avanguardia, un paio di stanzacce a breve distanza dal «Dettori», in via Barcellona. Lo frequentavamo, insieme ad alcuni giovani professionisti, noi del liceo e gli universitari, allora tutti o quasi con idee rivoluzionarie, socialisti, barricaderi e naturalmente rispettosi di Giovanni Bovio e di Giordano Bruno. Ci si facevano trattenimenti, recite di filodrammatica. Io declamavo di quando in quando versi di Sebastiano Satta, di Ugo Foscolo, di Stecchetti. Solo di raro Gramsci capitava in mezzo a noi, per queste manifestazioni. Non so immaginarne il vero motivo... Le sue condizioni fisiche... Ma no. Perché poi, se anche deforme, non era brutto. Aveva la fronte alta, i capelli a cespuglio, ondulati, e dietro gli occhialini a pinza-naso ricordo un brillìo azzurro, uno sguardo lucente di metallo, che colpiva. Certo, molte cose ci dividevano. Noi eravamo un tantino spenderecci, eleganti o almeno con pretese d'eleganza, un po' fatui, come si è sempre a quell'età... Penso che lo spingesse a far vita distaccata la grande miseria...

È molto probabile. Il confronto con i compagni di scuola l'avviliva. Non aveva mai fatto caso, prima di allora, al bell'abito; adesso sentiva umiliazione ad andar vestito in un certo modo. Scrisse il 10 febbraio del 1910 al padre:

Il 26 febbraio gli studenti di 2° e 3° anno di liceo faranno una gita a Gùspini, per visitare le miniere di Montevecchio, e quindi dovrò andarci anch'io, e sono proprio indecente, con questa giacca che ha già due anni ed è spelacchiata e lucida. Perciò tu mandami una lettera presso qualche sartoria, perché mi possa fare il vestito a tuo carico... Oggi non sono andato a scuola perché mi son dovuto risuolare le scarpe... Questo carnevale non sono uscito un momento di casa, accucciato in un angolo, imbronciato tanto che Nannaro credeva che fossi malato2.

E pochi giorni dopo, il 16 febbraio3: «Carissimo papà, pare che tu creda che io possa vivere d'aria. E Nannaro è già troppo quello che fa, perché credi pure che con la mesata che mi mandi, a Cagliari non si può vivere, se non mangiando pane, e anche poco perché costa a 50 al chilo». Ottenne forse un po' di soldi: sicuramente non quelli per l'abito. Insistè:

Ora dobbiamo toccare un tasto doloroso; tu per il vestito non mi hai più scritto nulla; ed io che quando sono andato a Ghilarza per Pasqua ero indecente, come hai detto tu stasso... per non farvi vergognare non sono uscito di casa per dieci giorni interi. Allora ero indecente, adesso che è passato un altro mese e mezzo, e sono cresciute le piaghe, non più indecente ma sudicio e stracciato... Se il preside mi manda il bidello a casa gli dico chiaramente che non vado a scuola perché non ho un vestito pulito da potermi mettere4.

Verso l'inizio del secondo trimestre di seconda liceale, Antonio Gramsci vide salire finalmente in cattedra il professore d'italiano. Si chiamava Rafia Garzìa, era un giovane di trentatre anni d'aspetto non bello, smilzo e basso, e sempre aggrondato, la tetraggine in persona. Irascibile, inclemente con gli imbecilli e con i boriosi e tutt'altro che incline a tollerare le insufficienze nel profitto e nella condotta, non tardò molto a mutare una scolaresca irrequieta in gregge atterrito. Aveva già un nome. Suo era il saggio, uscito una decina d'anni prima, Il canto di una rivoluzione, esame comparato dell'inno logudorese di Francesco Ignazio Mannu contro i feudatari sardi e del Giorno di Parini. Poi anche dirigeva «L'Unione sarda», che sin d'allora, malgrado l'impianto artigianale, era il più diffuso   quotidiano  dell'isola. Si può anche aggiungere per completezza che il Garzìa, anticlericale intransigente e radicaleggiante, non esitava, pur tenendo a distinguersi dai socialisti, a divulgarne le iniziative sul suo giornale (suo in tutti i sensi: ne era anche il proprietario) e talvolta persino a sostenerle. Veniva ad affiancarsi, con queste sue idee d'allora, a due altri insegnanti di Gramsci che erano  ugualmente o anche più avanzati: il professore di latino e greco Costante Oddone, uomo di umili origini, e il professore di fisica Francesco Maccarone, amico di Gennaro Gramsci e socialista militante5.  Subito Gramsci divenne il prediletto di Garzìa.

Ora i suoi compiti erano letti in classe come saggi non solo di stile ma anche di chiarezza intellettuale. Garzìa prestava al giovane discepolo libri scolastici e no. Di modi bruschi a scuola, e coi tipografi e i giornalisti, di fronte a Gramsci s'addolciva. Persino lo invitava ad andare da lui nel suo studio del viale Regina Margherita, dove i collaboratori de «L'Unione sarda» si riunivano. S'erano stabiliti infine, tra i due, rapporti che potevano definirsi d'amicizia.

Intanto lo svago preferito di Gramsci, tra quelli possibili, continuava ad essere la lettura.

Leggeva di tutto - mi raccontava Gennaro - Io ero tornato dal servizio di leva a Torino socialista militante: ai primi del 1911 sarei diventato cassiere della Camera del lavoro e segretario della sezione socialista di Cagliari. Mi incontravo spesso, perciò con Cavallera, Battelli, Pesci, i giovani leaders del socialismo in Sardegna, ed anche a Nino capitò di starci insieme. Una grande quantità di materiale propagandistico, libri giornali opuscoli, finiva a casa. Nino, che il più delle volte passava le sere chiuso in casa senza neanche un'uscita di pochi momenti, ci metteva poco a leggere quei libri e giornali.

S'era già avvicinato a Marx: «per curiosità intellettuale», come dirà in una lettera del '24. Poi anche includeva nel novero delle sue letture Carolina Invernizio, la «Domenica del Corriere» e il «periodico socialista "Il Viandante", diretto dal rivoluzionario Tomaso Monicelli» (sue parole). «Dirai a Teresina», raccomandava in una lettera (inedita) al padre, «che mi conservi tutti gli articoli che pubblicano nella "Tribuna": specialmente, se è possibile, che mi mandi un articolo di Pascoli che hanno pubblicato un mesetto fa. Io le sto conservando le "Domeniche del Corriere", e alla prima occasione gliele spedirò» (in un poscritto sollecitava il recupero di L'olmo e l'edera di Anton Giulio Barrili e di un numero del «Secolo XX»). Leggeva anche la Deledda, ma non l'amava.

Di Sebastiano Satta - mi dice Renato Figari - preferiva le odi ai morti di Buggerru, a Giuseppe Cavallera, a Efisio Orano Era venuto una volta a una dizione di versi nel circolo dell'Avanguardia. Io avevo detto in quella circostanza che toccava a noi giovani valorizzare gli scrittori sardi. L'indomani fu lui stesso a riprendere il discorso. Ricordo che agli autori sardi rimproverava di tenersi lontani dai temi vivi del momento. La Sardegna, obiettava, non è solo tanche, salti, bardane e la madre dell'ucciso. E si tratteneva a parlarmi delle condizioni dell'isola e dei minatori che, lavorando centinaia di metri sottoterra per il capitale belga e francese, ne avevano in cambio non sanatori, non scuole, non coperte, ma   l'intervento della truppa alla  prima  rivendicazione.

Seguiva il «Marzocco» e «La Voce» di Prezzolini, e in quelle riviste trovava gli autori prediletti.

Alle volte - racconta la sorella Teresina - dopo che Nino aveva segnalato il cambio d'indirizzo, le riviste continuavano ad arrivare per qualche tempo qui a Ghilarza. Io ero incaricata allora di mettere in una cartellina i ritagli degli scrittori che più lo attraevano, soprattutto Croce e Salvemini. Ricordo anche Emilio Cecchi e Papini. Per Cecchi, Nino aveva una grande ammirazione. Ma in cima alle sue raccomandazioni, quando mi chiedeva di ritagliare gli articoli e di custodirli in ordine nella cartella, stavano sempre Croce e Salvemini.

Erano tempi di voga degli studi sulla questione meridionale e nell'isola, dove Gramsci faceva le sue prime esperienze culturali, di rivendicazione sardista, nella quale convergevano tutt'insieme, dando ambiguità al movimento d'opinione, giolittiani, socialisti e radicali. Sin dal marzo del 1910, il giornale di Rafia Garzìa (redattore capo responsabile Jago Siotto, che già era stato direttore de «La Lega», il periodico delle prime organizzazioni socialiste) mirava a un bersaglio fisso, il Ministero Luzzatti. Ciò in larga misura dipendeva dall'influenza che Francesco Cocco Ortu, escluso da quel governo dopo essere stato più volte ministro, esercitava sul giornale, sempre passivo e dunque nella condizione di doversi piegare, poco o mcìto, ai calcoli politici del sovventore. La direttiva del momento era di far fuoco da tutte le postazioni sul «grande Gigione» (così, con schernevole doppio senso, Luigi-Gigi-Gigione e gigione-guitto, «L'Unione sarda» chiamava Luzzatti) senza star lì a badare troppo a dove queste postazioni erano dislocate. Per ciò avveniva che partissero bordate da destra (attacchi al progetto di riforma elettorale e alla collusione Luzzatti-riformisti di Bissolati) e da sinistra. L'esuberanza polemica dell'editore-direttore Garzìa e del caporedattore Siotto si alimentava soprattutto di succhi sardisti: il giornale era diventato cassa armonica della protesta popolare, e per la verità le occasioni di protesta non mancavano, in una terra arretrata in tutto e con i soli primati dell'analfabetismo, della malaria, del tracoma, della tubercolosi e dei morti per inedia.

Il 23 maggio del 1910 sbarcarono a Cagliari dal panfilo reale Trinacria Vittorio Emanuele III e la regina. Si trattennero in città sino alla sera del 25. Il re pose la prima pietra di un pubblico dormitorio nel viale degli Ospizi, la regina fece commissionare 2800 lire di dolci per i bimbi degli asili. L'indomani «L'Unione sarda», che pure alla visita dei sovrani aveva dato grande rilievo, anche pubblicando una foto, privilegio toccato quell'anno solo a un cagliaritano divo del teatro lirico, Piero Schiavazzi, usciva con un commento rispettoso dei sovrani ma di asprezza estrema contro il governo.

Le feste son finite - cominciava l'articolo di Rafia Garzìa - Messi a terra i pennoni; poste in serbo per un'altra volta le bandiere; ridati alle paterne cure della carbolina i cilindri e i frak: ritornati alle loro sedi i questurini che per qualche giorno dettero al capitano Bousquet la soddisfazione di avere una compagnia da comandare; liberati dal feudale privilegio i mezzi di trasporto e restituiti alla comunità borghese; cessate le ansie, i palpiti, gli isterismi delle autorità dormiveglianti sulle acque del porto... la pace ritorna nella nostra città.

Ma perché, si domandava «L'Unione sarda», il Ministero Luzzatti volle la visita dei sovrani? Una simile visita prende senso quando s'intenda consacrare con essa un avvenimento fuor dall'ordinario, un nuovo stato di cose. «E che c'è di nuovo, oggi come oggi, tra noi?» Solo un po' di polvere, con eludeva Garzìa, «gettata sfacciatamente sugli occhi dei gonzi». In definitiva, la venuta di Vittorio Emanuele III e della regina aveva avuto l'effetto di suscitare l'unanimità, ma una unanimità d'un certo tipo, contraria decisamente a quella che le autorità desideravano. «La Voce del popolo», «organo della elasse lavoratrice sarda», che si stampava a Cagliari, così sbrigò la visita, non una riga di più: «Quale sfarzo! Quante tube, quante redingotes, quante belle donne, quanti sorrisi di compiacenza e di morale soddisfazione, quali stupende automobili, quante ricchezze, quante bandiere, quante truppe, quante guardie in borghese e in divisa. Ecco il Re!». Persino il quotidiano concorrente de «L'Unione sarda», «Il Paese», il cui indirizzo consisteva nel pensarla sempre all'opposto di Garzìa, del suo ispiratore e dei suoi collaboratori, stavolta non fece il controcanto e la domenica 29 maggio scrisse: «Malgrado la visita di Vittorio Emanuele III, tutto procederà per la Sardegna come prima, e le nostre sofferenze non saranno punto diminuite». Andò oltre, arrivando a biasimare lo sperpero di soldi per le accoglienze riservate ai sovrani: «Sia grossa o piccola la somma che costarono questi ridicoli spettacoli coreografici, questi inutili, servili sbandieramenti, queste vacue feste ufficiali che non innalzano ma corrompono il sentimento popolare, noi diciamo semplicemente che furono quattrini mal spesi». Il prefetto Germonio aveva invitato a Cagliari, per mercoledì 25 maggio, tutti i sindaci della provincia: il re, diceva la circolare di convocazione, desiderava vederli. Venne pubblicata da «Il Paese» il telegramma di risposta dell'avvocato Felice Porcella, sindaco di Terralba: «Duolmi non poter aderire onorifico invito rivoltomi da Signoria Vostra in attesa che il governo di Sua Maestà si degni finalmente di rispondere ai giusti inascoltati reclami di questi sindaci, attuando prontamente i dovuti provvedimenti di legge verso questa regione misera e sofferente». Ancora più impetuosa, la ventata sardista aveva ripreso ad agitare gli animi.

Un paio di settimane appresso, finita la seconda liceale6. prima di tornarsene a Ghilarza, Gramsci andò a trovare Garzìa. Aveva diciannove anni e gli sarebbe piaciuto, se possibile, fare il suo esordio in giornalismo, con piccole cose magari, brevi corrispondenze dal paese durante l'estate. Raffa Garzìa l'accontentò. A Ghilarza il corrispondente c'era già. Si poteva però rimediare affidando a Gramsci la corrispondenza da un paese vicino a Ghilarza, Aidomaggiore. Il giovane partì con la promessa che presto avrebbe ricevuto il suo primo tesserino di giornalista. E così fu.

La lettera di Garzìa acclusa al tesserino (datata 21 luglio del 1910 non aveva l'intonazione burocratica solita in circostanze simili. «Eccole la tessera desiderata», scriveva il severo critico e professore d'italiano. «Benvenuta la Sua collaborazione: ci mandi ora e in avvenire tutte le notizie di pubblico interesse e Gliene saremo grati noi e i lettori. Mi abbia intanto con sincero affetto.»

La prima corrispondenza di Antonio Gramsci, sicuramente il suo primo testo stampato, apparve ne «L'Unione sarda» cinque giorni dopo, il 26 luglio. Sono in tutto venticinque righe: una semplice notizia, ma esposta con taglio esemplare e con bell'umore, e immune dall'enfasi, dalle sbavature tipiche del provinciale esordiente. Leggiamo (la corrispondenza è siglata «gi»):

Nei paesi circonvicini si era sparsa la voce che ad Aidomaggiore per le elezioni dovessero succedere fatti grandi e terribili. La popolazione voleva introdurre tutto d'un tratto il suffragio universale, cioè eleggere sindaco e consiglieri plebiscitariamente, e sembrava pronta a ogni eccesso. Il tenente dei carabinieri di Ghilarza, cav. Gay, seriamente preoccupato per questi sintomi, fece arrivare un intero corpo d'esercito, 40 carabinieri e 40 soldati di fanteria, meno male senza cannoni, e un delegato di pubblica sicurezza (sarebbe bastato da solo). All'apertura delle urne il paese era deserto; elettori e non elettori, per timore dell'arresto, si erano squagliati, e bisognò che le autorità andassero di casa in casa a stanare i restii...

La notizia si chiudeva con uno scarto tipicamente gramsciano: «Poveri mandorleti di Aidomaggiore! Altro che fillossera sono i soldati di fanteria».

Note

1 La lettera è inedita. 

2 La lettera è inedita.

3 La lettera è inedita.

4 La lettera è inedita.

5 Il professor Maccarone sarà, nel gennaio del 1911, tra i dirigenti dell'Associazione anticlericale d'avanguardia, insieme a Carmine Orano presidente e a Renato Figari bibliotecario; sarà ancora, nel marzo, candidato al Consiglio comunale di Cagliari nella lista dei partiti popolari.

6 Questi furonoi voti riportati: italiano sette e sette; latino: otto e otto; storia della coltura greca: nove; storia e geografia storica: otto; filosofia: sette; storia naturale: sette; fisica e chimica: sette.

CAPITOLO OTTAVO

Il 17 novembre del 1910, quando Antonio Gramsci era da poche settimane nuovamente a Cagliari per frequentare la terza liceo, apparvero su «L'Unione sarda», nella stessa pagina, due notizie di rilievo differente. La prima annunziava la morte di Leone Tolstoi; l'altra l'imminente venuta in Sardegna dell'onorevole Guido Podrecca, deputato socialista e direttore del periodico anticlericale «L'Asino». Fu soprattutto la seconda a turbare i cagliaritani.

Si attraversava un momento di generale inquietudine. La campagna di stampa de «L'Unione sarda» contro il governo Luzzatti proseguiva aspra. L'ispirava l'ostilità di Cocco Ortu a quel Ministero; ma se a promuoverla era stato il risentimento di un influente uomo politico escluso dall'esercizio del potere, erano poi i fatti a darle un serio contenuto: i problemi che continuavano ad accumularsi insoluti, ed anzi aggravati dalla scelta giolittiana delle alleanze di classe al Nord a scapito del Sud. L'obiettivo del gruppo dirigente politico era di favorire gli alti profitti delle industrie (il protezionismo a ciò contribuiva) e di narcotizzare, con la pratica degli adeguamenti salariali, il movimento operaio. Dovevano poi essere soprattutto le masse contadine del Mezzogiorno a Scontare le conseguenze di una simile scelta; ma ai gruppi di potere questo importava poco. Erano masse allora estraniate, a causa dell'analfabetismo, dalle competizioni politiche, e quindi senza capacità di influire sulle vicende nazionali, e dei loro umori la classe dirigente politica poteva anche non preoccuparsi, bastando ad essa un po' di fucili dell'esercito per reprimere le eventuali sommosse. Di fatto in Sardegna, l'economia agricola,cioè buona parte dell'economia sarda, era un serpe che si morde la coda: le basse rendite, insieme all'esosità del fisco (brigantaggio fiscale dello stato, si diceva), impedivano il risparmio e quindi l'accumulazione del capitale; senza capitale, qualsiasi iniziativa di trasformazione fondiaria diventava impossibile; e il permanere di condizioni arretrate, con metodi primordiali nello sfruttamento della terra, era causa di basso reddito. Continuò lo spopolamento dei paesi. Il numero dei lavoratori disoccupati cresceva. Ci fu un nuovo rialzo dei prezzi: degli alloggi e dei viveri, e soprattutto dei manufatti d'importazione, gravati dai dazi doganali. Leggi in favore dell'isola se n'erano approvate, ma le poche delle quali si riusciva a ottenere l'applicazione erano attuate solo in parte e sempre tardi e male. Persino richieste marginali, come l'abolizione delle tariffe differenziali per il trasporto di merci e di passeggeri, rimanevano insoddisfatte. E l'isolamento era appesantito dalla discontinuità delle comunicazioni marittime per la decrepitezza delle navi e dalle frequenti avarie degli impianti telegrafici che recidevano completamente la Sardegna dal resto del mondo. L'esasperazione si propagava. Tutti i ceti risentivano di questo stato d'abbandono. Già dall'inizio dell'estate soffiava a Cagliari vento di bufera. Ai primi di luglio, il sindaco Marcello e il Consiglio comunale al completo si erano dimessi in segno di protesta per le inadempienze governative.

Nei giorni a cavallo di quelle e di altre dimissioni in massa di organismi elettivi, «L'Unione sarda» aveva sottolineato il succedersi degli avvenimenti con una tempesta di titoli esclamativi, tutt'un incalzare martellante di titoli dispiegati a piena pagina1. Con uguale veemenza la battaglia giornalistica era continuata per tutta l'estate. È facile capire come l'annunciata visita dell'onorevole Podrecca non potesse, in quest'aria accesa da lampi di rivolta, non eccitare all'entusiasmo la maggioranza dei cittadini e riempire di costernazione le autorità governative e gli ambienti clericali.

Erano state la sezione socialista e la Camera del lavoro ad invitare a Cagliari il deputato di Budrio. Soprattutto la Camera del lavoro riusciva allora a porsi come punto di incontro di operai, di intellettuali, di impiegati e del piccolo commercio. Ne era segretario un sindacalista toscano, Gino Pesci, del gruppo degli immigrati politici venuti in Sardegna dopo Cavallera2. Qui Gennaro Gramsci, allora ventiseienne, trascorreva buona parte del tempo libero, e talvolta anche Antonio lo seguiva, A quel tempo, andare alla Camera del lavoro, con l'aria di catacomba che spirava in essa, appariva ai giovani quasi un'avventura in un mondo proibito, stimolante appunto per ciò, come fosse un atto di sfida, un gesto a misura della propria energia morale: giacché mostrarsi assidui ai locali di via Barcellona,  sempre  vigilati  dalla  polizia,  significava  esporsi  al rischio di persecuzioni; ed in definitiva, in un'epoca segnata ancora dalla temperie romantica, era anche quest'aria di nuova carboneria a favorire il proselitismo. Adesso, dopo annunziata la visita di Guido Podrecca, ecco profilarsi l'eventualità delle botte in piazza con i clericali, forti persino di un quotidiano, «Il Corriere dell'isola».

Il parlamentare socialista doveva tenere un ciclo di conferenze: martedì 22 novembre al teatro Valdès di Cagliari, su «Il pensiero rivoluzionario di Riccardo Wagner», giovedì 24 sul tema «Fede e morale», poi sabato 26 a Iglesias, nell'ex chiesa di San Francesco, su «Il marito dell'anima». A conclusione ci sarebbe stato un grande comizio a Cagliari, in piazza del Carmine, il pomeriggio di domenica 27 novembre, sul tema «L'organizzazione operaia». Quattro giorni prima che il direttore de «L'Asino» arrivasse a Cagliari, «L'Unione sarda» uscì con una nota fortemente anticlericale. «Si dice»,informava, «che sia intenzione dei clericali di trovarsi alla stazione ferroviaria quando arriverà l'onorevole Podrecca e fare al deputato socialista una manifestazione ostile, che si ripeterebbe durante le sue conferenze». A commento delle voci raccolte, il giornale insorgeva scrivendo: «Sarebbe una vera e propria mascalzonata», e ancora: «Non possiamo certo essere accusati di troppa simpatia per certi metodi del socialismo italiano; ma ciò non ci impedisce di salutare nell'onorevole Podrecca il combattente per un'idea e il collega brillante e valoroso». Poi le temute manifestazioni di ostilità non avvennero. Il deputato socialista ebbe accoglienze trionfali; e ad Iglesias, stando alla prosa alquanto ditirambica de «L'Unione sarda», «fu tale il fascino esercitato dall'oratore che anche i clericali non poterono astenersi dal battere le mani». Esagerazioni a parte, il giro propagandistico del popolare deputato e giornalista ebbe l'effetto di dare nuovo slancio e più sicuro mordente alle organizzazioni di sinistra.

A rendere più acuto il disagio della cittadinanza ed a provocare una nuova ondata di proteste contro le autorità passive, era sopraggiunto in quei giorni un fatto allarmante: un'epidemia meningitica. «Le barelle vanno e vengono», denunciava l'8 dicembre «L'Unione sarda». In mezzo alle rubriche solite, «Tocchi e toghe», «Sardi che si fanno onore», «Chi parte», «A spizzico» eccetera, ne appariva ormai un'altra fissa: «La meningite cerebro-spinale». «Siamo esposti a un pericolo gravissimo», era il grido d'allarme del corsivista, che alla denuncia accompagnava la frustata per «la inettitudine e la debolezza del prefetto». Quando al commissario regio, nominato in seguito alle dimissioni del sindaco Marcello e dell'assemblea comunale al completo, «oggi il Comune di Cagliari», si doleva il giornale, «è una vera e propria divisione della Prefettura (e purtroppo anche della Curia)». «E il governo? Tace. E alla Camera chi insorge? Nessuno. E qui si muore»: così, drammaticamente, concludeva l'articolista, trovando ampi consensi ovunque.

La domenica 11 dicembre del 1910, nel pieno di questa campagna giornalistica per l'epidemia di meningite, si svolse nella Camera di lavoro un'assemblea dei delegati di tutte le associazioni cittadine. La meningite cerebro-spinale non c'entrava. In una circolare indirizzata quattro giorni prima alle organizzazioni di categoria e culturali, Gino Pesci aveva segnalato «il disagio in che vive la cittadinanza a causa del nroeressivo aumento dei viveri e dei fitti» e si era detto convinto che «ad arrestare il movimento ascendente» fosse «necessario partecipare alla intensa agitazione di molte altre città d'Italia». L'assemblea fu davvero plenaria. Venne costituito un «comitato di agitazione per il caro dei viveri e degli alloggi». E «L'Unione sarda» approvò l'iniziativa, aggiungendo:

Il prefetto commendator Germonio, che dorme di grosso quando si tratta di provvedere energicamente ed efficacemente per combattere l'epidemia meningitica, ieri volle mostrare il massimo zelo e mandò un funzionario di pubblica sicurezza per assistere alla riunione della Camera del lavoro, riunione che aveva carattere e scopo esclusivamente economici. Ma il commendator Germonio, che non vuole e non sa provvedere ai supremi interessi della cittadinanza, non ama d'essere colto all'improvviso, e però stabilì un ottimo servizio di informazioni per conoscere il nome della «canaglia» che intervenne  alla  Camera di lavoro.

In quel clima d'animi tesi, cadde l'indomani la notizia del questore di Bari esonerato in seguito ad un'inchiesta e trasferito a Cagliari. Infuriava l'epidemia meningitica. C'era esasperazione per i prezzi alle stelle. Mancava solo, ad eccitare ancor più le passioni, la rinnovata testimonianza dell'idea che le autorità centrali avevano della Sardegna, come di terra d'espiazione. «Cosicché», reagì «L'Unione sarda», «per il grande Luzzatti, amico tenero della Sardegna, Cagliari e l'isola tutta sono considerate terre di punizione, di relegazione, e se un funzionario, o per incapacità o per indegnità, si rende incompatibile in Continente, ebbene il rimedio è presto trovato: la Sardegna è il domicilio coatto di tale gente».

subito dopo, per i giorni 6-7-8 gennaio del 1911, vennero indette le elezioni di rinnovamento della commissione esecutiva della Camera del lavoro. Erano candidati il ferroviere Salvatore Baire, lo scalpellino Salvatore Crovato, il metallurgico Luigi Favero, l'impiegato Gennaro Gramsci, il marmista Luigi Onali, il sarto Angelo Pischedda e il calderaio Alfredo Romani. Gennaro Gramsci fu tra gli eletti ed ebbe l'incarico di cassiere. Naturalmente la cosa non poteva rimanere senza seguito, dato il severo controllo che la polizia allora esercitava sui dirigenti sindacali. E di lì a poco, a Ghilarza, Francesco Gramsci e Peppina Marcias  seppero  di  una  richiesta di informazioni sul conto di Gennaro. Ne furono sconvolti. Furibondo e inquieto, il signor Ciccillo meditava un viaggio a Cagliari, per vederci chiaro. Allora Antonio scrisse alla mamma (la lettera viene pubblicata qui per la prima volta):

Ti rispondo immediatamente perché papà non faccia davvero la pazzia di venir qui. Voi vi spaventate perché la polizia domanda informazioni di uno. Non c'è poi ragione di pigliarsela calda. Voi chissà cosa immaginerete ora: che Nannaro sia in guardina, o fra quattro carabinieri. Rassicurati, che non succederà niente di lutto ciò. Nannaro ha accettato alcune cariche alla Camera di lavoro; quindi il suo nome, finora sconosciuto, è caduto sotto gli occhi della polizia, che ha voluto sapere chi era questo rivoluzionario, questo scannasbirri nuovo che si faceva avanti: e ha domandato informazioni. Sei contenta adesso? Come vedi, non c'è niente di male, e tutto finisce là. Essendo successo uno sciopero, e siccome Nannaro è cassiere della Camera di lavoro, la polizia voleva sapere il suo indirizzo, per sequestrare i fondi e per far cessare lo sciopero: ma lo sciopero è finito da sé, i fondi son rimasti... Un'altra volta, quando sapete di queste cose, state tranquilli e ridete in faccia al tenente e a tutte le barbe dei carabinieri, come faccio io da un pezzo: poveretti, in fondo bisogna compatirli. Occupandosi come si occupano di socialisti e anarchici, non hanno tempo di pensare ai ladri e ai malandrini, e hanno paura che non rubino loro la lucerna...

Antonio Gramsci aveva adesso vent'anni. S'era meglio integrato nell'ambiente cittadino, e leggendo sue lettere inedite di questo periodo ne ricaviamo un'immagine nuova, di studente scapigliato, addirittura loggionista tumultuoso: «Per la mia splendida criniera, che mi ondeggia ad ogni soffio, mi hanno preso per una ragazza, e si sono meravigliati che una donna facesse tanto chiasso in un teatro: perché vedevano solo la testa e la mano che faceva un sonoro pernacchio. Io non me la sono presa a male, anzi ho ringraziato dell'attenzione che mi usavano». Ed ancora: «A me l'altra notte mi hanno fatto osservazione perché ammiravo ad alta voce gli splendidi baffi di una guardia di polizia: ed io le ho detto che si tagliasse i baffi, se non voleva che se ne parlasse». Ma dietro questa apparenza di levità d'umore, ben triste era, in realtà, la vita di Antonio.

Lo stipendio di Gennaro, senza integrazioni da casa, non bastava più per entrambi. La vita era rincarata, e non si poteva vivere in due con cento lire al mese. Antonio scrisse allora al padre: «Nannaro si è abbastanza sacrificato, si è fatto dare denari in anticipo, ma adesso non sa come fare; vedo che di giorno in giorno si fa più serio, ed oggi era deciso a rimandarmi a Ghilarza... Solamente le mie preghiere lo hanno potuto convincere che, scrivendoti io stanotte, tutto sarebbe rimediato»3. Continuò gli studi a Cagliari, ma in condizioni molto difficili. Ricorderà anni dopo: «Incominciai col non prendere più il poco caffè al mattino, poi rimandai il pranzo sempre più tardi e così risparmiavo la cena. Per 8 mesi mangiai così una sola volta al giorno e giunsi alla fine del 3° anno di liceo in condizioni di denutrizione molto gravi».

I suoi coetanei, classe 1891, andavano alla visita di leva. Erano in tutta l'isola 11.632: ben oltre la metà, 7968, sarebbero stati esclusi dal servizio militare, perché inabili; e causa dichiarata dell'inabilità era in 2486 la denutrizione. Che tra queste plebi affamate e tra gli intellettuali sentimentalmente vicini ad esse il socialismo dei sindacati riformisti del Nord, sostanzialmente allineato con i fautori del protezionismo e dunque nei fatti insensibile alla condizione tragica del sottoproletariato agricolo meridionale; che una simile ristretta concezione del socialismo potesse avere seguito in Sardegna è inattendibile. Cominciava a spuntare, opposto all'altro, il socialismo «contadino» di ispirazione salveminiana. Gramsci seguiva con grande interesse, sappiamo dalla sorella Teresina, gli scritti di Salvemini. Nella «Voce» del 13 ottobre 1910, l'intransigente meridionalista aveva anticipato una parte della sua relazione al vicino congresso socialista di Milano, e lì chiariva la posizione dei «riformisti dissidenti»: i quali «non accettano il rivoluzionarismo parolaio ma neanche intendono che il riformismo diventi sinonimo di ministerialismo, di giolittismo, di massonismo cronico, e faccia del Partito socialista una nuova organizzazione oligarchica a esclusivo servizio delle corporazioni operaie più potenti e a danno della massima parte della classe lavoratrice non elettorale». In Sardegna, l'orientamento in qualche misura corrispondente a questo di Salvemini era un intreccio di sardismo anche radicalizzato sino all'estrema velleità separatista e di socialismo anche con frange rivoluzionarie: ne veniva una sorta di socialsardismo eterodosso sia rispetto a Marx che alle concezioni federali d'un Cattaneo. La lotta di classe era un punto fermo; ma la classe da combattere la si identificava, abbastanza confusamente e con pericolosa genericità, nei continentali ricchi, e ricchi, o almeno privilegiati, erano considerati anche gli operai delle industrie. L'organizzazione politica del sardismo, il Partito sardo d'azione, con temi e programma ben precisi, verrà solo nel 1919; prima d'allora il sardismo era soltanto un clima di ribellione al centralismo statale.

Nel marzo del 1911 si svolsero a Torino i grandi festeggiamenti per il primo cinquantenario dell'unità. Poteva essere una eccellente occasione di tregua, di assopimento degli accesi spiriti regionalisti. Ma l'alluvione d'enfasi evidentemente non bastò. I risentimenti erano tenaci, e ad acuirli ecco la mancata concessione delle agevolazioni di viaggio ai sindaci sardi invitati a Torino per un convegno da tenersi il 17 marzo. Con questo telegramma il sindaco di Cossoine Agostino Sencs respinse l'invito: «Non intervengo perché le grandi riduzioni ferroviarie non riguardano la vecchia Sardegna, da tutti dimenticata». Poi anche gli si affiancò il sindaco di Fluminimaggiore con quest'altra risposta: «Stante grande distanza e nessun ribasso concesso viaggi dalla Sardegna e ristrettezza finanziaria del Comune mi è impossibile intervenire convegno sindaci al quale tuttavia aderisco con cuore d'italiano», Erano, pur con sfumature diverse, ugualmente rappresentativi dello stato d'animo diffuso in Sardegna. Il ministro Sacchi si ebbe da «L'Unione sarda» del «meschinamente pitocco».

In quel tempo, a quale fase di sviluppo era arrivato il «processo vitale» di Antonio Gramsci? Da una lettera del '24 sappiamo della sua convinzione d'allora, che «bisognava lottare per Pindipendenza nazionale della regione». Sembra indicativo della prima formazione di Gramsci in un periodo ancora di studi liceali anche un componimento d'italiano della terza liceo (Gramsci compì i vent'anni nel gennaio di quell'anno scolastico). Il professore di seconda. Rafia Garzìa,  malato, aveva chiesto l'aspettativa. Gli era succeduto nella cattedra d'italiano un uomo alto e sognante, Vittorio Amedeo Arullani, acuto lettore dei testi classici e in politica aperto, senza essere di sinistra, al confronto delle idee. Fu con lui che Antonio Gramsci fece un compito sul colonialismo e sulle genti oppresse.

...Un giorno si sparge la voce: uno studente ha ammazzato il governatore inglese delle Indie, oppure: gli italiani sono stati battuti a Dogali, oppure: i boxers hanno sterminato i missionari europei; e allora la vecchia Europa inorridita impreca contro i barbari, contro gli incivili, e una nuova crociata viene bandita contro quei popoli infelici... Le guerre sono fatte per il commercio, non per la civiltà: gli Inglesi hanno bombardato chissà quante città della Cina per i Cinesi che non volevano sapere del loro oppio. Altro che civiltà! E Russi e Giapponesi si sono massacrati per avere il commercio della Corea e delia Manciuria.

Il tema si chiudeva in un modo che già chiaramente svelava l'adesione del giovane allievo del Liceo Dottori al marxismo:

La Rivoluzione francese ha abbattuto molti privilegi, ha sollevato molti oppressi; ma non ha fatto che sostituire una classe all'altra nel dominio. Però ha lasciato un grande ammaestramento: che i privilegi e le differenze sociali, essendo prodotto della società e non della natura, possono essere sorpassate. L'umanità ha bisogno d'un altro lavacro di sangue per cancellare molte di queste ingiustizie: che i dominanti non si pentano allora di aver lasciato le folle in uno stato di ignoranza e di ferocia quali sono adesso!

Si era nel 1911: il regime zarista cadrà sei anni dopo.

Nello scrutinio di licenza liceale, Gramsci ebbe in italiano scritto, dal professor Arullani, nove. Anche gli altri voti, compresi quelli nelle materie scientifiche, furono soddisfacenti. Racconta Gramsci:

Dopo il primo anno di liceo, non ho più studiato matematica, ma ho invece scelto il greco (allora c'era l'opzione); però in terzo anno di liceo ho dimostrato improvvisamente di avere conservato una «capacità» notevole. Succedeva allora che in terzo anno di liceo bisognava, per studiare la fisica, conoscere gli elementi di matematica che gli alunni che avevano optato per il greco non avevano l'obbligo di sapere. Il professore di fisica, che era molto distinto [Francesco Maccarone, socialista e amico di Gennaro Gramsci] si divertiva un mondo a metterci in imbarazzo. Nell'ultimo interrogatorio del terzo trimestre, mi propose delle questioni di fisica legate alla matematica, dicendomi che dalla esposizione che ne avrei fatto sarebbe dipesa la media annuale e quindi il passaggio di licenza con o senza esame: si divertiva molto a vedermi alla lavagna, dove mi lasciò tutto il tempo che volli. Ebbene, rimasi mezz'ora alla lavagna, mi imbiancai di gesso dai capelli alle scarpe, tentai, ritentai, scrissi, cancellai, ma finalmente «inventai» una dimostrazione che fu accolta dal professore come ottima, quantunque non esistesse in nessun trattato. Questo professore - conclude Gramsci - conosceva mio fratello maggiore, a Cagliari, e mi tormentò con le sue risate ancora per tutto il tempo della scuola: mi chiamava il fisico grecizzante.

A parte il nove nello scritto d'italiano, Antonio Gramsci concluse gli studi liceali, alla prima sessione, con otto in tutte le materie.

Note

1 I titoli erano di questo tipo: Voci di sdegno e principio di battaglia, La fiera protesta di Cagliari e della provincia, Le dimissioni del coniglio comunale, Le dimissioni in massa dei corpi elettivi, La grande protesta per la difesa dei nostri diritti, Contro tutte le promesse vane. L'insurrezione della coscienza pubblica.

2 Un giovane pittore, di cui si sarebbe occupata in seguito la critica più autorevole, Filippo Figari, aveva disegnato il bozzetto per la tessera. Vi erano raffigurati, a fianco della scritta Proletari di tutto il mondo unitevi, un portuale e un minatore che si stringono la mano e bimbi nel gesto di scambiarsi alcune spighe.

3 La lettera è inedita.

CAPITOLO NONO

Agli studenti poveri delle antiche province dell'ex Regno sardo si offriva l'occasione, una volta presa la licenza liceale, di proseguire gli studi nell'Università di Torino con una borsa del Collegio Carlo Alberto. Erano 70 lire al mese per dieci mesi. Quell'anno, autunno del 1911, la Fondazione albertina aveva messo a concorso 39 borse. Antonio Gramsci capì subito che, tolta questa soluzione, l'aggravio dei suoi studi universitari sarebbe stato difficilmente sostenibile in famiglia. Il padre, ottenuta la riabilitazione, era entrato di ruolo nel catasto, ma come semplice scritturale, nonostante la maturità classica e un paio d'esami in giurisprudenza; e ci voleva ben altro che la sua modesta paga per mantenere un figlio all'università, quando gli altri ancora a carico erano, oltre Antonio, cinque. Mario, diciottenne, desiderava andare in marina o nell'esercito, aveva alcuni anni di ginnasio, c'era qualche possibilità di carriera da sottufficiale e, chissà, forse anche da ufficiale; ma intanto, in attesa d'avere l'età per l'arruolamento volontario, continuava a starsene disoccupato a Ghilarza e dunque a pesare sulle deboli finanze paterne. Carlo aveva quattordici anni e studiava al ginnasio di Oristano. Le ragazze davano in casa il poco aiuto che potevano. In conclusione, l'unica buona prospettiva per Antonio era la vincita di una delle 39 borse a concorso. In caso di trasferimento a Torino, un po' di soldi avrebbe continuato a darglieli Gennaro, che nella fabbrica del ghiaccio di Cagliari guadagnava il tanto per mantenersi e per soccorrere, almeno un poco, il fratello studente. Innanzitutto però occorreva superare la prima selezione, sulla base dei voti di licenza liceale. E, se ammesso alle prove e invitato a Torino, c'era da affrontare una lunga serie di esami scritti e orali.

Quell'estate Antonio non traversava un momento buono: i troppi pasti saltati nell'ultimo scorcio di liceo l'avevano indebolito. Era scoraggiato. Ricorderà: «Solo alla fine dell'anno scolastico seppi che esisteva la borsa di studio del Collegio Carlo Alberto, ma nel concorso si doveva dare l'esame di tutte le materie dei tre anni di Liceo; dovevo perciò fare uno sforzo enorme nei tre mesi di vacanze». Aveva ad Oristano uno zio, il farmacista Serafino Delogu, cugino in primo grado della mamma; e un figlio di questo zio Serafino, Delio, al quale Antonio era molto affezionato, aveva bisogno d'un po' di lezioni private. «Solo zio Serafino si accorse delle deplorevoli condizioni di debolezza in cui mi trovavo, e mi invitò a stare con lui a Oristano, come ripetitore di Delio. Vi rimasi un mese e mezzo e per poco non divenni pazzo. Non potevo studiare per il concorso, dato che Delio mi assorbiva completamente e la preoccupazione, unita alla debolezza, mi fulminava. Scappai di nascosto. Avevo solo un mese di tempo per studiare».

Ai primi di settembre seppe d'essere stato ammesso alle prove d'esame. Dandogli con lettera 2 settembre la notizia, la segreteria del Collegio Carlo Alberto aggiungeva: «I concorrenti per la sede di Cagliari non sono che due, Lei compreso», e ancora: «Le sarà corrisposta anche per la durata degli esami scritti, dal 16 ottobre in cui dovrà trovarsi a Torino fino al giorno dopo l'ultimo esame, la prescritta indennità di lire 3 al giorno e il viaggio in seconda classe da Cagliari a Torino (meno l'importo di 300 chilometri)»1. Verso metà ottobre, a venti anni e mezzo (ne avrebbe compiuti ventuno a gennaio), Gramsci lasciò Ghilarza per andare «di là dalle grandi acque», come allora, meno baroccamente di quanto oggi paia, si diceva. «Partii per Torino», ricorderà, «come se fossi in istato di sonnambulismo. Avevo 55 lire in tasca; avevo speso 45 lire per il viaggio in terza delle 100 lire avute da casa».

Fu un viaggio lungo, con sosta a Pisa. Lo zio Zaccaria Delogu, capitano dell'esercito, partiva per Tripoli. C'erano a salutarlo i fratelli Serafino e Achille. Antonio stette la sera con essi. Infine, l'arrivo nella grande metropoli industriale, Il «triplice o quadruplice provinciale come certo era un giovane sardo del principio del secolo» ne fu stordito. Leggiamo nella prima lettera indirizzata da Torino a casa: «Provo una specie di ribrezzo a fare delle camminate, dopo che ho corso il rischio di andare sotto a non so quante automobili e trams»2. L'aveva accolto alla stazione di Porta Nuova un ghilarzese impiegato alla Pirelli, Francesco Oppo; ed ecco, appena arrivato nella camera indicatagli dal compaesano, la prima sorpresa: per il rialzo dei prezzi provocato dall'Esposizione del Cinquantenario, il costo della camera era di 3 lire, al giorno: quante il Collegio gliene passava, oltre che per dormire, anche per mangiare. Scrisse al padre: «Purtroppo ho dovuto pagare 3 lire al giorno d'affitto e altrettanto e più per mangiare; oggi però, essendomi recato al Collegio per riscuotere i soldi e avendo raccontato al segretario la mia odissea, egli molto gentilmente è riuscito a farmi trovare un'altra stanzetta a 1,50 al giorno».

Gli esami cominciarono il 18 ottobre. Il tema d'italiano, riferisce Domenico Zucaro, che ha raccolto le testimonianze di Maria Cristina Togliatti e di Augusto Rostagni, concorrenti insieme a Gramsci alle borse, era sul contributo dei nostri scrittori pre-risorgimentali, Alfieri, Foscolo ecc., all'unità italiana. Appena informato dell'ammissione agli orali, Antonio scrisse a casa: «Ritorno ora dall'università, dove sono andato a vedere lo scrutinio del compito d'italiano. Sono passato, meno male, ma purtroppo ciò non mi rassicura affatto: perché, tra una settantina di concorrenti, appena cinque sono stati rimandati, il che vuol dire che tutti erano bene preparati e che l'esame è molto più serio di ciò che si pensava»3. Ebbe voti sufficienti anche negli altri scritti: ventuno in quello di storia, ventitré nella composizione latina, ventiquattro nella traduzione dal greco, venticinque nel tema di filosofia. Sostenne il 27 ottobre gli orali. Dirà: «Non so come ho fatto a dare gli esami, perché sono svenuto due o tre volte». Pubblicata la graduatoria finale, vide che il suo nome era al nono posto. Al secondo figurava il nome di un altro studente povero venuto da un liceo della Sardegna, Palmiro Togliatti.

Non s'erano mai conosciuti prima. Soltanto agli esami per l'ammissione al Collegio delle Province risale «il primo fuggevole incontro tra due giovani allora abbastanza scontrosi e chiusi», come più tardi ricorderà Togliatti. Li avvicinava la comune provenienza dalla Sardegna: Togliatti, figlio di un economo del Convitto Nazionale morto nel gennaio di quell'anno, 1911, aveva frequentato i tre anni di liceo al Domenico Alberto Azuni di Sassari. Poi anche li spingeva alla confidenza «la condizione comune di grande disagio, evidente», scriverà Togliatti, «al modo stesso come andavamo vestiti». I legami tra i due giovani studenti dovevano però cominciare a farsi tenaci solo più in là.

Il primo inverno di Gramsci a Torino fu tra i momenti più critici della sua pur agitata esistenza. Aveva preso una stanzetta alla Barriera di Milano, numero 57 di Corso Firenze, sulla Dora. Senza amici e tanto lontano da casa, più che in passato sentiva adesso il peso della solitudine. Era esaurito, conseguenza dello sforzo fatto per vincere la borsa di studio e delle privazioni cui lo costringevano i pochi mezzi. «Nel 1911, in un periodo nel quale fui gravemente ammalato per il freddo e la denutrizione», ricorderà, «fantasticavo di un immenso ragno che la notte stesse in agguato e scendesse per succhiarmi il cervello mentre dormivo». Era stato un contrattempo a fargli passare senza più soldi le prime settimane dopo il concorso. Credeva d'aver diritto all'esenzione dalle tasse universitarie. Gli spettava invece la sola mezza esenzione, per ottenere la quale doveva comunque produrre una certa serie di documenti. In attesa di questi, l'iscrizione all'università era subordinata al versamento della tassa intera; e senza l'iscrizione all'università il Collegio non corrispondeva le 70 lire mensili di borsa. Il 4 novembre Antonio scrisse al padre sollecitandolo a versare l'importo della tassa intera e aggiunse: «Il Collegio non mi passa il sussidio se io non sono regolarmente iscritto all'università: ora io mi trovo quasi al verde, e devo pagare un acconto alla padrona di casa dove mi sono fermato provvisoriamente per questo mese: quindi è necessario che tu mi mandi, se puoi telegraficamente, almeno trenta lire»4. Le 75 lire di tassa furono pagate a Ghilarza da Francesco Gramsci il 10 novembre, ed il 16 Antonio ottenne infine l'immatricolazione nella facoltà di Lettere per Filologia moderna e subito dopo i primi soldi del Collegio. Ora a Ghilarza non sapevano spiegarsi come per vivere gli occorressero altri soldi, oltre le 70 lire della Fondazione albertina. Antonio scrisse:

Queste settanta lire sono assolutamente insufficienti e lo proverò con dati di fatto: per quanto abbia girato non ho potuto trovare una camera per meno di 25 lire: come quella dove sto ora. Da 70 tolgo 25 e rimangono 45 lire, con le quali dovrei mangiare, pensare alla pulizia della biancheria (non meno di 5 lire tra lavatura, stiratura ecc.), al lucido per scarpe, alla luce per la stanza, alla carta, penne, inchiostro per scuola, che sembra poco eppure bisogna pagarlo con 40 lire! Per mangiare, vi dirò che un latte costa 10 centesimi, o per 5 centesimi un panino di 25 grammi... per pranzare non meno di due lire alla più modesta trattoria, come era quella dove fino a pochi giorni fa mangiavo e mi davano un piattino di maccheroni per 60 centesimi e una bistecca sottile come una foglia per altrettanto, sì che dovevo mangiarmi 6 o 7 panini e avevo fame come prima...5

Ebbe dalla mamma uno scialle: «per metterlo sulle spalle», gli scrisse il 14 dicembre Grazietta, «quando sei in casa, perché l'ha fatta ridere la tua toeletta di casa ma allo stesso tempo le ha fatto compassione il tuo misero stato». Cinque giorni prima di Natale, il suo primo Natale fuori casa, in una lettera al padre, Antonio si risolse a dire, ancor più apertamente, in quali condizioni viveva a Torino. È una delle poche volte che Gramsci, in seguito così poco incline a dire di sé e semmai propenso a dire quel poco impersonalmente, quasi descriva tribolazioni che non lo riguardano, è una delle poche lettere dove Gramsci, smettendo il tono di cronista distaccato dei suoi patimenti, s'abbandona a un libero sfogo.

Mi vedo costretto - implorava - a pregarti di mandarmi senza fallo, prima della fine del mese, le 20 lire che mi avevi promesso: questo mese ho preso al Collegio solo 62 lire, delle quali ho dato 40 alla padrona di casa per l'anticipo e 40 dovrò dare per il saldo. Passerò già un Natale molto magro e non vorrei renderlo ancora più squallido con la prospettiva di un vagabondaggio attraverso Torino in cerca di uno stambugio, con questo po' di freddo. Credevo questo mese di potermi far fare il paltò, perché Nannaro mi ha mandato 10 lire. Invece dovrò aspettare ancora chissà quanto: e credi pure che è un bell'affare uscire di casa e attraversare la città coi brividi e poi al ritorno trovare una stanza fredda e non potersi riscaldare, ma dover rimanere per un paio d'ore ancora coi brividi. Se avessi saputo, credi pure che non sarei venuto a nessun costo a cacciarmi in questo ghiacciaio: e il peggio si è che la preoccupazione del freddo non mi permette di studiare, perché o passeggio nella camera per riscaldarmi i piedi oppure devo stare imbacuccato perché non riesco a sostenere la prima gelata6.

I soldi chiesti arrivarono il giorno di Capodanno. Lo si deduce da una lettera del 3 gennaio 1912. Antonio diceva al padre:

Ho ricevuto avant'ieri il tuo vaglia telegrafico di quindici lire, e ti ringrazio tanto: perché credi pure che mi trovavo in brutte acque, e avendo ricevuto una cartolina il 26 non speravo più di ricevere i soldi. Spero che d'ora in avanti non ti troverai in imbarazzo, perché credi pure che io senza le tue venti lire non posso andare avanti, anche se volessi fare i più duri sacrifici.

In queste condizioni, malnutrito, amareggiato da una solitudine che mai era stata così pungente, e col cervello a pezzi per l'esaurimento, Gramsci studiava. Ricorderà: «Passai l'inverno senza soprabito, con un abitino da mezza stagione buono per Cagliari. Verso il marzo 1912 ero ridotto tanto male che non parlai più per qualche mese: nel parlare sbagliavo le parole. Per di più abitavo proprio sulle rive della Dora, e la nebbia gelata mi distruggeva».

Lo aveva preso a ben volere sin dal principio un giovane professore dalmata, Matteo Bartoli, docente di glottologia, del quale otto anni prima era uscito un saggio col titolo Un po' di sardo. Sembrava al Bartoli che il parlare dei sardi avesse un notevole rilievo nel quadro degli studi sugli sbocchi estremi cui il latino volgare, innovandosi in più direzioni e proliferando nuove lingue, era arrivato. Di qua il suo tenere «l'occhio attento», come scrive Domenico Zucàro, «alle testimonianze linguistiche della Sardegna». Gramsci parlava il sardo perfettamente e lì a Torino era uno dei non molti isolani in facoltà di Lettere. Fu certo questa circostanza a procurargli prima l'attenzione, quindi la simpatia e, via via che la collaborazione veniva intensificandosi, l'amicizia profonda del linguista. A quel primo periodo risale una lettera dove Antonio chiedeva al padre d'incaricare qualcuno che gli voltasse in sardo una lista di parole, «però nel dialetto di Fonni... segnando chiaramente così l'S che si pronuncia dolce, come in rosa (italiano), e S quello che si pronuncia sordo come in sordo stesso (italiano)».

Anche frequentava, all'università e fuori scuola in lunghe passeggiate, l'incaricato di letteratura italiana, Umberto Cosmo, che era stato professore d'italiano al Liceo Dettori di Cagliari.

Quando ero allievo del Cosmo - dirà - in molte cose non ero d'accordo con lui, naturalmente, sebbene allora non avessi precisato la mia posizione e a parte l'affetto che mi legava a lui. Ma mi pareva che tanto io come il Cosmo e come molti altri intellettuali del tempo (si può dire nei primi 15 anni del secolo) ci trovassimo in un terreno comune che era questo: partecipavamo in tutto o in parte al movimento di riforma morale e intellettuale promosso in Italia da Benedetto Croce, il cui primo punto era questo, che l'uomo moderno può e deve vivere senza religione, e s'intende senza religione rivelata o positiva o mitologica o come altrimenti si vuol dire.

C'era tra il giovane studente spaesato nella grande città e il professore un legame che si irrobustiva anche nella reciprocità dell'affetto. Sopravverranno qualche tempo dopo, nell'incandescenza della lotta politica, dispute nelle quali dal desiderio di ritorsione Gramsci sarà spinto all'intemperanza. Ma oltre simili svolte polemiche l'antico affetto rinverdirà. Ne offre testimonianza lo stesso Cosmo in una lettera scritta a Piero Sraffa al tempo della carcerazione di Gramsci:

Tra le memorie più care sono quelle degli anni che facevo lezione all'Università e avevo tra gli scolari più cari il G. [Gramsci] ed il G. [Pietro Paolo Gerosa, coetaneo di Gramsci, originario del Canton Ticino, cattolico]. Due anime opposte, ma che pur s'accordavano nel dare in letteratura al fatto religioso sociale politico più importanza che all'artistico. Per l'uno aveva ragione il Cantù, per l'altro il Settembrini, e io dovevo mostrare le deficienze di tutti e due i critici e far valere le ragioni del De Sanctis.

Il Bartoli, il Cosmo: questi i professori con i quali lo studente sardo ebbe maggiore dimestichezza. Doveva essere però tutta l'Università a lasciare un'impronta in lui. Era una grande scuola, ricca di stimoli, rispecchiando la varietà di indirizzi della cultura italiana del tempo, la sua tensione di ricerca e la volontà di rinnovamento, dopo l'«afa» e «l'oppressura dell'età positivistica». Vi insegnavano, oltre al Bàrtoli ed al Cosmo, Luigi Einaudi, Francesco Ruffini, Giovanni Chironi, Vincenzo Manzini, Gioele Solari, Pietro Toesca, Arturo Farinelli, Giovanni Pacchioni, Rodolfo Renier, Ettore Stampini, Achille Loria, Annibale Pastore: uomini di formazione e d'orientamento culturale diversi, ancora positivista il Loria, sensibile alle suggestioni del nazionalismo il Pacchioni, assai vicino ai giovani rivoluzionari il Farinelli, liberali il Ruffini e l'Einaudi. In questa varietà d'indirizzi, l'impronta che poteva lasciare l'Università era meno ideologica che di metodo.

Ricordo un'aula a pianterreno, a sinistra del cortile, entrando, dove ci trovavamo sempre tutti, giovani di facoltà diverse e di diverso animo, uniti dalla comune inquietudine nella ricerca del nostro cammino - scrive Togliatti -. Ivi un grande spirito, Arturo Farinelli, leggeva e commentava i classici del romanticismo tedesco... Era una morale nuova, quella che egli ci inculcava, di cui era legge suprema la sincerità sino all'ultimo con noi stessi, il rifiuto delle convenzioni, l'abnegazione alla causa cui si è consacrata la propria esistenza.

Già affiora un tratto del carattere di Gramsci. Gli studi universitari avevano principalmente il risultato di acuire in lui lo spirito di ricerca, il gusto della precisione, dandogli «l'abito di severa disciplina filologica» e la «provvista di scrupoli metodici» di cui parlerà in una lettera dal carcere. Dirà di sé nel 1916:

Del suo garzonato universitario [chi scrive queste note] ricorda con più intensità quei corsi nei quali l'insegnante gli fece sentire il lavorio di ricerca attraverso i secoli per condurre a perfezionare il metodo di ricerca. Per le scienze naturali, per esempio, tutto lo sforzo che è costato il liberare lo spirito degli uomini dai pregiudizi e dagli apriorismi divini e filosofici per arrivare alla conclusione che le sorgenti d'acqua hanno la loro origine dalla precipitazione e non dal mare. Per la filologia, come si sia arrivati al metodo storico attraverso i tentativi e gli sbagli dell'empirismo tradizionale e come, per esempio, i criteri e le convinzioni che guidavano Francesco De Sanctis nello scrivere la sua storia della letteratura italiana non fossero che delle verità venutesi affermando attraverso faticose esperienze e ricerche. Era questa la parte più vitale dello studio, quello spirito ricreativo che ci faceva assimilare i dati enciclopedici, che ci fondeva in una fiamma ardente di nuova vita intellettuale7.

L'Università era allora il centro esclusivo degli interessi del giovane immigrato sardo. Fuori, frequentava solo il giro dei conterranei. Li vedeva in una trattoria dove, racconta scherzando Piero Ciuffo8, «coltelli e forchette, stoviglie e bicchieri erano incatenati al tavolo dall'oste (evidentemente non assicurato contro i furti), e persino i clienti venivano assicurati alle gambe del tavolo con una catenella, per maggior precauzione». Nell'ambiente studentesco, Gramsci non aveva che pochi amici: Cesare Berger, suo compagno al concorso della Fondazione albertina, e due altri colleghi di facoltà, Camillo Berrà e Angelo Tasca, figlio di un operaio socialista. Di un anno più giovane di Gramsci, Tasca era il solo già impegnato politicamente.

Nel maggio del 1909, a diciassette anni, ancora liceale, aveva fondato a Torino, insieme a Giuseppe Romita ed a Gino Castagno, il primo «Fascio» aderente alla Federazione giovanile socialista di Roma. «Quasi ogni domenica», scriverà, «partivamo in un gruppo di ciclisti rossi e seminavamo il verbo davanti a contadini quasi sempre recalcitranti». Erano ancora impregnati di positivismo: «Nel triplice tributo pagato a Darwin, a Spencer, a Marx, quest'ultimo ci scapitava». Ma dal positivismo dominante nella sezione socialista torinese venivano staccandosi poco a poco. Diffidavano dell'eloquenza, rivendicavano la priorità della cultura sul sentimento. E nel settembre del 1912, a un congresso nazionale di giovani socialisti, «culturisti» li chiamerà un napoletano studente in ingegneria, Amadeo Bordiga. Il «Fascio» torinese era in pratica un punto di raccolta di acerbi «romantici rivoluzionari» lettori fervidi de «La Voce» di Prezzolini: giovani che in larga misura si distinguevano dai socialisti della vecchia generazione. «Eravamo quasi tutti... ostili all'anticlericalismo di tipo podrecchiano, a cui si riduceva troppo spesso il socialismo specie locale e i nostri gruppi giunsero a votare, a un congresso nazionale, un ordine del giorno, accettato a grande maggioranza, che consigliava il boicottaggio dell'"Asino"». Gramsci ebbe rapporti con Tasca sempre fuori, in un primo momento, dall'ambiente del «Fascio» giovanile.

Con Togliatti, che frequentava la facoltà di giurisprudenza e non aveva, allora, alcun interesse per la politica attiva, così come la svolgeva Tasca, i legami furono riannodati all'inizio della primavera di quel primo anno d'università, dopo una lezione di seminario del corso di diritto romano del professor Giovanni Pacchioni: il quale, riferiscono Marcella e Maurizio Ferrara, «sostituiva alle sue lezioni, talora, un dibattito fra gli studenti, cui aveva proposto temi di ricerca. Togliatti scelse il tema dell'autenticità o meno della legge romana delle XII Tavole e sostenne la tesi dell'autenticità, criticando gli argomenti del Pais, del Lambert. Fu il suo primo intervento documentato e polemico in pubblico e ad ascoltarlo v'era Gramsci col quale all'uscita venne; rinnovata la conoscenza e ripresa la discussione». «Fu l'inizio», ricorderà Togliatti, «di quel dibattito che con Gramsci dovevamo riprendere tante volte, in altre forme, con ben altra esperienza e in altre circostanze, sul tema eterno della storia degli uomini, matrice di tutto ciò che gli uomini sanno e possono sapere». Erano i giorni in cui l'Italia del Cinquantenario, fradicia nelle regioni meridionali di analfabetismo, di tubercolosi, di corruzione, di soverchierie tollerate e di morti di fame, saliva sullo sgabello libico, per apparire più grande. Vite umane e ricchezze andavano a vanificarsi nel deserto. E chi, abbastanza sensato per non cadere in deliri alla Corradini o alla D'Annunzio dei momenti peggiori, identificava il prestigio nazionale in un minor numero di disoccupati, in più scuole e in definitiva nella civiltà interna, ancora da realizzarsi in Italia prima che si pretendesse di esportarla in Africa, era deriso. Un simile discorso, legittimato dalla conoscenza di tanti guasti nelle aree contadine, passava per essere un discorso disfattista, rivelatore della mentalità che allora i colonialisti spregiativamente dicevano del «piede di casa». In quel clima i due giovani universitari avevano preso a frequentarsi. «Debbo dire». testimonia Togliatti, «che il suo stato d'animo era allora, nei primi anni della sua giovinezza, fieramente non soltanto sardo ma, direi, sardista. Egli sentiva profondamente il risentimento comune a tutti i sardi contro i torti fatti all'isola; questo diventava anche per lui risentimento verso i continentali e verso il Continente». Il giovane Gramsci si esprimeva con una metafora.

Dovete immaginarvi la Sardegna - egli diceva - come un campo fertile e ubertoso la cui fertilità è alimentata da una vena d'acqua sotterranea che parte da un monte lontano. Improvvisamente voi vedete che la fertilità del campo è scomparsa. Là dove erano messi ubertose vi è soltanto più erba bruciata dal sole. Voi cercate la causa di questa sciagura, ma non la troverete mai se non uscite dall'ambito del vostro campicello, se non spingete la vostra ricerca fino al monte da cui l'acqua veniva, se non arrivate a capire che lontano parecchi chilometri un malvagio o un egoista ha tagliato la vena d'acqua che alimentava la fertilità ubertosa del vostro campo.

Chi dunque ha tagliato la vena d'acqua? Chi in questo modo ha condannato la Sardegna alla arretratezza ed alla povertà? Per cogliere sino in fondo il senso dell'immagine, pare conveniente la rilettura dell'appello indirizzato nel '25 dal Krestintern (internazionale contadina) ai sardisti riuniti a congresso a Macomèr. Lo redigerà materialmente Ruggero Grieco, ma l'ispirazione sarà di Gramsci. Vi si afferma:

La Sardegna... è una delle regioni relativamente più ricche d'Italia... possiede miniere di ferro, di piombo argentifero, di rame, di antimonio, di pietra litografica: il suo patrimonio minerario è tra i più ricchi ed i più vari d'Italia. Circa una quarta parte del patrimonio pastorizio italiano appartiene alla Sardegna. L'industria sarda della pesca potrebbe creare il benessere delle popolazioni, e così le industrie del sughero e delle saline... La popolazione sarda ha perciò nella sua terra le basi economiche per una certa floridezza.

Il quadro non è privo d'eccessi. Riflette le convinzioni d'allora del giovane Gramsci: il quale, colpito dallo spettacolo di miseria delle plebi contadine e del medio ceto della sua isola, naturalmente si chiedeva: chi ha tagliato la vena? Nel primo periodo torinese, lo studente sardo dava la risposta maturata nell'isola. «Egli pensava allora», scrive Togliatti, «che la Sardegna dovesse redimersi attraverso a una lotta contro il Continente e contro i continentali per la propria libertà, per il proprio benessere, per il proprio progresso». Ma a simili umori da irredentista chiaramente si intrecciavano tendenze socialistiche ben marcate fin d'allora. È ancora Togliatti a ricordare: «Antonio Gramsci era venuto dalla Sardegna già socialista. Forse lo era più per l'istinto di ribellione del sardo e per l'umanitarismo del giovane intellettuale di provincia, che per il possesso d'un sistema completo di pensiero». Certo è che il socialismo del giovane studente poco di collimante aveva con il socialismo in voga a quel tempo, ideologicamente dominato dalla filosofia del positivismo.

È noto - scriverà - quale ideologia sia stata diffusa in forma capillare dai propagandisti della borghesia nelle masse del Settentrione: - Il Mezzogiorno è la palla di piombo che impedisce i più rapidi progressi allo sviluppo civile dell'Italia; i meridionali sono biologicamente degli esseri inferiori, dei semibarbari o dei barbari completi, per destino naturale; se il Mezzogiorno è arretrato, la colpa non è del sistema capitalistico o di qualsivoglia altra causa storica, ma della natura che ha fatto i meridionali poltroni, incapaci, criminali, barbari, temperando questa sorte matrigna con l'esplosione puramente individuale di grandi genii, che sono come le solitarie palme in un arido e sterile deserto. Il partito socialista fu in gran parte il veicolo di questa ideologia borghese nel proletariato settentrionale.

E ancora:

Il popolano dell'Alta Italia pensava che, se il Mezzogiorno non progrediva dopo essere stato liberato dalle pastoie che allo sviluppo moderno opponeva il regime borbonico, ciò significava che le cause della miseria non erano esterne, da ricercarsi nelle condizioni economico-politiche obbiettive, ma interne, innate nella popolazione meridionale... l'incapacità organica degli uomini, la loro barbarie, la loro inferiorità biologica. Queste opinioni già diffuse furono consolidate e addirittura teorizzate dai sociologi del positivismo (Niceforo, Sergi, Ferri, Orano eccetera) assumendo la forza di verità scientifica.

Alcuni anni prima era uscito un libro di Alfredo Niceforo, con prefazione di Enrico Ferri, dove dalla misurazione dei crani d'un certo numero di pastori della Barbagia, in Sardegna, si arrivava a identificare tra Orgosolo, Orune e Bitti una «zona delinquente», popolata da uomini che col latte materno avessero quasi succhiato il bacillo della criminalità.

Il patriottismo regionalista dello studente sardo era ferito da simili tesi svolte anche da scrittori socialisti. «Posso dirlo con piena certezza perché questo fu il tema delle nostre prime conversazioni là nel vecchio portico dell'università di Torino, alla quale eravamo venuti tutti e due dai Licei della Sardegna», scriverà Togliatti, «Gramsci respingeva con sdegno le "spiegazioni" che circolavano nelle opere dei sociologi da strapazzo», indotti a identificare le cause della miseria e dell'arretratezza di una regione italiana nelle «particolari caratteristiche del suo popolo». Dipese forse anche da ciò l'estraneità di Gramsci, in quella prima fase di studi universitari, agli ambienti del socialismo torinese, allora in prevalenza corporativo e «localista».

Ma già, da qualcosa del suo atteggiamento, Angelo Tasca aveva ricavato la speranza d'averlo presto al suo fianco. Lo rivela un episodio. Verso la fine del primo anno universitario, Tasca regalò a Gramsci un'edizione francese di Guerra e pace, dedicandogliela con queste parole: «Al compagno di studi - oggi - al mio compagno di battaglia - spero - domani». La dedica è dell'11 maggio 1912.

Studiava per i primi esami. Era esaurito. Aveva scritto a casa il 14 marzo: «Non posso scrivere più perché da un paio di giorni mi sento un po' male e non ho voglia di far nulla, e non posso pensare a nulla: non vedo l'ora di venir costì per riposarmi un po' e vedere se mi passa questo maledettissimo dolor di capo che mi tormenta giorno e notte e non mi lascia né studiare né dormire, cosicché non posso dire davvero di fare una vita allegra»9. Pensava di dare due esami. Scrisse: «Il 6 luglio darò il mio secondo esame e il 15 partirò verso l'adorata spiaggia sardesca». Non si sentì invece di sostenere alcun esame e tornò a Ghilarza rinviandoli tutti alla sessione autunnale.

Era a corto di quattrini. Pensò di guadagnare qualche soldo con lezioni private. Ricorda il ghilarzese Peppino Mameli:

Ero stato rimandato alla licenza ginnasiale in latino e greco, e giacché Nino era tornato in paese per le vacanze, andai a ripetizione da lui. Aveva una comunicativa straordinaria. Sempre in dialetto proponeva le domande e poi commentava le mie risposte. Anche questo suo modo tutto amichevole di insegnare il greco e il latino mi metteva a completo agio. In seguito, dovemmo interrompere. Aveva bisogno di ristabilirsi e per qualche tempo andò a fare i bagni a Bosa Marina.

Ai primi d'autunno del '12, Gramsci era di nuovo a Torino. Cambiò casa, venendosene al centro, al numero 33 di via San Massimo, pensionante d'un «disegnatore in ricami», Carlo Gribodo, come ricaviamo da un foglio intestato: «Sono scappato, proprio così, dalla casa dove stavo prima perché la vita mi era diventata insopportabile e sono caduto senza accorgermene in un'altra casa dove non sto meglio e dove andrei via volentieri se trovassi un luogo sicuro: ma per stare un po' bene bisognerebbe spendere parecchio e ciò è impossibile»10. Via San Massimo sbocca in via Po, e nella sua prosecuzione, un centinaio di metri oltre via Po, si erge la Mole Antonelliana. Al numero 14 della stessa via abitava, in un mezzanino, Angelo Tasca.

Il 4 novembre del 1912 diede l'esame di geografia, prendendo trenta; poi il 12 l'esame di grammatica greca e latina, e il voto fu ventisette; e ancora il 12 novembre l'esame di glottologia: ebbe dal Bartoli trenta e lode.

Con il professore di linguistica continuò a collaborare a lungo, anche dopo dato l'esame. Già un paio di settimane appresso scriveva a Teresina perché s'informasse «se esista in logudorese la parola pamentile e se voglia dite pavimento. Se esista la frase: Ornine de pore che vorrebbe dire: uomo di autorità. Se esista la parola: su pirone che sarebbe una parte della bilancia, e se esiste, qual'è questa parte... Se in campi-danese si dica piscadrici per pescatrice o se questo è il nome di qualche uccello marino» eccetera. E mesi dopo, nel marzo del '13, ancora chiedeva a Teresina «se esiste in logudorese la parola pus nel significato di poi, " dopo", ma non "pust" o "pustis": pus semplicemente... Così se esiste puschena, e che significano: por ti gale (porticato?) poiu e poiolu». Sembrava allora destinato a diventare un buon glottologo. «Uno dei maggiori rimorsi intellettuali della mia vita», scriverà, «è il profondo dolore che ho procurato al mio buon professor Bartoli dell'Università di Torino, il quale era persuaso essere io l'arcangelo destinato a prodigare definitivamente i neogrammatici».

Note

1 La stessa cosa era capitata in marzo ai sindaci sardi invitati a Torino per il primo cinquantenario dell'unità: l'agevolazione di viaggio non comprendeva la traversata marittima.

2 La lettera è inedita.

3 La lettera è inedita.

4 La lettera è inedita.

5 La lettera è inedita.

6 La lettera è inedita.

7 «Avanti!» torinese, 29 novembre  1916.

8 Si tratta del Cip caricaturista de «L'Ordine nuovo», anch'egli sardo.

9 La lettera è inedita

10 La lettera è inedita.

CAPITOLO DECIMO

Era il marzo del 1913: Antonio Gramsci, ventiduenne, frequentava i corsi del secondo anno di Lettere. Già avevano cominciato a pesare allora sulla vita del paese le conseguenze della spedizione in Libia, a risentire delle quali erano ancora una volta le classi umili. Così, tra i molti chiamati a pagare il prezzo più alto di una guerra da essi non voluta, il malessere veniva propagandosi velocemente. Il 19 marzo a Torino 6500 operai dell'automobile disertarono le fabbriche. Fu minacciato il licenziamento di quelli che entro il 25 non si fossero presentati al lavoro, ma il fronte dello sciopero non subì incrinature. Anziché varcare i cancelli della Fiat, della Spa, della Lancia, gli operai si riunivano adesso tutte le mattine oltre Po, nel parco Michelotti, e lì c'era Bruno Buozzi, c'erano i capi sindacalisti, e avveniva lo scambio di notizie, si decideva giorno per giorno il da farsi, con la pratica della consultazione permanente tra base e dirigenti. «Nei primi giorni», ricorda Gino Castagno, «un tavolo preso a prestito da un'osteria vicina fu la tribuna degli oratori. Poi alcuni compagni intraprendenti trovarono delle tavole e costruirono un piccolo palco stabile a ridosso di un gruppo di grandi platani che facevano da fondale e da quinte». Passò tutto aprile, passò maggio. Gli industriali resistevano, il fronte operaio non cedette, e le grandi concentrazioni al parco Michelotti erano ormai un lato abituale, diremmo il saliente, della vita cittadina. Anche Gramsci ne fu colpito.

A certe ore del mattino - racconta Togliatti - quando abbandonavamo l'aula e dal cortile uscivamo nei portici avviandoci verso il Po, incontravamo frotte di uomini diversi da noi che seguivano quella strada. Tutta una folla si dirigeva verso il fiume e i parchi sulle sue rive... E lì andavamo anche noi, accompagnandoci a questi uomini; sentivamo i loro discorsi; parlavamo con loro, e ci interessavamo della loro lotta. Sembravano, a prima vista, diversi da noi studenti; sembrava un'altra umanità. Ma un'altra umanità non era.

Lo sciopero finì vittoriosamente il 23 giugno, dopo novantasei giorni di lotta. Ancora Gramsci era estraneo, a quel tempo, all'organizzazione socialista; ma non indifferente a ciò che accadeva.

Continuò a fare vita appartata. Lo tormentavano le cattive condizioni di salute. A poco era valso il riposo durante l'estate a Ghilarza e poi a Bosa Marina. Il freddo, la denutrizione, il non potersi distrarre dagli studi se non a rischio di perdere la borsa del Collegio albertino erano tutte cause di uno stato fisico giunto adesso a precarietà estrema. E ad appesantire il disagio contribuiva la solitudine. Diverso da tutti per la costituzione malforme e con pochi legami sia nell'ambiente universitario che fuori, il giovane sardo, di temperamento scontroso e non incline alle facili amicizie, frequentava appena un paio di colleghi. Si tratteneva anche con Matteo Bartoli, il suo professore di glottologia, e insieme stavano a lungo sotto i portici di Corso Vinzaglio, dov'era la casa del docente, a chiacchierare soprattutto di linguistica. Per il resto, quella di Gramsci era una vita da isolato; con tutte le privazioni possibili. Non andava a spettacoli, non lo si vedeva nei caffè. Soltanto a due cose non rinunziò mai: le sigarette e i libri. Come a Santulussurgiu, durante gli studi ginnasiali, vendeva una parte delle provviste per comprare libri, così adesso, poco attento amministratore delle 70 lire mensili di borsa, era capace di rimanere senza soldi in cambio dei libri che lo attiravano. Comprò una volta a Torino, quando frequentava il secondo anno universitario, uno stock di libri sulla Sardegna della biblioteca di un marchese di Boyl, i cui eredi si erano disfatti dei libri di argomento sardo. Lo stock comprendeva, sappiamo da una sua lettera, il Voyage en Sardaigne di Alberto Lamarmora, la Storia di Sardegna e la Storia moderna di Sardegna dall'anno 1773 al 1799 di Giuseppe Mannu e «un grosso volume rilegato (molto grosso, dal peso di almeno 10 kili) con la raccolta di tutte le carte d'Arborea». Assorbito da simili e altre letture, le ore libere preferiva trascorrerle ancora nelle aule universitarie, magari di un'altra facoltà. Scrive Togliatti: «Lo incontravo dappertutto, si può dire, dove vi era un professore il quale ci illuminasse su una serie di problemi essenziali, da Einaudi a Chironi a Ruffini. Ricordo che nel corso, ormai celebre, nel quale Francesco Ruffini elaborò la nuova concezione dei rapporti tra Chiesa e Stato... Antonio Gramsci era presente, attento, nell'aula».

L'esaurimento fisico e nervoso non bastava a spegnere la sua curiosità intellettuale. Ma era giù di tono, un po' staccato dalla vita. Neanche rispondeva alle lettere dei suoi. Il 6 maggio del 1913 la mamma gli scrisse: «Carissimo, questa è la quarta volta che ti dirigo scritti e cartoline e mi addolora moltissimo essere tanto tempo digiuna di tue notizie. Non so più cosa pensare, sei forse ammalato?... Se non rispondi subito a questa mia mi obblighi ricorrere al Collegio. Aspetto con ansia». A luglio Gramsci chiese alla segreteria della Fondazione albertina che si prendessero in considerazione le sue cattive condizioni di salute e senza aver dato esami tornò a Ghilarza.

Era estate di elezioni, le prime a suffragio allargato. In Sardegna la polemica libero-scambista toccava adesso il massimo di fervore. L'avevano alimentata le campagne svolte contro il protezionismo da «La Voce» di Prezzolini, da «L'Unità» di Salvemini e dalla «Riforma sociale». A portarla sul terreno dell'azione diretta lavorava infine un giovane intellettuale nuorese laureatosi l'anno avanti a Pisa con una tesi sulla Teoria marxista della concentrazione capitalistica, Attilio Deffenu. Per sua iniziativa era sorto nell'isola un Gruppo di azione e propaganda antiprotezionista, e un documento del Gruppo, scritto dal Deffenu e da un altro giovane pubblicista, Nicolò Fancello, apparve ai primi d'agosto su alcuni giornali sardi e il 28 agosto 1913 sul numero 35 della «Voce». Vi si leggevano in calce, oltre a quelle dei redattori, le firme di Gino Corradetti, segretario del Sindacato ferrovieri e della Camera del lavoro di Cagliari; del professore Massimo Stara, segretario della Camera del lavoro di Sassari (era stato, per qualche settimana, professore di Antonio Gramsci a Santulussurgiu); del  professore  Giovanni Sanna, che insieme ad Antonio Graziadei sarà autore delle tesi sulla Questione agraria al IICongresso del PCd'I nel marzo del '22 a Roma; di Francesco Dore, futuro deputato popolare; e di due giovani avvocati ad orientamento  repubblicano, Pietro Mastino di Nuoro e Michele Saba di Sassari. Nel documento era rinnovata la protesta contro il regime di protezionismo, dal quale Deffenu ed i suoi amici facevano discendere «l'arresto di sviluppo, la miseria crescente e la disoccupazione delle plebi lavoratrici, il caro dei viveri, lo spopolamento delle campagne, l'emigrazione». «Per favorire talune industrie che l'esperienza ha dimostrato non bisognose di protezione o assolutamente incapaci di vivere e  svilupparsi  senza di  essa», proseguiva  il manifesto, «s'è condannata l'economia meridionale a languire miseramente»: quella sarda in ispecie, danneggiata in primo luogo «dagli alti dazi che rincarano artificialmente il costo dei manufatti, delle macchine e degli strumenti di produzione» e poi «ostacolata nell'esportazione e nel commercio dei suoi migliori prodotti, bestiame, vino, olio, frutta, formaggi» rimasti senza più sbocco all'estero, giacché «il protezionismo italiano determina la rappresaglia degli altri Stati (basta ricordare la chiusura del mercato francese al fiorente commercio del bestiame e delle derrate agricole sarde)». Il documento sollecitava infine l'adesione morale o anche finanziaria dei sardi progressisti a tutte le iniziative del Gruppo. Da Ghilarza Gramsci scrisse alla «Voce». Il suo consenso alle tesi svolte dal Gruppo di propaganda antiprotezionista fu registrato nel numero 41 del 9 ottobre 1913. Era la prima volta che il giovane studente sardo aderiva, con un impegno pubblico, a una battaglia politica.

Intanto la lotta elettorale divampava. Il 26 ottobre si sarebbe votato per mandare dodici deputati al parlamento, e c'era la grande novità degli analfabeti ammessi alle urne; per cui il numero degli elettori saliva di colpo in Sardegna da 42 mila a 178 mila: un incremento di 136 mila elettori dal quale poteva dipendere poco meno di un terremoto. «Era diffusa la convinzione mistica», scriverà Gramsci, «che tutto sarebbe cambiato dopo il voto, di una vera e propria palingenesi sociale: così almeno in Sardegna». In realtà la situazione qual era?

Tra la fine del 1911 e i primi del '13, le organizzazioni socialiste avevano fatto un passo indietro, anziché progredire. Mancavano i mezzi e i quadri. Alcuni dirigenti di notevole capacità, come Giuseppe Cavallera, erano andati via, presi da scoraggiamento. Anche nei centri maggiori, Cagliari ad esempio, la sezione socialista e la Camera del lavoro avevano chiuso i battenti1. In simile vuoto d'iniziative, senza un qualcosa di organizzato sino all'antivigilia delle elezioni e dunque per lungo tempo senza nuclei politicamente educati che fossero centri di irradiazione delle nuove idee tra le plebi analfabete, il lavoro dei pochi volenterosi lanciatisi all'ultimo a rimettere in piedi un minimo d'organizzazione ora che le elezioni si avvicinavano era impresa complicata. «I lavoratori, novanta volte su cento, ci seguono senza capire un'acca del nuovo verbo», doveva ammettere con malinconia «Il Risveglio dell'isola», «settimanale proletario». Ma era sempre dei lavoratori la colpa di ciò? O non se ne doveva attribuire una buona parte anche all'impreparazione dei nuovi dirigenti, distaccati dalla psicologia delle masse e prigionieri di poche deboli formule? Si può dire che il socialismo sardo di quel tempo fosse tributario meno di Marx che dell'«Asino» podrecchiano. Un rozzo anticlericalismo da osteria era il suo connotato saliente. Nel numero del 6 luglio 1913, riferendosi a un fuorilegge del Sàrrabus, «Il Risveglio dell'isola» scriveva: «Se Tramatzu fosse più delinquente di quello che è, feroce fino a rasentare il cannibalismo, brutale fino all'eccesso, noi lo preferiremmo sempre ai preti». Due socialisti della sezione di Domusnovas, Francesco Saba e Giuseppe Onnis, erano stati espulsi dal partito «per aver il primo servito messa e il secondo suonato le campane in chiesa in occasione delle feste di San Giovanni» (così la motivazione ufficiale). I dirigenti agguerriti erano una minoranza. Quell'autunno  del '13 si presentavano candidati tre socialisti: Giuseppe Cavallera (richiamato apposta da Genova, dove risiedeva) nel collegio di Iglesias, Gino Corradetti a Cagliari e Massimo Stara a Sassari. Poi per la prima volta entravano nella competizione due altri uomini nuovi: il riformista Felice Porcella a Oristano e il cattolico Francesco Dorè a Nuoro. In quale misura l'allargamento del suffragio avrebbe tolto di mezzo i vecchi àscari giolittiani?

Tra i conservatori la paura era grande. Fin lì, come scriverà Gramsci, «le elezioni erano fatte su quistioni molto generiche, perché i deputati rappresentavano posizioni personali e locali, e non posizioni di partiti nazionali. Ogni elezione sembrava essere quella per una costituente, e nello stesso tempo sembrava essere quella per un club di cacciatori». Neanche un poco di polemica sulle idee. Il voto era comprato, era estorto con l'intimidazione o con l'intrigo dei pubblici uffici; oppure corrispondeva a un rito votivo per grazia ricevuta. E le fazioni paesane si combattevano trascurando l'indirizzo dei candidati, che del resto era volubile, e sostituendo al dibattito ideologico l'addebito diffamatorio, l'insinuazione, il dileggio2. Ora, con il suffragio quasi universale, un cambiamento (almeno parziale) di metodo si imponeva. Corrompere tutti gli elettori, che erano saliti a quattro volte tanto, diventava piuttosto caro. E poi un discorso politico bene o male i socialisti lo facevano, e dunque si era obbligati a opporgliene un altro. Ma quale? Fu scelto il discorso della paura. Paura insinuata nelle curie, nel piccolo commercio, nei proprietari d'un coriandolo di terra (ma proprietari, secondo uno schema radicato); la paura del salto nel buio.

E avvenne il chiarimento. Per molti anni, parlamentari conservatori esclusi da un Ministero, giornali sostenitori di quei deputati e giornali di tendenza popolare, sindaci gregari del feudatario politico indispettito con Sonnino e con Luzzatti e amministratori municipali in difficoltà per l'incuria dei governi, proprietari terrieri inaspriti dall'esosità del fisco e operai e contadini al limite ormai della resistenza a causa dei salari all'osso e del carovita in continuo rialzo s'erano trovati fianco a fianco sulla stessa trincea, la trincea della rivendicazione sardista. Che le ragioni della protesta fossero diverse e persino contraddittorie, nulla avendo di comune la disperazione del contadino affamato e il corruccio del parlamentare ronservatore escluso dal Ministero Sonnino o dal Ministero Luzzatti, non molti avvertivano, e in ogni caso nessuno ne traeva le conseguenze. Si sparava a zero sui governi, e in quest'aria di giacobinismo sardista il risentimento occasionale dei retrivi e l'impeto di ribellione degli oppressi finivano per confondersi, anche se una cosa era il giusto malcontento delle plebi lacere e altra cosa il semplice interesse a strumentalizzare quel malcontento per abbattere un governo non in quanto inadempiente ma perché formato senza la partecipazione del feudatario politico sardo. La minaccia rappresentata dall'ingresso sulla scena elettorale delle classi subalterne servì infine a segnare una linea di displuvio tra interessi che prima erano sembrati coincidere sotto la copertura di un sardismo ambiguo. In ciò consistette il chiarimento provocato dalle elezioni del '13: da una parte stavano i gruppi della conservazione, dall'altra i lavoratori. Fuori ormai dal vecchio equivoco della comune battaglia sardista, erano entrambi schieramenti di classe ben definiti: non si poteva più cadere in confusioni.

Il bersaglio della classe proprietaria sarda era cambiato: non più il governo, con il quale essa ora filava in armonia, ma le organizzazioni socialiste. S'era servita anche dell'insofferenza popolare per abbattere i governi non corrivi e solo a tal line aveva persino appoggiato alcune iniziative delle Camere del lavoro. Adesso, capovolto all'improvviso il sistema di alleanze, si serviva del governo, dei suoi funzionari periferici e della capacità corruttrice dei suoi bilanci per combattere le avanguardie organizzate delle classi umili. L'alibi del sardismo, prima utile all'interno di una tattica determinata, poteva infine essere accantonato. Nuovi temi circolavano sui giornali della classe egemone: il martirologio dei giovani che la stessa classe dirigente politica aveva mandato a morire in Libia, l'incondizionato sostegno degli aumenti di spese militari, l'applauso ai massacratori di operai in sciopero, le rivendicazioni salariali presentate come tentativi di turbamento della «pace tra capitale e lavoro», e i fiumi, i grandi fiumi, le inondazioni di denaro che il governo amico destinava a opere pubbliche nell'amica Sardegna.

Intorno ai candidati ministeriali avvenne il coagulo di tutte le forze antisocialiste. A Iglesias, dove l'affermazione di Giuseppe Cavallera si delineava probabile, il candidato delle Compagnie minerarie, Erminio Ferraris, ritirò la sua candidatura, in modo che i voti di destra rifluissero tutti sul nome di Giuseppe Sanna Randaccio: a favore del quale, malgrado l'anticlericalismo altre volte da lui dichiarato, la curia tolse il non expedit. Per i minatori, durante la campagna elettorale, esprimere un'idea eterodossa rispetto a quella del padrone comportava il rischio della perdita del posto. Organizzarsi era un delitto. A Monteponi 19 carrettieri su 24 chiesero la riduzione dell'orario di lavoro, che era di sedici ore al giorno, e un aumento del salario, che era di 2,60 al giorno. Non appartenevano ad alcuna organizzazione. Ma il fatto che avessero firmato la richiesta in 19 bastò alla direzione perché l'iniziativa fosse definita «un complotto», e per punizione il «capocomplotto», individuato in chi per primo aveva apposto la firma, dovette rassegnarsi al licenziamento. Dappertutto la lotta si svolgeva su questo piano di intransigenza padronale. E i candidati governativi erano apertamente sostenuti da quotidiani e da prefetture. L'amministrazione comunale di Serramanna, solo perché diretta dal socialista Curreli, fu sciolta d'autorità. «I processi a carico del nostro Corradetti», annotava il settimanale socialista, «non si contano più... Istigazione all'odio fra le classi, alla guerra civile, vilipendio alle istituzioni, lesa maestà... Non v'è numero del "Risveglio" che non sia incriminato». Insieme ai detentori del potere economico, le procure del regno, le delegazioni di polizia, e con gli organismi di repressione tutti gli altri settori dell'apparato statale influenti sulla vita del cittadino erano mobilitati in appoggio dei candidati giolittiani. Ma qualcosa di nuovo accadde ugualmente. A Iglesias vinse il socialista Cavallera, a Oristano il riformista Porcella, a Nuoro Dorè. Doveva essere una esperienza decisiva per il «processo vitale» di Antonio Gramsci.

Da Ghilarza scrisse una lunga lettera all'amico e collega di facoltà Angelo Tasca.

Era stato molto colpito - testimonia Tasca - dalla trasformazione prodotta in quell'ambiente dalla partecipazione delle masse contadine alle elezioni, benché non sapessero e non potessero ancora servirsi per conto loro della nuova arma. Fu questo spettacolo, e la meditazione su di esso, che fece definitivamente di Gramsci un socialista. Quando tornò a Torino all'inizio del nuovo anno scolastico, ebbi conferma del valore decisivo che aveva avuto per lui quest'esperienza.

Certo le elezioni avevano rivelato a Gramsci l'ambiguità dell'antica protesta sardista, alla quale anni prima s'era associato, al punto da credere che bisognasse «lottare per l'indipendenza nazionale della regione». Ora il nonsenso del suo vecchio grido «Al mare i continentali!» gli si chiariva appieno. Sì, «lontano parecchi chilometri un malvagio o un egoista aveva tagliato la vena d'acqua che prima alimentava la fertilità della Sardegna». Ma chi? Chi era stato a tagliare la vena? Chi a condannare la Sardegna alla arretratezza ed alla povertà? Davvero tutto il continente?

Cominciò a farsi lucida nello studente sardo l'idea che i veri oppressori dei contadini e dei piccoli proprietari e del medio ceto impiegatizio dell'isola e di tutte le classi povere del Mezzogiorno fossero non gli operai dell'industria insieme alle classi proprietarie del Nord, come a lungo aveva creduto, ma le classi proprietarie del Nord insieme ai gruppi reazionari sardi, ai gruppi reazionari dell'intero Mezzogiorno. Ed ecco: i tagliatori della vena d'acqua che prima alimentava la Sardegna li si doveva cercare lì. Erano lì, a parecchia distanza dal proletariato industriale sceso in lotta a Torino per novantasei giorni fra marzo e giugno.

Ricorderà Tasca: «I rapporti di Gramsci col movimento socialista, a partire da quest'epoca, furono soprattutto rapporti coi giovani del Fascio "Centro"».

Note

1 Sia la sezione socialista che la Camera del lavoro sarebbero state ricostituite a Cagliari, in vista delle nuove elezioni, da un ferroviere siciliano da poco trasferito in Sardegna, Gino Corradetti.

2 «Se poi si scopre che un uomo politico è cornuto tutto diventa chiaro», commenterà ancora Gramsci.

CAPITOLO UNDICESIMO

Tornato a Torino ai primi di novembre del '13 per il terzo anno d'università, Antonio Gramsci aveva ancora da sostenere tutti gli esami del secondo. Cambiò nuovamente casa, traslocando dal numero 33 al numero 14 della stessa via San Massimo, nel casamento dove abitava Angelo Tasca. La mamma dell'amico e collega d'università Camillo Berrà, vedova, aveva deciso di affittare una stanza. Il casamento ha una grande corte interna con portici sui quattro lati. Le entrate sono due, da via San Massimo e dal numero 8 di piazza Carlina. Gramsci andò ad abitare all'ultimo piano. Rimarrà in questa casa, unico pensionante della vedova Berrà, per quasi nove anni, sino al viaggio in Russia, nel maggio del 1922.

Studiava a fatica. Durante le vacanze a Ghilarza non s'era ristabilito dall'esaurimento nervoso. Gli avrebbe giovato adesso cambiare completamente vita, un'altra alimentazione, cure e assoluta quiete. Solo che una vita diversa era impensabile, senza disponibilità di soldi. Dippiù starsene a riposo e smettere di dare esami sino al recupero della salute significava perdere la borsa di studio della Fondazione albertina, lusso che Gramsci non poteva permettersi. Già a prezzo di umiliazioni e di rinunzie per sé e per gli altri della famiglia, il padre riusciva a stento a mandargli piccole cifre a integrazione delle 70 lire mensili passate dal Collegio. Proseguire gli studi a totale carico del padre sarebbe stato impossibile. A Ghilarza, in famiglia, le entrate continuavano a essere modeste, con la sola variante di una bocca in meno. Nel dicembre del 1911, appena compiuti i diciotto anni, Mario s'era arruolato volontario nella specialità dei ciclisti. Per il resto, Carlo aveva sedici anni, ancora piccolo per aspirare a un impiego stabile; il solo occupato, Gennaro, che lavorava sempre a Cagliari nella fabbrica del ghiaccio dei Marzullo, poteva dare ai suoi un aiuto minimo, dovendosi mantenere. Il signor Ciccillo era dunque costretto a far fronte alle esigenze dei quattro figli a casa e di Antonio a Torino con la modesta paga di scritturale al catasto. Antonio era perciò afflitto dall'idea di poter perdere, non dando gli esami regolarmente, la borsa del Collegio.

Fu caparbio. Ma la volontà non bastava. Scrisse al padre:

Ti scrivo con la rabbia e con la disperazione in cuore: oggi è stata una giornata di cui mi ricorderò per un pezzo, e che purtroppo non è ancora finita. È inutile, mi sono accanito da un mese a questa parte e con rabbia in questi ultimi giorni, ma ormai, dopo una crisi lacerante, ho deciso: non voglio aggravare ancora le mie condizioni: e non voglio perdere del tutto ciò che posso ancora conservare. Non do gli esami, perché sono mezzo matto, o mezzo stupido, o stupido del tutto, non so ancora bene, non do gli esami per non perdere il Collegio, per non essere rovinato del tutto... Caro papà, in un mese che studio e mi accanisco non ho ottenuto che di farmi venire le vertigini e di farmi ritornare, straziante, il mal di capo, e una forma di anemia cerebrale che mi toglie la memoria, che mi devasta il cervello, che mi fa impazzire ora per ora, senza che riesca a trovare requie né passeggiando né disteso sul letto, né disteso per terra a rotolarmi in certi momenti come un furibondo... Ieri la padrona di casa ha fatto venire un medico, che mi ha fatto un'iniezione di calmante: ora prendo l'oppio, ma sì, oltre il tremito che mi rimane, c'è l'idea assillante della rovina che mi si para dinanzi senza scampo. Un compagno mi ha convinto: e vedrò se riuscirò a ottenere qualcosa: presenterò un certificato medico, e può darsi che la commissione dei professori decida di lasciarmi la borsa e che mi conceda di dare gli esami a marzo1.

Gli fu concesso. Del suo caso il Consiglio direttivo del Collegio delle Province si occupò nella seduta del 19 febbraio 1914. «Gramsci Antonio», vediamo ammesso nel verbale pubblicato per la prima volta da Domenico Zucàro, «non ha potuto dare alcun esame per grave malattia, comprovata da certificato medico del dottor Allasia, dal quale risulta che il signor Gramsci è afflitto da grave  nevrosi... Il giovane ha dichiarato alla Segreteria di volersi rimettere al corrente con gli esami nel prolungamento della sessione autunnale che avrà luogo in marzo». C'era dunque una «grave nevrosi»: la malattia giustificava ampiamente la mancata presentazione agli esami. Il certificato del dottor Allasia non valse tuttavia a Gramsci la clemenza piena del Collegio sovventore. Gli fu applicata «la pena della perdita  temporanea della pensione, salvo a concedergliela per intero», precisava il Consiglio direttivo, «qualora nel prolungamento della sessione autunnale superi gli esami arretrati di greco, storia moderna (biennale) e di un'altra materia a scelta». Così, proprio nel momento in cui il riposo doveva essere la prima cura per guarire dalla nevrosi, il giovane fu costretto a buttarsi a capofitto sui libri, in condizioni materiali aggravate dalla perdita temporanea del sussidio mensile. «Ti prego caldamente», gli aveva scritto il padre il 26 novembre, «di non restare molto occupato, perché questa è la ragione principale della tua malattia, e pensa anche che ti trovi molto lontano e nessuno di noi può venirti a tenere compagnia». Con un bello sforzo di volontà, Antonio riuscì a superare la crisi. Il 28 marzo 1914 diede l'esame di filosofia, morale, prendendo venticinque; poi il 2 aprile diede il biennale di storia moderna (ventisette di voto). Gliene mancava ancora uno quando, il 4 aprile, il direttivo del Collegio delle Province tornò a riunirsi. Gramsci aveva chiesto che il Consiglio decidesse di corrispondergli il mensile subito dopo il  terzo  esame,  senza  bisogno  di una nuova deliberazione: l'istanza fu accolta. Il 18 aprile potè mettersi in regola superando il biennale di letteratura greca con ventiquattro. Era dunque reintegrato, da allora, nel godimento  delle  70  lire mensili. Ma l'estenuazione di quei mesi gli avrebbe lasciato in testa una ben dolorosa  traccia.  «Da almeno tre anni», scriverà alla sorella Grazietta verso la fine del '15, «non ho passato un giorno senza il male al capo, senza una vertigine o un capogiro».

L'applicazione agli studi per sostenere in termini gli esami arretrati era stata anche causa, se non di slegamento completo, certo di minore assiduità con i pochi amici torinesi. Fu dopo dati gli esami che Antonio riprese a vedere, frequentandoli più spesso, Angelo Tasca e Palmiro Togliatti. S'era aggiunto alla compagnia uno studente appena iscritto in legge, Umberto Terracini, il più giovane del gruppo (Gramsci 23 anni, Tasca 22, Togliatti 21, Terracini 19). Dei quattro - che cinque anni appresso, finita la guerra, si ritroveranno insieme nella redazione de «L'Ordine nuovo» - solo Tasca e Terracini svolgevano allora attività politica regolare, entrambi nel «Fascio» giovanile socialista. Gramsci, seppure meno impegnato (a somiglianza di Togliatti: il quale, annoterà Tasca, «era assorbito assai più dagli studi universitari»), si sentiva ben vicino a questi quasi coetanei: in comune avevano l'attenzione viva al Croce, antipositivista e antimetafisico, al Salvemini, che continuava la sua battaglia contro le degenerazioni corporative del socialismo, ed al giovane capo rivoluzionario direttore dell'«Avanti!», Benito Mussolini2.

È difficile dire, mancando punti di riferimento precisi, se a quel tempo, prima del '14, Gramsci fosse già iscritto al PSI. Testimonia Togliatti in una lettera ad Alfonso Leonetti del 1° aprile 1964:

Come sai, io conobbi Antonio nell'autunno del 1911, all'Università. Per mesi e mesi non facemmo che incontrarci e conversare - secondo il costume di Gramsci, che tu ben ricordi. Ora, da tutta la conversazione risulta, senza tema di equivoci, che egli era già fermamente orientato verso il socialismo. Del resto, tale orientamento risaliva al periodo cagliaritano, quando Gramsci era stato in contatto con la Camera del lavoro del luogo. Quello che io non so precisare è l'anno in cui egli prese la tessera del PSI... Io presi la tessera il '14; ma Gramsci l'aveva già da prima.

Sembra sostenibile con qualche fondamento, in ogni caso, che il «nuovo» Gramsci, il Gramsci «nazionale», nasceva allora. Resterebbero da documentare le fasi di questa svolta intellettuale, i momenti della sua formazione filosofica e marxista.

Tanto per Gramsci quanto per Togliatti - scrivono Marcella e Maurizio Ferrara - l'abbandono del positivismo fu presto cosa definitiva... Solo punto di riferimento sicuro rimaneva Antonio Labriola. E i suoi testi di spiegazione e approfondimento del marxismo, lo scritto In memoria del Manifesto dei comunisti, i Saggi intorno alla concezione materialistica della storia e Discorrendo di socialismo e di filosofia erano letti, riletti, studiati, commentati.

Non allora, prima della guerra, probabilmente. È inevitabile chiedersi se non si attribuiscano ai due giovani studenti letture d'un tempo successivo; il dubbio discende da una constatazione obiettiva: in tutti gli scritti giovanili, Gramsci cita Labriola una sola volta (nel 1918!). Ed ecco quest'altra testimonianza: è del professor Annibale Pastore, docente di filosofia teoretica. Si racconta che Gramsci gli fosse stato presentato dal professor Bartoli con queste parole: «Riempilo di filosofia, se lo merita. Vedrai che diventerà qualcuno. Vuole approfondire la dottrina di Marx». Quell'anno (per Gramsci il quarto di Lettere: 1914-15) il professor Pastore svolgeva un corso sull'interpretazione critica del marxismo. Vi superava la concezione della dialettica hegeliana «fissa allo schema tricotomia): Tesi, Antitesi, Sintesi» con una «trovata originale»: «l'incubazione delle condizioni materiali nel seno della Società in essere qual periodo incuneato tra la Tesi e l'Antitesi».

Gramsci comprese subito la novità e vide così aperta una nuova via critica, di crisi e di rivoluzione. Gli diedi un corso di lezioni private. Il suo orientamento era originalmente crociano, ma già mordeva il freno e non sapeva ancora come e perché staccarsi... Voleva rendersi conto del processo formativo della cultura agli scopi della rivoluzione: la praticità decisiva della teoretica. Voleva sapere come fa il pensare a far agire (tecnica della propaganda spirituale), come il pensiero a far muovere le mani, e come si può e perché si può agire con le idee. Sono state queste le mie prime battute che lo hanno colpito... Altro punto importantissimo che lo avvicinò a me fu il mio indirizzo di logica sperimentale, coll'invenzione delle tecniche, cioè col passaggio dall'homo sapiens all'homo faber, dal logico all'ingegnere, al tecnico, al meccanico, all'operaio che dirige le macchine: dal lavoro mentale al lavoro manuale. Insomma, da eccezionale prammatista, Gramsci si preoccupava soprattutto allora di ben capire come le idee diventano forze pratiche.

Sbiadì poi in Gramsci il ricordo di questo professore che gli dava persino lezioni private? Capita spesso di vedere affettuosamente ricordati, in articoli o in note o in lettere dal carcere, altri professori ai quali egli fu vicino negli anni dell'università, il Bartoli ed il Cosmo; non così Annibale Pastore, le cui lezioni ebbero sulla formazione marxista di Gramsci un'influenza forse non rilevante nella misura che la testimonianza appena citata tende ad accreditare e comunque non immediata. «La Città futura» sarà ancora nel 1917 un giornale rivelatore dell'ancoraggio di Gramsci all'idealismo storicista crociano. Di qua nasce l'impressione d'un acceleramento, in alcune testimonianze, della formazione marxista di Gramsci; d'una retrodatazione di esperienze culturali che sono sicuramente del Gramsci maturo, o meno giovane.

Può dirsi, per gli anni dell'università, che lo svolgimento delle convinzioni di Gramsci (il Gramsci «nazionale» dopo il Gramsci «sardo») avvenne senza iati. Gobetti dirà di lui come d'uno «venuto dalla campagna per dimenticare le sue tradizioni, per sostituire l'eredità malata dell'anacronismo sardo con uno sforzo chiuso e inesorabile verso la modernità del cittadino»; e nella persona fisica del giovane isolano vedrà «il segno di questa rinuncia alla vita dei campi, e la sovrapposizione quasi violenta di un programma costruito e ravvivato dalla forza della disperazione, dalla necessità spirituale di chi ha respinto e rinnegato l'innocenza nativa». E invece no. A differenza di tant'altri intellettuali del suo tempo, Gramsci doveva essere il solo a sfuggire all'alternativa solita: o rimanere imbozzolati per sempre in esperienze certo vitali, come sono quelle dell'uomo attento alla realtà della sua regione, ma incomplete quando non le si confronti ad altre esperienze (Deledda, Satta); o evaderne assimilando i modi di vita e di pensare del nuovo ambiente di lavoro, assunte quasi a pietra tombale delle esperienze native (Salvatore Farina). Gramsci né si carcerò nel sardismo di gioventù3, né si ridusse ad assorbire passivamente l'indirizzo politico e l'ideologia del proletariato  settentrionale,  fuorviato  a quel  tempo  da concezioni corporative non meno discutibili di quelle dominanti nel chiuso di un'isola. Sentiva la spinta, scriverà, a «superare un modo di vivere e di pensare arretrato, come quello che era proprio di un sardo del principio del secolo, per appropriarsi un modo di vivere e di pensare non più regionale e da villaggio ma nazionale»; nello stesso tempo però avvertiva che «una delle necessità più forti della cultura italiana era quella di sprovincializzarsi anche nei centri urbani più avanzati e moderni». Cioè, diventato socialista, Gramsci non seppelliva il suo passato. E se, dall'angolazione socialista, poteva  vedere l'ambiguità e, oltre l'ambiguità, i limiti e il velleitarismo d'un certo modo di porre la protesta sardista, dalla prospettiva del sardo gli era naturale scoprire l'insufficienza ideologica d'un corporativismo operaio incline a considerare il Mezzogiorno come «palla di piombo» d'ostacolo allo sviluppo civile del paese. Trovava dunque, da socialista, risposte nuove alle domande che l'esperienza sarda gli suggeriva; ma, da sardo, anche tendeva a considerare il discorso sulle campagne non scindibile dal discorso sulla rivoluzione socialista. «Si trattava», scriverà, «di provocare nella classe operaia il superamento di quel provincialismo alla rovescia della "palla di piombo" che aveva le sue profonde radici nella tradizione riformistica e corporativa del movimento socialista». Simile discorso Tasca e gli altri giovani del «Fascio», fervidi lettori anch'essi de «La Voce» e de «L'Unità» di Salvemini, ben lo capivano. «Condividevamo con Gramsci», scriverà Tasca, «il concetto, di cui era caldo assertore, dell'importanza del problema meridionale nella politica socialista e ne facevamo, come lui, uno dei perni del suo rinnovamento».

Ed ecco l'occasione di sperimentare la permeabilità della sezione socialista a queste nuove impostazioni. Per la morte di Pilade Gay, era rimasta vacante la rappresentanza in parlaento del collegio  torinese  di  Borgo  San Paolo: si  poneva adesso il problema di  trovare il nuovo candidato socialista. Venne ai  giovani l'idea di offrire la candidatura a Gaetano Salvemini, che nell'ottobre del  '13, candidato nel  collegio Molfetta-Bitonto, era stato battuto dalle violenze dei mazzieri giolittiani. Si sarebbe affermata in questo modo la solidarietà degli operai torinesi con i contadini delle Puglie, privati per i soprusi del governo del loro rappresentante alla Camera. Angelo Tasca ebbe nel caffè-birreria della Casa del popolo di corso  Siccardi un colloquio sull'argomento con Ottavio Pastore, allora segretario della sezione socialista di Torino. La proposta, approvata dall'esecutivo di sezione (a grande maggioranza di  sinistra), fu poi comunicata al Salvemini, che però la respinse. A quel tempo, dice Ottavio Pastore, «Gramsci non aveva ancora incominciato a sviluppare nessuna particolare attività nel partito». Eppure il progetto di candidatura di Salvemini, ventilato, ricorderà Gramsci, da «un gruppo della sezione  socialista del quale facevano parte  i futuri redattori dell' "Ordine nuovo"», dev'essere considerato la prima iniziativa politica dello studente sardo a Torino. Essa maturò in colloqui privati, anziché nel pubblico dibattito in sezione. Non per questo muta la sostanza del qualcosa di nuovo che incominciava a delinearsi nel socialismo torinese anche per  la spinta di un giovane di ventitré anni appena iscritto al partito e ancora oscuro militante e tuttavia già preparato a vivere con originalità, insieme ad altri giovani, l'esperienza politica. Il suo giro d'amicizie s'allargò. «Ci capitava spesso», racconta Angelo Tasca, «di discutere con gli amici studenti tra i colonnati dell'università, ma il nostro mondo, quello in cui Gramsci entrò allora, era assai più di giovani impiegati e operai, coi quali, uscendo la sera dalla Casa del popolo di corso Siccardi, ci accompagnavamo a vicenda per delle ore, scambiando idee, speranze, furori». È il tempo dei  primi entusiasmi. Ricordando il giovanile fervore di quei giorni, Gramsci scriverà:

Uscivamo spesso in gruppo dalle riunioni di partito, circondando quegli che era un nostro leader, attraverso le strade della città ormai silenziosa, mentre gli ultimi nottambuli si fermavano a sogguardarci perché, dimentichi di noi stessi, con gli animi ancora gonfi di passione, continuavamo le nostre discussioni, intramezzandole di propositi feroci, di scroscianti risate, di galoppate nel regno dell'impossibile e del sogno.

L'Europa andava verso la catastrofe. Quattro giorni prima che l'«inutile strage» cominciasse, il 28 luglio 1914, la direzione e il gruppo parlamentare socialista chiesero la «neutralità assoluta» dell'Italia, che fu dichiarata ufficialmente il 4 agosto. Ma sulla estensione e gli sviluppi della neutralità, il dibattito doveva presto farsi vivace anche tra i socialisti. C'era grande incertezza, e sarebbe adesso complicato stabilire se a diffonderla fosse l'«Avanti!» di Benito Mussolini o se l'orientamento ondulatorio dell'«Avanti!» derivasse da umori già in circolo. Il fatto è che non pochi socialisti, pur accettando l'interpretazione del conflitto come scontro di gruppi imperialisti, inclinavano a distinguere nettamente tra gli imperi centrali assolutisti e la Francia repubblicana, e da ciò erano indotti a parteggiare per i paesi aggrediti, la Francia e il Belgio. Il 18 ottobre uscì sull'«Avanti!», in terza pagina, un lungo articolo di Mussolini; era intitolato Dalla neutralità assoluta alla neutralità attiva ed operante. Le reazioni furono discordi. Angelo Tasca scrisse per il settimanale della sezione socialista torinese «Il Grido del popolo» (numero del 24 ottobre) un articolo in polemica con Mussolini: vi ribadiva l'esigenza di neutralità «assoluta»  dell'Italia. Ma già da  alcuni  anni il direttore dell'«Avanti!» aveva un seguito non trascurabile. «Noi giovani», scriverà Mario Montagnana, «eravamo tutti entusiasti di Mussolini; un po' perché era, relativamente, un giovane anche lui; un po' perché aveva sbaragliato i riformisti e, finalmente, perché i suoi articoli sull’"Avanti!" ci parevano forti e rivoluzionari». Gramsci intervenne nel dibattito sulla neutralità (ed era il suo primo scritto politico) con un articolo pubblicato da «Il Grido del popolo» del 31 ottobre 1914. Lo aveva «fatto conoscere prima della pubblicazione a Togliatti, che lo condivideva», riferiscono Marcella e Maurizio Ferrara. Il titolo, Neutralità attiva ed operante, ripeteva la definizione mussoliniana. Erano però evidentemente diverse le intenzioni; e gli sbocchi opposti dei due atteggiamenti rispetto alla guerra lo dimostrano. La polemica del giovane studente si indirizzava contro i riformisti. Essi, scriveva, «dicono di non voler giocare terni secchi (ma lasciano che gli altri li giochino e li guadagnino) e vorrebbero che il proletariato assistesse da spettatore imparziale agli avvenimenti, lasciando che questi gli creino la sua ora, mentre intanto gli avversari la loro ora se la creano da sé e preparano loro la piattaforma per la lotta di classe». Come impedirlo? Compito dei rivoluzionari doveva essere, per Gramsci, la preparazione delle condizioni più favorevoli allo strappo definitivo (la rivoluzione) attraverso una serie ininterrotta di strappi operati sulle altre forze attive e passive della società. E se la borghesia italiana era chiamata dal suo destino alla guerra, ecco appunto profilarsi un'altra serie di strappi preparatori di quello finale.

Non un abbracciamento generale vuole quindi il Mussolini, non una fusione di tutti i partiti in una unanimità nazionale, che allora la sua posizione sarebbe antisocialista... Né la posizione mussoliniana esclude che il proletariato possa, dopo un fallimento o una dimostrata impotenza della classe dirigente, sbarazzarsi di questa e impadronirsi delle cose pubbliche.

A questa interpretazione dell'atteggiamento di Mussolini, Gramsci prudentemente aggiungeva: «...se, almeno, io ho interpretato bene le sue un po' disorganiche dichiarazioni, e le ho sviluppate secondo quella stessa linea che egli avrebbe fatto». Gli sarà poi difficile cancellare la fama d'interventista datagli da una settaria interpretazione di questo articolo.

Tornò ad appartarsi. Era anche naturale che, nel suo stato fisico, l'intensa attività dovesse scontarla con l'aggravamento delle condizioni generali. Perché poi, all'attività politica ed allo studio, s'era aggiunto il lavoro per vivere. Dava ripetizioni4. Nella sessione autunnale del terzo anno universitario, potè dare un solo esame: il biennale di letteratura neolatina l'il novembre del 1914 (ventisette di voto). Per mantenersi in regola e conservare il diritto a riscuotere la borsa di studio, avrebbe dovuto sostenere anche gli esami di letteratura italiana e latina triennali e di sanscrito. Non si presentò. E nella seduta del 19 dicembre il Consiglio direttivo del Collegio delle Province, pur tenendo conto, sappiamo dal verbale, «della dichiarazione fatta dal professor Bartoli alla presidenza, che cioè il giovane va periodicamente soggetto a crisi nervose che gli impediscono di attendere con la dovuta alacrità agli studi», deliberò di privarlo della pensione per quattro mesi.

Si apriva un momento difficile. Gramsci smise di frequentare la Casa del popolo e di scrivere per «Il Grido». Si isolò dagli amici. Continuava a dare lezioni private, e questo impegno di lavoro, quando meno il cervello sopportava aggravi, si aggiungeva a peggiorare lo stato di salute. «Ho lavorato forse troppo, più di quanto le mie forze me lo permettessero», scriverà alla sorella Grazietta. «Ho lavorato per vivere, mentre per vivere avrei dovuto riposare, avrei dovuto divertirmi. Forse in due anni non ho riso mai, come non ho pianto mai. Ho cercato di vincere la debolezza fisica lavorando, e mi sono indebolito di più».

S'era slegato anche dalla famiglia. «Sono rimasto senza scrivere a mia madre qualche anno, almeno due anni di seguito, e ho imparato che è doloroso non ricevere lettere.» Pian piano la Sardegna, i luoghi della prima giovinezza, i familiari rimasti a Ghilarza, tutto diventava per il giovane in crisi uno scenario lontano, vecchissimo. Sbiadiva la memoria delle affettuose litigate con la mamma, quando lei voleva convincerlo che un po' d'orzo nel caffè rinfresca, e lui protestava: «Ma io non voglio rinfrescarmi, voglio bere del caffè!»; dei giorni passati a spiare ricci nella valle del Tirso, ad allevare falchi, allodole, tartarughe, a costruire velieri con Luciano il figlio del farmacista. Ora la testa era «sempre piena di dolore».

E tuttavia continuava a studiare, per la scuola e per sé: non s'era arreso. Il 13 aprile del 1915 diede ancora un esame, il triennale di letteratura italiana (e fu l'ultimo: il suo «garzonato universitario» si interruppe qui).

Era sempre a Torino quando il lunedì 17 maggio, una settimana prima che l'Italia entrasse in guerra, i quartieri operai insorsero per protestare contro l'intervento che si annunciava, e nella città paralizzata dallo sciopero i dimostranti affrontarono in via Cernaia e poi in tutta la zona le squadre di cavalleria, e il giovane falegname Carlo Dezzani fu ucciso a colpi di rivoltella. L'esercito irruppe nella Casa del popolo e l'occupò. Gramsci seguiva gli avvenimenti senza parteciparvi. Poi pian piano cominciò a risalire dal profondo della crisi. Il 13 novembre del 1915, ad oltre un anno dal primo intervento nel dibattito sulla neutralità, un suo articolo venne pubblicato da «Il Grido del popolo»: c'era un'eco dell'incontro avvenuto il 15 settembre in una cittadina svizzera, Zimmerwald, tra i rappresentanti dei partiti socialisti europei ancora in atteggiamento di opposizione alla guerra (l'«Avanti!» aveva pubblicato il documento conclusivo del convegno nel numero del 14 ottobre 1915: per la prima volta migliaia di militanti socialisti italiani vedevano stampato il nome di Lenin, che era tra i firmatari del manifesto). L'articolo di Gramsci muoveva però non dal convegno di Zimmerwald, ma dal X Congresso nazionale del Partito socialista spagnolo, significativo, agli occhi del giovane scrittore, come prova «di una sopravvivenza  di attività puramente socialista in Europa»:

A noi anche i piccoli movimenti appaiono grandi perché li ricolleghiamo con altri che noi soli sentiamo perché li viviamo... Ci sentiamo molecole di un mondo in gestazione, sentiamo questa marea che sale lentamente ma fatalmente, e come l'infinità di gocce che la formano siano saldamente aderenti; sentiamo che nella nostra coscienza vive veramente l'Internazionale.

Verso al fine del '15, rifacendosi vivo con la famiglia, dopo il lungo silenzio, il giovane poteva già guardare alle tribolazioni degli ultimi tempi come a una vicenda almeno in via di superamento:

Non avrei dovuto staccarmi, cosi come ho fatto, dalia vita. Ho vissuto, per un paio d'anni, fuori dal mondo; un po' nel sogno. Ho lasciato che si troncassero uno ad uno tutti i fili che mi univano al mondo ed agli uomini. Ho vissuto tutto per il cervello e niente per il cuore... E non per ciò che riguarda voi, solamente... È stato per me come se gli altri uomini non esistessero, e io fossi un lupo nel suo covo.

Sofferenze passate, in qualche misura. Ora il giovane, fatti i 25 anni, lentamente riprendeva gusto alla vita, al dibattito politico, all'attività di giornalista. Suoi articoli cominciavano ad uscire  sulla pagina torinese dell'«Avanti!», la collaborazione a «Il Grido» s'era fatta assidua; tra le altre note, un commosso ricordo di Renato Serra, pochi mesi dopo la sua morte sul Podgora: Gramsci vi affermava un legame fra il giovane critico scomparso e Francesco De  Sanctis,  «il più grande critico che l'Europa abbia mai avuto». Con  questa ripresa del lavoro politico, la svolta nella vita di Gramsci si accentuava. Non c'era stata ancora la decisione di abbandonare definitivamente gli studi universitari5. Già prevalevano sulla scuola, tuttavia, altri interessi. Il socialismo era la risposta a tutti i problemi, anche personali, che lo avevano angosciato, era la soluzione della crisi. Di fatto nasceva allora, tra la fine del '15 ed i primi del '16, il «rivoluzionario professionale».

La mia vita - leggiamo in una lettera a casa di quel tempo - non è miserevole che per ciò che riguarda il sentimento che provo di non riuscire a vincere la mia debolezza, e a produrre tanto lavoro quanto è necessario per vivere e per poter essere libero di lavorare per me e per il mio avvenire, e non solo per vivere giorno per giorno. Affermo anzi che se mi sentissi sempre bene avrei la possibilità di guadagnare anche cinquecento lire al mese. Ciò che mi nuoce è l'esser solo; il dover fidarmi sempre degli altri, il dover vivere alla trattoria, spendendo molto per star male.

Avrebbe potuto chiamare da Ghilarza qualcuno di casa; ma per questo gli occorreva la sicurezza della salute e della continuità del guadagno. «Posso assumermi la responsabilità di far soffrire eventualmente anche degli altri? Questo pensiero mi ha sempre impedito di parlarvi della possibilità della venuta di uno di voi a Torino. Ma sento che forse è giunta Fora di decidermi, che non posso più a lungo star così, sospeso sulla corda. Scriverò a Mario per sapere ciò che vuol fare.»

Era alla guerra, Mario. Ed anche Gennaro e Carlo dovevano farla. A Ghilarza il signor Ciccillo e la signora Peppina erano rimasti soli con le donne. Sempre tia Peppina ripeteva: «I miei figli me li macelleranno»: frase che in sardo, annoterà Antonio, «è terribilmente più espressiva che in italiano: jàghere a pezza. Pezza è la carne che si mette in vendita, mentre per l'uomo si adopera il termine carré».

Note

1 La lettera è inedita.

2 Così Croce definiva Mussolini: «...un uomo di schietto temperamento rivoluzionario, quali non erano i socialisti italiani, e di acume conforme, che riprese l'intransigenza del rigido marxismo, ma non si provò nella vana impresa di riportare il socialismo alla sua forma primitiva, sì invece, aperto come giovane che era alle correnti contemporanee, procurò d'infondergli una nuova anima, adoperando la teoria della violenza del Sorel, l'intuizionismo del Bergson, il pragmatismo, il misticismo dell'azione, tutto il volontarismo che da più anni era nell'aere intellettuale e che pareva a molti idealismo, onde anch'egli fu detto e si disse volentieri “idealista”.».

3 «L'istinto della ribellione si allargò per tutti i ricchi che opprimevano i contadini della Sardegna e io pensavo allora che bisognava lottare per l'indipendenza nazionale della regione: "Al mare i continentali!" Quante volte ho ripetuto queste parole.»

4 Sei anni dopo, polemizzando con il suo professore di letteratura italiana, Umberto Cosmo, che aveva definito gli antichi allievi «goliardi gaudenti», scriverà: «Egli sa, egli che ne aiutò qualcuno in momenti di angosciosa ristrettezza finanziaria, egli sa che i suoi allievi socialisti vivevano con le 70 lire mensili del Collegio, egli sa che i suoi allievi socialisti, se volevano acquistar libri, dovevano galoppare da un ponto all'altro della città a dare delle lezioni private, che il Cosmo stesso si preoccupava di ricercare, perché allora il "maestro" aveva molto affetto per i suoi  allievi».

5 In una lettera del 29 gennaio 1918 al direttore dell'«Avanti!», Serrati, che, forse ironicamente, lo aveva definito nel numero del 26 gennaio «emerito studioso di glottologia», dirà di sé: «Come studente - non studioso e tanto meno emerito, ironia e modestia a parte - preparo la mia tesi di laurea sulla storia del linguaggio, cercando di applicare anche a queste ricerche i metodi critici del materialismo storico».

CAPITOLO DODICESIMO

Era spuntato uno scrittore nuovo, assolutamente diverso da quelli con i quali i lettori dei giornali socialisti avevano fin lì familiarizzato. Dai primi del '16, la vita di Antonio Gramsci si svolgeva nel palazzo, ora demolito, dell' Alleanza cooperativa torinese, la Casa del popolo al numero  12 di corso Siccardi (oggi, in  questo tratto, corso Galileo  Ferraris). C'erano gli uffici dell AGO (Associazione generale operai) e della Cooperativa ferrovieri, compartecipi dell'Alleanza cooperativa, la Camera del lavoro e i sindacati di categoria (come la FIOM), un attrezzato poliambulatorio per l'assistenza  anche  specialistica dei lavoratori e, al piano terra, un grande caffè-birreria sempre molto frequentato (nel maggio del 1915 la polizia aveva devastato il Teatro del popolo, anch'esso al pianoterra). All'ultimo piano, in tre camerette, stavano l'amministrazione e la redazione de «Il Grido del popolo» (direttore Giuseppe Bianchi e dopo la sua partenza sotto le armi, nel corso del 1916, una maestra elementare  lombarda, Maria Giudice, madre  di otto figli), l'«Avanti!» piemontese, che si stampava a Milano (responsabile, dopo la partenza di Bianchi, Ottavio Pastore) e la sezione socialista (contigua  era  la  stanzetta del  Fascio «Centro», anima del movimento giovanile socialista torinese). Pastore, allora impiegato delle ferrovie, Gramsci e una singolare figura di giornalista, l'ex cameriere Leo Gaietto, pittoresco anche nel vestire, il cappello a larghe tese e la cravatta alla Lavallière, erano i tre soli redattori dell'«Avanti!».

La firma di Gramsci non compariva quasi mai, sotto i saggetti, le cronache culturali, i corsivi di costume a commento di un delitto o di una conferenza o di uno spettacolo che «Il Grido» e la pagina torinese dell'«Avanti!» venivano pubblicando ormai con assiduità. «La timidità spingeva sempre Gramsci a vivere impersonalmente», annota Pier Paolo Pasolini. Se è anche all'abitudine di non firmare che egli si riferisce, non era timidezza; era disinteresse scientifico, ripugnanza per le forme esteriori, amore per le idee in sé, avversione ad ogni forma di idolatria, a cominciare dal culto dei nomi. Al più, sotto i suoi articoli, poteva leggersi la sigla «A. G.» o l'altra «Alfa Gamma»: e dalle semplici iniziali solo ad una ristretta cerchia di lettori era possibile arrivare al nome del giornalista esordiente: a due anni e mezzo dal debutto, nel luglio del '18, celebrandosi il processo per i moti dell'estate avanti, «La Stampa» lo chiamerà Granischi Antonio e la «Gazzetta del popolo» Antonio Granci. Ma oscuro che fosse il nome di questo giovane di venticinque anni senza un ruolo di qualche rilievo nella sezione socialista e rimasto ai margini della vita politica attiva nel primo anno di guerra, nondimeno già molti cominciavano a cogliere l'eccentricità di quegli articoli rispetto alla tradizionale pubblicistica di sinistra. Usciva sulla pagina piemontese dell'«Avanti!» una rubrica collettiva della cronaca torinese, Sotto la Mole, creata forse da Giuseppe Bianchi. La compilavano lo stesso Bianchi, Pastore ed altri. Subito con Gramsci la rubrica salì di tono: erano pezzi satirici, piccoli gioielli che facevano del giovane scrittore sardo un pamphlétaire esemplare, unico in un paese dove il pamphlet è un genere quasi sconosciuto. E per il resto veniva in evidenza, in tutti gli scritti di Gramsci, dai brevi saggi teorici alle cronache teatrali, uno stile nuovo: il trapasso dall'enfasi arringatoria dei Rabezzana e dei Barberis al gusto per il ragionamento; la lingua sorvegliata, alle volte di purezza classica, così lontana da quella scamiciata dei «vecchi»; la coerenza, il filo che univa tutti gli scritti, per cui spunti apparentemente lontani erano in realtà occasioni successive per lo svolgimento in un discorso mai interrotto; e l'originalità e la concretezza delle proposte politiche, illuminate sempre dal convincimento che la teoria non traducibile in fatti è astrazione inutile e le azioni non sorrette dalla teoria sono impulsi infruttiferi. Chiaramente traspariva fin d'allora in Gramsci la tendenza a un metodo, che poi sarà detto «maieutico», «socratico», di educazione delle masse, e non di semplice eccitazione con discorsi tribunizi. Gobetti scriverà che «se si vuole penetrare nelle intime caratteristiche di cultura e di psicologia del gruppo che diresse il movimento comunista torinese bisogna risalire alla storia del giornalismo socialista negli anni di guerra». Di quel nuovo giornalismo socialista il giovane Gramsci fu la rivelazione e, negli anni di guerra, il quasi esclusivo protagonista.

Angelo Tasca, politicamente il più attivo dei giovani «culturisti», aveva dovuto lasciare Torino, chiamato alle armi appena dopo l'inizio della guerra. Così Togliatti: giudicato inabile alle prime visite, si era arruolato volontario in organizzazioni militari sanitarie (la sua attività politica era stata del resto fin qui assolutamente marginale:  qualcuno, come Andrea Viglongo, esclude addirittura che  primadella guerra fosse iscritto al PSI; altri, Giovanni Boero, ritiene che, andato volontario in guerra, avesse cessato di appartenere alla sezione socialista, ottenendo la «reiscrizione» solo nel 1919). Infine l'ultimo della compagnia, Umberto Terracini: arrestato a ventun anni, nel settembre del '16, per aver distribuito a Trino Vercellese materiale di propaganda pacifista, se l'era cavata a buon mercato con i giudici, un mese e la condizionale, ma non aveva potuto evitare l'arruolamento (a fine corso gli rifiuteranno per ragioni politiche il grado di ufficiale e finirà sul fronte, a Montebelluna, soldato semplice). Dell'antica pattuglia, Gramsci era dunque rimasto solo.

Per dire con che tipo di tradizione giornalistica sempliciotta e piazzaiola dovesse fare i conti, bastano queste parole della Giudice: « "Il Grido" non è ancora abbastanza semplice, abbastanza facile, abbastanza chiaro... Noi siamo abituati a leggere meno nei libri della teoria ed a leggere di più nel libro della vita... Sappiamo che la massa sente e agisce non come pensa e ragiona, ma come sente; quando sentirà socialisticamente, senza tante teorie, agirà in senso socialista»: che poi era un modo di ripetere il refrain intonato un paio d'anni prima da Bordiga in polemica con Tasca: «Non si diventa socialisti con l'istruzione ma per le necessità reali della classe a cui si appartiene». Il vecchio socialismo torinese, prima che la «generazione figlia di se stessa» lo rinnovasse, stava tutto in simile impostazione. Gramsci non se ne lasciò condizionare neanche lavorando sotto la direzione, per così dire, di Maria Giudice: era un franc-tireur, assolutamente libero. Già ai primi del '16 aveva sottolineato su «Il Grido» il rapporto necessario tra attività culturale e rivoluzione:

L'uomo è soprattutto spirito, cioè creazione storica, e non natura. Non si spiegherebbe altrimenti il perché, essendo sempre esistiti sfruttati e sfruttatori, creatori di ricchezza e consumatori egoistici di essa, non sia ancora realizzato il socialismo. Gli è che solo a grado a grado, a strato a strato, l'umanità ha acquistato coscienza del proprio valore... E questa coscienza si è formata non sotto il pungolo brutale delle necessità fisiologiche, ma per la riflessione intelligente, prima di alcuni e poi di tutta una classe, sulle ragioni di certi fatti e sui mezzi migliori per convertirli da occasione di vassallaggio in segnacolo di ribellione e di ricostruzione sociale. Ciò vuol dire che ogni rivoluzione è stata preceduta da un intenso lavorio di critica, di penetrazione culturale.

Concludeva facendo l'esempio della Rivoluzione francese, preparata dall'Illuminismo. Il fine che ora il giovane redattore de «Il Grido» e dell'«Avanti!» si poneva era di irradiare la cultura senza la quale il proletariato mai avrebbe potuto prendere coscienza della sua funzione storica. Fu anche questo assillo, questa necessità di ripercorrere con fervore missionario l'esperienza illuministica (cambiavano i contenuti perché erano cambiati i fini) a fare di Gramsci, fin dal suo esordio, un creatore di cultura: di qualsiasi argomento si occupasse.

Riandando alla sua attività di critico teatrale (aveva cominciato a scrivere di teatro a venticinque anni) potrà dire anni dopo in una lettera a Tatiana: «Sai che io, molto prima di Adriano Tilgher, ho scoperto e ho contribuito a popolarizzare il teatro di Pirandello? Ho scritto sul Pirandello... tanto da mettere insieme un volumetto di 200 pagine e allora le mie affermazioni erano originali e senza esempio: il Pirandello era o sopportato amabilmente o apertamente deriso». Persino la rubrica Sotto la Mole, che nasceva giorno per giorno da un pretesto qualunque, parve ai lettori più attenti di tale esemplarità da meritare la raccolta in volume. È lo stesso Gramsci a testimoniarlo.

In dieci anni di giornalismo - scriverà - io ho scritto tante righe da poter costituire quindici o venti volumi di quattrocento pagine, ma esse erano scritte alla giornata e dovevano, secondo me, morire dopo la giornata... Il professor Cosmo voleva nel '18 che gli permettessi di fare una cernita di certi corsivi che scrivevo quotidianamente in un giornale di Torino; egli li avrebbe pubblicati con una prefazione molto benevola per me, ma io non volli permettere.

Per svolgere non solo con la parola scritta il compito che s'era fissato, di promotore di cultura tra gli operai, sempre più spesso usciva dal chiuso della stanza di redazione. Compagni di milizia politica ricorderanno poi, come dato saliente della personalità di Gramsci, questa sua vocazione alla propaganda delle idee e l'incitamento che da lui continuamente veniva a studiare, ad approfondire i problemi con metodo. Non aveva incarichi direttivi nella sezione socialista. Da semplice gregario, e da giornalista di partito, andava nei circoli della periferia torinese a fare conferenze. Ne tenne una il 25 agosto del '16 in Borgo San Paolo su Au dessus de la mèlée, l'opera di Romain Rolland che era appena uscita nella traduzione italiana; ed altre il 16 ed il 17 ottobre sulla Rivoluzione francese in circoli della Barriera di Milano e di Borgo San Paolo; ed ancora il 17 dicembre sulla Comune di Parigi. Una pagina di storia, un libro appena uscito, una rappresentazione teatrale, tutto gli forniva spunti per diffondere idee nuove. S'era vista nel marzo del '17 al Carignano Emma Gramatica in Casa di bambola. Nella fredda reazione del pubblico alla vicenda di Nora Helmar, che delusa dal   marito l'abbandona, Gramsci aveva supposto la  rivolta dei maschio latino contro un costume  certamente più avanzato, «per  il  quale la donna e l'uomo non sono più soltanto muscoli, nervi ed epidermide, ma sono essenzialmente spirito; per il quale la famiglia non è più solo un istituto economico, ma è specialmente un mondo morale in atto, che si completa per l'intima fusione di due anime che ritrovano l'una nell'altra ciò che manca a ciascuna individualmente; per il quale la donna non è più solamente la femmina che nutre di sé i piccoli nati e sente per essi un amore che è fatto di spasimi della carne e di tuffi di sangue, ma è anche una creatura umana a sé, che ha una coscienza a sé, che ha dei bisogni interiori suoi, che ha una personalità umana tutta sua...». Fu su questo tema che, nel maggio del '17, Gramsci tenne una conferenza per il gruppo femminile di Borgo Campidoglio.

Era nuovo in Gramsci, rispetto ai Rabezzana, ai Barberis ed alla Giudice, anche il modo di porre il problema dei rapporti con gli altri partiti. Battista Santhià ricorda una visita alla redazione de «Il Grido». Quattro giovani discutevano con Gramsci in tono pacato. Si davano del lei.

Al termine della lunga conversazione appresi con stupore che si trattava di giovani cattolici e che la loro opposizione contro la guerra si differenziava dalla nostra perché era esclusivamente pacifista («Siamo contro tutte le guerre», dicevano) e si richiamava agli insegnamenti evangelici. Gramsci, per stuzzicarmi, mi propose di aiutare quei giovani. Non afferrai subito e ingenuamente domandai se dovevo unirmi a loro nelle preghiere per ottenere il grande miracolo della pace.

La secca risposta di Gramsci è così riferita da Santhià:

L'unica cosa che vi insegnano è un anticlericalismo stupido, diseducativo intellettualmente e politicamente. Neanche io vado in chiesa, perché non sono credente. Ma dobbiamo renderci conto che coloro che credono nella religione sono la maggioranza. Se continueremo ad avere rapporti solo con gli atei saremo sempre una minoranza. Ci sono dei borghesi antisocialisti che sono atei, prendono in giro i preti e non vanno in chiesa, eppure sono interventisti e ci combattono aspramente. Questi giovani, invece, vanno a messa, non sono industriali e chiedono solo di lavorare con noi per far cessare al più presto la guerra.

Sia il rifiuto dell'anticlericalismo settario che la tesi delle alleanze di classe saranno poi centrali nel pensiero di Gramsci. Impegnato a togliere il discorso politico fuori dall'equivoco nel quale i «vecchi» socialisti lo affogavano, riempiva le giornate con il lavoro in redazione e con i colloqui-dibattiti, che erano anch'essi lavoro. Agli impegni privati dedicava solo brevi ritagli. Era ancora costretto a dare ripetizioni: lo stipendio dell'«Avanti!», cinquanta lire al mese (gratuita la collaborazione a «Il Grido»), non gli bastava certo per vivere.

Poi, le rare volte che era libero, frequentava alcuni amici sardi, un Corona capo-enologo dell'Alleanza cooperativa ed un Mura con bar in Piazza Statuto; ed anche si tratteneva in casa di Attilio e Pia Carena (lei stenografa del giornale); o passava qualche serata in casa di Bruno Buozzi, della cui famiglia era amico. Ma soprattutto gli piaceva stare con i ragazzi della Federazione giovanile socialista.

Da uno di questi, Andrea Viglongo, figlio d'un bidello della scuola elementare Giacinto Pacchiotti, seppe verso la fine del '16 dell'intenzione dei giovani di stampare un numero unico. Chiese di scriverlo. Il numero unico, di sole quattro pagine, uscì l'11 febbraio 1917 col titolo «La Città futura».

Era interamente scritto da Gramsci; soltanto l'integravano stralci da testi di Gaetano Salvemini (in seconda pagina, da Cultura e laicità, «volumetto che tutti i giovani dovrebbero leggere», avvertiva una nota), di Benedetto Croce (in terza pagina, La religione, tolto da «La Critica») e del gentiliano Armando Carlini (in terza pagina, Che cos'è la vita?, da Avviamento allo studio della filosofia, «che si consiglia vivamente di leggere e di meditare»): anche la scelta di questi autori sembra indicativa di una matrice culturale. Nelle quattro pagine de «La Città futura», che può considerarsi il punto d'arrivo della formazione giovanile di Gramsci, le influenze idealistiche risaltavano nette. Croce vi  era definito «il più grande pensatore d'Europa in questo momento».  «In un breve corsivo che precedeva la riproduzione dello scritto del Croce Religione e serenità», ricorderà lo stesso Gramsci, «io scrissi che come l'hegelismo era stato la premessa della filosofia della prassi nel secolo XIX, alle origini della civiltà contemporanea, così la filosofia crociana poteva essere la premessa di una ripresa della filosofia della prassi nei giorni nostri, per le nostre generazioni». In realtà, nel corsivo indicato, simile concetto era inespresso. «La quistione»,  ammette Gramsci, «era appena accennata, in una forma certo primitiva e certissimamente inadeguata poiché in quel tempo il concetto di unità di teoria e pratica, di filosofia e politica non era chiaro in me e io ero tendenzialmente piuttosto crociano»1.

«La Città futura» s'apriva con l'articolo Tre principi tre ordini, qua e là censurato.

L'ordine e il disordine - vi affermava il giovane rivoluzionario - sono le due parole che più frequentemente ricorrono nelle polemiche di carattere politico. Partiti dell'ordine, uomini dell'ordine, ordine pubblico... La parola ordine ha un potere taumaturgico, la conservazione degli istituti politici è affidata in gran parte a questo potere. L'ordine presente si presenta come qualcosa di armonicamente coordinato, di stabilmente coordinato, e la moltitudine dei cittadini esita e si spaura nell'incertezza di ciò che un cambiamento radicale potrebbe apportare... Si forma nella fantasia l'immagine di qualcosa di lacerato violentemente, non si vede l'ordine nuovo possibile, meglio organizzato del vecchio, più vitale del vecchio... Si vede solo la lacerazione violenta, e l'animo pavido arretra nella paura di tutto perdere, di aver dinnanzi a sé il caos, il  disordine  ineluttabile...

Gramsci concludeva:

I socialisti non devono sostituire ordine ad ordine. Devono instaurare l'ordine in sé. La massima giuridica che essi vogliono realizzare è: possibilità di attuazione integrale della propria personalità umana concessa a tutti i cittadini. Con il concretarsi di questa massima cadono tutti i privilegi costituiti. Essa porta al massimo della libertà col minimo della costrizione. Vuole che regola della vita e delle attribuzioni sia la capacità e la produttività, all'infuori di ogni schema tradizionale. Che la ricchezza non sia strumento di schiavitù, ma essendo di tutti impersonalmente dia a tutti i mezzi per tutto il benessere possibile. Che la scuola educhi gli intelligenti da chiunque nati... Da questa massima dipendono organicamente tutti gli altri principi del programma massimo socialista. Esso non è utopia. È universale concreto, può essere attuato dalla volontà. È principio d'ordine, dell'ordine socialistico. Di quell'ordine che crediamo in Italia si attuerà prima che in tutti gli altri paesi2.

Nel numero unico giovanile erano riflessi nitidamente alcuni lati della personalità di Gramsci: la tensione dell'uomo che sente l'esigenza di schierarsi e di combattere3, l'intransigenza aspra con gli avversari di classe4, la vena sarcastica5, l'uggia per la rettorica populista delle «mani nude e callose»6; infine la fiducia nella «volontà tenace dell'uomo» come motrice di storia e il corrispondente fastidio innanzi alla «superstizione scientifica» dei positivisti, dei riformisti alla Claudio Treves, idolatri della «legge naturale», del «fatale andare delle cose». La polemica del giovane Gramsci contro l'ala riformista del PSI era fin d'ora serrata e pungente: «Aspettare di essere diventati la metà più uno è il programma delle anime pavide che aspettano il socialismo da un decreto regio controfirmato da due ministri».

Già s'annunciava il Gramsci de «L'Ordine nuovo», e del resto, un neretto in fondo all'ultima pagina de «La Città futura» diceva:

Abbiamo messo a questo foglio un titolo che non è solamente nostro. Prima che la guerra si sferrasse nel mondo con il suo flagello irresistibile, con alcuni amici si era deciso di lanciare una nuova rivista di vita socialista che fosse come il focolare delle nuove energie morali, del nuovo spirito [parola censurata; forse, rivoluzionario] ed idealista della nostra gioventù... Nella grande fede del nostro animo ricolmo di giovinezza e di ardore pensavamo di ricominciare una tradizione tutta italiana, la tradizione mazziniana rivissuta dai socialisti. Ma l'intento non è stato dimesso. Le parti del nostro animo che la guerra ci ha strappato ritorneranno al focolare. E la rivista sarà.

Era febbraio. Subito seguirono i fatti di Russia.

Cosa fosse precisamente accaduto a Pietroburgo non era facile, all'inizio, capirlo. Difficoltà obiettive di raccolta di informazioni esatte, poi la censura, poi l'inclinazione di alcuni giornali, come la «Gazzetta del popolo», a distorcere gli avvenimenti per calcoli di propaganda interna impedivano una visione chiara di quelle vicende. Il 18 marzo si seppe che lo zar era stato rovesciato: c'era un governo provvisorio deciso a continuare la guerra, ma già un gruppo di massimalisti ultra-rivoluzionari, guidati da Lenin, operava per la pace immediata da ottenersi a qualsiasi costo. Il primo commento di Gramsci apparve su «Il Grido» del 29 aprile 1917. Vi si affermava che «a leggere i giornali, a leggere il complesso delle notizie che la censura ha permesso di pubblicare», non era facile cogliere la sostanza della rivoluzione russa, se liberale o proletaria.

I giornali borghesi... ci hanno detto come sia avvenuto che la potenza dell'autocrazia sia stata sostituita da un'altra potenza non ancora ben definita e che essi sperano sia la potenza borghese. E hanno subito istituito il parallelo: rivoluzione russa, rivoluzione francese, e hanno trovato che i fatti si rassomigliano... Eppure noi siamo persuasi che la rivoluzione russa è, oltre che un fatto, un atto proletario, e che essa naturalmente deve sfociare nel regime socialista.

Notizie esaurienti si poterono ricavare da «La Stampa» del 10 maggio, che riportava le parole d'ordine leniniste: pace al più presto, tutto il potere al proletariato attraverso i Consigli degli operai e dei contadini. Ora Lenin era il bersaglio fisso di tutta la stampa conservatrice italiana; anche per ciò il proletariato guardava a lui come al «più socialista» ed al «più rivoluzionario dei capi autorevoli dei partiti socialisti russi» (così «Il Grido»).

I massimalisti russi sono la stessa rivoluzione russa. Kerensky, Zeretelli, Cernov [protagonisti della rivoluzione democratico-borghese di marzo] sono l'oggi della rivoluzione, sono i realizzatori di un primo equilibrio sociale, la risultante di forze in cui i moderati hanno ancora molta importanza. I massimalisti sono la continuità della rivoluzione: perciò sono la rivoluzione stessa... [Lenin] ha suscitato energie che più non morranno. Egli e i suoi compagni bolscevichi sono persuasi che sia possibile in ogni momento realizzare il socialismo.

Con questa risonanza in Italia della rivoluzione democratico-borghese di marzo e con la fiducia che gli scrittori socialisti (Gramsci in prima linea) e i dirigenti di un'ala del movimento operaio italiano riponevano nel partito di Lenin, dalla cui spinta s'aspettavano che la rivoluzione russa da liberale diventasse socialista, era naturale il tipo d'accoglienza riservato il 13 agosto 1917 a Torino, da una folla di quarantamila lavoratori, a Goldenberg e a Smirnov, inviati dal governo provvisorio liberale per una prima presa di contatto con i paesi dell'Intesa. Giorni prima, Goldenberg aveva dichiarato al corrispondente da Parigi de «La Stampa»: «Lenin non è nostro amico e noi siamo suoi avversari». Quando i due delegati del governo Kerenskij apparvero al balcone del palazzo di corso Siccardi, la folla li accolse al grido di «Viva Lenin». Dieci giorni dopo si combatteva a Torino dietro le barricate.

L'occasione iniziale della battaglia fu la scomparsa del pane dalle rivendite. Solo altre ragioni potevano però accendere nei rivoltosi l'impeto testimoniato dalla violenza della lotta e dal numero dei morti e dei feriti. La predicazione contro la guerra era venuta da qualche mese intensificandosi. Nel sentimento popolare aveva ormai radice la tesi che al proletariato convenisse perdere cinquecento dei suoi in una battaglia per la causa dei lavoratori anziché lasciarne sacrificare diecimila contro i tedeschi nell'esclusivo interesse della borghesia. E nelle fabbriche, dove la disciplina era controllata da un rappresentante dell'esercito e vigeva il codice penale militare di guerra, l'insofferenza degli operai si acuiva giorno dopo giorno. In simile terreno di coltura, fertile all'idea di «fare come in Russia», il tentativo insurrezionale era inevitabile.

Si cominciò a sparare il mattino di giovedì 23 agosto. La rivolta dilagava senza capi né direzione. Grossi alberi, vetture tramviarie, carri ferroviari rovesciati di traverso sulle vie isolavano i centri dell'insurrezione. Tra i dirigenti socialisti e i rivoltosi non c'erano legami. La folla, fuori da ogni ben calcolato disegno rivoluzionario, sembrava avere un solo fine: saccheggiare, distruggere. E i soldati, nella cui propensione a fraternizzare con gli operai s'era fatto eccessivo affidamento, reagivano sparando7. Ci furono una cinquantina di morti ed oltre duecento feriti. Poi seguì l'ondata degli arresti, che doveva privare la sezione socialista di quasi tutti i suoi dirigenti. Da allora, il compito di dirigere il movimento operaio torinese, nella misura in cui era possibile svolgere un'azione qualsiasi in una città dichiarata nel settembre del '17 zona di guerra (e ciò significava comparire davanti al tribunale di guerra per attività, informazioni e giudizi divergenti dalle direttive e dalle informazioni ufficiali dell'autorità militare) venne assunto da un comitato provvisorio.

Gramsci era tra i dodici del comitato. Per la prima volta, a ventisei anni, aveva un incarico direttivo nella sezione socialista torinese. Scriverà il 1° marzo 1921, su «L'Ordine nuovo» quotidiano:

In momenti molto gravi e molto difficili per la classe operaia torinese, a qualcuno di noi venivano affidate cariche di partito di grande responsabilità: quando, dispersa la Sezione e occupato militarmente il palazzo di Corso Siccardi, dopo i fatti dell'agosto 1917, qualcuno di noi era nominato segretario politico della Sezione; quando dopo Caporetto qualcuno di noi era inviato al Convegno di Firenze, nel quale si doveva decidere l'atteggiamento e l'indirizzo del partito.

Lazzari e Bombacci, della Direzione, e Gino Pesci, della frazione massimalista rivoluzionaria, avevano promosso un convegno clandestino da tenersi a Firenze il 18 novembre 1917 (il Pesci era stato segretario della Camera del lavoro di Cagliari quando Gennaro Gramsci vi aveva funzioni di cassiere, ed allora, negli anni del liceo, Antonio lo aveva conosciuto). Scopo dell'incontro era di ribadire l'estraneità del proletariato alla guerra borghese anche dopo Caporetto; Gramsci condivideva la tesi di Bordiga dell'opportunità di un intervento attivo del proletariato rivoluzionario nella crisi della guerra. Da appena quattro giorni i bolscevichi erano al potere (6-14 novembre). In Italia filtravano pochissime notizie, rese incomplete dalla censura e pubblicate con distorsioni dalla grande stampa d'informazione. Sotto il titolo I saturnali del leninismo la «Gazzetta del popolo» aveva scritto il 10 novembre: «Una folla di massimalisti saccheggiò le cantine di vini del Palazzo d'Inverno, ubriacandosi, dispersa dalla forza armata». Il grande evento storico era ridotto ad un subbuglio di teppisti. Ma il Gramsci ventiseienne che mesi prima, il 28 luglio, aveva chiaramente manifestato la sua fiducia negli sbocchi socialisti della rivoluzione liberale intuì subito, malgrado i vuoti provocati dalla censura e le distorsioni della stampa borghese, che una grande svolta si compiva. Fece in tempo a scrivere su «Il Grido» del 24 novembre, in una breve nota di presentazione d'un articolo di Souvarine:

Nessuna notizia precisa si ha sugli ultimi avvenimenti della rivoluzione russa. È probabile che nessuna notizia precisa si potrà avere ancora per qualche tempo. Il «Grido» aveva preveduto, ed era facile prevedere che la rivoluzione russa non poteva fermarsi nella fase Kerensky. La rivoluzione russa continua e continuerà ancora.

Quello stesso giorno, 24 novembre 1917, uscì sull'edizione nazionale dell'«Avanti!» un editoriale col titolo La rivoluzione contro il «Capitale», firmato Antonio Gramsci. È una nuova testimonianza, certo la più clamorosa, della formazione idealistica di Gramsci e della sua tendenza a non imprigionarsi dentro schemi troppo rigidi, com'erano quelli di alcuni interpreti di Marx.

La rivoluzione dei bolscevichi - affermava il giovane editorialista (alla sua prima «incursione» fuori dalla cinta delle pagine e dei fogli torinesi) - è la rivoluzione contro il Capitale di Carlo Marx. Il Capitale di Marx era, in Russia, il libro dei borghesi, più che dei proletari. Era la dimostrazione critica della fatale necessità che in Russia si formasse una borghesia, si iniziasse un'era capitalistica, si instaurasse una civiltà di tipo occidentale, prima che il proletariato potesse neppure pensare alla sua riscossa, alle sue rivendicazioni di classe, alla sua rivoluzione. I fatti hanno fatto scoppiare gli schemi critici entro i quali la storia della Russia avrebbe dovuto svolgersi secondo i canoni del materialismo storico. I bolscevichi rinnegano Carlo Marx, affermano con la testimonianza dell'azione esplicata, delle conquiste realizzate, che i canoni del materialismo storico non sono così ferrei come si potrebbe pensare e  si è pensato.

Era un discorso pregno di hegelianesimo e di crocianesimo:

Se i bolscevichi rinnegano alcune affermazioni del Capitale, non ne rinnegano il pensiero immanente, vivificatore. Essi non sono «marxisti», ecco tutto; non hanno compilato sulle opere del Maestro una dottrina esteriore, di affermazioni dogmatiche e indiscutibili. Vivono il pensiero marxista, quello che non muore mai, che è la continuazione del pensiero idealistico italiano e tedesco, e che in Marx si era contaminato di incrostazioni positivistiche e naturalistiche8.

Ancora una volta Gramsci respingeva la concezione della storia come evoluzione spontanea e fatale determinata dai fatti economici bruti; al determinismo dei positivisti egli contrapponeva la volontà dell'uomo, massimo fattore di storia. È da aggiungere (e questa consapevolezza delle difficoltà che si accompagnano ad ogni lacerazione storica sarà sempre presente in lui) che il giovane studioso e militante ben si distingueva da chi troppo euforicamente immaginava instaurato in Russia, per il semplice rovesciamento del vecchio ordine, un mondo di felicità piena. «Sarà in principio il collettivismo della miseria, della sofferenza», affermava crudamente, anche dicendo però: «Il capitalismo non potrebbe subito fare in Russia più di quanto potrà fare il collettivismo. Farebbe oggi molto meno, perché avrebbe subito di contro un proletariato scontento, frenetico, incapace ormai di sopportare per altri anni i dolori e le amarezze che il disagio economico porterebbe».

A parte l'attività giornalistica, poche altre iniziative di organizzazione e di propaganda erano consentite a Gramsci dalla censura militare, in quel periodo di sua gestione provvisoria della segreteria di sezione. Deve soltanto registrarsi una risoluzione contro il protezionismo doganale fatta approvare dall'Esecutivo provvisorio. Su questo tema, caro a Gramsci fin dalla prima giovinezza, era uscito il 20 ottobre 1917 un numero speciale de «Il Grido», con interventi di Ugo Mondolfo, Umberto Cosmo, Bruno Buozzi, ed un articolo di Togliatti, il primo da lui scritto per un giornale socialista: può considerarsi il suo debutto nella politica attiva: dopo la laurea in giurisprudenza, s'era iscritto in filosofia e adesso frequentava a Caserta il corso allievi ufficiali. Per il resto, al livello dell'organizzazione, Gramsci non poteva produrre molto, data la situazione obiettivamente sfavorevole. S'era fatto comunque promotore di un Club di vita morale: l'opera di educazione politica dei giovani continuava ad essere in cima ai suoi interessi. «Assegno a un giovane un compito», sappiamo da una lettera allora indirizzata da Gramsci a Giuseppe Lombardo-Radice, «un capitolo di Cultura e vita morale di B. Croce, dei Problemi educativi e sociali del Salvemini, della Rivoluzione francese o di Cultura e laicità del Salvemini stesso, del Manifesto dei comunisti, una Postilla del Croce sulla Critica o altro, che però risenta del movimento idealistico attuale»9. All'assegnazione del compito seguiva qualche giorno dopo la discussione, sempre o quasi all'aria aperta.

Le nostre - mi dice Carlo Boccardo, uno dei giovani del Club - erano lunghe camminate sotto i portici, Gramsci in mezzo, lento nell'andare, e noi a fargli corona. Venivano Andrea Viglongo, Attilio Carena, fratello di Pia, e qualche volta anche Angelo Pastore, fratello minore di Ottavio. Gramsci ci lasciava parlare. Eravamo ragazzi di sedici-diciassette anni: la nostra ignoranza era proporzionale all'età e la presunzione all'età e all'ignoranza. Ma Gramsci non si spazientiva; mai assumeva l'atteggiamento del teorico depositario di tutta la sapienza; gli piaceva far tesoro delle idee altrui ed ascoltava volentieri. Poi quando, intervenendo per ultimo, inquadrava il problema, noi capivamo i nostri errori e li cor reggevamo. Continuammo a incontrarci tutte le sere per un paio di mesi. Ricordo l'ultima notte del '17, trascorsa in casa di Andrea Viglongo. Per festeggiare la fine dell'anno vecchio e l'arrivo del nuovo, la mamma di Andrea ci aveva preparato un bel vassoio di frittelle. Stavamo nella direzione della scuola di cui il papà di Andrea era bidello. Attendemmo l'anno nuovo leggendo e commentando i Ricordi di Marc'Aurelio... Poi fummo chiamati alle armi, uno alla volta, ed il Club si sciolse.

È un peccato che una dedica di Gramsci al giovane Attilio Carena, prima che questi andasse soldato, sia stata smarrita. La dedica era stata scritta da Gramsci su una delle pagine d'apertura del libriccino edito da Barbera nel 1911 Ricordi dell'imperatore Marc'Aurelio Antonino e conteneva, so da Alfonso Leonetti, una serie di imperativi che formavano come il decalogo del Club di vita morale: tu sarai, tu farai, ecc.

Ora Gramsci era (dopo l'arresto di Maria Giudice) l'unico redattore de «Il Grido» e in pratica lo dirigeva. In breve il settimanale della sezione socialista cambiò faccia. Attento agli sviluppi della rivoluzione russa, il ventisettenne direttore faceva tradurre da un compagno polacco, Aron Wizner, e pubblicava testi d'autori bolscevichi, notizie, documenti.

Il piccolo settimanale di propaganda del partito - ricorda Piero Gobetti - diventò nel 1918 una rivista di cultura e di pensiero. Pubblicò le prime traduzioni degli scritti rivoluzionari russi, propose l'esegesi politica dell'azione dei bolscevichi. L'animatore di queste ricerche era il cervello di Gramsci. La figura di Lenin gli appariva come una volontà eroica di liberazione: i motivi ideali che costituivano il mito bolscevico, nascostamente fervidi nella psicologia popolare, dovevano agire non come il modello di una rivoluzione italiana ma come l'incitamento a una libera iniziativa operante dal basso10.

Non modello da trasporre meccanicamente, dunque, ma lezione, stimolo ad una ricognizione storica e socio-economica nella realtà italiana: Gramsci continuava a rifiutare il concetto di politica come astratta scienza normativa fuori dalle categorie di tempo e di spazio. I primo sforzo del giovane studente approdato nella metropoli industriale era stato il superamento di un modo di vivere e di pensare «da villaggio». Infine Gramsci tendeva a superare anche l'orizzonte nazionale, «o almeno», secondo la testimonianza autobiografica, «il modo nazionale confrontava coi modi europei, le necessità culturali italiane confrontava con le necessità culturali e le correnti europee (nel modo in cui ciò era possibile e fattibile nelle condizioni personali date, è vero, ma almeno secondo esigenze e bisogni fortemente sentiti in questo senso)». E come l'originalità del «triplice o quadruplice provinciale» era consistita in uno sforzo di integrazione nella cultura nazionale ma senza il ripudio dell'esperienza sarda, l'originalità dell'uomo di cultura italiano era adesso nello sforzo di collegamento alle correnti europee ed al «farsi» della rivoluzione leninista con immutata attenzione ai dati tipici e «autonomi» della realtà nazionale, diversa da quella russa. L'«autonomismo» di Gramsci, lo sforzo di ricerca delle condizioni storiche in cui s'era formata la società italiana e del modo come, specificamente in seno a questa società, avrebbe potuto svilupparsi la lotta di classe, erano ben evidenti ne «Il Grido».

L'ultimo numero del settimanale uscì il 19 ottobre 1918. A ragione, in una nota di commiato, il suo «unico redattore», che era stato la rivelazione del giornalismo torinese degli anni di guerra, poteva scrivere di averlo trasformato, da «settimanale di cronaca locale e di propaganda evangelica», in una «piccola rassegna di cultura socialista, sviluppata secondo le dottrine e la tattica del socialismo rivoluzionario».

Note

1 Il corsivo è mio.

2 L'ultimo corsivo è mio.

 3 «Credo come Federico Hebbel che "vivere vuol dire essere partigiani". Chi vive veramente non può non essere cittadino, e parteggiare. Odio gli indifferenti... L'indifferenza opera potentemente nella storia. Opera passivamente, ma opera... Dei fatti maturano nell'ombra, poche mani, non sorvegliate da nessun controllo, tessono la tela della vita collettiva, e la massa ignora, perché non se ne preoccupa... Sono partigiano, vivo, sento nelle coscienze virili della mia parte già pulsare l'attività della città futura che la mia parte sta costruendo... Vivo, sono partigiano. Perciò odio chi non parteggia, odio gli indifferenti.»

4 «Quando discuti con un avversario, prova a metterti nei suoi panni: lo comprenderai meglio e forse finirai con l'accorgerti che ha un po' o molto di ragione. Ho seguito per qualche tempo questo consiglio dei saggi. Ma i panni dei miei avversari erano così sudici che ho concluso: è meglio essere ingiusto qualche volta che provare di nuovo questo schifo che fa svenire.»

5 A proposito degli intellettuali che disertano il movimento socialista, scriveva: «Ci sono i diiettanti della fede, così come i dilettanti del sapere... per molti la crisi di coscienza non è che una cambiale scaduta o il desiderio di  aprire un conto corrente».

6 «Preferisco che al movimento socialista si accosti un contadino più che un professore d'università. Solo che il contadino dovrebbe cercare di farsi tanta esperienza e tanta larghezza di mente quanta ne può avere un professore d'università, per non rendere sterile la sua azione e il possibile suo sacrificio.»

7 Gramsci crederà di ricordare che alla repressione partecipasse la Brigata Sassari. È un ricordo inesatto. In quei giorni la Brigata era in viaggio da Cividale all'altopiano della Bainsizza e il 29 agosto sarebbe andata in  linea a Cravec.

8 Il corsivo è mio.

9 Si tratta, come è agevole constatare di autori e testi molto indicativi dello stadio di formazione culturale del giovane rivoluzionario, per il quale Marx era «maestro di vita spirituale e morale, non pastore armato di vincastro», non «un messia che abbia lasciato una filza di parabole gravide di imperativi categorici, di norme indiscutibili, assolute, fuori  delle categorie di  tempo e di spazio».

10 Il corsivo è mio.

CAPITOLO TREDICESIMO

Cominciava il dopoguerra. Gennaro Gramsci era stato sergente maggiore del «21° Minatori» a Monterosso e a Montenero e poi nelle montagne sopra Caporetto1. Congedato, dirigeva a Cagliari, in corso Vittorio, una cooperativa di consumo. Anche il minore dei fratelli, Carlo, ufficiale in guerra, era tornato in Sardegna, a Ghilarza: per qualche tempo non gli fu agevole reinserirsi nella vita civile con una occupazione qualsiasi. Mario, dal suo canto, continuava a vestire la divisa. Gli studi ginnasiali in seminario gli erano serviti a diventare sottotenente. Aveva conosciuto a Varese una signorina dell'aristocrazia lombarda, Anna Maffei Parravicini, e presto l'avrebbe sposata. Sperava intanto di rimanere effettivo nell'esercito. A Ghilarza, il signor Ciccillo e la signora Peppina avevano la compagnia, oltre che di Carlo, di Grazietta e di Teresina. Emma, di due anni più grande di Antonio, s'era sistemata al Tirso, contabile nell'impresa costruttrice della diga. In qualche misura, in casa Gramsci, non c'era più l'assillo economico d'una volta. Si viveva relativamente sereni, anche orgogliosi del successo di Nino come giornalista nella grande città. Il signor Ciccillo, è vero, non riusciva ancora a spiegarsi le idee che il benedetto ragazzo s'era messe in testa, quest'illusione stramba di poter cambiare la faccia del mondo. Giornalista a «La Domenica del corriere», tanto per dire, o al «Giornale d'Italia», che erano, quelli sì, giornali come si deve, fatti da gente con sale in zucca, sarebbe stato un ben diverso prestigio... A simili discorsi, la signora Peppina, lettrice volenterosa di tutto ciò che Nino mandava a casa segnato in rosso, reagiva mitemente, dicendo per tagliar corto: «Vuol dire che lui se la sente così...».

In Sardegna allora, nel 1919, di Antonio Gramsci si sapeva poco più di nulla. Ma i ghilarzesi già cominciavano a considerarlo una piccola gloria locale.

Un giorno, sulla strada che da Ghilarza va ad Abbasanta, all'entrata del paese - racconta Velio Spano - una mia parente mi disse, mostrandomi una bella ragazza: - Vedi, è la sorella di Nino Gramsci. Era la prima volta che io udivo quel nome, e domandai chi fosse. Mi rispose in modo impreciso, dicendomi ch'era un professore, un giornalista che viveva in continente. Ma diceva  queste cose con orgoglio.

Dal 5 dicembre del '18, Gramsci lavorava esclusivamente all'«Avanti!», che ora usciva anche in edizione piemontese, stampata a Torino, in via Arcivescovado 3, angolo via XX Settembre. Era cambiato. Adesso, a ventotto anni, non somigliava più nemmeno un poco al giovane timido, tutto raggomitolato in sé, dei primi anni torinesi. Aveva patito la solitudine anche per il corruccio dell'isolano che sente ostile la grande città ed alla freddezza dell'ambiente reagisce con l'estraneazione totale. S'era infine legato a un lavoro stimolante. L'angoscia d'avere membra malate svaniva. Attraversava anche un momento di buona salute: era fiero di mostrare quanta forza avesse nelle mani serrando forte forte i polsi dei colleghi di redazione, e ne rideva, compiacendosene come un ragazzo. Pieno di vitalità insospettabile, gli riusciva di liberare nell'azione energie prima non fruite, e con il recupero completo della sicurezza in sé, il Gramsci tagliato per le «ricerche ascetiche del glottologo», come dirà Gobetti, più che per la vita di combattimento, diventava immagine lontana. Era freddo, incapace di espansioni, per la lunga abitudine a dominare i sentimenti, che celava dietro modi contenuti. Anche scherzava e rideva; ma era un riso di testa, voluto: una risatella a scatti. Spontanei erano gli accessi d'ira, vere valvole di sicurezza alla lunga compressione di sentimenti talvolta dolorosi, al lungo sforzo di volontà nel lavoro e nello studio. Nella polemica politica rifuggiva dalle morbidezze di tono. Le sue critiche teatrali erano attese da commediografi e da capicomici con trepidazione; e quando una volta Nino Berrini stette una settimana a girargli intorno con l'intenzione d'averne, in cambio del corteggiamento, una recensione amichevole, l'esito fu ugualmente una stroncatura. La batterie di scrittori e di attori lo infastidiva. Sempre in Gramsci la secchezza del giudizio era lo sbocco di un'avversione estrema all'ipocrisia, così spinta in lui da fargli temere che il giudizio temperato da indulgenza contenesse almeno un poco di insincerità.

Per qualche mese non ebbe incarichi nella sezione. Aveva fatto parte del comitato provvisorio messo alla guida della sezione dopo l'arresto in massa dei vecchi dirigenti per i moti dell'agosto 1917. Congedati i militari e svuotate le prigioni, era naturale il ritorno alla normalità. Nella nuova commissione esecutiva della sezione socialista torinese eletta il 28 novembre del '18 avevano spicco gli «intransigenti rigidi» (tra gli altri, Francesco Barberis, Giovanni Boero, Pietro Rabezzana, Giovanni Gilodi e, in seguito, Giovanni Parodi). Gramsci lavorava adesso esclusivamente all'«Avanti!». Trascorreva le sue giornate nella stanzetta d'un piccolo caseggiato di via dell'Arcivescovado, non distante dall'Arsenale sabaudo. Era un ex riformatorio per minorenni. Per arrivarci, dopo entrati da via dell'Arcivescovado, s'attraversava un cortile, dove l'Alleanza cooperativa torinese aveva un deposito di scarpe. Al pianoterra dell'ex riformatorio era sistemata la tipografia, una rotativa Marinoni un po' vecchiotta e mezza dozzina di lino-types, e al piano di sopra la redazione, sette-otto camere che si erano ricavate mettendo tavolati di legno per pareti. Una scala a chiocciola interna collegava i due piani. Gramsci aveva per sé una scrivania antica, con scaffaletti sugli angoli davanti. In mezzo ad alte pile di libri, a cataste di giornali disordinatamente ammucchiati, a bozze in attesa di correzione o accumulatesi dai giorni avanti, scriveva, studiava, sentiva gli operai, i corrispondenti di fabbrica, i segretari politici e sindacali della città e della provincia, i giovani universitari, i membri di commissioni interne che, soprattutto verso sera, venivano a trovarlo. Rincasava a notte avanzata, accompagnato sempre da qualcuno dei più giovani colleghi: Alfonso Leonetti, un pugliese venuto a Torino per insegnare nell'istituto Ugo Foscolo, e ancora Giuseppe Amoretti, Mario Montagnana, Andrea Viglongo, Felice Platone.

Erano tornati Tasca, Togliatti e Terracini. Riaffiorò l'idea d'un giornale fatto dall'antico gruppo dell'università torinese. Gramsci aveva studiato a fondo e continuava a seguire con impegno estremo la rivoluzione d'ottobre ed i suoi sviluppi. S'erano cominciati a conoscere in Italia, a partire dal '17, i primi estratti degli scritti di Lenin, pubblicati da riviste francesi e da una americana, «Liberator», diretta da Max Eastman. Ora L'imperialismo e Stato e rivoluzione circolavano in Italia. Fu anche attraverso queste letture che Gramsci arrivò a dare risposte nuove alle domande suggeritegli dalla sua esperienza di italiano del Mezzogiorno inserito nella grande città operaia. Di qui l'esigenza, vivamente sentita anche dagli altri giovani, d'avere un nuovo periodico dove questi temi li si potesse dibattere con la massima libertà, fuori dalle influenze dei gruppi dirigenti del partito.

Abbiamo, dei fondatori de «L'Ordine nuovo», il ritratto scritto da Piero Gobetti, che a lungo li frequentò. Angelo Tasca, allora ventisettenne, «veniva al movimento politico da una educazione prevalentemente letteraria e con mentalità di propagandista e di apostolo». Il suo era «socialismo di un letterato, di un messianico che concepiva la redenzione popolare come palingenesi illuministica e alla civiltà moderna sovrapponeva un suo sogno di virtù operaia piccolo-borghese, che si alimentasse di abitudini moderate e ataviche, di una tranquillità raccolta nella casa-giardino». Poi Terracini, di modesta famiglia israelita (non dei Terracini diamantaires). Aveva ventiquattro anni. Era «antidemagogico per sistema, aristocratico, contrario alle violenze oratorie, ragionatore sottile, fermo nella polemica e nell'azione fino all'aridità e alla cocciutaggine». Lo si considerava «il diplomatico, il machiavellico». Togliatti, venuto alla politica per ultimo, soffriva le conseguenze della sua inquietudine, «che pareva cinismo inesorabile e tirannico ed era indecisione, che fu giudicata equivoco e forse era soltanto un ipercriticismo invano combattuto». Infine Gramsci:

Il cervello ha soverchiato il corpo... La voce è tagliente come la critica dissolutrice, l'ironia s'avvelena nel sarcasmo, il dogma vissuto con la tirannia della logica toglie la consolazione dell'umorismo... La sua rivolta è talora il risentimento e talora il corruccio più profondo dell'isolano che non si può aprire se non con l'azione, che non può liberarsi dalla schiavitù secolare se non portando nei comandi e nell'energia dell'apostolo qualcosa di tirannico.

Di quale parola nuova Gramsci, Tasca, Terracini e Togliatti volevano farsi portatori? C'era omogeneità, tra loro? Un'idea comune, a parte l'insofferenza per Turati, Modigliani, Treves e gli altri esponenti della tradizione riformista? «Ahimè», racconterà Gramsci. «L'unico sentimento che ci unisse... era quello suscitato da una vaga passione di una vaga cultura proletaria; volevamo fare, fare, fare; ci sentivamo angustiati, senza un orientamento, tuffati nell'ardente vita di quei mesi dopo l'armistizio, quando pareva immediato il cataclisma della società italiana». Si riunirono, discussero, Tasca trovò i soldi, 6 mila lire. Il 1° maggio del '19 uscì il primo numero de «L'Ordine nuovo», «il solo documento di giornalismo rivoluzionario e marxista», dirà Gobetti, «che sia sorto in Italia con qualche serietà ideale». Lo firmava, col nome sotto la testata, Antonio Gramsci, «segretario di redazione». Il lavoro amministrativo era svolto da Pia Carena, anche eccellente traduttrice di testi francesi (Rolland, Barbusse, Marcel Martinet, ecc.).

Inizialmente però il giornale faticò a darsi l'indirizzo che a Gramsci più stava a cuore. «Fu un'antologia, nient'altro che un'antologia» (il giudizio, evidentemente eccessivo, è dello stesso Gramsci) «fu una rassegna di cultura astratta, con la tendenza a pubblicare novelline orripilanti e xilografie bene intenzionate». La critica si precisa meglio in seguito. Gramsci accusava Tasca di aver respinto «la proposta di consacrare le comuni energie a scoprire una tradizione soviettista nella classe operaia italiana, a scavare il filone del reale spirito rivoluzionario italiano». Qual era dunque, a questo punto, la direzione della ricerca gramsciana? Attento all'esperienza dei Soviet (in russo soviet =consiglio), allo sviluppo dei Consigli di fabbrica e di fattoria nei quali s'erano organizzati gli operai e i contadini russi, il giovane si chiedeva: «Esiste in Italia, come istituzione della classe operaia, qualcosa che possa essere paragonato al Soviet, che partecipi della sua natura?... Esiste un germe, una velleità, una timidezza di governo dei Soviet in Italia, a Torino?». La risposta data era: «Sì, esiste in Italia, a Torino, un germe di governo operaio, un germe di Soviet; è la commissione interna». Ma come questo embrione di democrazia operaia avrebbe potuto svilupparsi fino a diventare l'organo del potere proletario? L'idea centrale di Gramsci era che tutti gli operai, tutti gli impiegati, tutti i tecnici e poi tutti i contadini e in breve tutti gli elementi attivi della società dovessero diventare, fossero o no iscritti al sindacato e a qualunque partito appartenessero o anche non militassero in un partito, ma per il solo fatto d'essere operai, contadini ecc., da semplici esecutori, dirigenti del processo produttivo; da rotelle di un meccanismo regolato dal capitalista, soggetti; in sostanza, che gli organi democraticamente eletti dai lavoratori (i Consigli di fabbrica, di fattoria, di rione) fossero investiti dal basso del potere tradizionalmente esercitato nella fabbrica e nella campagna della classe proprietaria e nelle pubbliche amministrazioni dal delegato del capitalista. La commissione interna era eletta dai lavoratori organizzati nel sindacato; invece il Consiglio di fabbrica doveva essere eletto da tutti i lavoratori, compresi gli anarchici, e persino i cattolici: Gramsci non aveva certo ubbìe anticlericali2. Poi non si trattava più, come nel caso dei sindacati, di lottare per salari migliori, per una regolamentazione democratica della vita di fabbrica, orari, igiene, riposo ecc. Il Consiglio di fabbrica, formato dai commissari eletti in ogni reparto, doveva non trattare col capitalista ma semplicemente sostituirsi ad esso per regolare da cima a fondo la vita della fabbrica. C'erano però in quel momento in tutt'Italia, e non solo a Torino, preparazione di masse, maturità, spirito rivoluzionario che consentissero simile svolta? Si poteva fondatamente pensare d'essere ovunque in temperie rivoluzionaria? In proposito il dibattito è ancora aperto tra quelli che fanno risalire la sconfitta del movimento dei Consigli di fabbrica alla tiepidezza del Partito socialista e della Confederazione generale del lavoro e quelli che giudicano il movimento come una architettura intellettuale pensata da un gruppo di giovani letterati senza la verifica del terreno dove l'ardita costruzione era destinata a sorgere: giacché il solo pilastro torinese affondava in terreno solido. Certo è che a Torino l'idea lanciata il 21 giugno 1919 da «L'Ordine nuovo» (con l'articolo Democrazia operaia) ebbe tra gli operai immediata risonanza.

La formula «dittatura del proletariato» - concludeva l'articolo, scritto da Gramsci in collaborazione con Togliatti, - deve finire di essere solo una formula, un'occasione per sfoggiare fraseologia rivoluzionaria. Chi vuole il fine, deve anche volere i mezzi. La dittatura del proletariato è l'instaurazione di un nuovo Stato, tipicamente proletario, nel quale confluiscono le esperienze istituzionali della classe oppressa, nel quale la vita sociale della classe operaia e contadina diventa sistema diffuso e fortemente organizzato. Questo Stato non si improvvisa.

L'adesione del proletariato torinese non si fece attendere.

Fummo, io, "Togliatti, Terracini - racconta Gramsci - invitati a tenere conversazioni nei circoli educativi, nelle assemblee di fabbrica, fummo invitati dalle commissioni interne a discutere in ristrette riunioni di fiduciari e collettori. Continuammo; il problema dello sviluppo della commissione interna divenne problema centrale, divenne l’idea dell'«Ordine nuovo»; era esso posto come problema fondamentale della rivoluzione operaia, era il problema della «libertà» proletaria. L'«Ordine nuovo» divenne, per noi e per quanti ci seguivano, il «giornale dei Consigli di fabbrica».

Si avvicinavano intanto i giorni, 20 e 21 luglio, del grande sciopero di solidarietà con le repubbliche socialiste-soviettiste di Russia e di Ungheria, contro le quali i governi dell'Intesa, meno l'Italia, fomentavano iniziative controrivoluzionarie. Agli ultimi di marzo del 1919, era stata trasferita a Torino, in servizio d'ordine pubblico, la Brigata Sassari, a composizione prevalentemente regionale, quasi tutti pastori e contadini sardi.

Da maggio Gramsci era nuovamente nella commissione esecutiva della sezione socialista torinese, insieme a intransigenti rivoluzionari tutti operai, meno una donna, Clementina Berrà Perrone, impiegata (segretario Giovanni Boero). Puntava adesso a indurre i soldati della Brigata Sassari suoi conterranei alla fraternità con gli operai torinesi; a fargli capire che, sparando su un operaio, avrebbero colpito un uomo impegnato a lottare anche per la liberazione dei pastori e dei contadini dalla schiavitù di sempre. Non era un lavoro facile e doveva svolgersi su un doppio fronte, perché il ricordo di altre repressioni bruciava ancora nelle masse torinesi, e dunque occorreva anche ridurre alla disciplina molti operai, specie gli anarchici, dominati da spirito di rivincita. Quanto ai «sassarini», il loro stato d'animo era ben rispecchiato da questo racconto riferito da Gramsci di un operaio conciapelli di Sassari addetto ai primi sondaggi di propaganda. Il conciapelli si avvicinò a un «sassarino»: l'accoglienza fu cordiale.

Cosa siete venuti a fare a Torino? - Siamo venuti a sparare contro i signori che fanno sciopero. - Ma non sono i signori quelli che fanno sciopero, sono gli operai e sono poveri. - Qui sono tutti signori: hanno tutti il colletto e la cravatta; guadagnano 30 lire al giorno. I poveri io li conosco e so come sono vestiti; a Sassari, sì, ci sono molti poveri; tutti gli «zappatori» siamo poveri e guadagnamo 1,50 al giorno. - Ma anche io sono operaio e sono povero. - Tu sei povero perché sei sardo. - Ma se io faccio sciopero con gli altri, sparerai contro di me? - Il soldato rifletté un poco, poi mettendomi una mano sulla spalla: Senti, quando fai sciopero con gli altri, resta a casa!

«Era questo», commenta Gramsci, «lo spirito della stragrande maggioranza della Brigata, che contava solo un piccolo numero di operai minatori del bacino di Iglesias. Eppure, dopo pochi mesi, alla vigilia dello sciopero generale del 20-21 luglio, la Brigata fu allontanata da Torino». Partì su una doppia tradotta per Roma alle 2 di notte del 18 luglio. «I torinesi», ricorda il fante Antonio Contini, di Bonorva, «stavano ai bordi della strada, la notte della partenza, e ci applaudivano. Erano contenti di noi perché noi, diversamente da altri, avevamo rispettato la gente del luogo, come essi avevano rispettato noi. Neanche uno sparo, neanche uno scontro. Per questo erano contenti e ci applaudivano».

Due giorni dopo, il 20 luglio, Gramsci fece la sua prima, assai breve, esperienza carceraria. Un giovane operaio anche lui prigioniero politico, Mario Montagnana, lo ricorda in una delle rotonde della prigione.

Vidi perlomeno una dozzina di guardie carcerarie che circondavano e stavano ascoltando religiosamente un ometto, vestito di scuro, che parlava loro sorridendo. Era Gramsci. In trentasei ore chiuso nella cella, era riuscito a conquistare, ad affascinare numerosi carcerieri, sardi come lui, rivolgendosi loro nel dialetto natale, con quel suo parlare semplice, popolare, ma al tempo stesso ricchissimo di sentimenti, di fatti e di idee. La voce era corsa da una guardia all'altra: «Sai, al numero tale c'è un sardo un politico... Vagli a parlare». Erano andati in molti, malgrado la severa disciplina... Ed ora alcuni di essi - tutti quelli che potevano farlo - lo accompagnavano, anche per godere ancora un po' della sua conversazione, fino all'ufficio matricola, orgogliosi di quel sardo così intelligente, così istruito e così simpatico.

Ed ecco, ai primi di settembre, quello che, nel disegno dei promotori, doveva essere l'inizio del movimento rivoluzionario. I duemila operai della Fiat-Brevetti elessero i commissari di reparto: il primo Consiglio di fabbrica era nato. Subito seguirono l'iniziativa gli operai della Fiat-Centro. L'azione era stata preceduta da una intensa campagna propagandistica: per tutta l'estate, Gramsci ed i suoi collaboratori de «L'Ordine nuovo» avevano insistito sulla necessità che le istituzioni tradizionali del movimento operaio (partito e Confederazione del lavoro) «incapaci a contenere tanto rigoglio di vita rivoluzionaria», fossero affiancate da «una rete di istituzioni proletarie radicate nella coscienza delle grandi masse», i Consigli di fabbrica. Erano usciti saggi e interventi di John Reed (Come funziona il Soviet), di Fournière (Uno schema di stato socialista), di Gramsci (Il Soviet ungherese), di Ottavio Pastore (Il problema delle commissioni interne), di Lenin (Democrazia borghese e democrazia proletaria), di Andrea Viglongo (Verso nuove istituzioni). Il riferimento ad esperienze consiliari d'altri paesi era costante: come l'associazione sindacalista rivoluzionaria degli Industrial Workers of the World (IWW), animata dal marxista americano Daniel De Leon, o il movimento inglese degli shop-stewards («ogni quindici operai eleggono un delegato; l'assemblea dei delegati costituisce il Comitato operaio; tutti i Comitati operai di una regione si riuniscono costituendo un Comitato operaio locale»). Dall'analisi di quei movimenti e dal confronto, dallo studio dell'esperienza soviettista e dal dibattito nelle fabbriche torinesi nasceva l'elaborazione di questa forma nuova d'autogoverno proletario, dei proletari associati nel partito o «disorganizzati», iscritti al sindacato o no. Ora la costituzione dei primi Consigli di fabbrica alla Fiat significava che il principio era ben traducibile in realtà. Il 5 ottobre, sul «Resto del Carlino», Giorgio Sorel scrisse: «L'esperienza che si compie nelle officine Fiat ha maggiore importanza di tutti gli scritti pubblicati sotto gli auspici della "Neue Zeit"». Era un'adesione che poteva essere colta a pretesto da chi già accusava gli  «ordinovisti» di anarco-sindacalismo. Gramsci prevenne quest'intenzione polemica sospettabile in molti, intanto distinguendo tra Sorel, «animato da un troppo sincero amore della causa del proletariato per perdere ogni contatto con la vita, ogni intelligenza della storia di esso», e la teoria sindacalista «così come vollero presentarla allievi e applicatoti e come forse non era da principio nella mente del maestro». Quindi aggiunse:

Sorel non si è chiuso in nessuna formula, e oggi, conservando quanto vi era di vitale e di nuovo nella sua dottrina, cioè l'affermata esigenza che il moto proletario si esprima in forme proprie, dia vita a proprie istituzioni, oggi egli può seguire non solo con occhio pieno di intelligenza, ma con animo pieno di comprensione, il movimento realizzatore iniziato dagli operai e dai contadini russi, e può chiamare ancora «compagni» i socialisti d'Italia che vogliono seguire quell'esempio3.

Continuarono ad apparire, in ogni numero della rivista? contributi dottrinari, proposte pratiche e, tradotti dalla stampa operaia russa, francese, inglese, documenti e testimonianze sulla vita di fabbrica e dei consigli operai: testi di Arthur Ransome, di Bukharin, Bela Kun, Jules Humbert-Droz. In autunno, all'attività di elaborazione teorica dei Consigli e di raffronto con i testi e le esperienze dei rivoluzionari russi e dell'Occidente venne intrecciandosi il dibattito precongressuale. Le prime elezioni politiche del dopoguerra erano indette per il 16 novembre 1919. Le assise nazionali del Partito socialista si svolsero a Bologna sei settimane avanti, dal 5 all'8 ottobre, e fu un congresso nettamente orientato a sinistra: persino i sostenitori della mozione di destra votarono l'adesione del PSI alla Terza Internazionale. Nessuna delle tre mozioni si qualificava riformista; Turati disse di parlare per la frazione «che con la nomenclatura sciocca e superata con la quale ci calunniamo reciprocamente viene indicata come riformista». Quali erano dunque le differenze? All'estrema sinistra, un giovane ingegnere, Amadeo Bordiga, che dal dicembre del '18 dirigeva a Napoli il settimanale «Il Soviet», guidava la frazione degli «astensionisti». Era sua convinzione che il diritto concesso dalla classe proprietaria agli sfruttati di deporre ogni tanto una scheda nell'urna non solo non avrebbe favorito l'avanzata dei lavoratori ma ne avrebbe smorzato lo slancio rivoluzionario. Solamente quando il proletariato avesse perso l'illusione di progredire attraverso gli istituti rappresentativi borghesi e si fosse convinto dell'ineluttabilità della conquista violenta del potere, si sarebbe deciso a travolgere con tutte le sue forze gli ostacoli.

Anche i massimalisti di Serrati proclamavano «l'uso della violenza per là difesa contro le violenze borghesi, per la conquista dei poteri e per il consolidamento delle conquiste rivoluzionarie»; ma, diversamente dagli «astensionisti», giudicavano gli organismi dello stato borghese (parlamento, comuni ecc.) utili tribune «per la più intensa propaganda dei principi comunisti». Bordiga e Serrati si differenziavano ancora su due punti: il nome del partito, che Bordiga voleva mutato in Partito comunista italiano; e l'unità del partito, che Serrati difendeva in contrapposto a Bordiga, favorevole all'espulsione di chi proclamava «la possibilità della emancipazione del proletariato nell'ambito del regime democratico» ripudiando «il metodo della lotta armata contro la borghesia per la instaurazione della dittatura proletaria». Infine, a destra, si contestava il criterio dell'astensione elettorale, che, a giudizio di Lazzari, lungi dal demolire l'istituto parlamentare, avrebbe diminuito per la borghesia la difficoltà di dirigerlo; e poi anche si contestava il principio della violenza come unica via per la conquista del potere. A Torino, nel dibattito precongressuale, il gruppo de «L'Ordine nuovo» s'era schierato con Serrati, prevalendo; il segretario della sezione, Giovanni Boero, e Giovanni Parodi avevano appoggiato la mozione «astensionista»: a favore di questa Boero intervenne al congresso di Bologna. La votazione congressuale diede la maggioranza agli «elezionisti» di Serrati (48.411  voti); la mozione «massimalista unitaria» di Lazzari ne totalizzò 14.880; solo 3417 voti andarono alla mozione «astensionista». Il movimento torinese dei Consigli non aveva avuto a Bologna molti echi, a parte gli ironici riferimenti di Turati al «significato taumaturgico della parola Soviet» ed al «voto atomistico dei disorganizzati e degli stessi krumiri». In realtà, neanche Serrati e Bordiga condividevano le proposte de «L'Ordine nuovo». Il dibattito, che era cominciato prima del congresso, s'intensificò. Per Bordiga, con i Consigli di fabbrica si ripeteva l'errore di credere «che il proletariato possa emanciparsi guadagnando terreno nei rapporti economici, mentre ancora il capitalismo detiene, con lo Stato, il potere politico»; e l'altro errore di contrapporre un organo sostanzialmente corporativo all'unico strumento di liberazione del proletariato, il partito di classe, comunista. Dal suo canto Serrati definiva il voto concesso ai «disorganizzati» un'aberrazione;  giacché l'allargamento del voto ai «disorganizzati» era un credito di capacità rivoluzionaria dato pericolosamente alla «massa amorfa». Serrati addebitava a Gramsci ed ai suoi amici «una curiosa confusione tra i Soviety, organi politici e istrumenti del governo a rivoluzione trionfata, e i Comitati di fabbrica, organi tecnici della produzione e dell'ordinamento industriale». E concludeva: «La dittatura del proletariato è la dittatura cosciente del Partito socialista».

Nondimeno a Torino (dove il PSI, vincendo clamorosamente le elezioni, s'era aggiudicato undici dei diciotto seggi attribuiti al collegio: nessun «ordino vista» figurava candidato) la replica di Gramsci, che il processo rivoluzionario doveva compiersi nel luogo di produzione, nella fabbrica, essendo utopistico concepire l'instaurazione del potere proletario come una dittatura del sistema di sezioni del partito socialista, aveva consensi anche tra i sostenitori di tendenze che, in campo nazionale, ai Consigli si opponevano. Ad esempio, gli «astensionisti» Boero e Parodi erano con Gramsci.

Il movimento dei Consigli si allargò. In autunno, più di trentamila metallurgici, compresi quelli della Fiat-Lingotto, della Fiat-Diatto, della Savigliano, della Lancia ecc., avevano i loro Consigli di fabbrica. La prima azione coordinata dei Consigli si ebbe il 3 dicembre 1919, un paio di settimane dopo le elezioni politiche.

Dietro ordine della sezione socialista, che concentrava nelle sue mani tutto il meccanismo del movimento di massa - racconterà Gramsci - i Consigli di fabbrica mobilizzarono senza alcuna preparazione, nel corso di un'ora, centoventimila operai, inquadrati secondo le aziende. Un'ora dopo si precipitò l'armata proletaria come una valanga fino al centro della città e spazzò dalle strade e dalle piazze tutto il canagliume nazionalista e militarista4.

Non era ormai movimento che gli industriali potessero seguire con l'iniziale indifferenza. L'occasione della controffensiva venne agli ultimi di marzo del '20.

Era stata introdotta in tutt'Italia l'ora legale. I commissari di reparto delle Industrie meccaniche, una dipendenza della Fiat, chiesero che l'orario di lavoro continuasse a correre secondo l'ora solare; e insistettero perché anche le lancette del grande orologio di fabbrica segnassero la vecchia ora. Per tutta risposta, la commissione interna fu licenziata in blocco. Seguì uno sciopero di protesta al quale subito, per solidarietà, tutti i metallurgici torinesi si associarono occupando le fabbriche. La reazione degli industriali non doveva farsi attendere. Decisa il 29 marzo la serrata, entrarono in fabbrica le truppe. E fu appunto nel corso delle trattative per la composizione di questa vertenza che gli industriali posero il problema dei Consigli di fabbrica. Non li riconoscevano; avrebbero ceduto su richieste marginali purché il movimento dei Consigli finisse. Il conflitto si inasprì. Ma la direzione del PSI e la Confederazione generale del lavoro non diedero alla lotta, ora che essa nasceva dalla rivendicazione del diritto a tenere in vita le istituzioni nuove del potere proletario, il deciso sostegno che i «torinesi» s'aspettavano.

Era un partito in crisi, devitalizzato, anziché agguerrito, dalla sua recente crescita, troppo brusca: 300 mila iscritti contro i 50 mila dell'anteguerra; 2 milioni di aderenti alla Confederazione generale del lavoro contro il mezzo milione del '14; addirittura triplicato il gruppo parlamentare, da 50 a 150 deputati. Un'espansione che suscitava euforia e insieme problemi nuovi di inquadramento;  con queste due conseguenze: una diffusa fede rivoluzionaria basata sulla presunzione che la marcia del proletariato sarebbe continuata  sino a sboccare fatalmente nella vittoria finale più che sulla consapevolezza e la predisposizione dei mezzi indispensabili per questa vittoria; e l'assunzione di «cariche direttive assolutamente inadeguate alle loro capacità» da parte di «demagoghi impreparati dottrinariamente e privi di esperienza» (così Nenni). Gli uomini di maggiore spicco intellettuale stavano nei gruppi minoritari di destra, tra i riformisti, e di sinistra («L'Ordine nuovo»): due gruppi entrambi conseguenti: gli uni ormai arresi a quella che per essi era l'evidenza  della  prospettiva  rivoluzionaria  che s'allontanava5; gli altri fermi nella persuasione che il momento fosse obiettivamente rivoluzionario e perciò impegnati a elaborare i mezzi per il fine e decisi ad esigere dalla totalità del partito l'adozione di questi mezzi. L'equivoco era al centro, dove la maggioranza, distinguendosi dai riformisti, spingeva al parossismo la vocalizzazione rivoluzionaria, senza però porsi il problema, in ciò distinguendosi dall'ala comunista, del modo d'attuazione del disegno rivoluzionario. Il PSI pareva afflitto da una sorta di «monomania delirante e inoffensiva» (Tasca). S'era creata in esso una «psicologia parassitaria, quella dell’erede al capezzale di un morente [la borghesia] del quale non vale nemmeno la pena di scorciare l'agonia». Ed ecco l’inevitabile conseguenza, ancora in una immagine di Tasca: «Attendendo l'eredità, ormai assicurata, la vita politica italiana si trasforma in un banchetto permanente in cui il capitale della rivoluzione prossima si dissipa in orgie di parole».

Neanche adesso che a Torino il fronte imprenditoriale ed i metallurgici erano impegnati in una prova di forza forse decisiva, la direzione del PSI mostrava di voler uscire dalla sua linea ondulatoria, ricettiva dell'ipotesi rivoluzionaria ma, dopo l'orgia di parole, sterile di fatti. Gramsci preparò e fece approvare dalla sezione 9 punti per il Consiglio nazionale del PSI, pubblicati poi col titolo Per un rinnovamento del Partito socialista. Non vale qui discutere se, nella premessa, il documento rispecchiasse la reale situazione italiana, dichiarata rivoluzionaria, o non fosse invece viziato da una astrattezza, per la quale la carica rivoluzionaria dei lavoratori italiani era assimilata alla capacità d'iniziativa del proletarito torinese: «Gli operai industriali e agricoli sono incoercibilmente determinati, su tutto il territorio nazionale, a porre in modo esplicito e violento la quistione della proprietà sui mezzi di produzione»6. Anche il centro «massimalista» condivideva questa diagnosi, sbagliata che fosse. Solo esitava a trarne le conseguenze:

Il Partito socialista assiste da spettatore allo svolgersi degli eventi, non ha mai una opinione sua da esprimere, che sia in dipendenza delle tesi rivoluzionarie del marxismo e della Intennazionale comunista, non lancia parole d'ordine che possano essere raccolte dalle masse, dare un indirizzo generale, unificare e concentrare l'azione rivoluzionaria. Il Partito socialista, come organizzazione politica della parte d'avanguardia della classe operaia, dovrebbe sviluppare un'azione d'insieme atta a porre tutta la classe operaia in grado di vincere la rivoluzione e di vincere in modo duraturo.

Invece, «anche dopo il congresso di Bologna, è rimasto un mero partito parlamentare, che si mantiene immobile entro i limiti angusti della democrazia borghese... Esso non ha acqui stato una sua figura autonoma di partito caratteristico del proletariato rivoluzionario e solo del proletariato rivoluzionario». Coi riformisti è passivo7; è slegato dalle linee dell'Internazionale comunista: l'«Avanti!» e la Libreria Editrice del partito ignorano le polemiche sulla dottrina e sulla tattica dell'Internazionale, ed il partito rimane tagliato fuori «da questo rigoglioso dibattito ideale in cui si temprano le coscienze rivoluzionarie e si costruisce l'unità spirituale e d'azione dei proletari di tutti i paesi».

Dall'analisi precedente - proseguiva il documento gramsciano - risulta già quale sia l'opera di rinnovamento e di organizzazione che noi riteniamo indispensabile venga attuata nella compagine del Partito. Il Partito deve acquistare una sua figura precisa e distinta: da partito parlamentare piccolo-borghese deve diventare il partito del proletariato rivoluzionario... un partito omogeneo, coeso, con una sua propria dottrina, una sua tattica, una disciplina rigida e implacabile. I non comunisti rivoluzionari devono essere eliminati dal Partito e la direzione, liberata dalla preoccupazione di conservare l'unità e l'equilibrio tra le diverse tendenze e tra i diversi leaders, deve rivolgere tutta la sua energia per organizzare le forze operaie sul piede di guerra... Il Partito deve lanciare un manifesto nel quale la conquista rivoluzionaria del potere politico sia posta in modo esplicito, nel quale il proletariato industriale e agricolo sia invitato a prepararsi e ad armarsi e nel quale siano accennati gli elementi delle soluzioni comuniste per i problemi attuali: controllo proletario sulla produzione e sulla distribuzione, disarmo dei corpi armati mercenari, controllo dei municipi   esercitato dalle organizzazioni operaie.

Pernio del documento era il punto 3, profetico dell'ondata reazionaria fascista:

La fase attuale della lotta di classe in Italia è la fase che precede: o la conquista del potere politico da parte del proletariato rivoluzionario... o una tremenda reazione da parte della classe proprietaria e della casta governativa. Nessuna violenza sarà trascurata per soggiogare il proletariato industriale e agricolo a un lavoro servile: si cercherà di spezzare inesorabilmente gli organismi di lotta politica della classe operaia (Partito socialista) e di incorporare gli organismi di resistenza economica (i sindacati e le cooperative) negli ingranaggi dello Stato borghese.

Al momento della stesura di questi nove punti, erano disertate a Torino soltanto le officine metallurgiche. Gli industriali resistevano: il potere dello stato era con loro.

Oggi Torino - annotava Gramsci il 3 aprile 1920 sull'«Avanti!» torinese - è una piazzaforte presidiata: si parla di cinquantamila soldati, sulla collina sono in appostamento le batterie, nelle campagne attendono i rinforzi, nella città le blindate; le mitraglie sono appostate sulle case private, nei sobborghi che hanno fama di essere più pronti alla rivolta, alle testate dei ponti, presso i quadrivi e le officine.

Lo stato temeva l'insurrezione; forse gli industriali miravano, com'era nella convinzione di Gramsci, a provocarla, pronti a reprimerla nel sangue ed a schiacciare una volta per sempre il movimento operaio torinese. Gramsci intuiva il proposito del fronte imprenditoriale di mettersi all'attacco. Gli sembrava tuttavia che non fossero maturate le condizioni per lo scontro frontale: «Nella nostra città si è in questi ultimi mesi concentrata, accumulata una somma di energie rivoluzionarie che a ogni costo tende a espandersi cercando una via d'uscita. E la sua via d'uscita non deve essere per ora una lacerazione locale, pericolosa, forse fatale». Più conveniente riteneva, al momento, «un aumento di intensità dell'opera di preparazione in tutto il paese, una diffusione di forze, un acceleramento generale del processo di sviluppo degli elementi che debbono concorrere tutti insieme a un'opera comune»8. Venne tuttavia proclamato il 13 aprile lo sciopero generale. Era una soluzione tempestiva, se il padronato non aspettava, come riteneva Gramsci, che l'occasione dell'urto frontale?

Il carattere saliente dello sciopero d'aprile, la sua novità rispetto ad altri scioperi, economici o di protesta contro la guerra, fu che stavolta il proletariato non era spinto dalla fame o dalla disoccupazione, non chiedeva miglioramenti salariali o una nuova regolamentazione del lavoro. La classe operaia torinese si impegnava adesso in una battaglia per il controllo della produzione attraverso i Consigli di fabbrica. Ma era una lotta difficile, non sostenuta dalle masse del resto d'Italia e quindi senza prospettive ragionevoli di sbocco rivoluzionario, per l'isolamento nel quale il proletariato torinese veniva a trovarsi. La città «era inondata da un esercito di poliziotti; intorno ad essa si piazzarono cannoni e mitragliatrici nei punti strategici»9. Dopo dieci giorni di resistenza, il ritorno al lavoro avvenne sulla base di un concordato che praticamente significava la sconfitta di Gramsci e degli «ordinovisti».

Anche si approfondiva, in quel momento, il contrasto fra il gruppo intorno a Gramsci e, sull'altro versante, le gerarchie sindacali e la direzione del PSI,  accusate di «cortezza  di mente». Ci fu una polemica tra l'«Avanti!» milanese, che rifletteva le posizioni della maggioranza del PSI, e l'«Avanti!» piemontese,  aperto all'influenza degli «ordinovisti», le cui tesi erano condivise dal redattore capo Ottavio Pastore. Serrati accusò i dirigenti socialisti torinesi d'aver raccolto la provocazione del fronte imprenditoriale in un momento sbagliato e  d'aver  cercato, all'ultim'ora, l'aiuto degli altri proletari d'Italia, «meno forti» e «meno preparati»: argomento che, se poteva prestarsi ad una ritorsione (per la responsabilità che di quella «minor forza» e «minor preparazione» avevano Serrati e la maggioranza del PSI), era tuttavia, nel fatto, incontestabile. L'«Avanti!» piemontese ribatté: «Il proletariato torinese è stato battuto localmente, ma ha vinto nazionalmente, perché la sua causa è diventata la causa di tutto il proletariato nazionale». Con parole diverse era ripetuta la frase conclusiva dell'ultimo bollettino diffuso dal comitato di sciopero: «Questa battaglia è finita, la guerra continua». Ma la crisi interna del PSI andava oltre l'inconciliabilità, sul terreno pratico, delle diverse tendenze, la riformista, la massimalista e la comunista. Anche fra i gruppi comunisti («Il Soviet» di Bordiga e «L'Ordine nuovo») mancava la coesione; ad all'interno dello stesso gruppo «ordinovista» per un verso cominciava a farsi evidente la rottura con Tasca e per l'altro si delineavano posizioni differenziate, sino al distacco di Gramsci da Terracini e Togliatti.

A parte la comune avversione ai riformisti, Gramsci dissentiva da Bordiga su quasi tutti i temi del momento: i Consigli di fabbrica, il problema del partito rivoluzionario, l'atteggiamento dei socialisti di fronte alle elezioni. Per Bordiga, ancorarsi allo schema dei Consigli significava preoccuparsi della creazione degli istituti del potere socialista più che della conquista del potere. Era sbagliato, scrisse «Il Soviet», «fare la questione del potere nella fabbrica anziché la questione del potere politico centrale». Sulla questione del partito rivoluzionario, fin dal primo febbraio del '20, «Il Soviet» aveva sostenuto: «A nostro avviso nulla vale una buona scissione. Prima di tutto, ognuno è al suo posto. Si sa esattamente se un tale è comunista oppure non lo è: non c'è più modo di sbagliarsi... Con una buona scissione la luce si fa. I comunisti sono qui, gli opportunisti di tutte le sfumature sono lì». Pareva invece a Gramsci che la scissione a sinistra non fosse la linea giusta e che i gruppi comunisti esistenti nel PSI dovessero tendere semmai ad espandersi dentro il partito sino a conquistarne il governo.

Infine l'atteggiamento astensionista della frazione bordi-ghiana, era causa di una netta divergenza con gli «ordinovisti». Secondo Bordiga, il rifiuto della democrazia borghese e dei suoi istituti doveva essere totale: non un socialista alle urne. L'8 maggio 1920, Gramsci andò a Firenze, invitato come osservatore ad una conferenza degli «astensionisti», i quali venivano organizzandosi su scala nazionale: inutilmente, durante quel convegno, propose l'abbandono della pregiudiziale astensionista. «Non può costituirsi un partito politico», disse, «sulla ristretta base dell'astensionismo. Occorre un largo contatto con le masse che può raggiungersi solo attraverso nuove forme di organizzazione» (ed il Consiglio di fabbrica era una nuova forma d'organizzazione). La proposta fu respinta Gramsci non tardò a esprimere con secchezza la sua opinione in proposito.

Abbiamo sempre ritenuto - scrisse il 3 luglio su «L'Ordine nuovo» - che dovere dei nuclei comunisti esistenti nel Partito sia quello di non cadere nelle allucinazioni particolaristiche (problema dell'astensionismo, problema della costituzione di un partito veramente comunista) ma di lavorare a creare le condizioni di massa in cui sia possibile risolvere tutti i problemi particolari come problemi dello sviluppo organico della rivoluzione comunista.

L'astensionismo e il disegno bordighiano di costituzione di un partito «veramente» comunista con una rottura a sinistra che staccasse dal PSI una minoranza di rivoluzionari «puri» erano dunque per Gramsci nient'altro che «allucinazioni particolaristiche».

Il dissidio Gramsci-Tasca nasceva sul terreno dei Consigli, per la tendenza di Tasca, tenacemente combattuta da Gramsci, a far rientrare il movimento nell'ambito sindacale, con la tutela della Confederazione generale del lavoro (a direzione riformista). Dirà Tasca molti anni dopo, ricordando il suo primo tirocinio a fianco di Bruno Buozzi e degli altri dirigenti della FIOM nello sciopero degli operai dell'auto nell'inverno 1911-12:

Qui si formarono la mia esperienza diretta delle lotte operaie e i miei legami coll'organizzazione sindacale a cui rimasero estranei, naturalmente, gli altri futuri redattori dell'«Ordine nuovo». Ciò creò tra di noi una disparità che, comunque la si giudichi, è all'origine del dissenso che ci divise e che determinò la quasi rottura del  1920.

La «quasi rottura» ebbe clamorosa evidenza attraverso la polemica sulle colonne de «L'Ordine nuovo» che, sempre vivace ed a momenti aspra, si protrasse dal giugno all'agosto. In quel momento, Gramsci tendeva a differenziarsi anche da Terracini e Togliatti. La commissione esecutiva della sezione socialista torinese (comprendente, dal febbraio, «ordinovisti» e «astensionisti») era stata messa in crisi dagli «astensionisti», i quali, volendo accelerare un processo scissionistico dal PSI e puntando inoltre a imporre la tesi della non partecipazione dei socialisti alle imminenti elezioni amministrative, indette per il 31 ottobre e il 7 novembre  1920, in luglio s'erano dimessi. Doveva eleggersi ora il nuovo direttivo: Gramsci non volle entrare in lista con Terracini e Togliatti. Come Terracini e Togliatti era favorevole, non varrebbe ripeterlo, alla partecipazione dei socialisti alle elezioni e seccamente respingeva la pregiudiziale bordighiana. Al tempo stesso però gli sembrava che elezionismo e astensionismo fossero in sé «programmi fittizi» e che la querelle elezionismo-astensionismo contribuisse solo ad approfondire i contrasti fra i gruppi comunisti del PSI, a tutto scapito del lavoro nel campo dell'azione di massa, il lavoro di educazione rivoluzionaria, il solo proficuo. Istituì un Gruppo di educazione comunista, intermedio fra le altre due frazioni. Si proponeva intanto di spingere ai margini del dibattito le opposte tattiche rispetto alle elezioni e invece di «imporre alle assemblee di partito, con infaticabile e paziente energia, la discussione dei problemi fondamentali della classe operaia e della rivoluzione comunista» e, ancora, di «imporre che la Sezione lavori utilmente a preparare i quadri della rivoluzione e della organizzazione sociale che dovrà esserne la espressione concreta e pertanto, attraverso la spinta delle masse, dia un indirizzo preciso ai sindacati ed alla Camera del lavoro». Pochi lo seguirono. Entrarono nel Gruppo di educazione comunista appena diciassette compagni (tra questi Battista Santhià, Vincenzo Bianco e Andrea Viglongo). L'isolamento di Gramsci risaltò nelle votazioni per l'elezione del nuovo direttivo. Gli «elezionisti» dai quali Gramsci s'era staccato (Togliatti, Montagnana, Terracini, Roveda ecc.) prevalsero con 466-465 voti. Ai candidati «astensionisti» (Boero, Parodi ecc.) andarono 186-185 voti. Le schede bianche, sollecitate da Gramsci, furono trentuno. Togliatti assunse (era l'agosto del '20) la segreteria di sezione.  

Note

1 Ricorderà Gramsci: «Nannaro ha fatto la guerra in condizioni eccezionali, da minatore, sotto terra, sentendo attraverso il diaframma che separava la sua galleria dalla galleria austriaca il lavoro del nemico per affrettare lo scoppio della mina propria e mandarlo per aria».

2 Scriverà l'anno dopo, nel marzo del 1920: «In Italia, a Roma, c'è il Vaticano, c'è il Papa: lo Stato liberale ha dovuto trovare un sistema di equilibrio con la potenza spirituale della Chiesa; lo Stato operaio  dovrà  anch'esso trovare un sistema di equilibrio».

3 «L'Ordine nuovo»,   11  ottobre  1919.  Il corsivo è  mio.

4 Il movimento torinese dei Consigli di fabbrica, rapporto inviato nel luglio 1920 al Comitato esecutivo dell'Internazionale comunista, poi pubblicato da «L'Ordine nuovo» quotidiano, il 14 marzo 1921.

5 Era stato appunto Claudio Treves, un esponente della destra, a rispecchiare la reale consistenza delle forze in campo, quando, nel marzo 1920, in un famoso discorso alla Camera, noto come il «discorso dell'espiazione», rivolgendosi a Nitti aveva detto: «Voi non potete più imporci il vostro ordine e noi non possiamo ancora imporvi il nostro».

6 Il corsivo è mio.

7 «Né la direzione del partito né l'"Avanti!" contrapposero una propria concezione rivoluzionaria alla propaganda incessante che i riformisti e gli opportunisti andavano svolgendo in Parlamento e negli organismi sindacali.»

8 «Avanti!» torinese, 3 aprile 1920. I corsivi sono miei.

9 Rapporto di Gramsci all'Internazionale, già citato.

CAPITOLO QUATTORDICESIMO

Si svolgeva a Mosca, dal 19 luglio, il II Congresso dell'Internazionale comunista. L'esercito rosso  aveva definitivamente sconfitto le armate controrivoluzionarie di Kolciak, De-nikin e Wrangel. C'era una prospettiva di espansione rivoluzionaria in altre parti del mondo. Ma vicende non liete per il movimento operaio d'Europa ammonivano sulle difficoltà dell'impresa. A Berlino militari e socialdemocratici alleati ad essi avevano battuto i rivoluzionari spartachisti, nel gennaio del '19, e ucciso i loro principali dirigenti, Rosa Luxemburg e Karl Liebknecht. Ancora un'alleanza tra militari e socialdemocratici aveva rovesciato, il 1° maggio 1919, la repubblica soviettista di Baviera. In Ungheria, al governo comunista di Bela Kun, sconfitto dalle truppe controrivoluzionarie rumene e cecoslovacche, era succeduto ai primi d'agosto del '19 il socialdemocratico Peidle, ma con un governo ponte: dal 12 agosto 1919, salito al potere l'ammiraglio Nicola Horthy, imperversava in Ungheria il terrore bianco. A fare un bilancio, una sola conclusione sembrava possibile: la rivoluzione aveva vinto soltanto dove il partito rivoluzionario (quello bolscevico in Russia) era andato avanti senza (e contro) i partiti moderati a indirizzo, riformista (menscevichi e socialisti rivoluzionari). Inevitabilmente la linea centrale del secondo congresso dell'Internazionale comunista fu la guerra alla socialdemocrazia. L'assemblea discusse le ventun condizioni per l'ammissione dei partiti socialisti alla Terza Internazionale. Pregiudiziale era, oltre al cambiamento del nome in Partito comunista, che i riformisti fossero subito espulsi.

Nessun «ordinovista» figurava nella delegazione del PSI. C'erano comunisti «elezionisti» e «astensionisti» tutti ostili (da Serrati a Bordiga) ai «torinesi» ed al movimento dei Consigli di fabbrica. Il congresso ebbe tuttavia uno svolgimento più favorevole al direttore de «L'Ordine nuovo» che ai direttori dell'«Avanti!» e del «Soviet».

Cosa sapevano di Gramsci, in quel momento, a Mosca? In proposito è illuminante (e quasi del tutto sconosciuta) la testimonianza di un funzionario dell'Internazionale, V. Degott, venuto in Italia verso la fine del '19. Possiamo leggerla in un libriccino stampato a Mosca nel '23 col titolo In libertà, nell'illegalità (ricordi di lavoro illegale all'estero nel 1918-21), e mai tradotto1. Degott vi raccontava:

Casualmente mi capitò tra le mani il periodico comunista «Ordine nuovo» diretto da Gramsci, edito a Torino settimanalmente. Ne fui molto interessato. La giusta posizione che percepivo chiaramente in ogni riga mi indusse a chiedere al compagno Viz... [Aron Wizner] di chiedere a Gramsci di venire a Roma. Venne subito. Era questo uno stupendo, interessante compagno. Piccolo, gobbo, una grande testa (quasi non fosse la sua), uno sguardo profondo, intelligente. Tranquillamente fa una analisi della situazione italiana. In ogni pensiero si percepisce il marxista profondo. Nella città di Torino... la base del suo giornale era larga ,e così l'influenza di Gramsci, sebbene Serrati e un compagno russo noto come Nicolini fossero appassionatamente di altro parere.

Tornato a Mosca per il II Congresso dell'Internazionale, Degott ebbe un incontro allo «Smolny» con Zinovjev: «Gli consegnai il rapporto del compagno Gramsci». Era il rapporto sul movimento dei Consigli di fabbrica. Poi Degott vide Lenin: «Riferii a lungo su Serrati. Parlai del lavoro colossale che compiono i nostri compagni torinesi diretti da Gramsci».

Sappiamo finalmente dunque, dalla pressoché inedita testimonianza di V. Degott, che Gramsci e gli «ordinovisti», sebbene esclusi dalla delegazione del PSI al II Congresso dell'Internazionale, non erano slegati dai vertici del movimento comunista. La loro posizione ebbe una eco immediata. Al 17° punto delle Tesi sui compiti fondamentali del secondo Congresso dell'Internazionale  comunista, redatte da Lenin, era detto esplicitamente:

Per quanto riguarda il Partito socialista italiano, il secondo Congresso della III Internazionale ritiene sostanzialmente giuste le critiche del partito e le proposte pratiche, pubblicate come proposte al Consiglio nazionale del Partito socialista italiano, a nome della sezione torinese del partito stesso, nella rivista «L'Ordine nuovo» dell'8 maggio 1920, le quali corrispondono pienamente a tutti  i  principi fondamentali della III Internazionale.

Si trattava del documento d'aprile, i 9 punti pubblicati col titolo Per un rinnovamento del Partito socialista, a cui si è già accennato. Altri consensi alle posizioni gramsciane vennero da Lenin nel corso dell'assise.

Serrati respingeva la direttiva dell'immediata espulsione dei riformisti. In altri paesi - non negava - i riformisti s'erano alleati durante la guerra alle borghesie nazionali e avevano poi tradito la rivoluzione. Ma trasporre meccanicamente alla situazione italiana un giudizio simile, valido per la socialdemocrazia tedesca e francese ma non per i riformisti del PSI, era uno sbaglio. I riformisti indesiderabili, i Bissolati, i Bonomi, i Podrecca, il PSI li aveva espulsi già nel '12, al congresso di Reggio Emilia. Mettere al livello di questi i Turati, i Modigliani, i Treves, che durante la guerra s'erano mostrati rispettosi della disciplina di partito e avevano salutato come un fausto evento la rivoluzione russa, chiedendo in seguito, solidali con i gruppi comunisti, l'adesione del PSI  alla Terza Internazionale,  sarebbe  stato ingiusto.  Una  graduale  epurazione del partito poteva essere consigliabile, la scissione no2. Il leader massimalista anche pensava, non senza fondamento, ai rischi di una rottura del fronte socialista proprio mentre in Italia la borghesia reazionaria veniva organizzandosi per il contrattacco.

Io credo - disse al congresso, parlando nella seduta del 30 luglio - che occorre tener conto delle condizioni particolari di ciascun paese... Io vi chiedo, compagni: se per esempio oggi noi tornassimo in Italia e la reazione infuriasse contro di noi, se trovassimo l'imperialismo schierato contro di noi, potreste voi, compagni del Comitato esecutivo, consigliarci di attuare una scissione in una situazione di questo genere? No, egregi compagni, lasciate al Partito socialista italiano la possibilità di scegliere da sé il momento dell'epurazione. Noi tutti vi assicuriamo che l'epurazione sarà fatta, ma dateci la possibilità di farla in un modo che sia utile alla massa operaia, al partito, alla rivoluzione che noi prepariam in Italia.

Lenin, fermo al suo giudizio generale sulla socialdemocrazia e poco disposto a distinguere tra i riformisti italiani e quelli d'altri paesi, resistè sulla discriminante: nella stessa seduta del 30 luglio 1920 replicò a Serrati:

Noi dobbiamo dire semplicemente ai compagni italiani che all'indirizzo dell'Internazionale comunista corrisponde l'indirizzo dei militanti dell'«Ordine nuovo» e non l'indirizzo della maggioranza attuale dei dirigenti del Partito socialista e del loro gruppo parlamentare... Perciò dobbiamo dire ai compagni italiani e a tutti i partiti che hanno un'ala destra: la tendenza riformista non ha nulla di comune con il comunismo.

Tre giorni dopo, il 2 agosto, fu Bordiga il bersaglio della requisitoria leniniana. Già ne L'estremismo Lenin aveva accusato il leader del gruppo napoletano ed i compagni «astensionisti» di trarre dalla loro «giusta critica dei signori Turati e consorti la falsa conclusione che, in genere, ogni partecipazione al parlamento sia dannosa»: «I sinistri italiani non possono addurre neppure l'ombra di un argomento serio in favore di questa opinione. Essi ignorano semplicemente (o cercano di dimenticare) gli esempi internazionali di una utilizzazione dei parlamenti borghesi effettivamente rivoluzionaria e comunista, incontestabilmente utile alla rivoluzione proletaria». In sede di congresso ribadì e ampliò la critica:

Il compagno Bordiga, a quanto pare, ha voluto difendere qui il punto di vista dei marxisti italiani; ma ciononpertanto non ha risposto a neppur uno degli argomenti addotti da altri marxisti in favore dell'azione parlamentare... Voi, compagno Bordiga, sapete che in Russia abbiamo dimostrato, non soltanto in teoria, ma anche in pratica, la nostra volontà di distruggere il parlamento borghese. Ma voi avete dimenticato che ciò è impossibile senza una preparazione abbastanza lunga e che, nella maggioranza dei paesi, è ancora impossibile distruggere il parlamento di un sol colpo. Noi siamo costretti a condurre anche nel parlamento la lotta per la distruzione del parlamento... Si dice che il parlamento è uno strumento del quale si serve la borghesia per ingannare le masse. Ma questo argomento deve essere volto contro di voi, compagno Bordiga; esso si ritorce contro le vostre tesi. Come mostrerete alle masse effettivamente arretrate e ingannate dalla borghesia il vero carattere del parlamento? Come denuncerete tale o tal'altra manovra parlamentare, la posizione di tale o tal'altro partito, se non entrate nel parlamento, se siete fuori del parlamento?... Per ora il parlamento è anch'esso un'arena della lotta di classe.

Il II Congresso dell'Internazionale comunista si chiuse il 7 agosto 1920. Gramsci ne ebbe nuovo slancio, anche se la sua personale condizione era in quel momento, per altre circostanze, obiettivamente difficile: sconosciutoo quasi fuori Torino e, nella stessa Torino, in rotta con Tasca, slegato dagli «astensionisti», autonomorispettoallamaggioranza della sezione (Togliatti, Terracini ecc.) e combattuto dalle gerarchie sindacali. Aveva fatto venire da Cagliari (per avere una mano d'aiuto in faccende - tenuta di conti e rompicapi simili - in cui facilmente si smarriva) il fratello Gennaro, incaricato d'amministrare «L'Ordine nuovo». Con Gennaro vicino, ritrovò anche qualcosa che da molto gli mancava, un affetto sicuro e per molti lati una guida. Gli chiedeva consiglio; a lui confidava ciò che nemmeno i più assidui compagni di lavoro e di lotta sapevano. Dirà anni dopo, in una lettera dal carcere: «Non avrei creduto possibile di rivedere mio fratello a Turi. Sono stato molto contento, anche perché con Gennaro sono stato molto più amico che col resto della famiglia». Si sentiva ora, dopo la venuta del fratello maggiore a Torino, meno isolato.

Non si deve tuttavia credere che le vicende interne al gruppo de «L'Ordine nuovo» durante l'estate ne  avessero affievolito, anche per un solo momento, il fervore. Con indomabile tenacia aveva continuato la sua battaglia sul tema dei Consigli e per l'espansione dei gruppi comunisti dentro il PSI Ne «L'Ordine nuovo» del 21 agosto diede notizia della solidarietà col movimento torinese espressa da Lenin e brevemente la commentò:

La relazione che la sezione socialista di Torino aveva preparato per il Consiglio nazionale dell'aprile non fu presa in nessuna considerazione dagli organismi centrali e responsabili del Partito. Letta a Mosca dai compagni del comitato esecutivo della III Internazionale, essa venne invece assunta come base del giudizio sui Partito socialista italiano e additata come oggetto di utile discussione per un congresso straordinario. La relazione era stata scritta nei primi giorni dello sciopero dei metallurgici torinesi, quando ancora lo sciopero generale non si prospettava ad alcuno nem meno come una possibilità... Gli avvenimenti allora si svolsero secondo la volontà dei capitalisti e la classe operaia fu sconfitta; a nulla valsero gli sforzi compiuti dalla sezione torinese per ottenere che il Partito si ponesse a capo del movimento, la sezione fu accusata di indisciplina, di leggerezza, di anarchismo.. Cose passate... E tuttavia, per il ricordo delle giornate di passione vissute nell'aprile scorso, fa piacere a noi, come farà indubbiamente piacere a tutti i compagni della sezione e alla massa operaia, essere informati che il giudizio del comitato esecutivo della III Internazionale è molto diverso da quello, che pareva inappellabile, dei maggiori esponenti italiani del Partito; essere informati che proprio il giudizio dei «quattro scalmanati» torinesi ha avuto il suffragio dell'autorità più alta del movimento operaio internazionale.

Si era alla vigilia dell'ultimo sussulto rivoluzionario in Italia, l'occupazione delle fabbriche.

Dal 20 agosto durava in tutte le fabbriche del paese l'ostruzionismo per il rifiuto degli industriali di discutere gli aumenti di salario chiesti dalla FIOM. Cioè le maestranze, volendo prevenire la serrata, entravano in fabbrica, ma astenendosi dal lavoro. Il fine della FIOM non era rivoluzionario: con questa azione i dirigenti della Federazione metallurgica si proponevano semplicemente di provocare l'arbitrato del governo (nel giugno Giolitti era tornato al potere: il suo programma appariva riformatore, non erano mancati gli ammonimenti e le minacce del fronte imprenditoriale). Ma, specialmente a Torino, da dimostrativa, l'azione si fece rivoluzionaria. Alla proclamazione della serrata nella notte tra il 31 agosto ed il primo settembre, seguì l'indomani mattina l'occupazione permanente delle fabbriche. Tutti i poteri furono assunti dai Consigli. Al tavolo di Agnelli, nella Fiat-Centro, sedeva un operaio socialista, Giovanni Parodi. Si decise di porre termine all'ostruzionismo e di riprendere il lavoro, disciplinato dai Consigli di fabbrica. Nelle officine della Fiat-Centro, la produzione si manteneva sulle 37 automobili al giorno, contro le 67-68 dei tempi normali, e ciò malgrado la diserzione di quasi tutti i tecnici e di molti impiegati. Da parecchie parti, e non solo d'Italia, si guardava adesso a Torino.

Le gerarchie sociali - scrisse l'«Avanti!» piemontese del 5 settembre 1920 - sono spezzate, i valori storici sono invertiti: le classi esecutive, le classi strumentali sono divenute classi dirigenti... hanno trovato in se stesse gli uomini rappresentativi.... gli uomini che si assumono tutte le funzioni che di un aggregato elementare e meccanico fanno una compagine organica, fanno una creatura vivente.

L'esperimento incuriosiva; suscitava, se non consensi espliciti, almeno rispettosa attenzione anche su sponde lontane da quella socialista. In una lettera ad Ada Prospero, che poi sarebbe diventata sua moglie, Gobetti fu spinto a scrivere il 7 settembre:

Qui siamo in piena rivoluzione. Io seguo con simpatia gli sforzi degli operai che realmente costruiscono un ordine nuovo. Non sento in me la forza di seguirli nell'opera loro, almeno per ora. Ma mi par di vedere che a poco a poco si chiarisca e si imposti la più grande battaglia del secolo. Allora il mio posto sarebbe dalla parte che ha più religiosità e spirito di sacrificio... Siamo davanti a un fatto eroico. Certo può darsi che venga soffocato nel sangue; ma sarebbe l'inizio della decadenza...

In quei giorni, Gramsci e gli altri «ordinovisti» (il giornale aveva sospeso le pubblicazioni, come già nello sciopero d'aprile) li si vedeva frequentemente in fabbrica, a fianco degli operai; per orientarli, per discutere insieme ad essi gli infiniti problemi che la vita della fabbrica in esercizio pur con la diserzione di molti tecnici proponeva, per vedere di risolvere le questioni pratiche attraverso la collaborazione di tutti L'avvenimento nuovo aveva sopito i dissensi. Nell'ora della battaglia, erano tutti nuovamente fianco a fianco: l'ondata rivoluzionaria allineava sullo stesso fronte Tasca e il gruppo gramsciano di educazione comunista, i bordighiani (Parodi, Boero) e i dirigenti della sezione (Togliatti, Montagnana, Terracini ecc.). Ma in qualche fabbrica l'estremismo di forti nuclei di operai agiva in direzioni che non potevano non preoccupare Gramsci. C'era la tendenza a rompere subito col PSI, a staccarsene per costituire un nuovo partito, il Partito comunista. In proposito, dopo l'articolo del 3 luglio, nel quale l'idea di costituire un partito «veramente» comunista era definita un'«allucinazione particolaristica», Gramsci non aveva mutato opinione. Continuava a pensare che il lavoro da farsi fosse di propaganda comunista alla base, per la conquista del PSI dal l'interno. Come ebbe notizia di iniziative scissionistiche in qualche fabbrica occupata, andò a trovare un compagno del suo gruppo, Battista Santhià, operaio alla SPA. Era la sera dell' 11 settembre. La sentinella di guardia in portineria non riconobbe il direttore de «L'Ordine nuovo» e corse a dire ai commissari di reparto riuniti nella sede della commissione interna che alla porta s'era presentato, e chiedeva di entrare, «un compagno piccolo di statura e dai capelli molto lunghi». Gramsci venne subito ammesso nello stabilimento, fece un lungo giro in officina, si intrattenne con gli operai al lavoro, quindi trovò il modo di appartarsi con Santhià. È lo stesso Santhià a riferire il dialogo.

Gramsci: Sei al corrente dell'iniziativa che vuol prendere la Fiat-Centro di rompere col Partito socialista per costituire il Partito comunista?

Santhià: Ne so molto poco. Sono tuttavia d'accordo di abbandonare il partito socialista solo dopo un'adeguata prepara zione. A Torino dobbiamo uscire come maggioranza, non come un piccolo numero di dissidenti.

La risposta - commenta Santhià - non sorprese Gramsci. Più d'una volta, dopo lo sciopero d'aprile, avevamo discusso il problema; il comportamento del Partito socialista aveva tolto ogni speranza e illusione sulla possibilità di far accettare alla Direzione le direttive della III Internazionale. Anche Gramsci ne era convinto, ma sapeva che il problema consisteva nella conquista degli operai  iscritti al Partito socialista.

Per questo egli non poteva ora condividere il disegno scissionistico del Consiglio di fabbrica della Fiat-Centro, dominato dai bordighiani.

L'orientamento di molti compagni del gruppo comunista di quella fabbrica - prosegue Santhià - era preoccupante. Avvelenati dal massimalismo più deteriore, si lasciavano influenzare più da formule esteriori che dalla sostanza ideologica. Il compagno Parodi era fuori discussione. Ma in quei giorni non era facile superare l'esasperazione che aumentava nella misura in cui si rafforzava il convincimento del declino del movimento rivoluzionario nelle fabbriche.

Gramsci, «con molto tatto e delicatezza», suggerì a Santhià di prendere contatto con Parodi.

La missione non ebbe frutti. È sempre Santhià a raccontare: «Il 20 settembre ciò che bolliva in pentola fin dai giorni 13 e 14 esplose alla Fiat-Centro. I compagni della frazione comunista astensionista decisero di scindere le loro responsabilità da quelle dei dirigenti sindacali riformisti e del Partito socialista sostenendo la necessità dell'immediata uscita dal Partito socialista per dar vita al nuovo Partito comunista». Subito, l'indomani 21 settembre, i bordighiani torinesi proposero al comitato centrale della frazione «astensionista» (sarà «Il Soviet» di Amadeo Bordiga a riferirlo pochi giorni dopo) di «iniziare il lavoro per la creazione del  Partito  comunista, sezione italiana dell'Internazionale comunista, e convocare immediatamente un congresso nazionale per la sua costituzione». Bordiga, più cauto, fu dell'avviso che si dovesse dar battaglia dell'ormai vicino congresso nazionale del PSI, e il comitato centrale della frazione «astensionista» respinse la proposta degli scissionisti torinesi. Anche il direttivo della sezione socialista  torinese (controllato da Togliatti, Montagnana, Terracini ecc.) prese posizione contro i bordighiani della Fiat-Centro. Il 22 settembre apparve sull'«Avanti!» piemontese un esplicito documento di condanna. «Non si tratta», vi si diceva, «di giocare a chi va più avanti e a chi arriva prima, si tratta di far sì che il Partito comunista si presenti al suo inizio come il solo grande organismo nel quale il proletariato possa avere fiducia e che possa raccogliere tutte le forze rivoluzionarie».

L'occupazione delle fabbriche volgeva intanto al fallimento. Fuori Torino, l'adesione delle masse all'attacco rivoluzionario non era stata di uguale intensità, e le organizzazioni sindacali si preoccupavano soltanto di trovare una onorevole via d'uscita, secondate in ciò dalla vocazione mediatrice di Giolitti. Non si poteva ormai fare diversamente, data la passività di larghi strati del proletariato italiano.

Avevamo degli stabilimenti - racconta Ludovico D'Aragona - dove gli operai davano una vera dimostrazione di coscienza e di maturità; altri stabilimenti dove gli operai sapevano far funzionare la propria azienda così come quando c'era il capitalista a dirigerla e a governarla; ma avevamo altri stabilimenti dove, per una infinità di ragioni che non dipendevano soltanto dalla maturità della massa, ma dalla mancanza di materie prime, dalla mancanza dei dirigenti, dei tecnici eccetera, si rendeva impossibile il funzionamento di quegli stabilimenti; e ne avevamo degli altri disertati dagli operai e dovevamo trasferire gli operai da uno stabilimento all'altro per avere un piccolo nucleo il quale desse l'impressione che là dentro c'erano ancora operai a dirigere e a governare.

Poco a poco l'ondata rivoluzionaria rifluì. Gli operai, sostanzialmente battuti, dovettero abbandonare le fabbriche. Tornarono al lavoro ai primi d'ottobre sulla base di un compromesso dettato da Giolitti che, se scontentava per qualche verso il fronte imprenditoriale, anche significava la sconfitta e la fine del movimento dei Consigli di fabbrica.

Dirà Gramsci anni dopo, in una lettera a Zino Zini del 10 gennaio 1924: «Allora [nel 1919-20], dopo la rivoluzione, con un partito com'era il socialista, con una classe operaia che in generale vedeva tutto roseo e amava le canzoni e le fanfare più dei sacrifizi, avremmo avuto dei tentativi controrivoluzionari che ci avrebbero spazzato via irrimediabilmente».

Si avvicinavano intanto le elezioni amministrative del 31 ottobre e 7 novembre. Nell'assemblea dei socialisti torinesi furono proposte le candidature anche di Togliatti, segretario della sezione, e di Gramsci. «Contro Gramsci», riferisce Tasca, «si levò nell'assemblea un rigurgito di proteste». Gli era rivolta l'accusa d'aver scritto nell'ottobre del '14 un articolo (Neutralità attiva ed operante) giudicato d'intonazione interventista. «Non va dimenticato», prosegue Tasca, «che in quegli anni il Partito socialista aveva deciso di non ammettere candidature di coloro che in qualsiasi modo avessero preso posizione per la guerra... Altri fattori però concorsero». Non se ne dubita, quando si pensi alla diversa accoglienza della candidatura di Togliatti, che pure s'era arruolato volontario; ed ecco gli altri fattori:

Nel periodo del 1916-18 ed anche in quello successivo dell’ Ordine nuovo» Gramsci aveva fustigato molti equivoci, messo a nudo alcune più o meno illustri vanità. Molti rancori bollivano contro di lui nella pentola torinese... A ciò va aggiunto che Gramsci non aveva nulla del tribuno e quindi era conosciuto e apprezzato soltanto in una cerchia ristretta di intellettuali e di operai.

Ora l'attacco veniva da destra. Ma è inevitabile sospettare che le divergenze dell'estate, sopite durante l'occupazione delle fabbriche, non si fossero del tutto composte, se il gruppo intorno a Togliatti e Terracini, che pure controllava la sezione con larga maggioranza, non respinse, come la posizione di prevalenza gli permetteva, l'attacco alla candidatura di Gramsci: il quale infatti rimase escluso dalla lista.

Non doveva essere per Gramsci, in quel periodo, il solo motivo d'amarezza. Il 5 novembre 1920 giunse da Ghilarza un telegramma. Vi si annunziava che Emma, la sorella impiegata al Tirso nei lavori per la costruzione della diga, era grave. Antonio si imbarcò subito per la Sardegna: aveva indovinato oltre le parole del telegramma. Stando in luoghi malarici, Emma s'era ammalata di perniciosa. L'avevano già seppellita, quando Antonio arrivò in paese3. Una volta a Ghilarza, Antonio vi si trattenne un po' di giorni. Ma era irrequieto; spesso la signora Peppina lo sorprendeva assorto in chissà quali pesieri. Vederlo tutt'ossa e con la faccia scolorita e piena di stanchezza, una faccia di ragazzo sfinito, l'aveva spaventata. Antonio aveva allora 29 anni.

Tornò a Torino mentre il dibattito in vista del congresso nazionale socialista divampava. I nuclei di sinistra (gli ex astensionisti: diciamo «ex» giacché l'adesione ai 21 punti della III Internazionale comportava l'abbandono della pregiudiziale astensionista; il gruppo gramsciano di «educazione comunista»; gli «elezionisti», termine che, superato il dibattito sulla partecipazione alle elezioni, si svuotava anch'esso di significato; ed altri socialisti di sinistra) avevano trovato l'elemento di sutura nella fedeltà alle tesi dell'Internazionale, anche al di là delle differenziazioni di fondo. C'era stato nella prima quindicina d'ottobre a Milano un convegno, con il lancio del Manifesto-programma della frazione comunista. Lo firmavano, in rappresentanza di tutti i gruppi, Bombacci, Bordiga, Fortichiari, Gramsci, Misiano, Polano, Repossi e Terracini. La base della frazione era così costituita. Ebbe sanzione ufficiale il 28-29 novembre 1920 a Imola, e dal nome della città la frazione prese nome. Bordiga e il suo gruppo, il solo organizzato su scala nazionale, vi prevalevano. Dirà Gramsci nel '23, in una lettera a Togliatti: «Per la repulsione che abbiamo sentito nel 1919-20 a creare una frazione, siamo restati isolati, semplici individui o quasi, mentre nell'altro gruppo, quello astensionista, la tradizione di frazione e di lavoro in comune ha lasciato tracce profonde che ancora oggi hanno riflessi ideali e pratici molto considerevoli nella vita del partito». Già da Imola, e prima di Imola, si opponevano due concezioni agli antipodi: il partito come setta di pochi intransigenti che poi le masse avrebbero seguito nell'azione rivoluzionaria (Bordiga) e il partito delle masse, «non un partito che si serva delle masse per tentare imitazioni eroiche dei giacobini francesi». Conseguentemente due erano le opposte posizioni rispetto al PSI: staccarsene (Bordiga), tentare di rinnovarlo dall'interno (Gramsci). Anche dopo il lancio del Manifesto-programma della frazione comunista, Gramsci aveva accusato la reazione di voler colpire Torino «come sede di un preciso pensiero politico che minaccia di conquistare la maggioranza del Partito socialista italiano, che minaccia di trasformare il partito, da organo di conservazione dell'agonia capitalistica, in organismo di lotta e di ricostruzione rivoluzionaria»4. E la settimana dopo, il 24 ottobre, nella nota intitolata La frazione comunista: «I comunisti intendono organizzarsi diffusamente e intendono conquistare il governo del Partito socialista e della Confederazione generale del lavoro»5.

Ma era più vicino a Bordiga che a Gramsci, in quel momento, lo stesso Lenin. Serrati aveva scritto su «L'Humanité» del 14 ottobre: «Siamo tutti per le 21 condizioni di Mosca. Si tratta della loro applicazione. Affermo che bisogna epurare il partito dagli elementi nocivi ed io ho proposto di espellere Turati, ma non dobbiamo perdere la massa degli iscritti ai sindacati ed alle cooperative. Gli altri vogliono una scissione radicale. Ecco in che cosa consiste il dissenso». La replica di Lenin apparve in Falsi discorsi sulla libertà, scritto il 4 novembre-11 dicembre 1920. Al fondo, Lenin obiettava:

Serrati teme che la scissione indebolisca il Partito, in particolar modo i sindacati, le cooperative ed i comuni. I comunisti invece temono il sabotaggio della rivoluzione da parte dei riformisti. Avendo nelle proprie file dei riformisti, non si può vincere nella rivoluzione proletaria, non si può difenderla. Quindi Serrati mette a repentaglio la sorte della rivoluzione per non danneggiare L’amministrazione comunale di Milano.

Fin qui la tesi leniniana era pienamente condivisa da Gramsci. Ma Lenin andava oltre:

Oggi in Italia si avvicinano battaglie decisive del proletariato contro la borghesia per la conquista del potere statale. In un momento simile non solo è assolutamente indispensabile allontanare dal partito i riformisti, i turatiani, ma può esser utile persino allontanare da tutti i posti di responsabilità anche degli eccellenti comunisti che sono suscettibili di tentennare e manifestano delle esitazioni nel senso della «unità» con i riformisti. Vi darò un esempio lampante... Alla vigilia della Rivoluzione d'ottobre, alcuni bolscevichi e comunisti in vista come Zinovjev, Kamenev, Rykov, Noghin, Miliutin manifestarono delle esitazioni preoccupandosi del pericolo che i bolscevichi si isolassero troppo, rischiassero troppo scatenando l'insurrezione, fossero troppo intransigenti verso una certa parte dei «menscevichi» e dei «socialisti-rivoluzionari». Il conflitto arrivò a tal punto che quei compagni abbandonarono con ostentazione tutte le cariche di responsabilità e il lavoro nel partito e nelle organizzazioni sovietiche. Ma dopo alcune settimane, o al più dopo alcuni mesi, tutti questi compagni si convinsero del loro errore e tornarono ai posti di maggiore responsabilità nel partito e nei soviet... Ed ecco appunto che l'Italia si trova oggi in un momento simile... In un momento simile, in simili condizioni, il partito non si indebolirà, ma si rafforzerà cento volte di più se i riformisti si allontaneranno completamente dalle sue file e se dalla sua direzione si allontaneranno anche eccellenti comunisti, come sono probabilmente ì membri dell'attuale direzione del partito, Baratone, Zannerìni, Bacci, Giacomini, Serrati6.

Era di fatto una sanzione dell'indirizzo bordighiano per la rottura a sinistra. È del tutto inattendibile l'ipotesi che la spinta ancor più a sinistra impressa ora da Lenin contribuisse a favorire la volontaria subordinazione di Gramsci a Bordiga? Solo dopo i Falsi discorsi sulla libertà la scissione fu accettata da Gramsci come soluzione inevitabile. Per la prima volta il 18 dicembre, a meno d'un mese dal congresso di Livorno, scrisse parole di consenso alla rottura a sinistra:

Sarebbe ridicolo piagnucolare sull'avvenuto e sull'irrimediabile. I comunisti sono e devono essere dei freddi e pacati ragionatori: se tutto (nel PSI) è in isfacelo, bisogna rifar tutto, bisogna rifare il Partito, bisogna già da oggi considerare e amare la Frazione comunista come un Partito vero e proprio, come la solida impalcatura del Partito Comunista Italiano.                     

L'ondata rivoluzionaria era però in riflusso, e s'innalzava la reazione. Il PSI aveva ripetuto nelle elezioni amministrative del 31 ottobre-7 novembre 1920 i buoni risultati del '19, conquistando la maggioranza in 2162 comuni su 8 mila (Milano e Bologna tra questi) e in 26 province su 69. Il 21 novembre, mentre Gnudi, il sindaco socialista di Bologna, si affacciava al balcone di Palazzo d'Accursio per rispondere alle acclamazioni della folla, una squadra di fascisti irruppe sparando all'impazzata sulla gente. Bombe a mano furono lanciate in mezzo alla folla da una finestra di Palazzo d'Accursio. Avvenne una strage: dieci i morti e cinquantotto i feriti. Un mese dopo a Ferrara, in uguali circostanze, i fascisti diedero l'assalto al Palazzo Estense: tre di essi caddero, uccisi dalle guardie rosse, e le spedizioni punitive dei fascisti si moltiplicarono.

Serrati, il quale ormai pensava più alla difesa che all'attacco, aveva dunque almeno questi buoni motivi, per desiderare, in quel momento, l'unità dei socialisti italiani. Rispose a Lenin il 16 dicembre 1920:

Noi non siamo dei difensori dei riformisti. Difendiamo il partito, il proletariato, la rivoluzione da una insana smania di distruzione e di demolizione. Difendiamo l'unità del movimento socialista italiano perché esso possa affrontare le difficoltà ed i sacrifici del domani per l'opera di ricostruzione. La borghesia italiana ha già cominciato la sua azione reazionaria... È iniziato oggi il periodo del  contrattacco borghese in risposta all'attacco sferrato dalle classi lavoratrici dal giorno dell'armistizio fino ad  oggi. Il capitalismo italiano - forte  del potere dello Stato, forte della sua polizia e della sua magistratura, forte dell'esercito che è ancora in piena efficienza - non è disposto a cedere le armi e va organizzandosi strettamente, serrando le proprie fila. Le ultime elezioni amministrative ed i recenti episodi di  qualche città italiana hanno provato a sufficienza come la classe dominante intenda opporre il proprio blocco strettissimo al risoluto procedere della classe lavoratrice.

E se questa era la situazione nuova in Italia, di contrattacco borghese al quale bisognava resistere coesi, e non polverizzati in più partiti socialisti, naturale sembrava a Serrati riferirsi a uno scritto di Zinovjev7 per concludere: «Noi, che non siamo centristi, chiediamo soltanto alla Terza Internazionale che essa applichi a noi, come li applica ad altri, i suoi stessi criteri; ci lasci cioè giudici della situazione che si matura e dei provvedimenti da prendersi in essa; per la difesa del movimento socialista italiano».

Un mese dopo, il 15 gennaio 1921, s'apriva a Livorno il diciassettesimo congresso nazionale del PSI. L'esito non fu quello che Lenin s'aspettava, di consenso della maggioranza del proletariato italiano alle posizioni dei comunisti «puri».

Fummo sconfitti - scriverà Gramsci nel '24 - perché la maggioranza del proletariato organizzato politicamente ci diede torto, non venne con noi, quantunque avessimo dalla nostra parte l'autorità e il prestigio dell'Internazionale, che erano grandissimi e sui quali ci eravamo fidati. Non avevamo saputo condurre una campagna sistematica, tale da essere in grado di raggiungere e di costringere alla riflessione tutti i nuclei e gli elementi costitutivi del Partito socialista, non avevamo saputo tradurre in linguaggio comprensibile a ogni operaio e contadino italiano il significato di ognuno degli avvenimenti italiani degli anni 1919-20.

Il modo come la frazione comunista era arrivata alla battaglia aveva il segno di Bordiga. Nel congresso di Livorno, Gramsci nemmeno parlò. Il governo del PSI rimase a Serrati (98 mila voti, contro i 58 mila dei comunisti «puri» ed i 14 mila dei riformisti). L'indomani, 21 gennaio 1921 (Gramsci avrebbe compiuto i trent'anni il giorno dopo), la minoranza dei comunisti «puri» (comunisti «unitari» si definivano i seguaci di Serrati) costituiva nel Teatro San Marco di Livorno il nuovo Partito comunista d'Italia.

Ne era dominatore assoluto Amadeo Bordiga, che infine, sorretto dall'Internazionale, aveva realizzato la sua «allucinazione particolaristica» (così Gramsci a luglio) d'un partito «veramente» comunista. Gramsci, convertito a simile realtà troppo di recente, doveva accontentarsi di un ruolo subalterno Rischiò di rimanere fuori dal primo comitato centrale del nuovo partito. La sua inclusione fu aspramente combattuta. Neanche i nuovi compagni, o alcuni d'essi, rifuggivano dai poveri espedienti polemici cui in passato erano ricorsi gli avversari interni del PSI. «Qualche delegato», riferisce Togliatti, «avrebbe voluto opporsi alla inclusione di Gramsci, riferendosi alla stolida accusa, messa in giro da riformisti e massimalisti durante le aspre polemiche precongressuali, ch'egli fosse stato interventista e persino ardito al fronte». Entrarono nel comitato centrale otto comunisti del gruppo de «Il Soviet» (Bordiga, Grieco, Fortichiari, Repossi, Parodi. Polano, Sessa e Tarsia), cinque massimalisti di sinistra (Belloni, Bombacci, Gennari, Marabini e Misiano) e due soli «ordinovisti» (Terracini e Gramsci). Il direttore de «L'Ordine nuovo» fu escluso dall'Esecutivo. Lo formavano Bordiga e tre dei suoi (Fortichiari, Grieco, Repossi) e Terracini.

Nato come setta, ancora a lungo il Partito comunista d'Italia doveva conservarne i caratteri. Scriverà Gramsci:

La reazione si è proposta di ricacciare il proletariato nelle condizioni in cui si trovava nel periodo iniziale del capitalismo: disperso, isolato, individui, non classe che sente di essere una unità e aspira al potere. La scissione di Livorno (il distacco della maggioranza del proletariato italiano dalla Internazionale comunista) è stata senza dubbio il più grande trionfo della reazione.

Note

1 Debbo a Renzo De Felice la consultazione delle parti riguardanti il lavoro illegale in Italia.

2 Nel 1926, ricordando su «l'Unità» Serrati, morto da poco, Gramsci cosi scriverà: «Il tratto essenziale della personalità di Serrati come uomo di partito era dato dal sentimento dell'unità, dallo sforzo incessante di conservare questa unità che rappresentava decine e decine di anni di sacrifici e di lotta, che significava persecuzioni insieme sopportate, anni di galera insieme scontati».

3 Ora il nome di Emma Gramsci è inciso in una targa che ricorda tutti i caduti nell'esecuzione dell'opera: la targa la si vede subito, all'imbocco della diga.

4 «L'Ordine  nuovo», 17 ottobre 1920. Il corsivo è mio.

5 Il corsivo è mio.

6 L'ultimo corsivo è mio.

7 «L'Internazionale comunista non ha naturalmente l'intenzione di foggiare tutti i partiti sulla medesima forma... L'Internazionale comunista riconosce sicuramente che vi è uno sviluppo di questioni locali che bisogna risolvere secondo le esigenze dei diversi partiti.»

CAPITOLO QUINDICESIMO

Qualche tempo dopo la scissione di Livorno, ci furono nella vita di Gramsci momenti che a taluni parvero di relativa «inerzia» (così Gobetti). Ma è un giudizio fondato?

Dal 1° gennaio 1921, «L'Ordine nuovo» aveva ripreso la pubblicazione come quotidiano, e Gramsci ne era il direttore. Guadagnava adesso 1100 lire al mese, uno stipendio per quei tempi ragguardevole; non aveva però lasciato la sua modesta cameretta di studente presso la famiglia Berrà, in piazza Carlina. Veniva tutti i giorni a prenderlo, poco dopo la sveglia, le 2-3 del pomeriggio, un uomo gigantesco, Giacomo Bernolfo, ex sergente di artiglieria da montagna, che lo scortava sino alla trattoria, per proteggerlo da possibili violenze fasciste (talvolta si accompagnava a Gramsci, come guardia del corpo, anche un ghilarzese disoccupato, Titino Sanna). Faceva colazione in via Po o in una latteria di via Santa Teresa, quasi allo sbocco in piazza Solferino, oppure, più spesso, in casa di Pia Carena. Poi subito al lavoro in redazione, sempre in via dell'Arcivescovado. Una breve tregua alla sera per il pranzo; e di nuovo al giornale, sino all'alba, quando cominciavano ad aprirsi i primi caffè in via Roma, in via Po.

Erano tempi difficili, bisognava resistere all'intimidazione ed alle violenze, si viveva in un clima come di fortezza assediata, e Gramsci era sempre in prima linea, a infondere coraggio, a rincuorare, a correggere gli errori tattici: i compagni lo ricordano guida sicura, esempio di tenace resistenza all'ondata di barbarie.

Le condizioni generali politiche erano mutate, rispetto agli anni dell'immediato dopoguerra, e di conseguenza erano mutate le condizioni del lavoro giornalistico, non solo per il salto dal settimanale al quotidiano. Affiancati a «L'Ordine nuovo», v'erano  due  altri  quotidiani  comunisti: «Il Lavoratore» a Trieste, diretto da Ottavio Pastore, ed «Il Comunista» a Roma, diretto da Togliatti. Così, dispersa l'organica redazione torinese, il risultato ultimo era stato, dice Gobetti, «di tre giornali illeggibili»: giudizio certamente viziato da eccessiva rigidità, almeno per quel che riguarda «L'Ordine nuovo», ma non del tutto infondato. Pur con qualche residuo di vivacità che continuava a distinguerlo dalla comune stampa di partito, «L'Ordine nuovo» quotidiano non aveva più la freschezza del settimanale. Era adesso un foglio ufficialmente di partito, subordinato alla linea del partito, che era quella di Bordiga, e questa mancanza di autonomia in qualche misura gli nuoceva. Sempre più raramente vi si coglievano, o non si coglievano con uguale evidenza, i segni della libertà d'elaborazione teorica, della fantasia e dello slancio creativo di una volta. Nel nuovo partito, Gramsci accettava, per una serie di ragioni non tutte facilmente individuabili, il ruolo subalterno datogli da Bordiga. Il dissidio esploderà  apertamente solo in seguito, e nel febbraio del  '24 Togliatti scriverà a Gramsci: «Non ti nascondo la mia opinione che tu, molte delle cose che dici ora, avresti dovuto dirle, e non in conversazioni private e di cui si aveva sentore indiretto, ma davanti al partito, molto tempo prima. Nella Centrale costituita a Livorno tu rappresentavi il gruppo che seguiva una concezione diversa da quella di Bordiga».

Ma allora, nel 1921, Gramsci pensava evidentemente d'avere buoni motivi a giustificazione di questa sua rinuncia a combattere in campo aperto le concezioni settarie di Bordiga; non ultimo, si deve supporre, il grande prestigio del quale il leader del Partito comunista d'Italia godeva tra i militanti ed anche negli ambienti dell'Internazionale, dopo il suo rifiuto (solo formale, però) dell'estremismo. Durante il III Congresso dell'Internazionale comunista, riferendosi all'epilogo congressuale di Livorno, Lenin aveva detto il 28 giugno 1921 a Lazzari, delegato del PSI:

Voi disponevate  di  98  mila voti,  ma   avete preferito  restare con 14 mila riformisti piuttosto che andare con 58 mila comunisti. Anche se questi non fossero stati dei veri comunisti, anche se fossero stati soltanto dei sostenitori di Bordiga, e così non è, perché Bordiga, dopo il secondo congresso dell'Internazionale, ha dichiarato con perfetta lealtà di rinunciare ad ogni anarchismo e antiparlamentarismo, voi avreste dovuto andare con loro1.

Bordiga era dunque assolto da Lenin, e differenziarsene in Italia poteva essere inopportuno, un rischio per la compattezza del fronte rivoluzionario. Sconsigliavano inoltre l'apertura di un chiaro dibattito interno le condizioni create nel paese dall'ondata reazionaria fascista: quando, per non soccombere, occorreva difendersi uniti. Dirà Gramsci in uno scritto del '24:

Siamo entrati, dopo la scissione di Livorno, in uno stato di necessità. Solo questa giustificazione possiamo dare ai nostri atteggiamenti, alla nostra attività dopo la scissione di Livorno... Dovemmo organizzarci in Partito nel fuoco della guerra civile... dovemmo trasformare, nell'atto stesso della loro costituzione, del loro arruolamento, i nostri gruppi in distaccamenti per la guerriglia, della più atroce e difficile guerriglia che mai classe operaia abbia dovuto combattere.

Poteva Gramsci, in quel clima, tenere viva la polemica contro il settarismo di Bordiga? E se anche ne avesse avuto la volontà, qual era la sua forza reale? Le masse comuniste lo avrebbero seguito? Un test assai recente induceva a dubitare di ciò. Candidato nelle elezioni politiche del 15 maggio 1921, le prime dopo la costituzione del Partito comunista, Gramsci era stato battuto. I comunisti torinesi gli avevano preferito Misiano e Rabezzana. Poi è da supporre che, negli ambienti dell'Internazionale, non lo si considerasse ancora in grado di stare alla testa del partito. Può essere indicativo il giudizio di Degott, che pure abbiamo visto quanto lo stimasse:

Gramsci, molto più profondo degli altri compagni, analizza giustamente la situazione. Comprende con acutezza la rivoluzione russa. Ma, esteriormente, non può influire sulle masse. Per prima cosa, non è un oratore; in seconda linea è giovane, di piccola statura e gobbo, il che ha un significato per gli uditori.

Lo stato di prostrazione fisica e nervosa era giunto in questo periodo a punte estreme. Aveva anche motivi d'amarezza per vicende private di suoi familiari. Gennaro rifiutava di sposare la mamma della sua bambina. Mario s'era lasciato assorbire nei quadri della reazione. Era diventato il primo segretario federale fascista di Varese. Gramsci andò a trovarlo. Dopo il matrimonio con Anna Maffei Parravicini, Mario aveva lasciato l'esercito, per mettersi in una impresa commerciale. Antonio l'interrogò a lungo sui motivi della sua adesione al fascismo; con calma gli disse: «Ti sembra giusto? Pensaci. Sei un buon ragazzo in gamba e so che rifletterai». Scriverà sei anni dopo alla mamma: «Quando io sono stato a visitarlo, qualche anno fa, in casa sua, credo di essermi fatta un'opinione esatta su tutto l'ambiente di cui egli era una specie di eroe. Ma sono cose che è meglio non scrivere e d'altronde Mario è mio fratello e gli voglio bene nonostante tutto. Spero che adesso si occupi più delle sue faccende e che metta la testa a partito».

Erano dunque diverse (gravi o passeggere, e variamente influenti) le preoccupazioni di Gramsci in quel periodo. Sembra tuttavia arbitrario il riferimento di Gobetti a «cervello e attività inariditi».

L'uomo di cultura, ancora con originalità e concretezza, continuava l'analisi delle forze operanti nella società italiana, sino a scoprire la sostanza vera del fascismo, la vocazione reazionaria di chi lo sosteneva, la pecoraggine delle forze di complemento piccolo-borghesi che lo secondavano e la sua pericolosità, allora non valutata appieno dagli altri comunisti. Erano molti, nel 1921-22, i don Ferrante che si ostinavano a negare la «peste» e il «contagio» e ne morivano. Il partito aveva questa concezione ufficiale: che fosse impossibile l'avvento di una dittatura fascista o militare. Gramsci ne dissentiva, ma limitandosi a esprimere il dissenso esclusivamente in conversazioni private. Il suo limite fu l'acquiescenza, perlomeno formale, a tesi non condivise, la mancata critica (aperta) del bordighismo e dei suoi atteggiamenti «sguaiati e triviali». Poi l'uomo d'azione si prodigava nel giornale. Con i redattori era esigente, non tollerava la mancanza d'attenzione, la superficialità, il commento o il pezzo di cronaca tirati via con leggerezza. Si incolleriva, faceva rifare. Un redattore, Alfonso Leonetti, ricorda le sfuriate di Gramsci, certe sere, davanti alle bozze di pagina. «Questo non è un giornale», gridava, «è un sacco di patate! Domani Agnelli può chiamare gli operai e dire: "Vedete, non sanno fare un giornale e pretendono di dirigere lo Stato". Dobbiamo evitare che Agnelli dica questo, ma non lo eviteremo licenziando giornali che sembrano sacchi di patate!».

Nella sostanza politica, l'allineamento sulle posizioni di Bordiga (solo formale e solo nel senso, molto limitato, che quelle posizioni non erano apertamente contraddette) non gli impediva di esprimere, se non tutto il suo mondo ideale, almeno alcune esigenze di fondo. L'«apertura» ai lavoratori non comunisti, anche cattolici, ed agli intellettuali d'opposizione era tra queste. Aveva affidato la critica teatrale de «L'Ordine nuovo» quotidiano ad un liberale, Piero Gobetti. Andò in primavera a Gardone, in compagnia di un legionario fiumano, Mario Giordano, per parlare con D'Annunzio (poi l'incontro non ci fu). Seguiva sempre con attenzione le iniziative dei cattolici di sinistra organizzati nel Partito popolare (l'ala di Guido Miglioli). L'anticlericalismo radicato in larghe frange del proletariato piemontese era da lui combattuto.

Ricordo un convegno diocesano al quale partecipavano duecentomila fedeli - mi dice Andrea Viglongo - Gramsci volle che ce ne occupassimo. «È un fatto di cronaca, vi partecipa il popolo e non lo possiamo trascurare», disse. Gasi io scrissi una breve cronaca che l'«Ordine nuovo» pubblicò con un titolo su due colonne. Mi capitò un'altra volta di scrivere un articolo aspramente polemico con gli anticlericali. C'erano frasi come queste: «La pornografia anticlericale, sviluppatasi per una curiosa coincidenza nello stesso periodo d'oro della predicazione evangelica prampoliniana, è nata dall'assenza di una qualunque coscienza morale nel socialismo razionalista di vent'anni fa... "L'Asino" è un pochino per noi giovani il simbolo del socialismo di vent'anni fa, massonico, parlamentarista, piccolo borghese». Gramsci lesse il pezzo e l'approvò, pubblicandolo nella prima pagina del 27 agosto 1921, in corsivo. Qualche circolo operaio, come quello di Borgo San Paolo, reagì con vive proteste. Gramsci rimase calmo. Mi disse: «Il corsivo andava bene».

Veniva intanto delineandosi una frattura tra l'Internazionale e la direzione bordighiana del Partito comunista d'Italia. Prima della scissione di Livorno, Lenin aveva detto: «Per condurre vittoriosamente la rivoluzione e per difenderla, il partito italiano deve ancora fare un certo passo  a sinistra (senza legarsi le mani e senza dimenticare che, in seguito, le circostanze potranno benissimo  esigere  qualche passo a destra)»2. Il «certo passo a sinistra» c'era stato: con il distacco a Livorno dei gruppi comunisti dal PSI. Ora le circostanze esigevano «qualche passo a destra»: l'alleanza con i socialisti nel «fronte unico» per resistere all'offensiva reazionaria. Era questa l'indicazione venuta dal III Congresso dell'Internazionale (giugno-luglio 1921). Si riconosceva ormai a Mosca che dopo il contrattacco della reazione, e specialmente in Italia, il movimento operaio era in ritirata; per cui l'obiettivo immediato della classe operaia non poteva più essere, in siffatte condizioni, la conquista del potere e la dittatura del proletariato, ma, prima, la difesa delle libertà democratiche, da realizzarsi lottando insieme  ai  socialisti. In Italia, dove la scissione di Livorno aveva acuito i contrasti, la resistenza di Bordiga e del suo gruppo al nuovo corso fu tenace. E Lenin la rilevò, biasimandola. Scrisse il 14 agosto 1921 che alcuni partiti  comunisti, l'italiano tra questi, «avevano esagerato un tantino la lotta contro il centrismo, avevano oltrepassato un tantino il limite oltre il quale questa lotta si trasforma in uno sport». In realtà, nella lotta al PSI, Bordiga e il suo gruppo avevano esagerato più che «un tantino». Ora, sostituito dall'Internazionale al vecchio obiettivo della conquista immediata del potere l'altro, intermedio, della difesa delle libertà democratiche, sembrava ad essi che, a pochi mesi dalla rottura di Livorno, l'alleanza con i socialisti equivalesse ad una ammissione d'intempestività di quella rottura. Dirà Gramsci:

Lenin aveva dato la formula lapidaria del significato delle scissioni, in Italia, quando aveva detto al compagno Serrati: «Separatevi da Turati e poi fate l'alleanza con lui». Questa formula avrebbe dovuto essere da noi adattata alla scissione avvenuta in forma diversa da quella prevista da Lenin. Dovevamo cioè, come era indispensabile e storicamente necessario, separarci non solo dal riformismo, ma anche dal massimalismo che in realtà rappresentava e rappresenta l'opportunismo tipico italiano nel movimento operaio; ma dopo di ciò e pur continuando la lotta ideologica e organizzativa contro di essi, cercare di fare un'alleanza contro la reazione. Per gli elementi dirigenti del nostro Partito, ogni azione dell'Internazionale rivolta ad ottenere un riavvicinamento a questa linea apparve come se fosse una sconfessione implicita della scissione di Livorno, come una manifestazione di pentimento.

Sono parole scritte nel '26. Non così esplicita era la divergenza di Gramsci da Bordiga in tema di fronte unico nei mesi che precedettero il II Congresso nazionale comunista del marzo 1922 a Roma.

La spinta di Bordiga alla chiusura settaria piuttosto che alle vaste azioni politiche e di massa per l'arresto e la sconfitta del fascismo era condivisa dalla maggioranza dei dirigenti, non esclusi Togliatti e Terracini. È lo stesso Togliatti ad ammetterlo.

Ciò che più sorprende e deve essere registrato con attenzione - egli scrive - è che finirono per capitolare davanti a una concezione settaria del partito anche quei compagni, come Terracini e Togliatti, che accanto a Gramsci e sotto la sua direzione non solo avevano seguito un opposto indirizzo di lavoro, ma avevano dato un contributo alla elaborazione di ben diverse concezioni e ad esse si erano ispirati nel corso di azioni di notevole rilievo.

Tasca e gli altri della minoranza di destra c'erano schierati contro Bordiga. Della maggioranza, solo Gramsci «non taceva le sue critiche. Queste rimasero però a lungo», prosegue Togliatti, «nell'ambito delle conversazioni personali, non dettero luogo a dibattiti nel Comitato centrale, furono espresse in una assemblea della sezione comunista torinese solo alla vigilia del II congresso del partito». Le tesi preparate da Bordiga per il congresso di Roma respingevano la tattica del fronte unico; erano cioè contrarie alla linea dell'Internazionale. Nessuno, a parte la minoranza di destra, sollevò obiezioni. Dice Gramsci:

A Roma abbiamo accettato le tesi di Amadeo [Bordiga] perché esse erano presentate come una opinione per il Quarto Congresso [dell'Internazionale] e non come un indirizzo di azione. Ritenevamo di mantenere così unito il partito attorno al suo nucleo fondamentale, pensavamo che si potesse fare ad Amadeo questa concessione, dato l'ufficio grandissimo che egli aveva avuto nell'organizzazione del partito: non ci pentiamo di ciò; politicamente sarebbe stato impossibile dirigere il partito senza l'attiva partecipazione al lavoro centrale di Amadeo e del suo gruppo... Allora ci ritiravamo e si doveva fare in modo che la ritirata avvenisse ordinatamente, senza nuove crisi e nuove minacce di scissione nel seno del nostro movimento, senza aggiungere mai nuovi fermenti disgregatori a quelli che la disfatta determinava di per sé nel movimento rivoluzionario.

C'era, in simile posizione, il tanto di riserve sulla consistenza delle tesi bordighiane che procurava a Gramsci il favore dell'Internazionale e il tanto di acquiescenza a Bordiga che valeva a non averlo nemico. Spuntò così la designazione di Gramsci a rappresentare il Partito comunista d'Italia nell'Esecutivo dell'Internazionale a Mosca (già, per incarico dell'Internazionale, era stato a Lugano ed a Berlino: nella capitale tedesca dal 22 gennaio al 24 febbraio 1922).

Partì verso la fine del maggio 1922. Lasciava Torino dopo quasi undici anni di residenza; anche lasciava la direzione de «L'Ordine nuovo»: il commiato dagli uffici di via dell'Arcivescovado avvenne in una clima di commozione intensa. Ma doveva essere, nella sua vita, una grande svolta: per l'arricchimento del politico vicino ai protagonisti della rivoluzione russa; e per l'incontro con Giulia Schucht, che lo avrebbe completato.

Note

1 Il corsivo è mio.

2 Il corsivo è mio.

CAPITOLO SEDICESIMO

Arrivò a Mosca fortemente depresso. Era malato. Scontava la tensione polemica degli ultimi tempi, amarezze e incomprensioni e, oltre a ciò, fatiche non sostenibili senza grave logorio da chi, come lui, all'infelicità del corpo aggiungeva la denutrizione e le scosse psicologiche patite da ragazzo. Presto le sue cattive condizioni di salute si fecero evidenti anche ai compagni di lavoro, e all'inizio dell'estate Grigorij Zinovjev, allora presidente dell'Internazionale, volle che si ricoverasse nel sanatorio di Serebriani Bor («Il bosco d'argento»), alla periferia di Mosca. Aveva tic, scatti «quasi feroci», tremiti convulsi. «Alcune molto gentili persone che venivano ad assistermi e a farmi compagnia», racconterà, «mi dissero più tardi che avevano avuto paura, sapendomi sardo, che io talvolta volessi accoltellare qualcuno!». C'era, tra le «molto gentili persone», un'ammalata, Eugenia Schucht, di qualche anno più grande di lui, che parlava perfettamente l'italiano; una grave forma di esaurimento psicofisico le impediva di camminare. Diventati amici anche per la possibilità di comunicazione immediata, grazie alla conoscenza dell'italiano e dell'Italia che lei aveva, in breve Antonio seppe molto di Eugenia e del suo lungo soggiorno, con i familiari, in Italia, a Roma.

Era nata in Siberia, durante la deportazione del padre, Apollo Schucht, un antizarista d'origine scandinava. Veniva dopo altre due sorelle, Nadina e Tatiana. Verso il 1890, la famiglia s'era trasferita in Francia, a Montpellier, e poi a Ginevra. Nascono nell'emigrazione Anna e, nel 1896, Giulia; sesto, Vittorio, l'unico maschio. Ai primi del secolo, la famiglia raggiunge Roma. Ricco signore versato negli studi di letteratura francese e con buona cultura musicale, Apollo Schucht, di famiglia d'ufficiali, ha un patrimonio che gli consente di vivere tranquillamente. Tutte le ragazze studiano: Nadina, prese due lauree, torna in Russia, a Tiflis, per sposarsi; Tatiana segue all'Università di Roma i corsi di scienze naturali; Eugenia frequenta l'Istituto di Belle Arti di via Ripetta; Anna e Giulia, entrambe con vocazione alla musica, sono allieve, nel corso di violino, del Liceo musicale annesso all'Accademia di Santa Cecilia. Trascorrono a Roma gli anni dell'adolescenza e della prima giovinezza, abitando in via Monserrato e poi in via Buonconsiglio, vicino al Colosseo, e poi  ancora in via Adda. Apollo non ha impegni di lavoro, tolto un periodo d'insegnamento del russo agli ufficiali del ministero della Guerra. Nell'autunno del '13, la famiglia comincia a disperdersi. Le prime a lasciare l'Italia sono Eugenia ed Anna. Vanno a Varsavia: Eugenia insegna in una scuola israelita. Anna sposa il 13 maggio del '15 Teodoro Zabel: Pochi mesi dopo, anche Giulia, diplomata in violino, lascia l'Italia, seguita a breve distanza dalla mamma. Apollo e Vittorio vanno in Svizzera. Il 29 settembre 1915 Apollo scrive a Leonilde Perilli, un'amica romana delle figlie: «Ho ricevuto una lettera da Mosca: Genia ha un piccolo lavoro. Giulia non ne ha ancora. Anna andrà a vivere con la madre del marito, il quale è in un accampamento presso Mosca». Ai primi del '16,  Eugenia, Anna, Giulia e la loro mamma sono a Ivanovo Vosniesiensk, una cittadina tessile a un centinaio di chilometri da Mosca. Poi nel dicembre del '16 tutta la famiglia si ricompone a Mosca, meno Nadina, della quale non si sono più avute notizie, e Tatiana, rimasta in Italia. Sta per essere rovesciato il regime zarista. GB Schucht sono a Mosca anche per la rivoluzione d'ottobre. Nuovamente si separano dopo la rivoluzione: Eugenia e Vittorio a Mosca; Giulia col papà e la mamma e la nuova famiglia di Anna, Teodoro Zabel e il loro bambino, a Ivanovo.

Quando Eugenia conobbe Gramsci, i suoi stavano sempre a Ivanovo. Venivano a visitarla nel sanatorio del «Bosco d'argento» con assiduità. Gramsci vide per la prima volta Giulia verso metà luglio del '22. Fin lì Eugenia gli aveva mostrato una simpatia molto viva. Fu però Giulia a colpirlo. Era alta e chiara, il bel viso ovale con grandi occhi tristi. Lunghe trecce le scendevano sulle spalle. Aveva ventisei anni, cinque meno del giovane italiano. Da sette anni in Russia, sentiva nostalgia per l'Italia. Sempre aveva sentito il peso del distacco dall'Italia. Dopo la partenza, a diciannove anni (andava in Russia, che ancora non conosceva), scrivendo il 21 giugno 1915 da Tzarikov a Nilde Perilli, le diceva: «Sono in Bulgaria. Mi sono avvicinata alla Russia, ma mi sono allontanata dall'Italia, da Roma...». E nel settembre dello stesso anno, da Mosca: «Fa già freddo qui. Mi viene la malinconia pensando che a Roma... a Roma oggi è il 15 settembre». Ora insegnava nel Liceo musicale di Ivanovo.

Gramsci ne era intimidito. Aveva trentun anni e mai prima d'allora gli era capitato di aprirsi completamente a una ragazza. Si dominava per paura di delusioni; l'opprimeva la coscienza del suo stato fisico. «Sono da molti, da molti anni abituato a pensare che esista una impossibilità assoluta, quasi fatale, a che io possa essere amato.» La vista di Giulia lo turbava. Le scrisse dopo uno dei primi incontri: «È venuta a Mosca il 5 agosto, come mi aveva preannunziato? L'ho attesa tre giorni. Non mi sono mosso dalla stanza, per timore che potesse avvenire come l'altra volta... Non è stata a Mosca, vero? Sarebbe certamente venuta da me un momentino almeno... Verrà presto? Potrò ancora vederla?... Mi scriva. Tutte le sue parole mi fanno un gran bene e mi fanno essere più forte». Stavano a lungo insieme, durante le visite di lei ad Eugenia. Questo giovane italiano di gracili membra ma con tanta dolcezza negli occhi azzurri e così ricco di forza interiore l'avvinceva. I primi incontri in sanatorio e il fiorire dell'idillio torneranno in seguito nella memoria di Gramsci con luce di nostalgia:

Riandavo col pensiero a tutti i ricordi della nostra vita comune, dal primo giorno che ti ho visto a Sieriebriani Bor e che non osavo entrare nella stanza perché mi avevi intimidito (davvero, mi avevi intimidito e oggi sorrido ricordando questa impressione) al giorno che sei partita a piedi e io ti ho accompagnato fino alla grande strada attraverso la foresta e sono rimasto tanto tempo fermo per vederti allontanare tutta sola, col tuo carico da viandante, per la grande strada, verso il mondo grande e terribile.

Era, nel giovane che una volta confessava di aver vissuto tutto per il cervello e niente per il cuore, il raggiungimento di un equilibrio nuovo. Tutta la vita di Gramsci era stata fin lì un continuo ripiegamento in sé, una prigionia dentro sentimenti contraddittori, per un verso l'istinto alla socievolezza e per l'altro la volontà d'esser forte anche senza un sostegno d'affetti.

Quante volte - scriverà a Giulia - mi sono domandato se legarsi a una massa era possibile quando non si era mai voluto bene a nessuno, neppure ai propri parenti, se era possibile amare una collettività se non si era amato profondamente delle singole creature umane. Non avrebbe ciò avuto un riflesso sulla mia vita di militante, non avrebbe ciò isterilito e ridotto a un puro fatto intellettuale, a un puro calcolo matematico la mia qualità di rivoluzionario? Ho pensato molto a tutto ciò e ci ho ripensato in questi giorni, perché ho molto pensato a te, che sei entrata nella mia vita e mi hai dato l'amore e mi hai dato ciò che mi era sempre mancato e mi faceva spesso cattivo e torbido.

Scopriva infine che «non ci si può spezzettare e far lavorare una sola attività; la vita è unitaria e ogni attività si rafforza nell'altra; l'amore rafforza tutta la vita... crea un equilibrio, una maggiore intensità nelle altre passioni e negli altri sentimenti». Doveva essere però, date le circostanze, una relazione fatta d'incontri saltuari e di lunghi penosi distacchi.

Dall'Italia salivano voci di catastrofe. C'era stata il 28 ottobre 1922 la marcia su Roma: l'indomani il re aveva affidato a Benito Mussolini l'incarico di formare il governo. Erano passati due anni e mezzo da quando, nell'aprile dei '20, Gramsci scriveva: «La fase attuale della lotta di classe in Italia è la fase che precede: o la conquista del potere politico da parte del proletariato rivoluzionario... o una tremenda reazione da parte della classe proprietaria e della casta governativa». Ora questa seconda profezia s'avverava. Le Camere del lavoro erano saccheggiate e incendiate, squadre fasciste prendevano d'assalto le redazioni dei giornali democratici, i dirigenti di sinistra erano perseguitati, messi in galera, bastonati, uccisi. Tutto ciò avveniva alla vigilia del IV Congresso dell'Internazionale, che si sarebbe aperto a Mosca il 5 novembre 1922. Ed ecco il problema: come i partiti operai e tutti i partiti democratici avrebbero dovuto reagire all'ondata di violenze? Divisi o, diversamente dal passato, schierati dietro una comune trincea? Zinovjev e Bukharin e in genere i più influenti bolscevichi dell'Internazionale raccomandavano il fronte unico dei partiti proletari; vedevano addirittura indispensabile la fusione dei comunisti con i socialisti, specie dopo che dal PSI era stata espulsa, nel congresso dell'ottobre '22, l'ala riformista. A simile orientamento Bordiga e lo stesso Terracini si opponevano con intransigenza.

Dirà Graziadei, a una riunione del Comitato Centrale del PCdT, rivolgendosi agli antifusionisti: «La scissione di Livorno avvenne, inevitabilmente, troppo a sinistra. Io, e con me altri compagni, giudicai la cosa un male; voi invece la giudicaste un bene e ne foste contenti. In questa diversità di giudizi vi è la base di una divergenza politica profonda». Ma se è vero che l'ostilità alla fusione con i socialisti era netta in chi a Livorno aveva giudicato un bene la rottura a sinistra, anziché a destra, un'altra occasione di giudizio, il giudizio sul fascismo, adesso distingueva i fautori della fusione e i suoi tenaci avversari. I più, settariamente chiusi dentro schemi rigidi, mettevano nello stesso mucchio fascisti e socialdemocratici, tutti nemici di classe, tutti ugualmente difensori dell'ordine borghese: Mussolini valeva Turati, e dunque dov'era il fatto nuovo se un partito borghese, quello fascista, aveva preso il posto di un altro partito borghese alla guida del governo? Per Amadeo Bordiga, era avvenuto in Italia, dopo la marcia su Roma, un semplice cambiamento di Ministero. E così la pensavano tutti gli ex-astensionisti; ma non solo quelli. Terracini giudicava la marcia su Roma e l'affidamento del potere a Mussolini «una crisi ministeriale un po' mossa». Dal suo canto Togliatti aveva scritto il 27 luglio 1922: «Il tiranno bieco contro il quale dovranno insorgere tutte le energie che ancora vivono nelle moltitudini avrà un solo aspetto e un triplice nome. Esso si chiamerà, insieme, Turati, don Sturzo e Mussolini». Sfuggiva ai dirigenti comunisti italiani la diversità del fascismo dai tradizionali partiti democratici; e poiché non ne avvertivano la pericolosità, neanche si ponevano il problema di una dittatura borghese che stesse per soppiantare la democrazia borghese. Così la direttiva nuova dell'Internazionale (il cambiamento dell'obiettivo immediato e il passaggio da una linea d'attacco a una linea difensiva: la lotta per la difesa delle libertà democratiche e non più, o non più per il momento, la rivoluzione proletaria) non era capita e tantomeno era capita la necessità delle alleanze o addirittura della fusione con forze che, a giudizio della maggioranza dei comunisti, non rappresentavano nulla di più che l'ala sinistra dello schieramento borghese. Gramsci fu uno dei non molti che seppero cogliere la sostanza nuova del fascismo, la gravità del pericolo che esso rappresentava e la giustezza della linea difensiva proposta dall'Internazionale.

Uscì dal sanatorio per i lavori del IV Congresso. Aveva superato la fase acuta del male ma non stava ancora bene: «Al IV Congresso io ero da pochi giorni rientrato dal sanatorio, dopo circa sei mesi di permanenza che mi avevano giovato poco, che avevano solo impedito un aggravamento del male e una paralisi delle gambe che mi avrebbe potuto tenere immobilizzato a letto per qualche anno. Dal punto di vista generale persisteva l'esaurimento e l'impossibilità al lavoro per le amnesie e le insonnie». Subito l'avvicinò Mattia Rakosi. Gramsci non ne aveva molta stima. Lo giudicava «un fesso», sprovvisto «di un grammo di intelligenza politica». «Con la delicatezza diplomatica che lo distingueva», racconterà, «mi prese d'assalto per offrirmi di diventare il capo del partito eliminando Amadeo, che sarebbe stato addirittura escluso dal Comintern se continuava nella sua linea». Pur dissenziente da Bordiga, Gramsci subiva il fascino della sua forte personalità e temeva che una rottura provocasse il dissolvimento del partito:

I miei atteggiamenti erano non autonomi, ma sempre derivati dalla preoccupazione di ciò che avrebbe fatto Amadeo se io fossi diventato oppositore: egli si sarebbe ritirato, avrebbe determinato una crisi, egli non si sarebbe mai adattato a venire a un compromesso... Se io avessi fatto l'opposizione [a Bordiga] l'Internazionale mi avrebbe appoggiato, ma con quali risultati, allora, quando il partito si organizzava a stento, nella guerra civile, preso di mira dall'«Avanti!», che sfruttava ogni nostro dissenso per disgregarci?

Respinse la proposta di Rakosi:

Io dissi che avrei fatto il possibile per aiutare l'Esecutivo dell'Internazionale a risolvere la questione italiana, ma non credevo che si potesse in nessun modo (tanto meno con la mia persona) sostituire Amadeo senza un preventivo lavoro di orientamento del Partito. Per sostituire Amadeo nella situazione italiana bisognava, inoltre, avere più di un elemento perché Amadeo, effettivamente, come capacità generale di lavoro, vale almeno tre.

I dibattiti sulla fusione si protraevano interminabili. C'era da una parte Tasca, in linea con l'Internazionale per la fusione immediata. Bordiga, caparbio nella resistenza, chiedeva che ogni soluzione fosse perlomeno rinviata. «Io camminavo sui carboni ardenti», scrive Gramsci, «e non era questo il lavoro più confacente alla mia condizione di debolezza cronica». Se la cavò «anguilleggiando» (l'espressione è sua). In seno al PSI s'era costituita la frazione «terzinternazionalista» (i cosiddetti «terzini») che proclamava fedeltà alla III Internazionale comunista. La proposta intermedia di Gramsci fu che si dovesse procedere subito alla fusione non con l'intero PSI, ma, per il momento, con i soli «terzini», e la tesi prevalse («Mi sono involontariamente guadagnato», dirà poi Gramsci, «la fama di una volpe dall'astuzia infernale»). Furono fissate in quattordici punti le condizioni della fusione e nominata una commissione mista per la loro applicazione. Bordiga, designato a entrarvi, rifiutò di farne parte (prese il suo posto Gramsci); gli altri erano Scoccimarro e Tasca per i comunisti, Serrati e Maffi per i socialisti.

Tuttavia Gramsci non tornò in Italia. Serrati fu arrestato appena dopo il rientro, e Tasca dovette espatriare in Svizzera. Mentre in Italia il lavoro per la fusione veniva portato avanti, con la resistenza della maggioranza dei comunisti e dei socialisti, da Scoccimarro a Maffi, Gramsci continuava a lavorare a Mosca nell'Esecutivo dell'Internazionale. Doveva sacrificare agli impegni politici molta parte della sua vita privata. Andava spesso in sanatorio, per curarsi e per visitare Genia Schucht. Lì aveva trascorso il Natale del '22:

Io ho fatto l'ultimo albero di Natale nel '22, per far divertire Genia che non poteva ancora levarsi dal letto o per lo meno non poteva ancora camminare senza appoggiarsi alle pareti e ai mobili. Non ricordo bene se era levata; ricordo che l'alberetto era collocato sul tavolino accanto al letto ed era zeppo di cerini che furono accesi tutti simultaneamente appena Giulia, che aveva tenuto un concerto per gli ammalati, rientrò nella camera, dove anch'io ero rimasto a far compagnia a Genia.

In genere gli incontri con Giulia erano saltuari, anche a causa del lavoro politico. «Non sono ancora certo», le scriveva il 13 febbraio 1923, «se domenica potrò venire da lei. Ci convocano ad ogni momento, nelle ore più impensate, e mi dispiacerebbe assai di mancare ad una riunione senza essere in grado di giustificare la mia assenza». Metteva nel suo lavoro di funzionario dell'Internazionale grande scrupolo. Ma la giovane e dolce violinista era troppa parte di lui: «Voglio, assolutamente voglio che lei continui a volermi bene... io tutte queste cose le ho prese sul serio, molto sul serio». A distrarlo da pensieri e da occupazioni e da battaglie una volta esclusive, assorbenti d'ogni residuo d'energia intellettuale e fisica, c'era adesso, dopo conosciuta Giulia, «la più bella e più grande e più forte ragione del mondo». Così a un bel momento il disciplinatissimo e rigido funzionario dell'organizzazione che da Mosca tirava i fili della rivoluzione proletaria in mezzo mondo, passato dalla fase «orso della caverna» alla fase «lupo sentimentale», arrivò a concedersi uno strappo. Era arrivato dall'Italia un telegramma: il comitato centrale del PCd'I dava notizia dell'esistenza di un mandato d'arresto contro Gramsci, del quale dunque si sconsigliava il ritorno in patria. Andarono a cercarlo di primo mattino al Lux, l'albergo di via Gorkij dove abitava. Non c'era, e nessuno degli italiani seppe dire dove mai si fosse cacciato: Gramsci non aveva lasciato detto nulla. Girarono allora per tutta Mosca con un'automobile: inutilmente; del giovane italiano nemmeno l'ombra. Chissà quale  sospetto assalì i messaggeri se, impressionati dalla scomparsa, arrivarono persino a mobilitare la Ghepeu. Quando poi Gramsci arrivò al Lux, stavano tutti lì a guardarlo come «un resuscitato», dirà lui stesso. Semplicemente aveva voluto essere, per una notte, l'innamorato e basta. In questo modo, legati a impegni che li trattenevano in città diverse, l'uno a Mosca e l'altra a Ivanovo, e quasi rincorrendosi, profittando dei non molti momenti di libertà, Antonio e Giulia vissero la loro più felice stagione. Finché avvenne il distacco.

In Italia la situazione s'era appesantita. I responsabili dell'Internazionale guardavano con preoccupazione al PCd'I, disgregato dall'ondata degli arresti (Bordiga e Grieco erano in carcere, dal 3 febbraio 1923), costretto all'immobilismo dallo spirito settario di molti suoi dirigenti e caduto in pieno marasma.

Essendo stato arrestato l'Esecutivo nelle persone di Amadeo [Bordiga] e di Ruggero [Grieco] - scrive Gramsci - si attese invano [a Mosca] per circa un mese e mezzo di avere delle informazioni che stabilissero con esattezza come i fatti si erano svolti, quali limiti avesse avuto l'azione della polizia nel distruggere l'organizzazione, quale serie di provvedimenti avesse preso l'Esecutivo rimasto in libertà per riprendere il legame organizzativo e ricostituire l'apparecchio del partito. Invece dopo una prima lettera scritta immediatamente dopo gli arresti e nella quale si diceva che tutto era stato distrutto e che la centrale del partito doveva essere ricostituita ab imis, non si ricevette più nessuna informazione concreta, ma solo delle lettere polemiche sulla questione della fusione, scritte in uno stile che pareva tanto più arrogante e irresponsabile quanto più l'autore di esse aveva con la sua prima lettera creata l'impressione che il partito esistesse ormai più solo nella sua persona... La questione fu posta brutalmente di ciò che valesse il centro del partito italiano. Le lettere ricevute furono criticate aspramente e si domandò a me che cosa intendessi suggerire... Anch'io ero rimasto sotto l'impressione disastrosa delle lettere... E perciò arrivai fino a dire che se si riteneva che veramente la situazione fosse tale come obbiettivamente appariva dal materiale a disposizione, sarebbe stato meglio farla finita una buona volta e riorganizzare il partito dall'estero con elementi nuovi scelti d'autorità dall'Internazionale.

Fu dunque deciso dall'Esecutivo allargato dell'Internazionale, nel giugno del '23, di liquidare la vecchia maggioranza bordi-ghiana, e si giunse alla designazione, per l'Esecutivo del PCd'I, di Togliatti, Scoccimarro, Fortichiari, Tasca e Vota. Fortichiari, ex astensionista, rifiutò: lo sostituì Gennari, avverso alle posizioni di Bordiga. Ma il 21 settembre 1923 anche il nuovo Esecutivo (Togliatti, Tasca, Vota, Gennari e Leonetti, che sostituiva Scoccimarro) fu sorpreso dalla polizia in casa dell'operaio Renato Scanziani, in un sobborgo di Milano, e finì in carcere. Ne venne l'incarico a Gramsci di trasferirsi a Vienna per seguire più da vicino la difficile situazione del partito in Italia. Capitava dunque al giovane sardo di passare dallo stato di relativo isolamento dell'ultimo periodo torinese alla responsabilità massima. A trentadue anni era, nel giudizio dell'Internazionale, l'effettivo leader del partito italiano.

Lasciò Mosca per Vienna verso fine novembre del '23, dopo un anno e mezzo di lavoro nell'Esecutivo dell'Internazionale. Era stata, nella sua vita, una grande svolta. Soltanto lo deprimeva il pensiero di doversi staccare da Giulia. Ma la giovane musicista era consapevole della parte di sacrificio che l'attività di Antonio le avrebbe sempre chiesto. Pochi mesi dopo, il 7 giugno 1924, Gramsci scriverà alla mamma: «La mia compagna condivide completamente le mie idee: non è italiana ma ha vissuto molto in Italia e ha fatto i suoi studi a Roma. Si chiama Giulia (Julka nella sua lingua) ed è diplomata al Liceo Musicale: è coraggiosa, di carattere forte, e sono sicuro che voi tutte l'apprezzerete e le vorrete bene quando la conoscerete. Nell'estate prossima o nell'autunno vorrei venire in Sardegna con lei per qualche giorno»1.

Note

1 La lettera è inedita.

CAPITOLO DICIASSETTESIMO

Angelica Balabanov gli aveva ottenuto il permesso di soggiorno a Vienna. Stava in una via parecchio lontana dal centro. La stanza non era riscaldata; e il letto, scriveva, «è tedesco, molto duro, molto incomodo, col suo piumino invece di lenzuola e coperte, che mi scappa da tutte le patti e mi fa continuamente svegliare con un piede o una spalla in congelazione». La padrona di casa, un'ebrea convertita al cattolicesimo, aveva abiurato anche questa seconda religione per sposare un comunista, Joseph Frey, e adesso, tornata alle pratiche del culto e con nostalgia del suo vecchio buon imperatore, malediceva il partito che la obbligava a tenere in casa uno straniero per il quale poteva anche venirle dalla polizia qualche noia (dopo alcuni mesi, Gramsci cambierà casa). I suoi giorni viennesi trascorrevano in semiclausura. Non usciva che per andare in trattoria o a qualche appuntamento organizzativo. La città non l'attraeva: «La neve copre le strade, il paesaggio è una fuga di mucchi bianchi che mi ricordano le saline di Cagliari con relativi galeotti. Ma come Vienna è più triste e sconsolata di Mosca. Non ci sono qui le slitte che solcano allegre e squillanti la bianchezza delle strade: solo il tranvai col suo frastuono. La vita trascorre triste e monotona». Era isolato. Aveva un segretario, Mario Codevilla, consumato dalla tubercolosi e non di grande vivacità intellettuale: «Sono sempre solo. Il mio compagno non mi procura invero nessuna comunione di pensieri che vada di là da una banale conversazione». Perciò aspettava con ansia che Giulia lo raggiungesse.

Era questo il tema delle sue lettere:  «Vivo isolatissimo e, per un pezzo, non potrà essere diversamente. Sento la tua assenza, sento un grande vuoto intorno a me. Comprendo oggi più di ieri e di avant'ieri quanto ti voglio bene e come ogni giorno si possa voler più bene. Quando sarà possibile che tu venga a vivere e a lavorare con me?». Sempre batteva con insistenza sulla nota del vivere insieme:

Ho pensato che forse sono troppo egoista domandandoti di venire da me, di staccarti dalla tua vita abituale per stare con me; lontana dal fervore attuale di attività che ti circola intorno, che è nell'aria che respiri anche se il tuo personale lavoro è meccanico ed esteriore. Ho pensato che io voglio averti vicina perché sono troppo solo e questa solitudine mi intristisce troppo.... Cara, tu devi venire. Ho bisogno di te. Non posso stare senza di te.., Sono come sospeso in aria, come lontano dalla realtà. Penso sempre, con un rimpianto infinito, al tempo che abbiamo trascorso insieme: in tanta intimità, in una così grande espansione di noi stessi.

Ma Giulia non sarebbe venuta. Era debole: già si manifestavano i primi segni dell'esaurimento che anni dopo, durante la carcerazione di Antonio, la spingerà alle soglie della follia. Per giustificare l'impossibilità d'andare a Vienna, raccontava dei suoi che non poteva lasciare soli. E Antonio, insistente: «Ho pensato anch'io, ai tuoi: ma non puoi venire per qualche mese?... Come sarebbe bella una nuova parentesi di vita in comune, nella gioia quotidiana, di ogni ora, di ogni minuto... Mi pare di sentire la tua guancia accanto alla mia e la mano che ti accarezza la testa e ti dice che ti voglio bene anche se la bocca tace». Dalle lettere di Giulia, qualcosa, della sua spossatezza fisica e mentale filtrava, ma solo un filo, un piccolo filo.

Mi pare di vederti - le scriveva Antonio il 21 marzo 1924 - sempre seria, abbuiata. Vorrei perciò averti vicina; troverei, mi pare, le cose più ingegnose per farti contenta, per farti sorridere. Farei degli orologi di sughero, dei violini di cartapesta, delle lucertole di cera con due code, insomma esaurirei tutto il repertorio dei miei ricordi sardeschi. Ti racconterei delle altre storie, sempre più meravigliose, della mia fanciullezza un po' selvaggia e primitiva, tanto diversa dalla tua. E poi ti abbraccerei e ti bacerei tante volte per sentirti tutta vivente in me, vita della mia vita, come sei.

Giulia rimase a Mosca; aspettava un bambino: ne aveva dato in principio ad Antonio solo un vago annuncio: «Ho avuto un tuffo al sangue, nel leggere la tua lettera. Tu sai perché. Ma il tuo accenno è vago e io mi struggo, perché vorrei abbracciarti e sentire anch'io una nuova vita che unisce le nostre più ancora di quanto non siano unite, o mio amore tanto tanto caro»; poi erano seguite al primo annuncio settimane di silenzio. Il 29 marzo 1924 Antonio le scrisse:

Il 24 febbraio hai scritto un accenno alla tua maternità. Esso mi aveva riempito di gioia. Io desideravo ardentemente che tu fossi madre; pensavo che ciò avrebbe dato forza alla tua personalità, ti avrebbe fatto superare una crisi che mi pareva latente in te, che era legata al tuo passato, alla tua fanciullezza, a tutto il tuo sviluppo intellettuale, ti avrebbe permesso di amarmi con più completo abbandono, ...Il tuo amore mi ha rafforzato, ha veramente fatto di me un uomo, o perlomeno mi ha fatto capire cosa sia un uomo e l'avere una personalità. Il mio amore per te non so se abbia avuto conseguenze simili: credo di sì, perché ho sentito vivacemente anche in te, come in me, questa potenza creatrice. Ho pensato intensamente, nel breve periodo della nostra piena felicità, come avrebbe contribuito a coronare tutto ciò la tua maternità. Tu hai avuto solo un accenno ad essa, poi più nulla.

Alla pena per il distacco da Giulia si aggiungeva, in questi mesi di vita a Vienna, lo slegamento politico. Gramsci faticava a seguire, con sufficienza d'informazioni, le vicende russe e quelle del partito in Italia. Dai primi del '22, Lenin era paralizzato alle gambe e al braccio destro e nel marzo del '23 aveva perso l'uso della parola. Nel Partito comunista russo la lotta delle correnti cominciava a farsi aspra. Il 13 gennaio 1924, otto giorni prima che Lenin morisse, Gramsci scriveva: «Non conosco ancora i termini esatti della discussione che si è svolta nel Partito [russo]. Ho visto solo la risoluzione del Comitato Centrale sulla democrazia del partito, ma non ho visto nessun'altra risoluzione. Non conosco l'articolo di Trotzkij e neppure quello di Stalin. Non so spiegarmi l'attacco di quest'ultimo che mi è sembrato assai irresponsabile e pericoloso. Ma forse la non conoscenza del materiale mi fa giudicare male».

In Italia poi la confusione dentro il partito era da più di un anno al colmo. La minoranza di destra (Tasca, Vota, Graziadei) e la  maggioranza (Togliatti, Scoccimarro, Terracini; Bordiga era in carcere e dal giugno del '23 non faceva più parte dell'Esecutivo) si combattevano con accanimento. Gli indirizzi tattici dell'Internazionale (prima il «fronte unico»; poi la fusione con i socialisti; infine, fallite le trattative per la fusione, il blocco politico fra i due partiti) erano stati sempre accolti dalla maggioranza a denti stretti e senza alcuna seria volontà di metterli in pratica, essendo rilevanti nella maggioranza i residui di settarismo anche dopo che l'Esecutivo allargato dell'Internazionale aveva deposto, nel giugno del '23, Amadeo Bordiga. Disse Tasca alla riunione del Comitato Centrale del 9 agosto 1923:

Sono venuto in possesso del verbale di una riunione tra compagni della maggioranza e da esso risulta che mentre da parte del compagno Palmi [Togliatti] e di altri si è espresso il desiderio di collaborare alla politica dell'Internazionale, dopo un chiarimento che precisasse la posizione passata e presente della maggioranza, il compagno Urbani [Terracini] invece ha espresso l'opinione che si dovesse accettare, ma poi lavorare di nascosto sulle vecchie direttive  del partito, da Mosca disapprovate.

Anche il dettaglio del verbale conosciuto da Tasca indubbiamente per vie traverse è indicativo del clima nel PCd’I in quei mesi. Riferisce Togliatti: «Nella lotta di frazione, che si rifletteva anche nei più delicati organismi di direzione, era di regola la ricerca, dall'una e dall'altra parte, di lettere e documenti che potessero venire utilizzati contro gli esponenti dell'avverso gruppo». In quest'aria guasta, dove l'ambiguità e l'intrigo erano ormai consuetudine, veniva svolgendosi il dibattito su una iniziativa presa in carcere da Bordiga: il quale, certamente di opinioni estreme, aveva se non altro il merito di non mascherarle, assumendosene tutta la responsabilità sino alle ultime conseguenze, anche le più sfavorevoli, non esclusa la perdita del potere. Era dunque sua idea che la maggioranza del PCd’I dovesse rompere con l'Internazionale. A tal fine proponeva il lancio di un manifesto firmato da tutti i dirigenti, meno, si capisce, Tasca e gli altri della minoranza di destra. Gramsci fu il solo degli interpellati a biasimare senza esitazioni l'iniziativa. Con lui, su un piano diverso, s'era anche schierato Leonetti. Terracini e Scoccimarro invece la condividevano. Togliatti era indeciso; per un verso giudicava la proposta di Bordiga «conforme ad una logica rigorosa fino all'eccesso» («La tattica dell'Internazionale tende a legarci col PSI alla stessa maniera come eravamo legati con esso prima di Livorno, e anche peggio»); per l'altro non si nascondeva i molti rischi della rottura:

In pratica, date le condizioni attuali, fare quanto dice Amadeo vorrà dire mettersi in lotta aperta con l'Internazionale comunista, mettersi fuori di essa, trovarsi quindi privi di un potente appoggio materiale e morale, ridotti a un piccolissimo gruppo tenuto assieme da legami quasi solo personali, ed essere in breve tempo condannati, se non ad andare tutti dispersi, certamente a perdere ogni influenza reale e pratica immediata nello sviluppo della lotta politica in  Italia.

Il 5 gennaio 1924, scrivendo da Vienna a Scoccimarro, Gramsci così motivò il suo rifiuto a firmare il manifesto:

In verità dopo la pubblicazione del manifesto la maggioranza potrebbe essere squalificata del tutto e anche esclusa dal Comintern. Se la situazione politica dell'Italia non si opponesse a ciò io ritengo che l'esclusione avverrebbe. Alla stregua della concezione di partito che deriva dal manifesto la esclusione dovrebbe essere tassativa. Se una nostra federazione facesse solo la metà di ciò che la maggioranza del partito vuol fare verso il Comintern, il suo scioglimento sarebbe immediato. Non voglio, firmando il manifesto,  apparire un completo pagliaccio.

Né le eccezioni di Gramsci si limitavano al puro aspetto formale. Era stato, fin dagli anni della prima formazione politica, l'uomo del «dialogo», delle «aperture». Gli imbozzolamenti settari gli ripugnavano. Li aveva combattuti, in polemica con il gruppo de «Il Soviet», anche prima di Livorno. Poi la costituzione del PCd’I era avvenuta, inevitabilmente dopo le direttive dell'Internazionale, con una rottura molto più a sinistra di quanto avesse mostrato di desiderare sino a un mese dal congresso di Livorno. Il «passo a destra» suggerito in seguito dall'Internazionale non poteva non trovarlo consenziente: «Non credo assolutamente che la tattica che si è sviluppata attraverso gli Esecutivi allargati e il IV Congresso [dove fu sancita la proposta di fusione del PCd'I col PSI] sia sbagliata. Né per l'impostazione generale, né per dettagli rilevanti». Il manifesto richiamava adesso Gramsci all'urgente necessità di risolvere due problemi, di fatto intrecciati: 1) come dissuadere Bordiga dall'iniziativa; 2) come formare un nuovo gruppo dirigente disposto ad applicare con lealtà le nuove direttive dell'Internazionale.

Sulla flessibilità di Bordiga, Gramsci non si faceva molte illusioni: «Egli è una personalità troppo vigorosa ed ha una così profonda persuasione di essere nel vero, che pensare di irretirlo con un compromesso è assurdo. Egli continuerà a lottare e ad ogni occasione ripresenterà sempre intatte le sue tesi»; ed ancora: «Io sono convinto che egli è irremovibile, sono convinto persino che egli non esiterebbe a staccarsi dal partito e dall'Internazionale piuttosto che lavorare responsabilmente contro i suoi convincimenti». Rimaneva il problema, assai delicato, dell'atteggiamento da assumere nei suoi confronti:

Anch'io penso che il partito non possa fare a meno della sua collaborazione: ma che fare?... Il suo stesso carattere inflessibile e tenace fino all'assurdo ci obbliga invece proprio a prospettarci il problema di costruire il partito e il centro di esso anche senza di lui e contro di lui. Penso che sulle quistioni di principio non dobbiamo più fare compromessi come nel passato: vale meglio la polemica chiara, leale, fino in fondo, che giova al partito e lo prepara ad ogni evenienza. Naturalmente la quistione non è chiusa: questo è il  mio  avviso, per ora.

Il punto era con chi dovesse costituirsi il nuovo gruppo dirigente. Ancora a fine gennaio del '24, Gramsci aveva in proposito non poche perplessità. Giudicava ormai disgregato l'antico gruppo de «L'Ordine nuovo» ed almeno in quel momento escludeva che l'azione di rinnovamento del partito potesse basarsi sugli uomini e sul programma del vecchio gruppo torinese. Scrisse ad Alfonso Leonetti il  28 gennaio 1924:

Non condivido il tuo punto di vista che si debba rivalorizzare il nostro gruppo di Torino formatosi intorno all'«Ordine nuovo»... D'altronde Tasca appartiene alla minoranza avendo condotto fino alle estreme conseguenze la posizione assunta fin dal gennaio 1920 e culminata nella polemica fra me e lui. Togliatti non sa decidersi com'era un po' sempre nelle sue abitudini; la personalità «vigorosa» di Amadeo lo ha fortemente colpito e lo trattiene a mezza via in una indecisione che cerca giustificazioni in cavilli puramente giuridici. Umberto [Terracini] credo sia fondamentalmente anche più estremista di Amadeo, perché ne ha sorbito la concezione, ma non ne possiede la forza intellettuale, il senso pratico e la capacità organizzativa. In che cosa dunque potrebbe rivivere il nostro gruppo? Sembrerebbe nient'altro che una cricca raccoltasi intorno alla mia persona per ragioni burocratiche. Le stesse idee fondamentali che hanno caratterizzato l'attività dell'«Ordine nuovo» sono oggi o sarebbero anacronistiche... Oggi le prospettive sono diverse e bisogna accuratamente evitare di insistere troppo sul fatto della tradizione torinese e del gruppo torinese. Si finirebbe in polemiche di carattere personalistico per contendersi il maggiorasco di un'eredità di ricordi e di parole.

Gli sbocchi possibili non erano tuttavia molti, date le circostanze; e nelle settimane appresso Gramsci rivide in qualche misura la sua posizione iniziale, probabilmente legata, oltre che all'esame critico delle vicende torinesi e dei loro sviluppi, allo sconforto d'un momento. Il Capodanno del 1924 aveva scritto a Giulia: «Tira le orecchie a Bianco. Digli che scrivo adesso almeno mezza dozzina di lettere al giorno. Non ho scritto tante lettere in vita mia, quante ne ho scritte in questi giorni». Decisamente l'epistolografia non era mai stata il suo genere. Continuò a scrivere per tutta la durata del soggiorno viennese; a mano a mano le indecisioni di alcuni compagni svanirono, ed altri giudicarono conveniente dar l'impressione che fossero svanite. Il nuovo gruppo si formò anch'esso non senza equivoci. Erano comunque avviate le condizioni per un lavoro in linea con l'Internazionale. Il 1° marzo 1924 Gramsci scrisse a Scoccimarro e Togliatti:

Io non avevo né la capacità, né la volontà necessarie e non potevo assumermi il peso di determinare la situazione nuova nelle condizioni in cui mi trovavo. Oggi, dopo la vostra lettera, penso diversamente: si può costituire un gruppo capace di lavorare e di iniziativa forte. A questo gruppo io darò tutto il contributo e la collaborazione che le mie forze mi consentono, per quello che tali cose possono valere. Non mi sarà possibile fare tutto ciò che vorrei, perché ancora attraverso giornate di debolezza atroce, che mi fanno temere una ricaduta nello stato di coma e di istupidimento in cui mi sono trovato negli anni scorsi, ma mi sforzerò ugualmente.

Lavorava, malgrado la non buona salute, anche a traduzioni e per la stampa di partito. Il 12 febbraio 1924 era uscito a Milano il primo numero de «l'Unità». Dal primo marzo usciva la terza serie de «L'Ordine nuovo», quindicinale. Ne scrisse il 15 marzo a Giulia:

Ti mando il primo numero dell'«Ordine nuovo», del quale sono poco soddisfatto. Era già fatto da un mese, quando è stato pubblicato, ed era stato compilato in fretta perché pareva che dovesse uscire subito, immediatamente. Ha avuto un buon successo. Ne sono state tirate 6.500 copie (1.500 più che nel 1920) e il primo giorno è stato esaurito tutto: da Torino, da Milano, a Roma ne domandavano circa altre 2 mila copie che non furono potute dare... Questo stesso attaccamento e le speranze che molti compagni ripongono nell'opera che l'«Ordine nuovo» rinato potrà svolgere mi schiacciano oggi: sento di più la mia debolezza, la mia incapacità. Ci vorrebbe una volontà di ferro, un cervello sempre lucido e pronto, una capacità di lavoro materiale che sono proprio le cose che mi mancano.

Avrebbe voluto Giulia vicina, per recuperare qualcuna di queste forze. Ma lei non poteva muoversi, ora che aspettava la nascita del bambino.

Ti potrò ancora mostrare la lingua? Adesso siamo persone serie, avremo tra poco un figlio e non bisogna dare cattivi esempi ai piccoli. Vedi quanti nuovi orizzonti si spalancano?... Faccio un po' il matto, ma non ne ho molta voglia. La verità è che ti voglio molto bene, che penso a te continuamente e che mi pare ogni tanto di abbracciarti stretta stretta. Mi succedono cose strane: appena ricevuta la tua ultima  lettera mi parve che tu dovessi essere arrivata a Vienna e che ti avrei incontrata nella strada. Ero stato male ancora una volta, senza poter dormire, e la tua lettera mi aveva veramente esaltato. Quando ti abbraccerò ancora penso che mi sentirò male, tanto la passione mi stravolgerà. Cara Julca, tu sei per me tutta la vita, come non avevo mai sentito la vita stessa prima d'amarti: qualcosa di grande e di bello che riempie tutti i minuti e tutte le vibrazioni dell'essere. Voglio essere forte oggi, come non ho mai voluto, perché voglio essere felice del tuo amore e questa volontà si riflette in tutta la mia attività. Penso che quando vivremo insieme saremo invincibili e troveremo il mezzo di sconfìggere anche il fascismo; vogliamo un mondo libero e bello per nostro figlio e combatteremo per ottenere che cosi sia come non abbiamo mai combattuto, con una astuzia che non abbiamo mai avuto, con una tenacia, con una energia che rovescerà tutti gli ostacoli.

Il 12 maggio 1924, dopo cinque mesi e mezzo, lasciò finalmente Vienna. Nelle elezioni del 6 aprile, era stato eletto deputato in un collegio veneto. Grazie all'immunità parlamentare che adesso lo garantiva dall'arresto, poteva rientrare in Italia. Mancava da due anni. subito sentì, dalla voce di chi le aveva vissute, le tragiche vicende di quegli anni, le uccisioni, i pestaggi, gli incendi. Anche il fratello Gennarp aveva subito le violenze dei fascisti1. Era avvenuto nel dicembre del '22; una compagna, Pia Carena, aveva poi aiutato Gennaro a fuggire in Francia.

Gramsci anche trovò, appena rientrato in Italia, che il partito, come organizzazione omogenea, non esisteva. C'era tra la testa e il corpo, tra il nuovo gruppo dirigente e i quadri periferici, una scissione, uno slegamento che sempre sboccava nella paralisi o, peggio, nella contraddizione di un organismo orientato in un senso dal pensiero (le direttive dell'Internazionale e di Gramsci) e mosso invece dalle gambe (l'apparato di base) in senso opposto. Cioè Bordiga, spossessato della guida del partito dall'Internazionale con un intervento d'imperio, continuava nondimeno a controllare la maggioranza delle federazioni: le masse, permeabili a un certo tipo di predicazione incendiaria, lo seguivano nel suo estremismo, nel rifiuto di ogni altra prospettiva, anche intermedia, che non fosse quella insurrezionale. I rapporti di forza dentro il partito Gramsci potè verificarli  durante la conferenza  clandestina  convocata nei dintorni di Como a maggio, pochi giorni dopo il suo ritorno in Italia. Il convegno2 fu la prima occasione per contarsi: una conta decisamente sfavorevole a Gramsci. Gli intervenuti dovevano votare su tre mozioni: la prima, presentata dalla nuova maggioranza del comitato centrale (Gramsci e il suo gruppo), raccolse il consenso di appena quattro componenti del comitato centrale (tre però erano assenti) e di quattro segretari di federazione; alla seconda, presentata dalla minoranza di destra (Tasca e il suo gruppo), aderirono quattro componenti del comitato centrale e sei segretari interregionali o federali; vittoriosa di gran lunga sulle altre fu la mozione Bordiga, condivisa da un componente del comitato centrale, da ben trentanove segretari interregionali o federali e dal rappresentante della federazione giovanile. Gramsci ebbe quel giorno la misura del molto che rimaneva da fare per la conquista effettiva del partito, internazionalista al vertice e bordighiano al livello dei quadri intermedi. Ma non s'arrese. Nei due anni trascorsi all'estero era ancora cambiato. Aveva, adesso, a trentatre anni, un altro piglio, più grinta, una volontà di dominio prima  insospettabile in lui. Ora gli  appariva,  più chiara che nel passato, la necessità che l'elaborazione del pensiero politico e l'esercizio del potere per l'affermazione di quel pensiero coincidessero. Non s'era completamente ripreso dalla crisi  fisica. Soffriva sempre d'insonnia. Eppure, forte della volontà che tante volte lo aveva aiutato a risalire dall'abisso di crisi paurose, si diede a lavorare senza più un momento di respiro.

Note

1 Dirà Gramsci alla moglie: «È stato un po' malinconico per me rientrare in Italia e subito... sapere dalla voce degli altri la caccia che i fascisti, credendomi a Torino, hanno dato alla mia ombra e le bastonate e le baionettate prese per conto mio da mio fratello, che ci lasciò un dito e la metà del suo sangue».

2 Il convegno, scriverà Gramsci «s'era tenuto come passeggiata turistica in montagna dei dipendenti di un'azienda di Milano: tutto il giorno discussioni sulle tendenze, sulla tattica e durante il pasto alla casa di rifugio, piena di gitanti, discorsi fascisti, inni a Mussolini, commedia generale per non destare sospetti e non essere disturbati nelle riunioni  tenute in bellissime vallette bianche di narcisi».

CAPITOLO DICIOTTESIMO

Stava a Roma in una villetta di via Vesalio, traversa di via Nomentana, pensionante d'una famiglia tedesca, i Passarge, che molto poco sapevano di lui, persino ignorandone la qualità di deputato comunista1.

In quella camera - ricorda Felice Platone, che era stato del gruppo de «L'Ordine nuovo», - non tardò a riprendere le vecchie usanze: discussioni, visite numerose, fervore di idee e di lavoro. Nei primi giorni non ci stancavamo di rievocare il periodo dell'«Ordine nuovo»; riprendeva contatto con i vecchi amici, che avrebbe voluto ancora tutti vicini a sé; s'informava di ognuno di loro; era impaziente di rivedere Amoretti e Montagnana, i due «vecchi» redattori dell'«Ordine nuovo». La trattoria dove mangiavamo abitualmente (vicino alla stazione Termini: era stata «scoperta» da Gennari) divenne subito un luogo di ritrovo per i compagni che volevano o dovevano parlare con Gramsci. Qualche passeggiata serale, di preferenza verso il Colosseo, e qualche spettacolo cinematografico erano i nostri svaghi.

Sempre Gramsci rivolgeva le sue cure, come negli anni torinesi, ai giovani. Cominciavano a costituirsi a Roma, dopo le elezioni del 6 aprile 1924, gruppi de «L'Ordine nuovo». «Nel primo gruppo», racconta Velio Spano, «eravamo una ventina: il più vecchio di noi aveva ventidue anni. Avevamo preparato una serie di temi e volta per volta si nominava un relatore. Ci riunivamo in un vecchio magazzino dietro Piazza Venezia, in cui non c'erano che un tavolo e tre o quattro sedie; la migliore la davamo a Gramsci, un'altra al relatore. Gli altri, generalmente, stavano in piedi. Noi volevamo che Gramsci parlasse, mentre Gramsci voleva che parlassimo noi». Sopravvenne la crisi Matteotti. Gramsci era tornato in Italia da meno d'un mese quando, il 10 giugno 1924, Matteotti scomparve. Tutta l'opinione pubblica ne fu sconcertata; era intimidita da tre anni di terrorismo, e nei primi giorni le reazioni furono incerte. Gramsci non esitò e subito decise di passare all'attacco.

Un poliziotto - ricorda Giuseppe Amoretti, redattore de «l'Unità», che si stampava a Milano - venne al nostro giornale comunicandoci con fare di mistero la scomparsa del deputato socialista. Ci disse che bisognava pubblicare solo la notizia e, in sostanza, che sulla cosa bisognava tacere. Il senso della raccomandazione era minaccioso, sotto la forma diplomatica. - Se no, obiettammo, anche noi faremo la fine di Matteotti? - Il poliziotto annuì, come per dire: «Se così vi piace...». E se ne andò via. Noi rimanemmo incerti. Tutto l'apparato di repressione gravava minaccioso su di noi. Alla porta c'era sempre uno stuolo di camicie nere. Il giornale poteva essere devastato, le nostre teste ancora una volta rotte... Fu proprio in quel momento che la parola di Gramsci ci giunse per telefono da Roma. Bisognava attaccare ed essere noi in testa all'attacco. Le masse popolari in fermento dovevano essere spinte da noi in avanti.

«L'Unità» uscì col titolo a piena pagina Abbasso il Governo degli assassini.

Anche la fascia d'opinione che inizialmente aveva reagito all'avanzata fascista con più torpidezza, di fatto favorendola, stavolta insorse. Meno di due settimane dopo la scomparsa e l'assassinio di Matteotti, il 22 giugno, Gramsci scriveva a a Giulia:

Ho vissuto giornate indimenticabili e continuo a viverle. Dai giornali è impossibile farsi un'opinione esatta di ciò che sta avvenendo in Italia. Camminavamo sopra un vulcano in ebollizione; di colpo, quando nessuno se l'aspettava, specialmente i fascisti arcisicuri del proprio potere infinito, il vulcano è scoppiato, sprigionando un'immensa fiumana di lava ardente che ha invaso tutto il paese,  travolgendo tutto e tutti del fascismo.  Gli avvenimenti si sviluppavano con una rapidità fulminea, inaudita; di giorno in giorno, di ora in ora la situazione cambiava, il regime era investito da tutte le parti, il fascismo veniva isolato nel paese e sentiva il suo isolamento nel panico dei suoi capi, nella fuga dei suoi gregari. Il lavoro fu febbrile; occorreva di ora in ora prendere disposizioni, dare direttive, cercare di dare un indirizzo al torrente popolare straripato. Oggi la fase acuta della crisi è apparentemente superata. Il fascismo chiama a raccolta disperatamente le sue forze che, quantunque ridotte, continuano a dominare spalleggiate come sono da tutto l'apparecchio statale, per le condizioni di incredibile dispersione e disorganizzazione in cui si trovano le masse. Ma un grande passo in avanti è stato fatto dal nostro movimento: il giornale [«l'Unità»] ha triplicato la tiratura, in molti centri i nostri compagni si sono posti a capo delle masse e hanno tentato di disarmare i fascisti, le nostre parole d'ordine sono accolte con entusiasmo e ripetute nelle mozioni votate nelle fabbriche; in questi giorni credo che il nostro partito sia diventato un vero partito di masse.

L'illusione di Gramsci sull'efficienza del partito non sarebbe durata a lungo. Il fascismo, superato lo sbandamento iniziale, risaliva la corrente e si riorganizzava per la controffensiva trovando il suo punto di forza nella dispersione delle masse e specialmente nell'inerzia delle opposizioni parlamentari.

I gruppi decisamente avversi al fascismo o cpn appena qualche riserva sui metodi del governo s'erano incontrati su un solo punto: disertare per protesta i lavori del parlamento. Ma quale seria volontà politica animava i partiti dell'Aventino? Le distanze fra gruppo e gruppo, i reciproci sospetti, l'inconciliabilità delle ideologie e degli indirizzi tattici permanevano. Si andava da un'ala sostanzialmente semi-fascista, propensa ad appoggiare il governo solo che Mussolini garantisse il ripristino della legalità costituzionale, fino ai comunisti, una piccola pattuglia (appena 19 deputati) orientata a rovesciare il governo con l'appello alle masse. Ed in mezzo c'erano i gruppi liberali ancora fiduciosi, nonostante tutto, nella saggezza del re, dal quale s'aspettavano l'intervento risolutore; c'erano i cattolici del Partito popolare, ostili al socialismo non meno (e in taluni casi molto più) che al fascismo. La lunga polemica sulla fusione aveva poi scavato un abisso tra il PCd'I ed il nuovo gruppo dirigente socialista Vella-Nenni. In definitiva, al fascismo non si opponeva un blocco ugualmente risoluto e combattivo ma un occasionale consorzio di gruppi slegati, indecisi sulle iniziative da prendere e in pratica incapaci d'andare al di là delle verbali espressioni di sdegno. Nei primi giorni della crisi Matteotti, quando in giro non si vedeva più un distintivo fascista all'occhiello, Gramsci propose al Comitato dei sedici (una sorta di esecutivo dell'Aventino) lo sciopero generale politico. La proposta fu respinta e Gramsci commentava il 22 giugno: «Grosse parole ma nessuna volontà di agire: paura incredibile che noi prendessimo la mano e quindi manovra per costringerci ad abbandonare la riunione».

Ancora per mesi l'attività dell'Aventino continuò a ridursi ad astratte affermazioni di princìpi, a qualche articolo di giornale e in tutta sostanza a un monotono succedersi di lamentazioni innocue. Ma è anche da dire che a rendere diffidenti alcuni gruppi nei confronti della proposta di Gramsci di un attivo fronte unico delle opposizioni non ripiegato nella sola «vociferazione molesta» (così Mussolini, cogliendo nel segno, definiva il reale programma dell'Aventino) concorreva l'estremismo del quale, fin dalla sua costituzione, il Partito comunista aveva dato più segni. L'azione politica di Gramsci soffriva di questo grave limite: essere egli alla guida di un partito giovane, ancora poco organizzato e, peggio, infiacchito dai veleni del settarismo, cioè tenuto su posizioni immobilistiche dall'azione frenante dei velleitari di sinistra. Inevitabilmente Gramsci ne era condizionato. Non gli sfuggiva che l'ondata reazionaria fascista aveva ricacciato la classe operaia italiana su posizioni dalle quali più difficile era lo scatto rivoluzionario; e da ciò non esitava a trarre due naturali conseguenze: in primo luogo, la necessità di riguadagnare intanto le posizioni perdute, prima dell'assalto decisivo per l'abbattimento  dell'ordine borghese; in secondo luogo, l'impossibilità di riguadagnare le posizioni perdute senza un largo sistema di alleanze con le forze antifasciste, anche borghesi. Bordiga non voleva le alleanze semplicemente perché rifiutava il fine, la restaurazione della democrazia borghese: il suo unico obiettivo era la dittatura del proletariato, da instaurarsi superando le fasi intermedie. Anche Gramsci si poneva, come traguardo finale, la rivoluzione proletaria, ma, diversamente da Bordiga, non era fuorviato dall'idolatria del mezzo. D'altra formazione culturale, era poco disposto a carcerarsi dentro formule magiche immutabili in qualsiasi momento storico. Perciò aveva accettato gli ultimi indirizzi dell'Internazionale come i più adeguati alla situazione nuova; in sostanza: prima resistere alla tempesta reazionaria e poi preparare, in regime di libertà borghesi, l'attacco per il trionfo della rivoluzione socialista. Questi due momenti, la resistenza al fascismo e la propaganda rivoluzionaria, tendevano tuttavia, nell'azione politica di Gramsci, a confondersi. Poteva dipendere forse dalla circostanza d'essere il leader nominale d'un partito sostanzialmente bordighista, come la conferenza di maggio a Como aveva messo in chiaro. Certo è che mentre da un lato proponeva ai gruppi diretti dai Treves, dagli Arturo Labriola e dagli Amendola l'unità delle forze antifasciste, coerente al disegno dell'Internazionale e suo di trovare alleati per il recupero delle libertà borghesi, dall'altro polemizzava violentemente contro i Treves, gli Arturo Labriola e gli Amendola, giudicati espressione dell'ordine capitalistico da abbattere. L'avvio di un dialogo serio diventava in questo modo difficile, per le molte diffidenze che lo troncavano sul nascere. Ecco allora, completo, il quadro dell'Aventino: non c'era concordia tra i gruppi di democrazia borghese ed i partiti operai; gravi divergenze separavano il partito riformista (Turati, Treves) dal Partito socialista (Velia, Nenni) ed i due partiti socialisti dal comunista; e le divisioni si moltiplicavano all'interno dei partiti: così l'attività frazionistica dei bordighiani toglieva forza al Partito comunista, lacerato da dispute non soltanto ideologiche (giacché la diffamazione personale entrava largamente nel gioco) proprio mentre alla disperata volontà dei fascisti di non soccombere sarebbe stato utile opporre la coesione.

Il solo risultato evidente della crisi Matteotti fu l'allentamento del regime di repressione. Gramsci poteva muoversi per la città senza alcun fastidio «perché la polizia non funziona, come non funziona nessun organo dello Stato fascista che è sabotato dai funzionari. Non so fino a quando un tale stato di cose possa durare. Gli avvenimenti costringono il Partito a un tirocinio molto difficile, dopo tre anni di illegalità e di pura difesa dell'organizzazione. Occorre muoversi, fare dell'agitazione, uscire all'aperto: i compagni, che non erano pronti a questo improvviso sobbalzo, si sono mostrati un po' incerti». Teneva ogni settimana tre o quattro riunioni sia con gli organismi direttivi del partito sia con le formazioni locali di compagni. «Riunioni molto interessanti», dirà, «specialmente quelle con la massa operaia. Conversazioni, discussioni, informazioni, problemi da risolvere, quistioni di principio e d'organizzazione da sistemare». Fuori dell'ambiente di partito non frequentava altri.

C'era a Roma un fratello del padre, Cesare, funzionario del ministero delle Finanze. Non lo andò a visitare e scrisse alla mamma (lettera inedita):

Non ho mai incontrato lo zio Cesare e non so dove abita. Non andrò a trovarlo né in ufficio né a casa, se verrò a conoscere il suo recapito. Ricordo ancora il suo spavento quando nel 1917, essendo io a Roma come testimonio in un processo politico, andai a trovarlo: temeva di essere compromesso e mi disse una filza di bugie per farmi credere che i poliziotti erano andati a casa sua per ricercarmi, cosa assolutamente inventata dalla sua paura. Egli sa che io sono a Roma e che può venirmi a trovare in Parlamento: se non l'ha fatto, deve avere le sue buone ragioni che io mi guarderò bene dal discutere o dal mettere alla prova.

Era solo.

Scrisse a Giulia il 7 luglio: «Cara Julca, il ricordo delle tue carezze mi fa venire la febbre, mi fa sentire pesantemente la mia solitudine malinconica, non mi permetto di godere della bellezza di Roma, vorrei andare a spasso con te, per vedere insieme, per ricordare insieme, e mi chiudo in casa; mi sembra di essere diventato l'orso della caverna», Soffriva nuovamente d'insonnia, di debolezza:

Il pensare mi stanca, il lavorare mi riduce i nervi in condizioni deplorevoli. Quante cose dovrei fare e non riesco a fare. Penso a te, alla dolcezza di volerti bene, di saperti tanto vicina sebbene tanto lontana; cara Julca, anche da lontano il tuo pensiero mi aiuta ad essere più forte. Ma la mia vita non può ridiventare normale finché noi saremo separati: l'amore per te è troppa parte della mia personalità, perché io possa pensarmi normale senza la tua presenza.

Si incaricavano di dargli uno scossone gli avvenimenti nei quali era immerso:

Bisogna intanto riorganizzare il Partito che è debole e che lavora molto male nel suo complesso. Faccio parte del Centro politico e sono segretario generale: dovrei anche essere direttore del giornale [«l'Unità»], ma le forze non mi bastano. Posso lavorare ancora poco. Bisognerebbe aver l'occhio per tutto, seguire tutto... Manchiamo di lavoratori responsabili, specialmente a Roma; dalle riunioni alle quali partecipo traggo soddisfazione per il quadro di buona volontà e di ardore dei compagni, ma anche pessimismo per la mancanza di preparazione generale. La situazione è ottima per noi... Il fascismo va in pezzi; sembra impazzito, non sa trovare una misura politica che gli sia utile. Tutto si rivolta contro di esso. Ma lo svolgimento degli avvenimenti sarà relativamente lento, perché noi siamo ancora troppo pochi e troppo male organizzati.

È una lettera del 18 agosto 1924. Da otto giorni Gramsci era padre; la lettera di Giulia con la notizia non gli era però ancora arrivata.

Tre giorni prima, il 15 agosto, aveva scritto alla mamma: «Il mio bambino dovrebbe essere nato proprio in questi giorni, ma non ho ancora ricevuto notizie, data la distanza che mi separa dalla mia compagna: sapevo che i medici avevano previsto la nascita tra l'8 e il 15 agosto. Penso che tutto sia andato bene e spero di avere notizie entro la prossima settimana»2. Poi il 18, a Giulia:

Mentre io scrivo forse il nostro bambino è già nato, ti sta da presso e tu puoi accarezzarlo, dopo aver sofferto per dargli la vita. La mia gioia è un po' malinconica, per ciò. Quante cose non posso sapere, che vorrei sapere. Ma che importa sapere, se fu impossibile soffrire con te?... E la mia felicità ha il muso un po' lungo e si sente un pochino triste... Ho scritto a mia madre che noi avremo un figlio tra breve: ella è ansiosa di sapere notizie. Se potrai mandarmi delle fotografie, mandamene due copie, certamente darò una grande gioia a mia madre, che sente i legami familiari come i sardi, in forme molto violente e appassionate.

L'indomani, 19 agosto, partì per Milano e Torino.

Stette fuori Roma quindici giorni. Al ritorno, il 3 settembre, trovò due lettere di Giulia. Le scrisse:

Dopo aver letto, non so cosa scriverti. Cose serie e melodrammatiche? Mi prendo in giro da me stesso. Non so ecco. Forse una  lieve carezza esprimerebbe meglio di un diluvio di parole ciò che vorrei dirti. Approvo intanto tutto ciò che hai fatto. Approvo anche il nome, quantunque mi paia esagerato per un bambino che pesa tre chili  e mezzo (ma forse oggi pesa di più) e non ha neppure un dente, chiamarsi Lev. Ma diventerà un vero Lev, non è vero?... Eppoi non mi importa niente di tutto ciò - mi  importa che il bambino  sia un bambino vivente, sia nostro figlio e che noi ci vogliamo più bene di ieri perché vediamo in esso noi stessi più forti e più felici...  Aspetterò di condividere anch'io la tua gioia nell'assistere ai successivi sviluppi della personalità del bambino. Un momento importante mi pare sarà quello quando il piccolo si metterà un piedino in bocca la prima volta, dovrai informarmi subito di questo atto che segnerà la presa di possesso dei limiti estremi del suo territorio nazionale.

Alla mamma diede l'annunzio della nascita del bimbo due giorni dopo, il 5 settembre:

E' nato il 10 agosto e la sua mamma sta bene perché mi ha scritto già l'11 al mattino e ancora il 18. Pesava tre chili e 600 grammi, aveva molti capelli bruni, la testina ben formata  la fronte grande, gli occhi molto azzurri - ti copio la descrizione che ne fa la sua mamma che aggiunge, molto poeticamente che sembra sia stato bagnato nel sole come un frutto ancora sull'albero. Sono già  trascorsi 25 giorni  dalla nascita e adesso deve essere cresciuto. Si chiama Lev, che in italiano significa Leone ciò che mi pare alquanto esagerato per un bambino che pesa solo tre chili e mezzo e non ha ancora neppure un dente. Mi è molto gravoso di essere così lontano dalla mia compagna in questo momento: penso che dovrà ritardare la sua venuta per qualche tempo:è difficile fare 5 giorni di ferrovia con un bambino di pochi mesi. Essa rimane intanto presso la sua famiglia. Mi manderà, appena sarà possibile, una fotografia del bimbo che ti invierò così potrai vedere il tuo nuovo nipotino, che per adesso tormenta solo, a 3 mila chilometri di distanza dall'Italia, la sua mamma che scrive cose da pazzi sul suo conto: scrive che le mostra la lingua per farla arrabbiare, ciò che mi sembra esagerato. Pare anche a te? Ma forse tutte le madri vedono questi miracoli nel loro primo figlio3.

Poi il bimbo si chiamò Delio, come Delio Delogu, il cugino con il quale Antonio aveva vissuto da ragazzo, a Oristano, e che era morto giovanissimo (domanderà alla mamma: «Zio Serafino sa che ho dato nome Delio al mio bambino?»).

Ora vivere lontano da Giulia lo rattristava ancor più: «Mi vengono molti pensieri malinconici, talvolta. Penso a tutto questo tempo trascorso l'uno lontano dall'altra; alla tua vita intensa e alla mia assenza da tante cose, in tanti momenti. Il peggio è che non vedo una soluzione vicina a un tale stato di cose e sarà molto difficile che per un pezzo io possa uscire dall'Italia e comprendo tutte le difficoltà che si oppongono a un tuo viaggio in Italia». Avrebbe voluto poterla aiutare in qualche modo; lei, pur in non buone acque, pensava di dovercela fare da sola e respingeva i quattrini. Era l'inizio di lunghe discussioni:

Ma perché poi non hai voluto accettare i denari che egli [Vincenzo Bianco, un emigrato politico a Mosca] aveva l'incarico di consegnarti? Non credo che in ciò sia nulla che contravvenga ai principii e alle nostre norme di vita: per me sarebbe stato un gran piacere se tu avessi accettato. Penso spesso che nulla posso fare per voi, per il bambino: e qualcosa vorrei fare; mi pare che se sapessi che nella vostra vita il mio lavoro ha una qualsiasi importanza o aiuto a superare una difficoltà, sarei molto felice: mi sembrerebbe che un nuovo legame si sia creato per unirci, per darci l'illusione di essere più vicini4.

Aveva tentato; non c'era riuscito. Il 6 ottobre 1924, quasi in tono di scusa, le scriveva:

Perché ho voluto che Bianco andasse a darti per mio conto qualche cosa?... Ho pensato solo a ciò: che sarei stato contento di sapere che un qualcosa della vita del bambino e tua era dovuta a me; rappresentava un mio piccolo sacrifizio, mettiamo un pacchetto di sigarette o un caffè di meno. Perché questo? Penso che sia un ricordo della mia vita di bambino, legato alle sofferenze materiali e agli stenti che si superano insieme con la mamma e con gli altri fratelli e che legano, che creano dei vincoli di solidarietà e di affetto che nulla potrà più distruggere. Tu credi che la migliore delle società comuniste potrà modificare fondamentalmente queste condizioni dei rapporti individuali? Per un pezzo ancora certo no.

La spinta a stringersi in fascio per superare tutt'insieme le difficoltà, spiegava, è un sentimento che non ha nulla di borghese ed anzi è proprio delle classi che soffrono l'instabilità della vita e l'insicurezza del pane, del vestito, del tetto per i figli e per i vecchi. «Tu credi di essere in una botte di ferro perché vivi in uno stato soviettista; ma intanto devi ammettere che anche in uno stato soviettista queste condizioni permangono ancora per moltissimi.» C'erano le leggi soviettiste che affidano il bambino alle cure della società nel suo insieme oltre che del padre, della madre ecc., e Giulia glielo aveva ricordato. Ma ad Antonio ciò sembrava più del Rousseau che di Lenin: «Quando mi descrivesti la scena dei bambini che vengono distribuiti tutti gridanti in un grande carretto alle madri che devono nutrirli, la scena mi parve così nitida che pensai di farti arrabbiare scrivendoti che forse ogni volta danno alle madri un bambino diverso, dato che la disciplina soviettista non è talmente perfetta da dare una coscienza sicura alle nianie [bambinaie] addette agli ospedali». Tornava infine al motivo di fondo della sua malinconia: «Peccato che non abbia potuto dividere con te le ansie e le gioie dei primi tempi del nostro bambino e ciò mancherà sempre nella mia vita».

Le condizioni di lavoro gli si erano fatte difficili. A luglio, nel pieno della crisi Matteotti, giudicava la caduta del fascismo imminente. La diagnosi, svolta in una riunione del comitato centrale, era fondata su questi rilievi: 1) il fascismo è giunto al potere sfruttando e organizzando «l'incoscienza e la pecoraggine della piccola borghesia ubriaca di odio contro la classe operaia». «Il fatto caratteristico del fascismo consiste nell'essere riuscito a costituire una organizzazione di massa della piccola borghesia. È la prima volta nella storia che ciò si verifica. L'originalità del fascismo consiste nell'aver trovato la forma adeguata di organizzazione per una classe sociale che è sempre stata incapace di avere una compagine e una ideologia unitaria»; 2) il fascismo non ha mantenuto nessuna delle sue promesse, non ha appagato nessuna speranza, non ha lenito nessuna miseria. «Le classi medie che avevano riposto nel regime fascista tutte le loro speranze sono state travolte dalla crisi generale»; 3) il fascismo è perciò condannato alla fine:

L'ondata di sdegno suscitata dal delitto [Matteotti] sorprese il Partito fascista che rabbrividì di panico e si perdette: i tre documenti scritti in quell'attimo angoscioso dall'on. Finzi, dal Filippelli, da Cesarino Rossi e fatti conoscere alle opposizioni, dimostrano come le stesse cime del fascismo avessero perduto ogni sicurezza e accumulassero errori su errori: da quel momento il regime fascista è entrato in agonia; esso è sorretto ancora dalle forze cosidette fiancheggiatrici, ma è sorretto così come la corda sostiene l'impiccato. Il delitto Matteotti dette la prova provata che il Partito fascista non riuscirà mai a diventare un normale partito di governo, che Mussolini non possiede dello statista e del dittatore altro che alcune pittoresche pose esteriori: egli non è un elemento della vita nazionale, è un fenomeno di folklore paesano, destinato a passare alle storie nell'ordine delle diverse maschere provinciali italiane più che nell'ordine dei Cromwell, dei Bolivar, dei Garibaldi.

In realtà le forze fiancheggiatrici erano, per il fascismo, tutt'altro che la corda che sostiene l'impiccato. Superato lo smarrimento iniziale, i fascisti, forti del sostegno del capitalismo agrario e industriale, venivano recuperando tutta la loro aggressività.  Il 31   agosto Mussolini aveva detto ai minatori del Monte Amiata:  «Il  giorno che [i gruppi dell'Aventino] uscissero dalla vociferazione molesta per andare alle cose concrete, quel giorno noi di costoro faremo lo strame per gli accampamenti  delle  camicie nere».  L'ondata delle violenze fasciste era ripresa: ancora, come nel 1921-22, bastonature, assassinii, devastazioni, i giornali assaltati, le case degli oppositori perquisite e messe a soqquadro. Il 5 settembre 1924 fu percosso a  sangue, a Torino, Piero Gobetti (i genitori, dopo che i fascisti gli ebbero incendiato la casa, andarono ad abitare nell'isolato tra piazza Carlina e via San Massimo dov'erano stati Angelo Tasca e Gramsci). Poi il 12 settembre cadde a Roma un deputato fascista, Armando Casalini, ucciso in tram da uno squilibrato, Giovanni Corvi. Per i fascisti era pari e patta: Casalini compensava Matteotti. Il regime di repressione si rifece durissimo. Gramsci non aveva più la libertà di movimento dei mesi prima:

Dopo la uccisione del deputato fascista Casalini io, che prima ero lasciato tranquillo, ho cominciato ad essere sorvegliato: in quei giorni fui riconosciuto da un fascista torinese che mi indicò a una compagnia di suoi amici: la polizia, per difendermi, cominciò a seguirmi, cioè a rendermi difficile ogni movimento e a costringermi a spendere in automobili invece che in tranvai, per circolare quando devo recarmi a qualche riunione.

Bisognava agire con decisione estrema. Il 20 ottobre, accogliendo il suggerimento di Gramsci, il gruppo parlamentare comunista propose al Comitato delle opposizioni che l'Aventino si trasformasse in Antiparlamento, la sola assemblea rappresentativa della volontà popolare, contro il gruppo parlamentare fascista, ridotto a pura espressione d'arbitrio. La proposta fu respinta.

S'erano svolti intanto, alla presenza di Gramsci, in numerose città d'Italia, i congressi delle federazioni comuniste. Fu in una pausa di questa attività febbrile che Antonio potè stare alcuni giorni con i suoi, a Ghilarza, dopo essere intervenuto al congresso regionale del partito, tenutosi clandestinamente a Cagliari, in un prato fra le saline e Quartu, il 26 ottobre del '24.

Era una domenica. Gramsci, arrivato a Cagliari la sera prima col treno da Olbia, aveva trascorso la notte nello studio dell'avvocato Alberto Figus, in via Ospedale, a poche centinaia di metri dalla casa del corso Vittorio dov'era stato da studente liceale. Gli sarebbe piaciuto, dopo l'arrivo, uscire un poco, andarsene in giro per rivedere i luoghi della prima giovinezza. Ma, al momento, conveniva la prudenza. Di lì a tre giorni sarebbe stato il secondo anniversario della marcia su Roma, e già da quel sabato i militi fascisti erano mobilitati dappertutto. Dormì su una branda; nel piccolo studio, c'erano un tavolo, qualche sedia, un lume a petrolio. L'indomani mattina, allo spuntare del giorno, venne a prenderlo un giovane metallurgico delle Costruzioni meccaniche, Nino Bruno.

Aveva una camicia consumata e sporca e niente cravatta - mi dice Bruno -. Non lo avevo mai visto prima, sempre se ne sentiva parlare, lo immaginavo alto e forte, un colosso. Era invece di corporatura anormale, e neanche si preoccupava di tenersi in ordine, la barba lunga, un mare di capelli mal pettinati e l'abito modesto e con macchie. Uscimmo per andare al luogo della riunione, che avevo suggerito io. Faceva poca luce, le strade erano deserte. Avevo scelto un itinerario tranquillo, strade quasi di campagna, oltre la periferia: un giro lungo per non dare nell'occhio. Ma lui non mostrava stanchezza. Era un bel tipo d'allegrone, scherzava, rideva, e mi parlava in sardo. Arrivammo al punto stabilito, Is Arenas, tra il Poetto e Monte Urpinu, verso le sette. C'erano già un bel po' di delegati, altri venivano alla spicciolata. Alla fine, saremo stati in tutto, meno d'una ventina. E subito comincia il congresso. Era tempo di melograni, ci sediamo a terra, nessuno poteva vederci, lontani com'eravamo dalle strade, in mezzo a vigne e a campi con cespugli. Gramsci, seduto sotto un albero, fa la relazione. Diceva di Bordiga e poi della necessità di riorganizzare il partito e della propaganda che si doveva fare in Sardegna per convincere i pastori, i contadini e i pescatori a mettersi a fianco degli operai di tutta l'Italia. Segue la discussione, l'unico favorevole a Bordiga era il delegato di Sassari, che però a un certo punto se ne va per prendere il treno delle due. Noi mangiamo. Uno di Oristano, Scalas, aveva portato paste: Gramsci non ne vuole e allegro dice di preferire pane e casu, pane e formaggio, e beve un po' di vino e prende qualche mela. Abbiamo finito il congresso alle sei di sera. Tornammo in città ognuno per conto suo,  salvo Gramsci, che era accompagnato.

L'indomani, a congresso ormai finito e quindi senza più la preoccupazione dei pedinamenti, ci fu un pranzo proprio nel cuore della città, da Fanni, una trattoria del Largo Carlo Felice. Andarono a prendere il caffè in un bar di piazza Jénne. Servì Gramsci un giovane comunista, Giovanni Lay (sette anni dopo si ritroveranno insieme nel carcere di Turi). Poi, alle due, Gramsci salì sul treno per Ghilarza.

Non veniva in paese dalla morte di Emma, nel '20. In famiglia alcune cose erano cambiate. Carlo, allora ventisettenne, aveva un negozio di scarpe, e con quel commercio, in realtà un po' stentato, vivacchiava. Teresina, impiegata nell'ufficio postale, era da pochi mesi moglie di Paolo Paulesu, gerente dell'ufficio. A far compagnia in casa ai vecchi (il signor Ciccillo aveva 64 anni, la signora Peppina 63) erano rimasti solo Carlo e Grazietta; in più viveva con essi una bimbetta di quattro anni, Edmea, figlia di Gennaro. Tutti adesso aspettavano Nino con un gran fervore di preparativi. Soprattutto la signora Peppina si struggeva nell'ansia di riabbracciare questo suo figlio che a 33 anni era deputato e (felicità maggiore non avrebbe potuto darle) aveva moglie e un figlio. Anche il signor Ciccillo contava le ore e i minuti.

I vecchi amici andarono a ricevere Nino alla stazione di Abbasanta.

Appena venuto giù dal treno - racconta il ghilarzese Peppino Mameli - ci abbracciò. Poi notai una sua strizzatina d'occhi e vidi a qualche distanza altri due che erano scesi dal treno e se ne stavano lì con un tentativo d'aria indifferente. Erano poliziotti. Nino rimase a chiacchierare con noi davanti allo sportello aperto del vagone e quando il capostazione soffiò dentro la cornetta per dare il segnale di partenza, risalì in treno. Anche i poliziotti risalirono. Il convoglio cominciò a mettersi in moto. Salutavamo agitando la mano. Nino aprì veloce lo sportello e saltò giù. Non so nemmeno se i poliziotti se ne accorsero. Certo, col treno ormai in velocità, non potevano più correre ai ripari. Nino se li era tolti dalle calcagna.

S'incamminarono per Ghilarza. Era venuto quattro anni avanti, ma era stata una scappata di tre-quattro giorni in un momento difficile: Emma che se ne andava a trentun anni; e poi la situazione critica lasciata a Torino, il movimento dei Consigli di fabbrica sconfìtto, l'edizione piemontese dell'Avanti!» sul punto di chiudere per l'accusa di indisciplina lanciata da Serrati nel dibattito precongressuale, e le discussioni non sempre amichevoli con Togliatti e Terracini, dai quali mesi prima s'era differenziato, tutt'un insieme di motivi di sconforto e d'incertezza, e di pensieri in tumulto... Era dunque dall'estate del '13, undici anni, che non stava a lungo in paese. Qui nulla sembrava essere cambiato. Ghilarza gli appariva uguale a sempre, con le sue case basse di pietra lavica e il fumo turchiniccio che fluttuava lento sopra le tegole e il sentore d'arancio e il trotto degli asinelli con i contadini in groppa al ritorno dal lavoro, e le zie Tane e i Cozzoncu e i Remundu Gana all'uscio; sola novità, le prime biciclette arrivate a fare la concorrenza agli asinelli. Gli anziani, vedendolo, portavano un dito alla visiera, in segno di saluto, e si passavano la voce: è arrivato il figlio di Peppina Marcias, è arrivato il nipote di Grazia Delogu.

Poi subito cominciò la sfilata dei prinzipales, le notabilità del paese, «anche fasciste», racconta Gramsci, «che venivano a visitarmi con grande sussiego, congratulandosi dell'essere io... un deputato sia pure comunista. I sardi si fanno onore, eh! Forza paris! Avanti Sardegna!». Lui ne era divertito. «Ma vennero anche i soci della locale Società di mutuo soccorso tra artigiani, operai e contadini, spingendo avanti il loro presidente che non avrebbe voluto compromettere l'apoliticità del Sodalizio, e mi posero molte quistioni: sulla Russia, sul come funzionano i Soviet, sul comunismo, su ciò che significhi capitale e capitalisti, sulla nostra tattica verso il fascismo ecc.» Carlo, che aveva organizzato la riunione, stava di guardia fuori. Nel riferire il racconto di quelle conversazioni fattogli da Gramsci, Celeste Negarville scrive:

Erano degli uomini molto primitivi, disfatti da una vita di miserie e di fatiche, i quali pendevano dalle sue labbra. Non era però così facile spiegar loro ciò che essi volevano sapere, ma quella singolare capacità che aveva Gramsci di conversare coi lavoratori dovette servire a meraviglia. Un contadino gli disse fin dal primo giorno: «Quando abbiamo saputo che ti avevano portato candidato nelle elezioni, abbiamo deciso di votare per te, perché ti conosciamo come un uomo onesto. Però ci hanno detto che non si poteva [infatti Gramsci era candidato per le circoscrizioni della Venezia Giulia e del Piemonte] e questo ci è dispiaciuto. Ma a dirtela in verità, non sappiamo bene in che partito ti sei messo in continente». Gramsci spiegò che era nel partito comunista e cos'era il partito comunista. I contadini rimasero pensierosi, poi uno disse: «Ma perché dopo essere partito dalla Sardegna. che è così povera, ti sei andato a mettere in un partito di poveri?»

La signora Peppina s'infastidiva non poco, per queste visite. Anche Nino, del resto, tolta qualche concessione a visitatori graditi e no, preferiva starsene a chiacchierare con la mamma ed a giocherellare con la bimba di Gennaro. Diceva ai suoi di Giulia, come s'erano conosciuti, quel che faceva, e la signora Peppina non si stancava di ascoltarlo, estatica. «Gli occhi le brillavano dalla commozione», mi dice Teresina, «perché vedeva Nino sereno come non era mai stato, felice dell'amore di Giulia e d'avere un figlio». Forse pensando a Delio, Gramsci s'intratteneva con Mea, che di quei momenti ha ricordi vaghi per alcuni aspetti e precisi per altri. «Rideva sempre», racconta, «mi accompagnava in viaggi favolosi facendomi sobbalzare sulle ginocchia e si divertiva da matto alle mie monellerie». Furono, per Gramsci, momenti di grande pace. Scriverà alcuni giorni dopo a Giulia:

Ho giocato a lungo con una mia nipotina di quattro anni; poiché aveva avuto paura di alcuni granchi lessati, le ho fatto vivere tutto un romanzo in cui entravano 530 granchi cattivi comandati dal loro generale Masticabrodo, coadiuvato da uno stato maggiore brillantissimo (la maestra Sanguisuga,- il maestro Scarafaggio, il capitano Barbablù ecc.) e un piccolo gruppo di granchi buoni, Farfarello, Patapun, Barbabianca, Barbanera ecc. I cattivi le  pizzicavano  le  gambe con  le mie  mani, i buoni accorrevano in triciclo armati di spiedi e di scope per difenderla; i ciuf ciuf del triciclo si alternavano con i colpi di scopa, con dei dialoghi ventriloqueschi, e tutta la casa si riempiva di una società di granchi in attività, fra lo stupore della bimbetta che credeva a tutto e si appassionava allo svolgimento del romanzo creando ella stessa nuovi episodi e nuove battute. Ho rivissuto un po' della mia infanzia e mi sono divertito più così che ricevendo le visite delle notabilità del paese.

La vacanza durò una decina di giorni, dal 27 ottobre al 6 novembre 1924. Venne infine il momento del commiato. La signora Peppina aveva dato al figlio, perché la regalasse a Giulia, una cuffietta sarda del villaggio di Desulo. Quando si lasciarono, lei non sapeva che era l'ultimo abbraccio.

Note

1 «Faccio il professore serio serio, sono tenuto in grande considerazione e lasciato tranquillo in modo esasperante».

2 La lettera è inedita.

3 La lettera è inedita.

4 Nel 1931 le dirà dal carcere: «Perché hai così tenacemente rifiutato l'aiuto che ti avevo mandato attraverso Bianco? E perché io non sono riuscito ad impormi a te e a far riconoscere il mio diritto di aiutarti? Avevo riscosso 8200 lire d'indennità giornalistica e le versai interamente per il nuovo giornale [«l'Unità»]. Perché ho potuto permettere che tu facessi dei debiti di 12 rubli mentre io versavo 8200 al giornale, mentre avrei, senza nessuna difficoltà e pur facendo tutto il mio dovere, potuto versare solo il 50 per cento? Tutto questo mi esaspera ora contro me stesso d'allora e mi fa vedere quanto i nostri rapporti fossero d'una incongruità e di un romanticismo scelleratissimo. È vero che tu non mi accennasti a questi dodici rubli, anzi mi prendesti in giro per le mie "pretese" di aiutarti, ma sento ora che avrei dovuto trovare il modo di importi anche ciò che non volevi».

CAPITOLO DICIANNOVESIMO

La pressione fascista aumentava, e sempre più evidente si faceva l'incapacità dell'Aventino di opporvisi con efficacia. Il 12 novembre 1924, cinque giorni dopo il ritorno di Gramsci dalla Sardegna, alla riapertura della Camera, che da cinque mesi era chiusa, avvenne il primo distacco dei comunisti dall'Aventino. Un deputato comunista, Luigi Repossi, fu incaricato di entrare nell'aula di Montecitorio, ove si commemorava Matteotti, per leggere una dichiarazione. Erano in aula solo i deputati fascisti e filofascisti. Repossi non si lasciò intimidire e di fronte a una «palude» ch'era il fior fiore dello squadrismo disse: «Da che mondo è mondo, non è permesso ai responsabili d'assassinio commemorare le vittime». Due settimane dopo tutto il gruppo parlamentare comunista, staccandosi ufficialmente dall'Aventino, rientrava in aula, per condurre dalla tribuna del parlamento la battaglia antifascista.

Quello stesso giorno, il 26 novembre, Gramsci scriveva a Giulia:

Si lavora affannosamente. La situazione si è composta politicamente per il momento in una forma che ci costringe a un'attività minuta ma gigantesca nel suo complesso. Il proletariato si risveglia e riacquista coscienza della sua forza; ancora maggiore è il risveglio tra i contadini, la cui situazione economica è spaventosa; ma l'organizzazione di massa è ancora difficile e il Partito nel suo complesso di cellule e di gruppi di villaggio è lento a muoversi e a lavorare. Il centro del partito deve intervenire continuamente sui posti, stimolare e controllare il lavoro, assistere i compagni, indirizzarli, lavorare con loro. Siamo diventati molto forti: siamo riusciti a fare dei comizi pubblici dinanzi alle officine alla presenza di quattromila operai che acclamavano al Partito e all'Internazionale. I fascisti non incutono più tanta paura; già si verifica che dopo un comizio la massa si incolonni per dare l'assalto alla casa di qualche capo fascista. La borghesia è disgregata: non sa più darsi un governo di fiducia: deve aggrapparsi al fascismo disperatamente; le opposizioni si illanguidiscono e in realtà lavorano solo per ottenere da Mussolini un maggiore rispetto delle  forme legali.

Non l'ottennero.

A luglio Gramsci aveva detto in una riunione del comitato centrale e poi scritto su «L'Ordine nuovo» del 1° settembre:

Ci sarà un compromesso tra il fascismo e le opposizioni?... Esso è molto improbabile... Il fascismo per la natura della sua organizzazione non sopporta collaboratori con parità di diritto, vuole solo dei servi alla catena: non può esistere un'assemblea rappresentativa in regime fascista, ogni assemblea diventa subito un bivacco di manipoli o l'anticamera di un postribolo per ufficiali  subalterni  avvinazzati.

Si vide la giustezza di simile giudizio il 3 gennaio 1925. A lungo le opposizioni legalitarie s'erano illuse nel processo di «normalizzazione» del fascismo. A lungo alcuni avevano creduto che la situazione fosse sfuggita di mano a Mussolini, non direttamente responsabile dell'ondata di violenze, e che la graduale espulsione dal Partito fascista dei più settari avrebbe senz'altro chiuso la parentesi della guerra civile. Potevano bastare a togliere queste illusioni gli estratti del memoriale di Cesare Rossi pubblicati il 27 dicembre 1924 dal giornale di Amendola, «Il Mondo». L'ex-capo dell'ufficio stampa della presidenza del Consiglio dei ministri, rifiutando la parte di capro espiatorio, scriveva: «Tutto quanto è successo è avvenuto sempre per la volontà diretta o per l'approvazione o per la complicità del duce». Sette giorni dopo, smettendola con la pratica solita di dire una cosa e di farne un'altra, a parole rispettoso dello Statuto e nei fatti ispiratore di violenza, Mussolini parlò brutalmente. Disse alla Camera: «Dichiaro qui, al cospetto di questa assemblea e al cospetto di tutto il popolo italiano, che io assumo, io solo, la responsabilità politica, morale, storica di tutto quanto è avvenuto... Se il fascismo è stato un'associazione a delinquere, io sono il capo di questa associazione a delinquere!». In tre giorni, dal 3 al 6 gennaio, furono chiusi 95 circoli e ritrovi politicamente sospetti, sciolte 25 organizzazioni «sovversive» e 120 gruppi dell'associazione Italia libera, fatte 655 perquisizioni domiciliari, arrestati 111 «sovversivi». I sequestri dei giornali d'opposizione divennero regola. Con quale risposta dell'Aventino? Ancora una astratta affermazione di princìpi. Le opposizioni legalitarie si riunirono l'8 gennaio in un'aula di Montecitorio accordandosi su una dichiarazione nella quale tra l'altro era detto: «La maschera costituzionale e normalizzatrice è caduta: il governo calpesta le leggi fondamentali dello Stato, soffoca con arbitrio inaudito la libera voce della stampa, sopprime ogni diritto di riunione, mobilita le forze armate del suo partito, mentre tollera e lascia impuniti le devastazioni e gli incendi che colpiscono i suoi avversari». Come scoperta della vocazione totalitaria del fascismo, era abbastanza tardiva. Come contromisura per riparare l'Italia dal dispotismo, era un ditale d'acqua sopra il falò delle libertà statutarie. Non si poteva certo sperare di impensierire Mussolini con simili denunzie. Il 12 gennaio Gramsci scrisse a Giulia: «Viviamo in Italia una fase che mi pare non si sia verificata in nessun altro paese, piena di imprevisti, perché il fascismo è riuscito nel suo compito di distruggere tutte le organizzazioni e quindi tutti i mezzi attraverso i quali le masse possono esprimere la loro volontà».

Non stava bene: «I miei nervi sono ammalati, ma più dei nervi il sangue è anemico» (4 dicembre 1924); «Sono un po' stanco. Da qualche giorno sono tormentato dalla nevralgia e quindi dall'insonnia: ho la testa confusa e pesante» (2 febbraio 1925). Gli avvenimenti gli impedivano però di riposare, e lo sforzo durava da un anno1. Scriveva articoli e, come ricorda Felice Platone, viaggiava da un capo all'altro del paese tenendo riunioni «per dissipare equivoci, spazzare pregiudizi, chiarire la situazione, fissare le prospettive, mobilitare uomini e organizzazioni». Ad altri militanti si rivolgeva con le dispense di una scuola di partito per corrispondenza. Gli era anche rimasta l'abitudine degli anni torinesi di far scuola ai giovani in lunghe passeggiate notturne per le vie della città.

In due o tre la sera - ricorda Velio Spano - lo riaccompagnavamo a piedi dal centro fino a via Nomentana. Nella conversazione di quell'uomo così prodigiosamente colto, non c'era nessuna astrattezza, non c'era niente di libresco... Parlava piano, come camminava; e costruiva il suo argomento lentamente, pezzo a pezzo, con una osservazione, più spesso con una domanda e con la risposta di un altro compagno.

Dei politici non comunisti, s'intratteneva specialmente con Emilio Lussu, leader del Partito sardo d'azione. Andavano spesso a mangiare insieme: Lussu gli faceva domande sulla Russia; lui faceva domande sul movimento dei contadini in Sardegna. Le occasioni di svago, un film o uno spettacolo teatrale, erano infrequenti. Quasi mai gli capitava di uscire, come scriveva Gramsci a Giulia, da «questo deserto puramente politico».

A fine gennaio del '25 conobbe Tatiana Schucht. L'aveva inutilmente cercata fin dal suo arrivo a Roma. Da molti anni ormai Tatiana viveva slegata dalla famiglia. Era rimasta a Roma quando i suoi, alla spicciolata, rimpatriavano. Le rivoluzioni di marzo e d'ottobre e la guerra civile avevano poi reso difficili i collegamenti, per l'isolamento della Russia. Era difficile a Tatiana sapere qualcosa dei suoi. Il 17 agosto 1921 Giulia aveva scritto a Leonilde Perilli: «Se questa lettera le giungerà cerchi di trovare Tatiana e di darle il nostro indirizzo». La lettera, scritta a Ivanovo e impostata in Germania, malgrado i tempi era giunta; ma la Perilli non aveva trovato subito Tatiana, che poi, finalmente rintracciata, si regolò in un modo che è difficile non considerare bizzarro. Era depressa; sospettava che qualcuno dei suoi fosse morto e non scriveva per paura d'avere la conferma di questo suo presentimento, legandosi così a uno stato d'ansia senza sbocchi. Ebbe le prime notizie da Gramsci; da lui seppe del matrimonio con Giulia.

Aveva allora sui quarant'anni, quattro-cinque più di Antonio. Doveva essere stata una bella ragazza, ma era sfiorita anzitempo, per le vicissitudini patite (ora si guadagnava da vivere insegnando scienze naturali in un istituto internazionale di via Savoia, il Crandon). Subito dopo l'incontro, Gramsci scrisse a Giulia, il 2 febbraio:

Ho conosciuto tua sorella Tatiana. Ieri siamo stati dalle quattro del pomeriggio fin quasi a mezzanotte: abbiamo parlato di tante cose, di politica, della sua vita qui a Roma, delle sue possibilità di lavoro. Siamo stati anche a mangiare insieme e non mi meraviglia che sia tanto debole: mangia pochissimo, sebbene non abbia nessuna malattia organica e anzi possa dirsi e apparire sanissima. Credo che si sia già diventati molto amici tra noi... Mi ha promesso di raccontarmi tutte le sue peripezie, in modo che io possa ripetertele tutte a voce. Sono stato molto contento di conoscerla. Perché rassomiglia molto specialmente a te; perché politicamente è molto più vicina a noi di quanto mi avessero fatto credere... Ha solamente l'eccezione della libertà di stampa negata agli «esserre» [socialisti rivoluzionari] e i patimenti che in alcune prigioni devono soffrire una certa Ismailia (mi pare) e la Spiridonova: vorrebbe lavorare per i Soviet, ma le hanno fatto credere che i rappresentanti a Roma dei Soviet sono tutte canaglie corrotte e non vorrebbe avere niente di comune con loro, non vorrebbe si credesse che lavorando con loro ella voglia avere i benefizi della Rivoluzione senza  averne sopportato i sacrifizi.

Si videro ancora. Questi squarci di vita privata non potevano però bastare a Gramsci, che aspettava con impazienza il momento di riabbracciare Giulia e di conoscere finalmente Delio. Era convocata a Mosca, per il 21 marzo, una riunione dell'Esecutivo allargato dell'Internazionale. Gramsci avrebbe guidato la delegazione italiana. Scrisse il 7 febbraio a Giulia:

Il mio viaggio è stato ancora ritardato di una quindicina di giorni, ma esso avverrà sicuramente, a quanto pare. Mi daranno persino un passaporto regolare. Una piccola consolazione per il ritardo. Potremo fare qualche passeggiata tra la fine di marzo e i primi di aprile?... Sai, tua sorella Tatiana mi anticipa un po' la tua presenza: ti somiglia molto in certi tratti e in certe mosse: la musica della sua voce è un'eco della tua voce (sarebbe contenta se sapesse che ho scritto «eco», perché una volta si è quasi offesa che si potesse paragonare la sua alla tua voce che dice bellissima): vado a trovarla spesso; è venuta spesso con me nelle trattorie romane, ma non mi è riuscito di farla mangiare che un pochino più del solito... Voleva prendere per te delle scarpettine con certi tacchi che mi hanno interrorito: ho resistito strenuamente, sostenendo che tu non avresti mai calzato simili orrori... Vuole comprare delle scarpette anche per il bambino: è una donna veramente terribile, tua sorella, con la sua manìa di calzare tutto il mondo.

Partì verso fine febbraio del '25. Non vedeva la moglie dal novembre del '23, quasi un anno e mezzo. Conobbe Delio, che si avviava a compiere gli otto mesi; il piccolo figlio era finalmente per Gramsci «un bambino proprio vivo e reale e non lieve impressione su un cartoncino fotografico». Lo turbò piuttosto trovarlo sofferente di pertosse: spesso usciva per portarlo a passeggio dentro la carrozzella nei giardini vicini alla Tverskaia Yamskaia (oggi via Gorkij), dove gli Schucht abitavano. Ma ancor più della malattia di Delio turbò Gramsci lo stato morboso di sua cognata, Eugenia. Era guarita dal grave esaurimento psico-fisico che l'aveva costretta, immobile nel letto, ad una lunga degenza nel sanatorio del «Bosco d'Argento»; perdurava tuttavia in lei una evidente condizione di debolezza nervosa, con segni preoccupanti di anormalità. In sanatorio aveva nutrito per Gramsci sentimenti più che d'amicizia; ora si considerava mamma anche lei di Delio. Così, appena dopo il suo arrivo a Mosca, Gramsci fu impressionato da questo episodio (lo racconta egli stesso in una lettera inedita): aveva deciso con Giulia di regalare alla dottoressa che curava il bambino una riproduzione dei puttini della Danae del Correggio; firmò come padre; poi, sotto il nome di Giulia, Genia volle aggiungere il suo ed a fianco dei due nomi scrisse «le mamme». Il signor Apollo era molto malcontento; non voleva che Delio chiamasse mamma anche Genia. Diceva continuamente: Delio ha una sola mamma, una sola mamma, una sola mamma. Anche in Gramsci c'era inquietudine; egli preferì tuttavia non affrontare la questione. Stimava molto Genia; l'aveva conosciuta quando lei non poteva muoversi dal letto e ne ricordava le sofferenze; e capiva che, ancora nell'impossibilità fisica di essere operosamente attiva, Delio era diventato per lei come un figlio reale, cioè l'unico e il maggior legame con la vita e col mondo. Fu umano. Lasciò Mosca con la promessa di Giulia che presto lei, il bambino e Genia, sarebbero venuti a Roma.

Il 28 aprile era nuovamente in Italia. Il governo aveva preparato un disegno di legge che la relazione ministeriale diceva rivolto prevalentemente a colpire la massoneria; il progetto era però formulato per il più generico fine di «disciplinare l'attività delle associazioni, enti ed istituti, e l'appartenenza ad essi dei pubblici impiegati»: nel che era facile indovinare la vera intenzione dei proponenti, decisi a darsi uno strumento per colpire, con l'apparenza di operare in regime di legalità, tutte le organizzazioni antifasciste. Rispetto alla massoneria, secondo Gramsci, il fascismo aveva ragioni di concorrenza e non di lotta con obiettivi opposti; lo scopo del fascismo poteva essere di troncare le gambe alla massoneria per imporle poi, da una posizione di evidente superiorità, un compromesso; ma soprattutto contro le organizzazioni, con le quali il compromesso era impossibile, si sarebbe rivolta, dopo questa legge, la furia repressiva del governo. Il 16 maggio 1925 Gramsci andò alla Camera per denunziare lo spirito sopraffattore della legge. Era il suo debutto in parlamento. Il giovane capo dell'opposizione di sinistra (Gramsci aveva allora trentaquattro anni) e quegli che sino al '14 era stato direttore dell'«Avanti!» e leader della giovane generazione rivoluzionaria e adesso, a quarantadue anni, si faceva chiamare duce dalle forze d'assalto della borghesia reazionaria stavano infine l'uno di fronte all'altro. Ben si conoscevano, anche se, prima d'allora, non c'erano mai state occasioni d'incontri. Parlando il 1° dicembre 1921 dai banchi dell'opposizione, Musssolini aveva detto alla Camera: «Gli anarchici definiscono il direttore dell' "Ordine nuovo" un finto stupido, finto veramente perché si tratta di un sardo gobbo e professore di economia e filosofia, di un cervello indubbiamente potente». E Gramsci aveva scritto il 15 marzo 1924 su «L'Ordine nuovo» quindicinale:

Abbiamo in Italia il regime fascista, abbiamo a capo del fascismo Benito Mussolini, abbiamo una ideologia ufficiale in cui il capo è divinizzato, è dichiarato infallibile, è preconizzato organizzatore e ispiratore di un rinato Sacro Romano Impero. Vediamo stampate nei giornali, ogni giorno, diecine e centinaia di tele grammi di omaggio delle vaste tribù locali al capo. Vediamo le fotografie: la maschera più indurita di un viso che già abbiamo visto nei comizi socialisti. Conosciamo quel viso: conosciamo quel roteare degli occhi nelle orbite che nel passato dovevano, con la loro ferocia meccanica, far venire i vermi alla borghesia e oggi al proletariato. Conosciamo quel pugno sempre chiuso alla minaccia. Conosciamo tutto questo meccanismo, tutto questo armamentario e comprendiamo che esso possa impressionare e muovere i precordi alla gioventù delle scuole borghesi; esso è veramente impressionante anche visto da vicino...

Ma chi era in realtà Mussolini? Era «il tipo concentrato del piccolo-borghese italiano, rabbioso, feroce impasto di tutti i detriti lasciati sul suolo nazionale da vari secoli di dominazione degli stranieri e dei preti: non poteva essere il capo del proletariato; divenne il dittatore della borghesia, che ama le facce feroci quando ridiventa borbonica, che spera di vedere nella classe operaia lo stesso terrore che essa sentiva per quel roteare degli occhi e quel pugno chiuso teso alla minaccia», Ora per la prima volta i due leaders si fronteggiavano nell'aula di Montecitorio. Due personalità opposte, due temperamenti l'uno il rovescio dell'altro.

La sonorità del tribuno non era di Gramsci; il suo di scorso sembrava venire direttamente dal cervello, non da polmoni e gola. Aveva scritto Gobetti su «La Rivoluzione liberale», all'indomani delle elezioni d'aprile: «Se Gramsci parlerà a Montecitorio vedremo probabilmente i deputati fascisti raccolti e silenziosi a udire la sua voce sottile ed esile e nello sforzo di ascoltare parrà loro di provare un'emozione nuova di pensiero. La dialettica di Gramsci non protesta contro i brogli o le truffe ma ne documenta, dalle pure altezze dell'idea hegeliana, la insopprimibile necessità per un governo borghese». Parole profetiche. «Mentre Gramsci parlava», ricorda Velio Spano, «tutti i deputati si erano riversati sui banchi dell'estrema sinistra, per udirne meglio la debole voce inflessibile. Una grande fotografia pubblicata da un giornale romano mostrava il capo del governo fascista con la mano tesa dietro l'orecchio in uno sforzo d'attenzione». Calmo Gramsci analizzava la sostanza di classe della massoneria2 e del fascismo3. E ne traeva una prima conseguenza:

Il fascismo lotta contro la sola forza organizzata efficientemente che la borghesia avesse in Italia, per soppiantarla nella occupazione dei posti che lo Stato dà ai suoi funzionari. La rivoluzione fascista è solo la sostituzione di un personale amministrativo ad un altro personale.

Mussolini: Di una classe ad un'altra, come è avvenuto in Russia, come avviene normalmente in tutte le rivoluzioni, come noi  faremo  metodicamente...

Gramsci: È una rivoluzione solo quella che si basa su una nuova classe. Il fascismo non si basa su nessuna classe che non fosse già al potere...

Mussolini: Ma se gran parte dei capitalisti ci sono contro, ma se vi cito dei grandissimi capitalisti che ci votano contro, che sono  all'opposizione, i Motta, i Conti...

Farinacci: E sussidiano i giornali sovversivi!

Mussolini: L'Alta Banca non è fascista, voi lo sapete!

Era facile a Gramsci obiettare che il fascismo si preparava appunto al compromesso con le forze non ancora assorbite nel sistema:

Il fascismo non è riuscito completamente ad attuare l'assorbimento di tutti i partiti nella sua organizzazione. Con la massoneria ha impiegato la tattica politica del noyautage, poi il sistema terroristico dell'incendio delle logge; e infine impiega oggi l'azione legislativa per cui determinate personalità dell'Alta Banca e dell'alta burocrazia finiranno per l'accodarsi ai dominatori per non perdere il loro posto; ma, con la massoneria, il Governo fascista dovrà venire a un compromesso. Come si fa quando un nemico è forte? Prima gli si rompono le gambe, poi si fa il compromesso in condizioni di evidente superiorità. [...] Perciò, noi diciamo che in realtà la legge è fatta specialmente contro le organizzazioni operaie. Domandiamo perché da parecchi mesi a questa parte senza che il Partito comunista sia stato dichiarato associazione a delinquere, i carabinieri arrestano i nostri compagni ogni qualvolta li trovano riuniti in  numero di almeno tre...

Mussolini: Facciamo quello che fate in Russia...

Gramsci: In Russia ci sono delle leggi che vengono osservate: voi avete le vostre leggi...

Mussolini: Voi fate delle retate formidabili. Fate benissimo!

Gramsci: In realtà l'apparecchio poliziesco dello Stato considera già il Partito comunista come un'organizzazione segreta.

Mussolini: Non è vero!

Gramsci: Intanto si arresta senza nessuna imputazione specifica chiunque sia trovato in una riunione di tre persone, soltanto perché comunista, e lo si butta in carcere.

Mussolini: Ma vengono presto scarcerati. Quanti sono in carcere? Li peschiamo semplicemente per conoscerli.

Gramsci: È una forma di persecuzione sistematica, che anticipa e giustificherà l'applicazione della nuova legge. Il fascismo adotta gli stessi sistemi del governo Giolitti. Fate come facevano nel Mezzogiorno i mazzieri giolittiani che arrestavano gli elettori di  opposizione... per  conoscerli.

Una voce: Ce ne è stato un caso solo. Lei non conosce il Meridione.

«Sono meridionale», rispose subito Gramsci. Le continue interruzioni gli impedivano di svolgere il discorso linearmente. Sempre riusciva però a ritrovare il filo:

Poiché la massoneria passerà in massa al partito fascista e ne costituirà una tendenza, è chiaro che con questa legge voi sperate di impedire lo sviluppo di grandi organizzazioni operaie e contadine. Questo è il valore reale, il vero significato della legge. Qualche fascista ricorda ancora nebulosamente gli insegnamenti dei suoi vecchi maestri, di quando era rivoluzionario e socialista, e crede che una classe non possa rimanere tale permanentemente e svilupparsi fino alla conquista del potere, senza che essa abbia un partito ed una organizzazione che ne riassuma la parte migliore e più cosciente. C'è qualcosa di vero, in questa torbida perversione reazionaria degli insegnamenti marxisti.

Ma, nella situazione data, era poi certo che la disgregazione dei partiti operai avrebbe ricacciato indietro per sempre le forze del proletariato italiano? A chi gli aveva gridato «Lei non conosce il Meridione», il deputato sardo diceva adesso:

In Italia il capitalismo si è potuto sviluppare in quanto lo Stato ha premuto sulle popolazioni contadine, specialmente nel Sud. Voi oggi sentite l'urgenza di tali problemi, perciò promettete un miliardo per la Sardegna, promettete lavori pubblici e centinaia di milioni a tutto il Mezzogiorno; ma per fare opera seria e concreta dovreste cominciare col restituire alla Sardegna i 100-150 milioni di imposte che ogni anno estorcete alla popolazione sarda. Dovreste restituire al Mezzogiorno le centinaia di milioni di imposte che ogni anno estorcete alla popolazione meridionale... Ogni anno lo Stato estorce alle regioni meridionali una somma di imposte che non restituisce in nessun modo, né con servizi di nessun genere... Somme che lo Stato estorce alle popolazioni contadine meridionali per dare una base al capitalismo dell'Italia settentrionale. Su questo terreno delle contraddizioni del sistema capitalistico italiano, si formerà necessariamente, nonostante tutte le leggi repressive, nonostante le difficoltà di costituire grandi organizzazioni, l'unione degli operai e dei contadini contro il nemico comune... Voi potete «conquistare lo Stato», potete modificare i codici, voi potete cercar di impedire alle organizzazioni di esistere nella forma in cui sono esistite fino adesso; non potete prevalere sulle condizioni obiettive in cui siete costretti a muovervi. Voi non farete che costringere il proletariato a ricercare un indirizzo diverso da quello fin'oggi più diffuso nel campo dell'organizzazione di massa. Ciò noi vogliamo dire al proletariato e alle masse contadine italiane, da questa tribuna: che le forze rivoluzionarie italiane non si lasceranno schiantare, che il vostro torbido sogno non riuscirà a realizzarsi.

L'aula rumoreggiava. Per Gramsci era l'esordio, ed anche il commiato. Mai più avrebbe parlato da quel banco. Si racconta, ma non si hanno in proposito testimonianze dirette, che Mussolini, vedendolo subito dopo alla buvette della Camera, gli andasse incontro con la mano tesa, per felicitarsi del suo discorso. Indifferente, Gramsci continuò a sorbire il caffè, ignorando la mano che gli veniva tesa.

Scrisse nove giorni dopo a Giulia:

Il lavoro si svolge molto disordinato e sconnesso: ciò si riflette sul mio stato d'animo, già abbastanza disordinato. Le difficoltà si moltiplicano, abbiamo ora una legge sulle (contro le) organizzazioni, che prelude a tutto un sistematico lavoro poliziesco per disgregare il nostro partito. Su questa legge ho fatto il mio debutto in Parlamento. I fascisti mi hanno fatto un trattamento di favore, quindi, dal punto di vista rivoluzionario, ho incominciato con un insuccesso. Poiché ho la voce bassa, si sono riuniti intorno a me per ascoltarmi e mi hanno lasciato dire quello che volevo, interrompendomi continuamente solo per deviare il filo del discorso, ma senza volontà di sabotaggio. Io mi divertivo nell'ascoltare ciò che essi dicevano, ma non seppi trattenermi dal rispondere e ciò fece il loro gioco, perché mi stancai e non riuscii più a seguire l'impostazione che avevo pensato di dare al mio intervento.

Era stanco. L'estate romana gli provocava insonnia, spossandolo. Doveva muoversi con cautela, usciva lo stretto indispensabile e non vedeva che pochi amici:

Sento la mia solitudine oltre ogni cosa, anche per l'organizzazione illegale del Partito che costringe al lavoro individuale e indipendente. Cerco di evadere da questo deserto puramente politico recandomi spesso da Tatiana che mi ricorda te. Ma la tua assenza non può in modo alcuno essere compensata. Tutte le scene che si presentano ai miei occhi nel mondo intorno mi ricordano te e Delio e mi fanno sentire la mia infelicità più acutamente... Ma non importa... Tutto passerà, perché sono sicuro che tu verrai in Italia e che sarà possibile a tutte le nostre forze di espandersi, a tutta la nostra personalità di affermarsi, assistendo insieme allo sviluppo della vita di Delio.

Giulia e il bambino lo raggiunsero a Roma in autunno.

Note

1 A Giulia il 16 gennaio 1925 scriverà: «Più di un anno è passato da quando ci siamo lasciati: per me ha voluto dire una vita più intensa, quando ancora fisicamente non ero in grado di viverla compiutamente».

2 «Dato il modo in cui si è costituita l'Italia in unità, data la debolezza iniziale della borghesia capitalistica italiana, la massoneria è stata l'unico partito reale ed efficiente che la classe borghese ha avuto per lungo tempo.»

3 «La prima istintiva e spontanea parola d'ordine del fascismo, dopo l'occupazione delle fabbriche, è stata questa: "I rurali controllano la borghesia urbana che non sa essere forte contro gli operai".»

CAPITOLO VENTESIMO

L'Esecutivo allargato del marzo-aprile 1925 aveva confermato la linea degli ultimi due congressi dell'Internazionale, il IV e il V: la dittatura del proletariato era la soluzione finale; ma in Italia doveva realizzarsi, intanto, un obiettivo intermedio, il recupero delle libertà democratico-borghesi; e per questa battaglia era necessaria, a giudizio dell'Internazionale, la più larga alleanza delle masse lavoratrici e dei loro partiti, con l'egemonia della classe operaia, diretta dall'organizzazione d'avanguardia del proletariato, il Partito comunista. Gramsci, attento agli sviluppi della situazione italiana, che era caratterizzata allora, dopo tre anni di terrorismo fascista, dalla reviviscenza nelle masse popolari di aspirazioni democratiche più che da un ritorno di volontà rivoluzionaria, non dubitava che fosse questa la linea giusta. Aveva scritto ne «L'Ordine nuovo» del 1° settembre 1924:

La crisi Matteotti ci ha offerto molti insegnamenti... Ci ha insegnato che le masse, dopo tre anni di terrore e di oppressione, sono diventate molto prudenti e non vogliono fare il passo più lungo della gamba... [Questa prudenza] è destinata a scomparire certamente e anche in un periodo di tempo non lungo: ma intanto esiste e può essere superata solo se noi volta per volta, in ogni occasione, in ogni momento, pur andando avanti, non perderemo il  contatto con l'insieme della classe lavoratrice.

Di qui l'esigenza della lotta al bordighismo: «Se esistono nel nostro Partito gruppi e tendenze che vogliano per fanatismo forzare la situazione, occorrerà lottare contro di essi in nome dell'intero Partito». Bordiga però non sembrava disposto alla resa.

Tutte le soluzioni intermedie erano da lui respinte. Alla dittatura borghese non poteva darsi altra alternativa diversa dalla dittatura del proletariato. Il dominio borghese che si esercita in forme democratiche non gli appariva preferibile al dominio borghese radicalizzato dispoticamente. Con l'avvento dei fascisti, c'era stata una semplice rotazione al potere di gruppi nemici del proletariato; e poiché, nella sua prospettiva, il solo partito autenticamente avversario della borghesia era il Partito comunista (essendo tutti gli altri partiti, senza distinzioni, da quelli socialisti al Partito sardo d'azione, punti d'appoggio dell'ordine borghese), al Partito comunista, solo e incontaminato da alleanze impure, toccava abbattere il fascismo, per sostituire allo stato borghese lo stato proletario, senza alcuna fase intermedia di tipo democratico, giudicata più esiziale del fascismo. Dopo tutto, il fascismo, sopprimendo le illusioni democratiche, non apriva meglio la strada al comunismo? Non ne postulava meglio la necessità? Era una diagnosi schematica e fuori dalla realtà; era una tattica suicida, avendo il solo risultato di condannare il Partito comunista all'isolamento e in pratica al puro schiamazzo rivoluzionario, quando non vocalizzi di rivolta bisognava opporre al totalitarismo fascista ma azioni concrete. S'erano costituiti nella primavera del '21 i gruppi degli Arditi del popolo, un'organizzazione decisa a mettersi sul terreno della resistenza armata alle violenze fasciste. Bordiga, giudicando ogni forma di alleanza coi socialisti non coerente alle ragioni della scissione di pochi mesi prima a Livorno, aveva ordinato ai comunisti di non mischiarsi ai socialisti, per la verità non contrastato in questa sua decisione settaria dagli altri dirigenti del partito, allora tutti o quasi sulle posizioni estreme del loro leader. Da quel tempo la sua linea non era mutata affatto. Zinovjev aveva tentato di recuperarlo offrendogli la vice presidenza dell'Internazionale. Ma in quest'uomo rigido e tagliato per il combattimento, il culto di una malintesa coerenza era più forte della vanità.

In vista del congresso, che avrebbe verificato il reale rapporto di forze all'interno del partito, Gramsci dovette viag giare a lungo. Riferendosi ad una riunione di tutto l'attivo della federazione di Milano (capizona, capisettore, capicellula) svoltasi nell'estate del '25, Giovanni Farina ricorda le parole introduttive del suo intervento: «Il popolo italiano in questo momento non lotta per la dittatura del proletariato ma per la democrazia. Non comprendere questo significa non comprendere il significato degli avvenimenti che si svolgono sotto i nostri occhi». Erano parole sospettabili d'eresia, nel giudizio di quelli che «vedevano la rivoluzione a ogni angolo di strada» (così Farina), e la favola di Gramsci regredito su posizioni socialdemocratiche ne ebbe alimento, all'estrema sinistra del partito.

Fu una estate di lavoro intenso. Scrisse il 15 agosto a Giulia: «Sono stato e sono tuttora lontano da Roma; devo viaggiare per tenere delle riunioni e devo cercare continuamente di far perdere le mie tracce ai poliziotti». Sentiva molto la mancanza di Giulia e del bambino:

Ho girato molto in questi ultimi tempi, ho visto dei luoghi che mi dicono essere bellissimi, dei paesaggi che pare siano ammirabili, tanto che gli stranieri vengono di lontano per contemplarli. Sono staro a Miramare, per esempio, ma mi è sembrato una fantasia errata di Carducci; le bianche torri mi sono parse dei fumaioli appena allora imbiancati con la calcina: il mare era giallo sporco perché dei terrazzieri che costruivano una strada vi avevano buttato delle tonnellate di detriti; il sole mi parve solo un calorifero fuori stagione. Ma mi sono ricordato che tutte queste impressioni dovevano essere legate all'essere io diventato «apatico», come osservò la tua mamma, all'aver perso il gusto della natura e della vita che mi circonda, perché sempre penso che tu sei lontana, perché da quando ti voglio bene nessuna gioia posso sentire che non sia legata a te, che non cessi immediatamente se penso che tu non sei vicina e non puoi vedere ciò che io vedo... Per me Delio è stato davvero una stella filante di San Lorenzo, e anche il nostro amore non ha avuto un po' lo stesso carattere?

Ogni bambino gli ricordava Delio. Nei brevi soggiorni milanesi, era ospitato al numero 7 di via Napo Torriani, sede della società editrice de «l'Unità». Nell'ammezzato abitava con la moglie e i suoi bimbi, l'amministratore del giornale, Aladino Bibolotti. Gramsci aveva sempre a disposizione una cameretta in quell'ammezzato. E Fidia Sassano, allora redattore de «l'Unità», lo ricorda «nel corridoio dell'amministrazione, non osservato da alcuno, inseguire a quattro zampe i bambini di Bibolotti».

A settembre si trasferì per alcuni giorni nella casa di Togliatti a Roma; sotto la sua direzione, infatti, furono scritte le tesi per il III Congresso nazionale del partito, che si sarebbe svolto in gennaio a Lione. Il documento, d'impronta nuova, era un saggio, lucido e piano, sulla situazione italiana e sui compiti del Partito comunista. Con rigore scientifico, fuori dalla declamazione polemica propria di troppi documenti congressuali del movimento operaio italiano, vi si analizzavano le strutture sociali ed economiche del paese, le contraddizioni del regime capitalistico e le componenti e il ruolo del fascismo all'interno di quelle contraddizioni, e poi le forze di classe e politiche «motrici» della rivoluzione proletaria e quelle che potevano essere spinte al movimento e inglobate in un sistema di alleanze per la vittoria sul fascismo. È indicativa della profondità d'analisi di questo documento la previsione, che ha risalto profetico, degli sbocchi estremi cui era destinato il fascismo:

Coronamento di tutta la propaganda ideologica, dell'azione politica ed economica del fascismo è la tendenza di esso all'«imperialismo». Questa tendenza è la espressione del bisogno sentito dalle classi dirigenti industriali-agrarie italiane di trovare fuori del campo nazionale gli elementi per la risoluzione della crisi della società italiana. Sono in essa i germi di una guerra che verrà combattuta, in apparenza, per l'espansione italiana ma nella quale in realtà l'Italia fascista sarà uno strumento nelle mani di uno dei gruppi imperialisti che si contendono il mondo.

In sintesi, erano questi i cardini delle tesi per il Congresso di Lione: la definizione del fascismo come metodo di stabilizzazione del capitalismo italiano; la proclamazione della egemonia del proletariato nella lotta antifascista; ma anche l'analisi di tutte le forze di massa che potevano essere conquistate a un blocco operaio-contadino e la distinzione tra le forze borghesi bloccate attorno al fascismo e le forze borghesi inquadrate o inquadrabili in formazioni democratiche antifastiste; infine, alla base di tutto, l'affermazione del ruolo primario del Partito comunista strutturato in cellule nei luoghi della produzione alla testa della classe operaia egemone. Era un bel passo avanti, rispetto a Bordiga, anche se in mezzo e a lato di queste enunciazioni potevano anche cogliersi residui dell'antico settarismo (e sarà lo stesso Togliatti ad ammetterlo: «Vi sono ancora, in questo documento, tracce del vecchio orientamento settario»). Qui importa solo dire il contributo di Gramsci alla rottura dei vecchi schemi.

Lo aveva messo in agitazione la notizia, riferitagli da alcuni compagni, del sicuro trasferimento di Giulia a Roma «per lavorare». «Non so come giudicare questa notizia, in mancanza di ogni tuo accenno in proposito; ho riferito a Tatiana la voce e la poverina non ha dormito, tanto ne è stata commossa. Ella è sicura che tu verrai in ogni modo e ti attende con ansia.» Giulia e Delio arrivarono in ottobre; li accompagnava Eugenia. Gramsci, che intanto si era trasferito con i Passarge in una casa di via Morgagni, aveva affittato per essi un appartamentino mobiliato in via Trapani.  Giudicò  prudente non unirsi a loro. Temeva di coinvolgerli e che il governo revocasse a Giulia il permesso di soggiorno. C'era stato un nuovo giro di vite. Il 4 ottobre a Firenze gli squadristi avevano seminato il terrore uccidendo l'ex-deputato socialista Gaetano Pilati e l'avvocato Gaetano Consolo, nella sua casa, sotto gli occhi della moglie e dei bambini, e tant'altri avevano ferito e molte case di avversari devastate, in una notte di inaudita ferocia. La vita degli oppositori al fascismo non era più sicura. Bisognava muoversi con cautela. Il 24 ottobre la stanza di Gramsci in via Morgagni fu messa a soqquadro nel corso di una perquisizione della polizia. Poi, il 4 novembre, la  scoperta del tentativo di un ex-deputato socialista, Tito Zaniboni, di uccidere Mussolini sparandogli da una camera dell'albergo Dragoni quando si fosse affacciato al balcone di Palazzo Chigi per il discorso nell'anniversario della vittoria, contribuì ad inasprire il fascismo, e l'atmosfera si fece ancor più pesante. Giulia andava la mattina e il pomeriggio all'ambasciata sovietica, dov'era impiegata (per stare in Italia con Antonio aveva rinunciato al violino ed all'insegnamento della musica), e Gramsci veniva a trovarla in via Trapani sul tardi, per la cena e poi trattenendosi fin oltre la mezzanotte. Non uscivano mai insieme. Qualche volta Giulia andava con le sorelle e con Leonilde Perilli ai concerti dell'Argentina o dell'Adriano. Antonio non le accompagnava. Rimaneva in casa a giocare col bambino.

Delio era sull'anno e mezzo, ma il padre vedeva in lui virtù straordinarie e gli si rivolgeva come ad un ometto. «Egli suonava il pianoforte, cioè aveva compreso», dirà, «la diversa gradazione locale delle tonalità sulla tastiera, dalla voce degli animali: il pulcino a destra, e l'orso a sinistra, con gli intermedi di svariati altri animali». Ed ancora dirà, convinto sul serio delle grandi capacità intellettive di suo figlio: «Il suo amore per gli animali veniva sfruttato in due modi: per la musica, in quanto si ingegnava a riprodurre nel pianoforte la gamma musicale secondo la voce degli animali, dall'orso baritonale all'acuto del pulcino, e per il disegno». Al bimbo piaceva d'essere intrattenuto in modi sempre uguali: «Prima bisognava mettere l'orologio a muro sul tavolo e fargli fare tutti i movimenti possibili; poi bisognava scrivere una lettera alla nonna materna con la figura degli animali che lo avevano colpito nella giornata; poi si andava al piano e si faceva la sua musica animalesca, poi si giocava in vario modo».

A comandare in casa era Genia. Lei cucinava, lei assisteva il bambino, mentre Giulia e Tatiana erano in ufficio e a scuola. Tutte ne subivano l'influenza, anche perdonandole alcune manifestazioni di chiaro fondo morboso. Gramsci aveva a lungo riflettuto con preoccupazione, dopo il suo viaggio a Mosca, sull'attaccamento di Genia a Delio. Era stato poi colpito dalla notizia, letta su un giornale, di un dramma avvenuto a Genova in una famiglia sarda: una donna ammalata di cancro si era avvelenata e aveva avvelenato un suo nipotino di cinque anni, lasciando scritto che voleva portarsi con sé in paradiso il nipotino, perché neanche in paradiso avrebbe potuto stare senza di lui. Questa forma morbosa di affetto che può giungere fino al crimine dava a Gramsci seri motivi di riflessione. Per qualche giorno s'era sentito chiamare da Delio diadia, che in russo vuol dire zio. Solo un brusco intervento di Tania presso Genia aveva aggiustato le cose. Per conto suo Gramsci, sebbene preoccupato, si guardava dal fare drammi Nella seconda quindicina del gennaio '26, passò dande stinamente la frontiera francese, per il Congresso nazionale del partito (organizzato a Lione), il terzo dopo quello costitutivo di Livorno e l'altro di Roma nel marzo 1922. L'espatrio non fu molto semplice: alle lunghe camminate in montagna ed alle riunioni all'aperto Gramsci era però abituato; in una lettera a Giulia dell'anno avanti diceva di un suo «certo apprendissaggio ai viaggi sulla neve e allo sdraiarsi sulla medesima di notte per riposare». C'erano a Lione delegati di tutt'Italia (il 18,9 per cento di «assenti e non consultati»). Il metodo seguito per la convocazione dei congressi provinciali, per il dibattito in essi e per la designazione dei delegati al congresso nazionale era contestato dai bordighiani, che accusavano la maggioranza gramsciana di soprusi. Il 20 gennaio, parlando alla commissione politica del congresso, Gramsci ribadì, in polemica con la sinistra, l'inattualità dei tentativi insurrezionali.

In nessun paese - disse - il proletariato è in grado di conquistare il potere e di tenerlo con le sole sue forze: esso deve quindi procurarsi degli alleati, cioè deve condurre una tale politica che gli consenta di porsi a capo delle altre classi che hanno interessi santicapitalistici e guidarle nella lotta per l'abbattimento della società borghese. La quistione è particolarmente importante per l'Italia, dove il proletariato è una minoranza della popolazione lavoratrice ed è disposto geograficamente in forma tale che non può presumere di condurre una lotta vittoriosa per il potere se non dopo avere dato una esatta risoluzione al problema dei suoi rapporti con la classe dei contadini. Alla impostazione e risoluzione di questo problema dovrà dedicarsi in particolar modo il nostro Partito nel prossimo avvenire.

Si doveva dunque pensare adesso, nella direttiva gramsciana, all'organizzazione politica e non alla conquista del potere per via insurrezionale. Le tesi della maggioranza del comitato centrale furono approvate col 90,8 per cento dei voti congressuali; alla sinistra del Comitato Centrale (Bordiga) andò il 9,2 per cento dei voti. Ma Bordiga ricorse all'Internazionale denunziando l'irregolarità del Congresso (e l'Internazionale respinse il ricorso).

Intanto in Italia il rullo fascista si avviava a schiacciare anche gli ultimi residui di libertà. I deputati del Partito popolare s'erano staccati dall'Aventino facendo la loro ricomparsa nell'aula di Montecitorio il 16 gennaio 1926. Furono bastonati a sangue dai deputati fascisti, e l'indomani Mussolini disse:

Chiunque dell'Aventino voglia ritornare, semplicemente tollerato, in quest'aula, deve solennemente e pubblicamente: primo, riconoscere il fatto compiuto della rivoluzione fascista, per cui una opposizione preconcetta è politicamente inutile, storicamente assurda, e può essere compresa soltanto da coloro che vivono al di là dei limiti dello Stato; secondo, riconoscere non meno pubblicamente e non meno solennemente che la nefanda campagna scandalistica dell'Aventino è miseramente fallita, perché non è mai esistita una questione morale che riguardasse il governo o il partito; terzo, scindere non meno solennemente e pubblicamente la propria responsabilità da coloro che oltre le frontiere continuano l'agitazione antifascista. Accettate ed eseguite queste condizioni, gli sbandati dell'Aventino possono sperare nella nostra tolleranza e rientrare in quest'aula. Senza l'accettazione e l'esecuzione di queste condizioni, sinché sarò a questo posto, e mi riprometto di starci per un pezzo, essi non rientreranno: né domani né mai!

Cominciava «l'anno napoleonico della rivoluzione fascista», cosi Mussolini aveva detto del 1926. Il Partito socialista unitario (il partito di Turati), al quale apparteneva Tito Zaniboni, era stato disciolto subito dopo la scoperta del tentativo d'attentato contro Mussolini, e il suo giornale, «La Giustizia», non poteva più uscire. Non usciva dal novembre 1925 «La Rivoluzione liberale»: a Piero Gobetti era stato ingiunto dal questore di Torino di chiudere e di cessare da ogni attività editoriale e pubblicistica; il 6 febbraio 1926 Gobetti espatriò diretto a Parigi (per morirvi nove giorni dopo, a meno di venticinque anni). Erano emigrati anche Amendola e Salvemini. Una legge del 31 gennaio 1926 disponeva, per chi all'estero continuasse la polemica antifascista, la perdita della cittadinanza italiana, poi anche il sequestro dei beni e, nei casi estremi, la confisca. Furono privati della cittadinanza italiana, fra gli altri, Salvemini e un giornalista cattolico, Giuseppe Donati, che aveva denunziato la corresponsabilità del capo della polizia De Bono nell'assassinio di Matteotti. Il processo per l'affare Matteotti si svolse a Chieti dal 16 al 24 marzo 1926. Autorità e giudici ricevettero il segretario del Partito fascista, Roberto Farinacci, difensore degli imputati, in municipio e in prefettura. Fu esclusa dal pubblico ministero la premeditazione; fu ammessa la preterintenzionalità dell'omicidio. Dumini, Volpi e Poveromo si ebbero una condanna a cinque anni, undici mesi e venti giorni (quattro anni condonati grazie a un decreto d'amnistia dell'anno prima). Erano trascorse due settimane dal giorno della sentenza quando, il 7 aprile, una cittadina britannica di sessantadue anni, Violet Gibson, sparò contro Mussolini, all'uscita dal Palazzo dei Conservatori in Campidoglio, ferendolo lievemente al naso. Era una squilibrata, già degente in manicomio. La rappresaglia fascista si rivolse alle sedi degli ultimi giornali liberi. Le redazioni de «Il Mondo» e della «Voce repubblicana» furono devastate. Per Antonio Gramsci, la vita s'era fatta ormai molto difficile.

Venne a Roma Apollo Schucht, una bella figura alla Tolstoj, il corpo forte e la barba lunga e candida. Certo la Roma del 1926, crocevia di milizie, somigliava poco alla Roma quieta e tollerante ch'egli aveva conosciuto nel primo quindicennio del secolo. Ma Delio era un'ottima ragione per viverci. La famiglia Schucht si ricomponeva dunque in Italia, come sino a una decina d'anni avanti, meno Nadina Leontieva, della quale non s'erano più avute notizie, Anna, rimasta col marito a Mosca, Vittorio e la mamma. Furono per Gramsci, malgrado le condizioni generali di vita e la semi-clandestinità cui era costretto, mesi felici; poteva almeno espandersi nell'intimità della famiglia: Giulia e Delio vicini lo aiutavano a sopportare le difficoltà del lavoro politico.

Giulia aspettava un altro bambino. Non avrebbe voluto lasciare ugualmente il lavoro all'ambasciata sovietica e l'Italia. Senonché ogni decisione era condizionata dall'appesantirsi della situazione politica. Si doveva calcolare l'ipotesi, abbastanza realistica, dell'impossibilità di continuare a vivere in Italia; forse anche Antonio sarebbe stato costretto all'espatrio, come già altri leaders delle opposizioni. Tanto valeva, concluse Eugenia, imponendosi a Giulia, che si anticipasse la partenza: la nascita del bambino avrebbe in seguito complicate le cose; dippiù lo sbalzo dal clima dolce di Roma al ben più rìgido clima di Mosca poteva nuocergli; senza contare, una volta sistemati tutti a Mosca, la maggiore libertà di movimento di Antonio, quando gli avvenimenti lo costringessero a lasciare l'Italia. Il discorso di Eugenia parve ragionevole. Lasciarono Roma a luglio, con un programma di villeggiatura a Trafoi, nel bolzanese. Giulia varcò la frontiera il 7 agosto 1926 (ventitre giorni dopo, il 30 agosto, darà alla luce Giuliano). Eugenia e Tatiana rimasero con Delio a Trafoi. Antonio le raggiunse a fine agosto:

Ho avuto l'impressione - scriverà a Giulia - che Delka stesse molto meglio che a Roma: mi pare che si sia rassodato e i robustito. Si è anche sviluppato intellettualmente: ha preso contatto col mondo esterno, ha conosciuto una infinità di cose nuove. Penso che il suo soggiorno a Trafoi, in una grandiosa cornice di montagne e di ghiacciai, lascerà nella sua memoria tracce molto profonde. Abbiamo giocato. Gli ho costruito qualche giocarello: abbiamo acceso dei fuochi in campagna; non c'erano delle lucertole e non ho perciò potuto insegnargli a catturarle. Mi pare che ora incominci per lui una fase molto importante, quella che lascia ricordi più tenaci, perché durante il suo sviluppo si conquista  il mondo grande e terribile.

S'era messo in testa di fargli apprendere qualche parola di sardo: «Volevo insegnargli anche a cantare Lassa sa figu, puzone [lascia il fico, uccello] ma specialmente le zie si sono opposte energicamente». Il bimbo parti con la zia Genia a settembre. Antonio non lo avrebbe più visto.

CAPITOLO VENTUNESIMO

Si applicò alla stesura di un saggio sulla questione meridionale, argomento non nuovo per lui. Era stato il tema delle sue prime riflessioni politiche, quando, ragazzo, viveva a Ghilarza ed a Santulussurgiu in un ambiente di contadini e di pastori, e poi da studente liceale a Cagliari, al tempo delle letture salveminiane. Andato a Torino, nel nuovo ambiente di operai delle fabbriche e non più di contadini, aveva continuato a proporselo, seppure da un'angolazione diversa, con altra maturità: approfondendolo infine come un aspetto di un più vasto problema, il problema della rivoluzione proletaria. Il ragazzo che s'era formato in temperie sardista, in un clima di continua denuncia dell'arretratezza del popolo sardo per l'abbandono di cui l'isola soffriva, aveva in principio del problema meridionale una visione ancora angusta, con influenze di un ambiguo irredentismo paesano: lì era tutta la Sardegna protagonista del riscatto dei contadini e dei ceti affamati, e questo riscatto poteva realizzarsi solo con la lotta di tutta la Sardegna, regione-nazione, al «continente». Poi ecco l'orientamento al socialismo, ecco la scoperta della società divisa in classi; la verifica, a Torino, di una realtà: che a profittare del regime protezionistico, ulcera dell'economia meridionale, non era tutto il «continente» delle industrie, ma la sola classe proprietaria, la classe dei padroni delle fabbriche protette. L'adesione di Gramsci, ventiduenne, al manifesto anti-protezionista di Deffenu e Fancello, nel 1913, discendeva da un atteggiamento di protesta nei confronti dell'imprenditorato parassitario. Cominciava anche a chiarirsi, nel giovane sardo, una verità: non esiste una questione meridionale scissa dalla questione nazionale, quasi una questione a sé, risolvibile con rimedi specifici; non può esistere una politica giusta per il Mezzogiorno, se la politica generale del paese è una politica ispirata da interessi particolari. Leggiamo in uno dei primi articoli scritti da Gramsci a 25 anni, quando solo da pochi mesi collaborava regolarmente a «Il Grido del popolo» (Il Mezzogiorno e la guerra, 1° aprile 1916):

Il Mezzogiorno non ha bisogno di leggi speciali e di trattamenti speciali. Ha bisogno di una politica generale, estera e interna, che sia ispirata al rispetto dei bisogni generali del paese e non di particolari tendenze politiche o regionali. Non basta costruire una strada o un bacino montano per compensare i danni che certe regioni hanno subito per causa della guerra. Bisogna, prima di tutto, che i futuri trattati commerciali non facciano chiudere i mercati ai prodotti di esse.

Così, integrata la questione meridionale nella questione nazionale, conseguenti erano gli sbocchi del pensiero gramsciano nel 1919-20, quando il problema del Mezzogiorno entrava nel più generale quadro dei problemi nazionali che lo stato socialista avrebbe risolto: «La borghesia settentrionale ha soggiogato l'Italia meridionale e le isole e le ha ridotte a colonie di sfruttamento; il proletariato settentrionale, emancipando se stesso dalla schiavitù capitalistica, emanciperà le masse contadine meridionali asservite alla banca e all'industrialismo parassitario del Settentrione» («L'Ordine nuovo», 3 gennaio 1920). Era il punto di arrivo di una lunga riflessione alla cui origine stava la conoscenza diretta della vita dei contadini e pastori sardi. Il deputato che il 16 maggio 1925 gli gridava alla Camera «Lei non conosce il Meridione» sapeva evidentemente poco di Gramsci: del suo passato e dei suoi interessi. Ma deve aggiungersi che il Gramsci meridionalista era in genere ignorato, se non nella cerchia dei più vicini compagni. Il saggio al quale si accinse nell'autunno del 1926, poche settimane prima dell'arresto, avrebbe costituito, al suo apparire a Parigi nel '30 (pubblicato a gennaio da «Lo Stato operaio», anno quarto, numero uno), motivo di sorpresa per molti.

È un saggio che segna il trapasso dal giornalismo degli anni di lotta, alla meditazione del periodo carcerario. Nella produzione del decennio passato, in prevalenza legata, giorno per giorno, alle ragioni più immediate della battaglia politica, si trovano pagine chiaramente anticipatrici del grande essayiste rivelato dai Quaderni; ma urgevano allora altre necessità, di propaganda e di polemica, e il giornalismo finiva per essere normalmente un'arma, uno strumento di mobilitazione proletaria e di offesa: il Gramsci del decennio 1916-26 è soprattutto (non esclusivamente, si capisce) un pamphlétaire. Nel saggio sulla questione meridionale l'eco perdura: a tratti l'andamento è di pamphlet; vediamo però subito Gramsci innalzarsi con ampiezza di respiro al di sopra del motivo contingente di polemica, la sua prospettiva è mutata, egli guarda ora all'argomento da un punto di vista «disinteressato», für ewig, il punto di vista dal quale si porrà per scrivere le note del carcere; e nasce un saggio esemplare, un modello di analisi politica e sociale della realtà italiana.

Vi è delineato, con metodo d'indagine marxista, lo svolgimento degli ultimi trent'anni di vita politica del paese. Ai primi del secolo, dopo una dittatura troppo esclusivista e violenta, la borghesia italiana sente di non poter più governare tranquillamente. L'insurrezione dei contadini siciliani nel 1894 e l'insurrezione di Milano nel 1896 sono stati i suoi experimenta crucis. Deve dunque appoggiarsi ad un'altra classe, trovare nuove alleanze, in un sistema di democrazia borghese. Ha due possibilità di scelta: o una democrazia rurale, cioè un'alleanza coi contadini meridionali, una politica di libertà doganale, di suffragio universale, di decentramento amministrativo, di bassi prezzi nei prodotti industriali; o un blocco industriale capitalistico-operaio,  senza suffragio universale, per il protezionismo doganale, per il mantenimento dell'accentramento statale, per una politica riformistica dei salari e delle libertà sindacali. Sceglie la seconda soluzione: il dominio borghese è impersonato ora da Giolitti, ed il Partito socialista si riduce a strumento della politica giolittiana. Sennonché il proletariato reagisce spontaneamente alla politica dei capi riformisti, il PSI è costretto dopo il '10 a tornare alla tattica intransigente e il blocco industriale-operaio perde la sua efficienza. È a questo punto che Giolitti muta spalla al suo fucile: all'alleanza tra borghesi e operai sostituisce l'alleanza tra borghesi e cattolici, che rappresentano le masse contadine dell'Italia settentrionale e centrale. Quale dev'essere dunque, in simile quadro, il compito primo della classe operaia? La risposta di Gramsci è ferma: innanzitutto isolare la borghesia staccando da essa gli innaturali alleati. Il proletariato, sostiene Gramsci, può diventare classe dirigente e dominante solo quando crei un sistema di alleanze di classe che gli permetta di mobilitare contro il capitalismo e lo stato borghese la maggioranza della popolazione lavoratrice: il che significa, nei reali rapporti di classe esistenti in Italia, quando sarà riuscito a ottenere il consenso di larghe masse contadine. E poiché la questione contadina ha assunto in Italia due forme peculiari, la questione meridionale e la questione vaticana, conquistare la maggioranza delle masse contadine significa, per il proletariato italiano, far proprie queste due questioni dal punto di vista sociale, comprendere le esigenze di classe che esse rappresentano, incorporare queste esigenze nel suo programma rivoluzionario. Solo così, spogliandosi d'ogni residuo corporativo, il proletariato potrà diventare classe dirigente. In caso diverso, gli strati contadini, che in Italia rappresentano la maggioranza della popolazione, rimarranno sotto la direzione borghese, dando allo stato la possibilità di resistere all'impeto proletario e di fiaccarlo. Ma, chiarita la direzione di marcia, come arrivare al consenso delle masse contadine? La società meridionale, scrive Gramsci, è un blocco agrario costituito di tre strati sociali: la grande massa contadina amorfa e disgregata, gli intellettuali della piccola e media borghesia rurale, i grandi proprietari terrieri ed i grandi intellettuali. Il secondo strato (dei piccoli e medi intellettuali) esce da un ceto con caratteri ben definiti: il piccolo e medio proprietario di terre che non è contadino, che non lavora la terra, che si vergognerebbe di fare l'agricoltore, ma che dalla poca terra che ha, data in affitto o a mezzadria semplice, vuol ricavare di che vivere convenientemente, di che mandare all'università o in seminario i figlioli, di che far la dote alle figlie che devono sposare un ufficiale o un funzionario civile dello stato. Da questo ceto, gli intellettuali medi ricevono un'aspra avversione per il contadino, considerato come macchina da lavoro che deve essere smunta fino all'osso e che può essere sostituita facilmente data la sovrappopolazione esistente, e poi anche ricevono un sentimento atavico di paura del contadino e delle sue violenze distruggitrici e quindi un abito di ipocrisia raffinata e una raffinatissima arte di ingannare e addomesticare le masse contadine.

Questo tipo d'intellettuale, democratico nella faccia contadina e reazionario nella faccia rivolta verso il grande proprietario e il governo, politicante, corrotto, sleale, è il tramite che lega il contadino meridionale al grande proprietario terriero. Si realizza così un mostruoso blocco agrario che nel suo complesso funziona da intermediario e da sorvegliante del capitalismo settentrionale e delle grandi banche. Il suo unico scopo è di conservare lo statu quo. I grandi proprietari in campo politico ed i grandi intellettuali nel campo ideologico (Giustino Fortunato, Benedetto Croce) centralizzano e dominano l'insieme di manifestazioni interne al blocco. Ci sono stati gruppi di intellettuali medi, scrive quindi Gramsci, che hanno cercato di uscire dal blocco agrario e di impostare la questione meridionale in forma nuova. A ben riflettere, il meridionalismo è il principale motivo ispiratore delle migliori iniziative culturali del secolo XX in Italia, da «La Voce» di Prezzolini a «L'Unità» di Salvemini: solo che Fortunato e Croce, supremi moderatori politici e intellettuali di tutte queste iniziative, hanno ottenuto che l'impostazione dei problemi meridionali non soverchiasse certi limiti, non diventasse rivoluzionaria. In simile panorama, il gruppo de «L'Ordine nuovo» sta a sé. Anch'esso, ammette Gramsci, ha subito l'influenza intellettuale di Giustino Fortunato e di Benedetto Croce; ma poi, assumendo il proletariato urbano a protagonista moderno della storia italiana e quindi della questione meridionale, ha rappresentato una rottura completa di quella tradizione. In che senso? Ha cercato di agire da intermediario tra il proletariato settentrionale e quegli intellettuali del Mezzogiorno che pongono la questione meridionale su un terreno nuovo, più avanzato. Di questi intellettuali, Guido Dorso è, secondo Gramsci, la figura più completa e interessante. Non si tratta di intellettuali comunisti; e tuttavia la rottura del blocco agrario potrà ottenersi solo con la formazione di uno strato di intellettuali di sinistra, nuovi intellettuali medi che non leghino più il contadino al proprietario terriero. L'alleanza tra il proletariato e le masse contadine del Mezzogiorno - conclude Gramsci - esige questa formazione.

Il manoscritto s'interrompe qui. L'arresto impedì a Gramsci di rivederlo e di completarlo. Ma anche così com'è, in veste di primo abbozzo d'una tesi che forse era nelle intenzioni di Gramsci di svolgere più compiutamente, esso costituisce, per metodo di indagine e per acutezza di giudizi, un esempio di saggio fortemente ispirato.

CAPITOLO VENTIDUESIMO

Venivano dall'Unione Sovietica notizie sempre più inquietanti. I contrasti sorti in seno al gruppo dirigente bolscevico prima ancora che Lenin morisse s'erano acuiti, le lotte di fazione furoreggiavano. Battuto dalla trojka (Stalin, Zinovjev, Kamenev) dopo la sua denunzia di sclerosi burocratica del partito e nuovamente battuto sul dilemma «rivoluzione permanente» o «costruzione del socialismo in un solo paese», Trotzkij non aveva attenuato la sua opposizione a Stalin. Ma il segretario generale del PCUS concentrava ormai in sé un potere immenso. La raccomandazione contenuta nel «testamento» dettato da Lenin il 24-25 dicembre 1922 e il 4 gennaio 1923 era stata elusa.

Da quando il compagno Stalin è diventato segretario generale - diceva Lenin - egli riunisce nelle sue mani un enorme potere, e non sono convinto che saprà sempre usarlo con la dovuta cautela... Stalin è troppo rude, e questo difetto è inammissibile nella carica di segretario generale. Perciò propongo ai compagni di trovare il modo di allontanare Stalin da questo posto e nominargli un successore... che sia più paziente, leale, cortese, attento coi compagni e meno lunatico.

Se, malgrado il severo giudizio di Lenin, Stalin era rimasto nella carica, ciò egli doveva a Zinovjev e Kamenev; i quali, preoccupati a quel tempo di liquidare innanzitutto l'antagonista che essi giudicavano più pericoloso, Trotzkij, avevano appoggiato il terzo triunviro ottenendo dal Comitato Centrale, in una riunione del maggio 1924, il non invio del «testamento» al XIII Congresso del PCUS e la conferma di Stalin alla segreteria del partito. Poi Stalin s'era liberato anche di Zinovjev e Kamenev. Il processo di regressione da un regime di democrazia proletaria a un regime di autocrazia a nome del proletariato si svolgeva con rapidità. Nel Politburo, Trotzkij, Zinovjev e Kamenev, riunitisi in un blocco delle opposizioni, erano isolati. Con Stalin, li combatteva anche la destra (Bukharin, Rikov e Tomski). E li combatteva la nuova pattuglia (Molotov, Voroscilov e Kalinin) che Stalin, non volendo dipendere completamente dall'appoggio della destra, s'era preoccupato di far eleggere nel Politburo dal XIV Congresso, nel dicembre del '25. Ora, tra l'estate e l'autunno del 1926, le rivalità personali e le discordie sul terreno ideologico erano inacerbite dalla diversa interpretazione che il blocco delle opposizioni e la maggioranza davano della «nuova politica economica» (NEP) voluta da Lenin. La NEP era un sistema di economia mista: la grande industria a direzione statale, la piccola e media industria, il commercio e l'agricoltura affidati all'iniziativa privata. Ne veniva una contraddizione di interessi fra la classe operaia, costretta a privazioni gravi dalla crisi delle industrie, ed i ceti rurali, che premevano per una politica di bassi prezzi dei prodotti industriali e di alti prezzi dei prodotti dell'agricoltura. Nella controversia, il blocco delle opposizioni di sinistra sosteneva l'esigenza di una rapida industrializzazione, solo pilastro stabile della rivoluzione socialista. Altrimenti l'indebolimento del proletariato e l'eccessiva forza data ai contadini ricchi (kulaki) con l'accondiscendenza alle loro richieste avrebbero aperto la strada alla restaurazione del capitalismo. Su questo si discuteva a Mosca nell'estate-autunno del '26, con asprezza accentuata dalla trama di risentimenti e di ostilità tenaci che la lotta per il potere aveva suscitato. Stalin non s'era decisamente legato alla politica filo-contadina di Bukharin, ma in quel momento la sosteneva. Calcolava la convenienza di solidarizzare con la destra per la definitiva eliminazione degli oppositori di sinistra; ed anche calcolava il rischio, se avesse proceduto alla deprivatizzazione delle campagne, di fermenti nel mondo contadino, pericolosi mentre era aperta la lotta a Trotzkij, Zinovjev e Kamenev. L'urto tra il blocco delle opposizioni e la maggioranza del Comitato Centrale raggiunse il massimo di acutezza nell'ottobre del '26.

Nel merito, Gramsci condivideva le tesi della maggioranza. Era stato con i contraddittori di Trotzkij anche nella disputa «costruzione del socialismo in un solo paese» o «rivoluzione permanente» (scriverà una nota in carcere respingendo la tesi del napoleonismo rivoluzionario, della rivoluzione esportata). Ora, nella controversia nuova, non poteva non rifiutare, data la sua concezione di fondo (elemento necessario, per la stabilità delle conquiste proletarie, l'alleanza permanente degli operai e dei contadini), la reviviscenza di corporativismo operaio che gli sembrava di intrawedere nelle tesi del blocco di sinistra. Ma a parte la sostanza del dibattito, a dargli inquietudine erano i modi del dibattito, il furore, l'asprezza; erano i riflessi che la scissione in seno al gruppo dirigente del PCUS avrebbe avuto sul movimento internazionale, allora impegnato, specialmente in Italia, in una battaglia per non morire. Potevano i rivoluzionari russi non tenerne conto? Potevano dimenticare i loro doveri nei confronti del proletariato d'altri paesi? Il 14 ottobre 1926, per incarico dell'ufficio politico del partito italiano, si risolse a scrivere una lettera senza veli al comitato centrale del PCUS. L'indipendenza di giudizio era stata sempre la sua forza. Non aveva feticci e scrisse quel che sentiva.

I comunisti italiani  e tutti i lavoratori  coscienti  del  nostro paese - diceva la lettera - hanno sempre seguito con la massima attenzione le vostre discussioni. Alla vigilia di ogni Congresso e di ogni Conferenza del Partito comunista russo, noi eravamo sicuri che, nonostante l'asprezza delle polemiche, l'unità del partito russo non era in pericolo... Oggi, alla vigilia della vostra XV Conferenza, non abbiamo più la sicurezza del passato; ci sentiamo irresistibilmente angosciati; ci sembra che l'attuale atteggiamento del blocco di opposizioni e l'acutezza delle polemiche esigano l'intervento dei partiti fratelli... Compagni, voi siete stati, in questi nove anni di storia mondiale, l'elemento organizzatore e propulsore delle forze rivoluzionarie di tutti i paesi: la funzione che voi avete svolto non ha precedenti in tutta la storia del genere umano che la eguagli in ampiezza e profondità. Ma voi oggi state distruggendo l'opera vostra, voi degradate e correte il rischio di annullare la  funzione dirigente che il Partito comunista  dell'URSS  aveva conquistato per l'impulso di Lenin; ci pare che la passione violenta delle quistioni russe vi faccia perdere di vista gli aspetti internazionali delle quistioni russe stesse, vi faccia dimenticare che i vostri doveri di militanti russi possono e debbono essere adempiuti solo nel quadro degli interessi del proletariato internazionale1.

Relativamente alla sostanza del dibattito in corso nel PCUS, Gramsci non esitava ad ammettere la paradossalità della situazione denunciata dal blocco Trotzkij-Zinovjev-Kamenev: il proletariato, classe dominante, in condizioni di vita inferiori a quelle di determinati elementi e strati della classe dominata e soggetta.

«Eppure - proseguiva - il proletariato non può diventare classe dominante se non supera col sacrificio degli interessi corporativi questa contraddizione, non può mantenere la sua egemonia e la sua dittatura se, anche divenuto dominante, non sacrifica questi interessi immediati per gli interessi generali e permanenti della classe. Certo è facile fare della demagogia su questo terreno, è facile insistere sui lati negativi della contraddizione: «Sei tu il dominatore, o operaio mal nutrito e mal vestito, oppure è dominatore il nepman impellicciato e che ha a sua disposizione tutti i beni della terra?»... È facile fare della demagogia su questo terreno ed è difficile non farla quando la quistione è stata messa nei termini dello spirito corporativo e non in quelli del leninismo, della dottrina dell'egemonia del proletariato, che storicamente si trova in una determinata posizione e non in un'altra... È in questo elemento la radice degli errori del blocco delle opposizioni e l'origine dei pericoli latenti che nella sua attività sono contenuti. Nella ideologia e nella pratica del blocco delle opposizioni rinasce in pieno tutta la tradizione della socialdemocrazia e del sindacalismo che ha impedito finora al proletariato occidentale di organizzarsi in classe dirigente.

Concludendo Gramsci rivolgeva ai due gruppi in conflitto una esortazione all'unità:

I compagni Zinovjev, Trotzkij, Kamenev hanno contribuito potentemente a educarci per la rivoluzione, ci hanno qualche volta corretto molto energicamente e severamente, sono stati i nostri maestri. A loro specialmente ci rivolgiamo come ai maggiori respon sabili dell'attuale situazione  perché  vogliamo essere sicuri  che  la maggioranza del C.C. dell'URSS non intenda stravincere nella lotta e sia disposta ad evitare le misure eccessive.

La lettera non piacque a Togliatti, che rappresentava allora a Mosca il partito italiano nell'Internazionale. Il difetto essenziale di quell'impostazione era, a suo giudizio, d'aver messo in primo piano il fatto della scissione e solo in un secondo piano il problema della giustezza o meno della linea seguita dalla maggioranza del comitato centrale; bisognava invece, e lo disse esplicitamente in una lettera a Gramsci del 18 ottobre, esprimere la propria adesione alla linea della maggioranza «senza porre nessuna limitazione». Che senso aveva, del resto, l'appello all'unità?

Il pericolo insito nella posizione che viene presa nella vostra lettera - annotava Togliatti - è grande per il fatto che, probabilmente, d'ora in poi l'unità della vecchia guardia leninista non sarà più o sarà assai difficilmente realizzata in modo continuo. Nel passato il più grande fattore di questa unità era dato dall'enorme prestigio e dalla autorità personale di Lenin. Questo elemento non può essere sostituito.

Ma era giusto attribuire all'intero gruppo dirigente la responsabilità della situazione di rottura, senza distinguere tra maggioranza e blocco delle opposizioni?

Nella prima parte della vostra lettera, quella appunto in cui si espongono le conseguenze che può avere sul movimento occidentale una scissione del partito russo e del suo nucleo dirigente, voi parlate indifferentemente di tutti i compagni dirigenti russi, cioè voi non fate nessuna distinzione tra i compagni che sono a capo del Comitato Centrale e i capi della opposizione. A pagina due delle cartelle scritte da Antonio si invitano i compagni russi «a riflettere ed a essere più consapevoli delle loro responsabilità». Non vi è nessun accenno a una distinzione tra di essi... Non si può concludere se non che il Politburo del Partito comunista italiano considera che tutti siano responsabili, tutti da richiamare all'ordine. È vero che nella chiusa della lettera questo atteggiamento viene corretto. Si dice che Zinovjev, Kamenev e Trotzkij sono i «maggiori» responsabili della situazione e si aggiunge: «Vogliamo essere sicuri che la maggioranza del Comitato Centrale del Partito comunista dell'URSS non intenda stravincere nella lotta e sia disposta ad evitare le misure eccessive». L'espressione «vogliamo credere» ha un valore di limitazione, cioè con essa si vuol dire che NON SI È sicuri. Ora a parte ogni considerazione sulla opportunità di intervenire nell'attuale dibattito russo attribuendo un po' di torto anche alla maggioranza del Comitato Centrale, a parte il fatto che una simile posizione non può che risolversi a TOTALE beneficio della opposizione, a parte queste considerazioni di opportunità, si può affermare che un po' di torto sia della maggioranza del Comitato Centrale?

Togliatti lo escludeva. Era completamente allineato sulle posizioni del gruppo Stalin-Bukharin e gli sembrava giusto che la lotta al gruppo Zinovjev-Kamenev-Trotzkij arrivasse alle estreme conseguenze; ecco perché, della lettera di Gramsci, neanche condivideva l'appello ad evitare, contro il blocco delle opposizioni, le «misure eccessive».

Vi è senza dubbio un rigore, nella vita interna del Partito Comunista dell'Unione. Ma vi deve essere. Se i partiti occidentali volessero intervenire presso il gruppo dirigente per far scomparire questo rigore, essi commetterebbero un errore assai grave... È giusto che i partiti esteri vedano con preoccupazione un acuirsi della crisi del Partito comunista russo, ed è giusto che cerchino per quanto sta in loro di renderla meno acuta. È però certo che, quando si è d'accordo con la linea del Comitato Centrale, il miglior modo di contribuire a superare la crisi è di esprimere la propria adesione a questa linea senza porre nessuna limitazione.

Letta la replica di Togliatti, Gramsci non mutò avviso. È lo stesso Togliatti a raccontarlo in una lettera a Giansiro Ferrata: «Gramsci ricevette la mia lettera, trasmessagli da un componente la rappresentanza sovietica a Roma. Probabilmente la lesse rapidamente in un ufficio di questa rappresentanza, dove gli era stata recapitata, e replicò subito con una breve risposta, non accettando la mia argomentazione». Fu l'ultimo contatto diretto di Gramsci con Togliatti. Non si sarebbero più visti, né si sarebbero più scambiate lettere.

Dal 23 al 26 ottobre si svolse a Mosca una riunione plenaria del Comitato Centrale e della Commissione Centrale di controllo.  L'esortazione di Gramsci perché fossero evitate le «misure eccessive» doveva naturalmente rimanere senza echi. Il gruppo Stalin-Bukharin era ormai deciso a stravincere; ed ecco i primi risultati: Trotzkij espulso dal Politburo; Zinovjev destituito dall'incarico di presidente dell'Internazionale (lo avrebbe sostituito Bukharin); Kamenev, che già a luglio aveva dovuto cedere a Mikoyan il suo posto di commissario per il Commercio estero, allontanato anch'egli dal Politburo.

Il segretariato dell'Internazionale aveva intanto deciso, dopo la presa di posizione di Gramsci, di inviare in Italia uno dei suoi segretari, Jules Humbert-Droz, con la missione di esporre lo stato delle dispute nel Partito comunista russo. Venne convocata a Valpolcevera, nei pressi di Genova, una riunione dell'ufficio politico italiano: i lavori avrebbero dovuto svolgersi in clandestinità dal 1° al 3 novembre. Il 31 ottobre, alla vigilia di questo incontro, la situazione precipitò. Vi fu a Bologna un attentato a Mussolini, attribuito a un ragazzo di quindici anni, Anteo Zamboni. Le violenze fasciste ne ebbero incentivo: saccheggi, spedizioni punitive (anche alla casa di Benedetto Croce, a Napoli), incendi nelle tipografie dei giornali d'opposizione. Muoversi allo scoperto era diventato per Gramsci un'avventura piena di rischi. Lasciò ugualmente Roma diretto a Valpolcevera.

Voleva giungere a Genova - riferisce Togliatti sulla base di notizie fornitegli da compagni che erano allora vicini a Gramsci - passando per Milano, dove era atteso da alcuni compagni. A Milano non potè nemmeno scendere dal treno. Un commissario di polizia gli disse, trattenendolo sul treno: «Onorevole, per il suo bene, se ne torni a Roma», Questo egli fece. Prese il primo treno in partenza salvando così dal pericolo tanto i compagni di Milano quanto quelli di Genova, ma rinunziando a partecipare alla nunione per la quale si era ampiamente preparato.

Alcuni giorni dopo, il 4 novembre, Gramsci scriveva a Giulia: «Per un incidente, sono dovuto rientrare a Roma». Il convegno di Valpolcevera, che avrebbe dovuto essere chiarificatore, non ebbe risultato alcuno. In un rapporto di Ruggero Grieco a Togliatti del 30 novembre 1926 leggiamo: «Riunione modesta, a cavallo tra il 31/10 e il 2/11! Mancavano Amadeo [Bordiga], Antonio [Gramsci], Angelo [Tasca] e altri. Si era in pochi...». Nessun elemento, neanche vago, induce all'ipotesi di un tentativo di Humbert-Droz d'incontrarsi comunque, subito dopo l'inutile riunione di Valpolcevera, separatamente con Gramsci, che era pur sempre il massimo dirigente del partito e l'estensore, oltre che l'ispiratore, del documento indirizzato a Mosca. Fu d'impedimento all'incontro la situazione che in quei giorni in Italia precipitava velocemente?

L'attentato di Bologna era stato un buon pretesto per il rafforzamento del potere fascista. Il 5 novembre il Consiglio dei ministri diede il colpo definitivo a quel poco di democrazia che ancora era rimasto in Italia. Il governo deliberava l'annullamento di tutti i passaporti, l'uso delle armi contro chi tentasse l'espatrio clandestino, la soppressione dei giornali antifascisti, lo scioglimento dei partiti e delle associazioni contrarie al regime. Era anche pronto un disegno di legge per l'istituzione della pena di morte e del Tribunale speciale; la Camera avrebbe dovuto discuterlo e approvarlo il 9 novembre.

In quella situazione estrema, sembrava a tutti che Gramsci dovesse mettersi al sicuro. Era stato predisposto il suo espatrio in Svizzera. Andò a Roma, con l'incarico di accompagnarlo sino a Milano, la moglie dell'amministratore de «l'Unità», Ester Zamboni. Gramsci non ritenne di doverla seguire. I motivi? Possono essere due.

Da tempo - scrisse Camilla Ravera a Togliatti in un rapporto di metà novembre del 26 - noi insistevamo sulla necessità che Antonio andasse «fuori» come centro di un nostro ufficio all'estero che avrebbe avuto particolari compiti e che sarebbe stato Strettamente collegato col nostro centro. In generale Antonio opponeva una certa resistenza: osservava che tale provvedimento bisognava prenderlo quando le circostanze lo avessero giustificato anche di fronte agli operai in modo assoluto; che i capi dovevano, fino a che ciò non diventava impossibile, restare in Italia: e osservava anche molte altre cose di altra natura e tutte tali da essere prese in considerazione.

Influente era il desiderio di Gramsci di non mancare alla seduta della Camera del 9 novembre, quando sarebbero state discusse le leggi liberticide approvate il 5 dal Consiglio dei ministri. Ma è anche probabile che egli non credesse all'eventualità dell'arresto, finché il mandato parlamentare gli garantiva l'immunità. Lo inducevano a un ottimismo sbagliato gli ultimi sviluppi della situazione. La mattina del 6 novembre un quotidiano fascista, «Il Tevere», era uscito con una mozione di Roberto Farinacci in evidenza nella prima pagina. Questa mozione proponeva, nominativamente, la revoca del mandato parlamentare per i deputati delle opposizioni; la revoca era motivata con la sistematica diserzione dei lavori parlamentari da parte dei deputati dell'Aventino, motivo che non poteva estendersi ai comunisti, i quali, staccatisi dall'Aventino, avevano già da tempo ripreso il loro posto in assemblea: infatti nell'elenco nominativo pubblicato da «Il Tevere» non erano compresi i deputati del gruppo comunista. Da ciò è probabile che dipendesse la relativa serenità di Gramsci. Riunì la sera dell'8 novembre, in una sala di Montecitorio, alcuni colleghi di gruppo e diede ad Ezio Riboldi l'incarico di intervenire, nella seduta dell'indomani, contro la proposta di ripristino della pena di morte e contro la mozione Farinacci di revoca del mandato parlamentare per i deputati dell'Aventino. Ma ecco, in serata, il colpo di scena. «Avvenne», ricorda Riboldi, «che verso le 20 Mussolini chiamò a Palazzo Chigi, dove risiedeva, Farinacci e Augusto Turati e comunicò che bisognava aggiungere all'elenco i deputati comunisti. Farinacci fece presente che l'ordine del giorno motivava l'espulsione con l'abbandono, da parte degli aventiniani, dei lavori parlamentari, mentre i comunisti vi avevano sempre preso parte. Mussolini rispose che la Corona voleva così». Il re s'era inserito nella preparazione del colpo di stato e l'appoggiava, ma a questa condizione. Sul tardi, non sospettando la svolta dell'ultimo momento, Gramsci lasciò Montecitorio, diretto a casa, fuori Porta Pia. Non vi dormì. Alle 22,30 fu arrestato, benché protetto dall'immunità parlamentare. Aveva trentacinque anni. Subito dopo l'arresto scrisse a Giulia:

Mi scrivevi che noi due siamo ancora abbastanza giovani per poter sperare di vedere insieme crescere i nostri bambini. Occorre che tu ora ricordi fortemente questo, che tu ci pensi fortemente ogni volta che pensi a me e mi associ ai bambini. Io sono sicuro che tu sarai forte e coraggiosa, come sempre sei stata. Dovrai esserlo ancora di più che nel passato, perché i bambini crescano bene e  siano in tutto degni di  te.

Scrisse alla mamma:

Ho pensato molto a te in questi giorni. Ho pensato ai nuovi dolori che stavo per darti, alla tua età e dopo tutte le sofferenze che hai passato. Occorre che tu sia forte, nonostante tutto, come sono forte io, e che mi perdoni con tutta la tenerezza del tuo immenso amore e della tua bontà. Saperti forte e paziente nella sofferenza sarà un motivo di forza anche per me... Io sono tranquillo e sereno. Moralmente ero preparato a tutto. Cercherò di superare anche fisicamente le difficoltà che possono attendermi e di rimanere in equilibrio... Carissimi tutti, in questo momento specialmente mi piange il cuore nel pensare che non sempre sono stato con voi affettuoso e buono come avrei dovuto essere e come meritavate. Vogliatemi sempre bene lo stesso e ricordatevi di  me.

Incominciava il lungo calvario di Antonio Gramsci.

Note

1 Il corsivo è mio

CAPITOLO VENTITREESIMO

L'idea che Gramsci, potendo sfuggire all'arresto, si lasciò prendere per volontà di martirio è abbastanza retorica e in definitiva incoerente al personaggio, tutt'altro che incline ai gesti esteriori, seppure grandi. Scriverà più tardi a Tatiana, con inflessione ironica e un po' d'amarezza:

Su per giù tu immagini me come uno che insistentemente rivendica il diritto di soffrire, di essere martirizzato, di non essere defraudato neanche di un minuto secondo e di una sfumatura della sua pena. Io sarei un nuovo Gandhy, che vuole testimoniare dinanzi ai superi e agli inferi i tormenti del popolo indiano, un nuovo Geremia o Elia o non so chi altro profeta di Israello che andava in piazza a mangiare cose immonde per offrirsi in olocausto al dio della vendetta...

In realtà Gramsci, attento in modo speciale al risultato iì qualsiasi azione, sempre aveva avuto ripugnanza per tutto ciò che gli appariva inconcludente, e la retorica, anche la retorica del sacrificio, era una trappola sentimentale nella quale gli sarebbe dispiaciuto cadere. Fu la sua linea anche negli anni del carcere: mai una sofferenza inutile, se la rivendicazione di un diritto formalizzato in leggi o in regolamenti gliela poteva evitare (come avere calamaio, penna e carta, leggere libri, andare in un penitenziario per malati, vivere da solo in cella anziché in camerone con altri, inoltrare istanze per la revisione del processo, chiedere la libertà provvisoria); e, s'intende, mai la richiesta di un'agevolazione che, non derivando dall'esercizio di un diritto formale, rischiasse di sembrare un atto di clemenza  del regime nei suoi personali confronti e perciò buttare un'ombra pur lieve sulla sua dirittura di combattente irriducibile.

Ora è in corso la pratica per lo scrivere - leggiamo in una lettera a Carlo - Questa pratica basta... Vedo invece che [Tatiana] si fa dei romanzi, come quello che sia possibile che la reclusione venga trasformata, per ragioni di salute, in confino: possibile in via ordinaria, già s'intende, cioè in virtù delle leggi e regolamenti scritti. Ciò sarebbe possibile solo per via di una misura personale di grazia, che sarebbe concessa, già s'intende, solo dietro domanda motivata per cambiamento di opinioni e riconoscimento ecc. ecc. Tatiana non pensa a tutto ciò: è di una ingenuità candida che mi spaventa qualche volta, perché io non ho nessuna intenzione né di inginocchiarmi dinanzi a chicchessia, né di mutare di una linea la mia condotta. Io sono abbastanza stoico per prospettarmi con la massima tranquillità tutte le conseguenze delle premesse suddette. Lo sapevo da un pezzo cosa poteva succedermi. La realtà mi ha confermato nella mia risoluzione, e non mi ha scosso per nulla. Dato tutto ciò, occorre che Tatiana sappia che di simili romanzi non bisogna neanche parlare, perché il solo parlarne può fare pensare che si tratti di approcci che io posso aver suggerito.

Questa sola idea lo irritava «fino alla frenesia», e lo faceva persino essere scortese con Tatiana: «Ogni tua ingerenza non fa che gettare un'ombra di equivoco su questa mia e degli altri, ma specialmente mia, posizione cristallina. Perché non vuoi capire che tu sei incapace, radicalmente incapace, di tenere conto del mio onore e della mia dignità in queste quistioni?... Voglio solo constatare la obbiettiva impossibilità per te, estranea, a rivivere l'atmosfera di ferro e di fuoco attraverso la quale sono passato io». Semplicemente non rinunziò mai a quel tanto che leggi e regolamento carcerario gli accordavano. «In generale io ritengo», spiegava a Carlo riferendosi alla eventualità di revisione del processo, «che, nella mia situazione, ogni ricorso alla legalità sia opportuno e doveroso, senza farmi delle illusioni, ma per aver la coscienza di aver fatto, da parte mia, tutto ciò che mi era legalmente possibile per dimostrare di essere  stato colpito  senza base legale».

Dopo l'arresto, la prima destinazione fu al confino di Ustica, un'isoletta di otto chilometri quadrati con 1600 abitanti, cinque-seicento dei quali coatti per delitti comuni. Gramsci abitava con altri cinque: l'ex deputato riformista Giuseppe Sbaraglini, di Perugia, l'ex deputato massimalista Paolo Conca, di Verona, due compagni abruzzesi e il suo più tenace avversario nella lotta delle correnti dentro il partito, Amadeo Bordiga. C'era fra tutti, malgrado la diversità delle idee e il ricordo ancora fresco di polemiche acri, la massima intesa. Dovevano arrangiarsi, ed anche Gramsci accettava con spirito d'adattamento la sua parte d'impicci: «Io partecipo a una mensa comune e proprio oggi mi spetta fare da cameriere e da sguattero: non so ancora se dovrò sbucciare le patate, preparare le lenticchie o pulire l'insalata prima di servire in tavola. Il mio debutto è atteso con molta curiosità: parecchi amici volevano sostituirmi nel servizio, ma io sono stato incrollabile nel volere adempiere la mia parte». Aveva abbastanza da leggere. S'era rivolto ad un amico degli anni torinesi, Piero Sraffa, che insegnava economia politica all'Università di Cagliari; e l'amico, figlio di un professore della Bocconi a Milano, gli aveva aperto un conto corrente illimitato in una libreria di Milano, la Sperling e Kupfer. Questi libri servivano anche per la scuola di cultura generale organizzata tra i confinati politici. Gramsci era docente e scolaro: insegnava la storia e la geografia e prendeva lezioni di tedesco. La sezione scientifica era diretta da Bordiga. Poi di sera, in casa, si giocava a carte («Non avevo giocato mai finora; il Bordiga assicura che ho la stoffa per diventare un buon giocatore di scopone scientifico»). Alle spese di sussistenza i confinati politici facevano fronte con la «mazzetta» governativa di dieci lire al giorno. Gramsci assicurava di non aver bisogno di aiuti; scrisse a Tatiana: «Non voglio assolutamente che tu personalmente debba sacrificarti per me: se hai la possibilità, manda i tuoi aiuti a Giulia che certo ha maggiori necessità di me». Il soggiorno a Ustica, a conti fatti non opprimente, doveva però concludersi presto. Il 20 gennaio, quarantaquattro giorni dopo l'arrivo, Gramsci lasciò l'isola, diretto alle carceri milanesi di San  Vittore.

Vi giunse il 7 febbraio 1927. Erano stati diciannove giorni di traduzione penosa, con soste in una infinità di carceri di transito:

Vi voglio dare una impressione d'insieme della traduzione... Si arriva stanchi, sporchi, coi polsi addolorati per le lunghe ore di ferri, con la barba lunga, coi capelli in disordine, con gli occhi infossati e luccicanti per l'esaltazione della volontà e per l'insonnia; ci si butta per terra su pagliericci che hanno chissà quale vetustà, vestiti, per non avere contatti col sudiciume, avvolgendosi la faccia e le mani nei propri asciugamani, coprendosi con coperte insufficienti tanto per non gelare. Si riparte ancora più sporchi e stanchi, fino al nuovo transito, coi polsi ancora più lividi per il freddo dei ferri e il peso delle catene e per la fatica di  trasportare, così  agghindati,  i propri bagagli.

Il carcere di San Vittore parve a Gramsci, dopo questo viaggio, un approdo felice. Fu interrogato due giorni dopo l'arrivo, il 9 febbraio, dal giudice istruttore Enrico Macis. Era sereno. Anziché cercare conforto, si rivolgeva alla mamma per darne a lei:

Ci vorrà pazienza ed io pazienza ne posseggo a tonnellate, a vagoni, a case (ti ricordi come diceva Carlo quando era piccino e mangiava qualche dolce saporito! «Ne vorrei cento case»; io di pazienza ne ho kentu domos e prus - cento case e più). Dovrai tu aver pazienza e bontà, però. La tua lettera invece mi pare che mi ti mostri in tutt'altro stato d'animo. Scrivi che ti senti vecchia ecc. Ebbene, io sono sicuro che tu sei ancora molto forte e resistente, nonostante la tua età e i grandi dolori e le grandi   fatiche   che  hai  dovuto  attraversare.

Le ricordava un gioco di parole, Corrias (la mamma era una Marcias-Corrias) e «corriàzzu», coriaceo, forte:

Corrias, corriàzzu, ti ricordi? Sono sicuro che ci vedremo ancora tutti assieme, figli, nipoti e forse, chissà, pronipoti, e faremo un grandissimo pranzo con kulurzones e pardulas e zippulas e pippias de zuccuru e figu sigada. Credi che a Delio piaceranno i pirichittos e le pippias de zuccuru? Penso di si e che anche lui dirà di volerne cento case; non puoi credere quanto somigli a Mario e a Carlo bambini, per quanto io ricordi, specialmente a Carlo, a parte il naso che Carlo aveva allora appena rudimentale. Qualche volta penso a tutte queste cose e mi piace di ricordare i fatti e le scene della fanciullezza: ci trovo molti dolori e molte sofferenze, è vero, ma anche qualcosa di allegro e di bello.

E poi ci sei sempre tu, cara mamma, e le tue mani sempre affaccendate per noi, per alleviarci le pene e per trarre una qualche utilità da ogni cosa. Ti ricordi i miei agguati per avere il caffè buono, senza orzo e altre porcherie del genere?

Il 20 febbraio Antonio scrisse a Teresina:

Mi preoccupa molto lo stato d'animo della mamma, d'altronde non so come fare per consolarla e rassicurarla. Vorrei infonderle la convinzione che io sono tranquillissimo, come realmente sono, ma vedo che non ci riesco.. C'è tutta una zona di sentimento e di modi di pensare che costituisce una specie di abisso tra noi. Per lei il mio incarceramento è una terribile disgrazia alquanto misteriosa nelle sue concatenazioni di cause ed effetti; per me è un episodio della lotta politica che si combatteva e si continuerà a combattere non solo in Italia, ma in tutto il mondo, per chissà quanto tempo ancora. Io sono rimasto preso, così come durante la guerra si poteva cadere prigionieri, sapendo che questo poteva avvenire  e  che poteva avvenire anche di peggio.

A maggio Tatiana, che voleva assistere il cognato da vicino, si trasferì a Milano; ma cadde ammalata e dovette ricoverarsi in clinica. Era l'unico familiare sul cui aiuto Antonio potesse fare affidamento. La sua prolungata malattia lo depresse. Altri fili intanto si spezzavano.

Del fratello Mario non aveva più saputo nulla. S'erano persi di vista dal '21, dopo una visita di Antonio alla sua casa di Varese. Adesso Mario non si occupava di politica, o non se ne occupava come quando era segretario federale fascista di Varese. Le idee continuavano ad essere quelle, ma senza più l'impegno attivo di una volta. Era stato assalito dai comunisti quasi nello stesso periodo in cui i fascisti bastonavano a sangue Gennaro, a Torino. Lasciate da parte le cariche, seguiva ora esclusivamente gli affari della sua azienda commerciale. A maggio Antonio ebbe notizie del fratello e scrisse alla mamma: «Vorrei avere l'indirizzo preciso di Mario; dal 1921 non ho più avuto rapporti con lui, ma ora ho saputo che si è occupato di me e perciò vorrei scrivergli per ringraziarlo». Ci fu poi una lettera a Ghilarza di Anna Maffei Parravicini, la moglie di Mario, e di questa lettera «con molti lamenti» la signora Peppina informò subito Antonio, che scrisse al fratello pregandolo di venire in carcere a colloquio. Mario venne a fine agosto. Sembrò ad Antonio «molto imbarazzato» : egli non diede tuttavia a questo imbarazzo, che poteva essere una semplice impressione, grande peso. Scrisse il 29 agosto '27 a Tatiana:

Giovedì ho avuto il colloquio con mio fratello Mario, che mi ha rassicurato sulle tue condizioni... Mi ha detto d'averti invitato a passare qualche giorno a Varese in casa sua. Perché non accetti? Il caldo ormai è passato, tuttavia la campagna deve essere ancora gradevole e la regione dei laghi lombardi è degna di essere vista. Mio fratello è un buon ragazzo e sono sicuro che tu ti troverai à ton aise in casa sua. Conosco poco sua moglie; l'ho vista una volta sola, parecchi anni fa, quando stava per partorire e non credo sia questo il momento più opportuno per conoscere una signora.

Ancora il 29 agosto scrisse alla mamma:

Giovedì è giunto Mario e ci siamo parlati per circa un quarto d'ora. Sta molto bene. Mi ha accennato ai suoi affari che adesso vanno abbastanza bene anch'essi. Mi pare che abbia una leggera tendenza a diventare grasso come papà. Prima di venire da me, Mario era andato a visitare mia cognata all'ospedale, così mi ha dato sue notizie e mi ha un po' tranquillizzato. Egli mi ha promesso di scriverti subito per dirti che mi ha trovato assai bene di salute.

La lettera di Mario a Ghilarza fu invece di tutt'altro tono, e Antonio se ne rincrebbe: «Carlo mi scrive come se io fossi sull'orlo della tomba; parla di venire lui a Milano e ha pensato persino di condurre la mamma, una donna di 70 anni circa, che non si è mai mossa dal villaggio e non ha mai fatto un viaggio in ferrovia più lungo di 40 kilometri. Cose da manicomio, che mi hanno addolorato e anche un po' irritato contro Mario, che poteva essere più franco con me e non terrorizzare la vecchia mamma». Amaramente concludeva: «Su mio fratello Mario non posso più contare».

Anche altri legami sembravano allentarsi. Addolorava molto Antonio l'impressione d'essere dimenticato da Giulia. Alla mamma, il 26 febbraio 1927, scriveva: «Da circa un mese e mezzo non ho notizie di Giulia e dei due bambini; perciò non posso scriverti niente intorno a loro». A Tania, il 26 marzo: «Ho rivisto i caratteri di Giulia: ma come scrive poco questa ragazza e come sa bene giustificarsi col baccano che le fanno intorno i bambini!». A Tania, il 25aprile:

Mi scrivi annunziandomi una lettera di Giulia; poi mi riscrivi annunziandomene un'altra; poi ricevo una tua lettera (e le tue lettere mi sono molto care), ma non ricevo le lettere di Giulia e ancora non le ho ricevute. Ebbene, tu non sai rappresentarti la mia esistenza, qui in prigione. Non immagini come io, ricevendo l'annunzio, aspetti ogni giorno e abbia ogni giorno una delusione e ciò si ripercuote su tutti i minuti di tutte le ore di   tutte le giornate.

Alla mamma, il 1° agosto: «Da un pezzo non ho più ricevuto notizie da Giulia; da circa 3 mesi non so niente né di lei né dei bambini. Mia cognata è sempre all'ospedale ammalata». Forse era per ciò che il 4 luglio scriveva ad un compagno, Giuseppe Berti: «In questo momento attraverso un certo periodo di stanchezza morale, in relazione ad avvenimenti di carattere famigliare».

Tatiana uscì dalla clinica ai primi del settembre  1927, e Antonio ne ebbe grande sollievo. Gli ricordava, anche fisicamente, Giulia1. Più di Giulia era espansiva; alla pacatezza della sorella opponeva un temperamento lirico, con punte d'enfasi e languori  romantici; sentiva il bisogno di sfogare su Antonio un affetto di donna-madre, protettivo e «infermieristico», e gli voleva bene;  il sacrificio d'assisterlo, invece di stancarla, l'esaltava, come fosse appagante, e lo era, di un'intima esigenza di partecipazione alla pena altrui; e si prodigava per alleviargli la durezza della reclusione; e fu, nei dieci anni di carcere, il più caro sostegno di Antonio. Il sentimento di Gramsci nei confronti di lei è ben rispecchiato dalla frase di chiusura della prima lettera indirizzatale dopo l'arresto: «T'abbraccio teneramente, carissima, perché abbraccio con te tutti i miei cari». Tatiana era l'unica di casa a lui vicina; una sorella, ormai: «Vedi che io ti scrivo proprio come a una sorella e tu in tutto questo tempo sei stata per me più che una sorella. Perciò ti ho anche tormentato un po', qualche volta. Ma non è forse vero che si tormenta proprio coloro che ci sono più cari? Io voglio che tu faccia di tutto per guarire e star sana. Così potrai scrivermi, tenermi informato di Giulia e dei bambini e consolarmi col tuo affetto»2. Poi alla mamma, il 3 ottobre:

Mia cognata è uscita dall'ospedale e viene a visitarmi di tanto in tanto. È ancora in convalescenza e fa dei grandi sacrifizi per me. Ogni giorno viene al carcere e mi manda qualche cosettina prelibata da mangiare: della frutta, della cioccolata, dei latticini freschi. Poverina, non riesco a convincerla di non affaticarsi tanto e di pensare un po' più alla sua salute. Io sono persino un po' umiliato di tanta abnegazione, che qualche volta non si trova neanche nelle sorelle.

La sua vita trascorreva ora nell'attesa del processo, sull'esito del quale non si faceva tuttavia illusione alcuna. S'aspettava una condanna pesante. Ma non per ciò aveva perso la calma di sempre:

La mia posizione morale è ottima: chi mi crede un satanasso, chi mi crede quasi un santo. Io non voglio fare né il martire né l'eroe. Credo di essere semplicemente un uomo medio, che ha le sue convinzioni profonde, e che non le baratta per niente al mondo... Nei primi mesi che ero qui a Milano, un agente di custodia mi domandò ingenuamente se era vero che io, se avessi cambiato bandiera, sarei stato ministro. Gli risposi sorridendo che ministro era un po' troppo, ma sottosegretario alle Poste o ai Lavori Pubblici avrei potuto esserlo, dato che tali erano gli incarichi che nei governi si davano ai deputati sardi. Scosse le spalle e mi domandò perché dunque non avevo cambiato bandiera, toccandosi la fronte col dito. Aveva preso sul serio la mia risposta e mi credeva matto da legare.

L'istruttoria andava alle lunghe. Non era facile integrare con prove esaurienti i capi d'accusa, puntellati esclusivamente da rapporti di questori e di carabinieri con molti giudizi (naturalmente Gramsci era sempre un «sovversivo», un individuo «molto pericoloso per l'ordine pubblico», la sua azione era «nefasta» ecc.) ma lacunosi nella proposizione di fatti specifici3. Ad ogni fase dell'istruttoria corrispose perciò il tentativo della polizia di intrappolare Gramsci mettendogli vicino agenti provocatori. Il mandato di cattura era del 14 gennaio 1927. Durante la traduzione da Ustica a Milano, nel carcere di Bologna, Gramsci fu avvicinato da un tale: diceva di chiamarsi Dante Romani e dava di sé queste notizie: sindacalista-anarchico, macchinista ferroviario arrestato nel '20 durante la sommossa di Ancona, ora a Bologna in transito verso Ancona dopo aver finito di scontare a Portolongone la sua pena. Parve tuttavia troppo informato, sebbene venisse da anni di reclusione, sulle ultime vicende italiane, e  Gramsci, insospettito, non si lasciò adescare. Seguirono, il 9 febbraio ed il 20 marzo, gli interrogatori nel carcere di San Vittore. Il 21 marzo il giudice Macis chiuse il fascicolo istruttorio e lo spedì a Roma, al Tribunale speciale per la difesa dello stato, che funzionava dal 1° febbraio. Ancora l'accusa non reggeva. Ed ecco ricomparire il Dante Romani. Fino a quel momento Gramsci era stato soggetto a un regime carcerario rigido: solo in cella, solo al passeggio, massima sorveglianza perché non comunicasse con altri. Arrivato il Romani, tutto cambiò. Stranamente il Romani poteva avvicinarlo; stranamente gli fu permesso di trascorrere ore ed ore nella cella di Gramsci. Offriva di portar fuori lettere, messaggi, ordini; il movimento comunista, diceva, era in crisi, e perciò raccomandava a Gramsci di raddrizzare con un suo energico intervento l'organizzazione illegale  del partito. L'espediente poliziesco fallì; ma la macchina processuale non s'arrestò. Nuovo mandato di cattura il 20 maggio, con imputazioni di guerra civile, saccheggio, devastazione, strage, e nuovo interrogatorio il 2 giugno. Provare gli addebiti continuava ad essere difficile. Nella prima quindicina d'ottobre, comparve nel cortile dove adesso Gramsci andava per il passeggio un tale Corrado Melani, presentato come l'amante della sorella della moglie del federale fascista di Milano, Mario Giampaoli. Il Melani si diceva perseguitato dal Giampaoli; e ne spiegava così le ragioni: l'attentato del 31 ottobre 1926 contro Mussolini a Bologna era in realtà un trucco organizzato a Milano dal Giampaoli; un ausiliario della milizia aveva esploso un colpo in aria, poi il Giampaoli si era avventato su Anteo Zamboni sgozzandolo. Il Melani aveva i documenti di prova della simulazione d'attentato; aveva documenti sui legami del Giampaoli con imprese di prostituzione e di giochi d'azzardo; aveva documenti dai quali risultava la pederastia di alcuni deputati fascisti. Se pubblicati, ne sarebbe venuta una crisi del regime ancora più acuta che dopo il delitto Matteotti. Di qui il proposito del Giampaoli di liquidare, anche avvelenandolo, il fastidioso possessore dei documenti. Corrado Melani li offriva a Gramsci in cambio di un congruo mensile assegnato dal Partito comunista. Era una trappola ingenua; Gramsci non vi cadde, e il fascicolo istruttorio rimase spoglio dei sensazionali elementi d'accusa che la polizia pensava di infilarci. Ma il processo non poteva essere ancora differito; dopo alcuni rinvii lo si fissò per il 28 maggio 1928 a Roma.

Note

1 Le dirà: «Ho osservato che virassomigliate molto, nonostante alcuni tratti spiccati di personalità propria e inconfondibile. Del resto, ricordi che un pomeriggio a Roma ti ho rivolto la parola credendo che tu fossi  Giulia?»

2 Lettera del  12 settembre  1927.

3 In un rapporto dei carabinieri di Roma si diceva di Gramsci: «Denunciato nel novembre 1922 dalla R. Procura di Roma per essere stato trovato in possesso di armi e di esplosivi»; nel novembre del 1922 Gramsci era da sei mesi a Mosca, ricoverato nel sanatorio «Bosco d'argento».

CAPITOLO VENTIQUATTRESIMO

Lasciò Milano l'11 maggio 1928. Il dibattimento si svolse dal 28 maggio al 4 giugno. Era la grande occasione in vista della quale Mussolini aveva sostituito alla magistratura ordinaria, colpevole di qualche resistenza al processo di fascistizzazione degli organi dello stato, una magistratura politica, il Tribunale speciale per la difesa dello stato.

All'inizio, questo tribunale aveva dovuto occuparsi di casi piuttosto modesti, essendo imputati due lavoratori romani che, secondo il rapporto d'accusa del commissario di pubblica sicurezza Epifanio Pennetta, s'erano lasciati andare ad espressioni ingiuriose nei confronti di Mussolini: l'uno: «Li mortacci sua, 'sto puzzolente»; l'altro: «Ancora nun l'hanno ammazzato». Ora però, di fronte ai giudici, sedevano alcuni tra i più tenaci avversari del regime, ventidue uomini odiati da Mussolini per il reale pericolo che essi rappresentavano: in prima linea, Antonio Gramsci, Umberto Terracini, Mauro Scoccimarro, Giovanni Roveda e gli ex deputati Luigi Alfani, Igino Borin, Enrico Ferrari ed Ezio Riboldi. Doveva essere un grande show giudiziario: furono impiegate tutte le forme della liturgia fascista, un doppio cordone di militi in elmetto nero, il pugnale sul fianco ed i moschetti con la baionetta in canna, i giudici in alta uniforme1 e tutt'un rituale sinistro da corte marziale. Al tavolo della stampa erano stati ammessi i corrispondenti del «Manchester Guardian», del «Petit Parisien» e della «Tass». Poterono assistere alle udienze anche Carlo Gramsci ed i fratelli di Terracini e di Scoccimarro.

I ventidue imputati sedevano sul banco degli accusati «custoditi dalla forza militare ma liberi nelle persone», come si legge nel verbale della prima udienza. La linea comune fu di ammettere la loro attività nelle file del Partito comunista negando però una funzione dirigente. Erano calmi; il primo ad essere interrogato fu, nell'udienza del 30 maggio, Antonio Gramsci. Uno dei difensori, l'avvocato Giuseppe Sardo, ha così ricostruito il colloquio.

Presidente: Siete imputato di attività cospirativa, di istigazione alla guerra civile, di apologia di reato e di incitamento all'odio di classe. Cosa avete da dire a vostra discolpa?

Gramsci: Confermo le mie dichiarazioni rese alla polizia. Sono stato arrestato malgrado fossi deputato in carica. Sono comunista e la mia attività politica è nota per averla esplicata pubblicamente come deputato e come scrittore de «l'Unità». Non ho svolto attività clandestina di sorta perché, ove avessi voluto, questo mi sarebbe stato impossibile. Già da anni ho sempre avuto vicino sei agenti, con il compito dichiarato di accompagnarmi fuori o di sostare in casa mia. Non fui, così, mai lasciato solo; e, con il pretesto della protezione, fu esercitata nei miei confronti una sorveglianza che diviene oggi la mia migliore difesa. Chiedo che vengano sentiti come testi per deporre su questa circostanza il prefetto e il questore di Torino. Se d'altronde l'essere comunista importa responsabilità, l'accetto.

Presidente: Tra gli scritti sequestrati si parla di guerra e di impossessamento di potere da parte del proletariato. Cosa vogliono  significare  questi  scritti?

Gramsci: Penso, signor generale, che tutte le dittature di tipo militare finiscano prima o poi per essere travolte dalla guerra. Sembra a me evidente, in tal caso, che tocchi al proletariato sostituire la classe dirigente, pigliando le redini del Paese per sollevare le sorti della Nazione.

Parlava con un filo di voce. S'eccitò solo verso la fine dell'interrogatorio. L'avevano irritato alcune interruzioni del pubblico ministero. Rivolto ai giudici, con veemenza disse: «Voi condurrete l'Italia alla rovina ed a noi comunisti spetterà di salvarla».

Furono volta a volta polemici anche gli altri accusati. Tra i precedenti penali del deputato Ferrari era stata ricordata una vecchia condanna per gli scioperi di Modena del 1913. Con prontezza Ferrari obiettò: «In verità, signor presidente, per i fatti ricordati mi ebbi allora le più alte lodi del direttore dell' "Avanti!", attuale Capo del Governo». E l'avvocato Riboldi, membro dell'ufficio giuridico del PCd'I: «Ho difeso più di trecento comunisti che sono stati ritenuti innocenti e assolti dalla magistratura. Non comprendo perché debba oggi essere condannato io, solo per averli difesi».

Il pubblico ministero parlò nell'udienza del 2 giugno. Svolse una requisitoria violenta. All'indirizzo di Gramsci disse: «Per vent'anni, dobbiamo impedire a questo cervello di funzionare».

Infine il 4 giugno, prima che il Tribunale si ritirasse in camera di consiglio, ebbero la parola gli accusati. Per tutti, si levò Terracini.

Terracini: Quale fosse stata la nostra posizione nell'organizzazione del partito ciascuno di noi ha detto nella propria deposizione.  Né le nostre parole sono state minimamente modificate dalle varie testimonianze di polizia comodamente trincerate dietro il principio di irresponsabilità, altrimenti detto «segreto d'ufficio», e secondo le quali noi tutti, senza eccezioni, saremmo stati capi del partito. E d'altronde, se anche ciò fosse vero?

Presidente: Bene bene, ne prendo atto.

Terracini: Ottimamente, signor Presidente, ma prenda atto anche di quanto dirò ora. Mi ricordo che posso fregiarmi del titolo di avvocato e voglio fare sfoggio di giurisprudenza. Oh, non della vecchia giurisprudenza delle vecchie sentenze emanate sotto i vecchi regimi, ma della giurisprudenza nuovissima quale balza dai giudicati di tribunali già ispirati ai nuovi principi di etica e di politica. Ecco:   vi è una sentenza emanata, or non è molto, da un tribunale posto assai più in alto di questo...

Presidente: Come? Come?

Terracini: ...da un tribunale che, a differenza di questo, è un  tribunale costituzionale...

Presidente: Badate a ciò che dite.

Terracini: Signor presidente, ella non può che essere d'accordo con me, poiché parlo del Senato costituito in Alta Corte di Giustizia, cioè della magistratura somma fra tutte e la cui esistenza e funzionamento sono previsti e stabiliti dalla stessa Costituzione dello Stato. Orbene, in codesta sentenza, che il Governo volle fosse larghissimamente diffusa a conoscenza e ad ammonimento di tutti i cittadini, è detto che nessun capo o dirigente di partito o di altra organizzazione può essere tenuto penalmente responsabile di atti commessi da soci o da seguaci dei partiti o delle organizzazioni in questione, quando non ne possa venire provata concretamente la reità. Il tribunale ha certamente compreso: mi riferisco alla sentenza della Commissione istruttoria presso l'Alta Corte di Giustizia nel procedimento contro il generale Luigi De Bono, accusato di complicità nell'omicidio dell'onorevole Matteotti ed assolto per insufficienza di prove. Ora io chiedo: è valida per noi questa giurisprudenza? Il Pubblico Accusatore nella requisitoria ha implicitamente sostenuto di no. E, in quanto a me, io non ho alcun dubbio su quello che sarà il responso del tribunale. Eppure anche dinanzi a queste previsioni, previsioni di accettazione integrale delle richieste del Pubblico Accusatore, previsioni di massimo di pena, io non posso celare un certo qual intimo compiacimento. Né vi è da stupirsene. Infatti, se prendiamo codeste conclusioni che furono sino adesso formulate soltanto in linguaggio giuridico e le traduciamo in linguaggio politico, qual è il significato che ne balza?

Presidente: Lasciate stare la politica ed attenetevi alla materia della causa.

Terracini: Signor Presidente, io chiedo di poter almeno sul finire di questo processo che trova la sua origine e la sua ragione d'essere esclusivamente in cause e necessità di ordine politico, io chiedo di potere, sia pure un solo momento, fare quello che per sei giorni ci è stato proibito: parlare politicamente. Io dicevo: quale è il significato politico delle conclusioni del Pubblico Accusatore? Nient'altro che questo: che il fatto puro e semplice della esistenza del Partito comunista è sufficiente, di per se stesso, a porre in pericolo grave e imminente il regime. Oh, eccolo dunque lo Stato forte, lo Stato difeso, lo Stato totalitario, lo Stato arma-tissimo! Esso si sente minacciato nella sua solidità; di più, nella sua sicurezza, solo perché di fronte a lui si leva questo piccolo partito, disprezzato, colpito e perseguitato, che ha visto i migliori fra i suoi militanti uccisi o imprigionati, obbligato a sprofondarsi nel segreto per salvare i suoi legami con la massa lavoratrice per la quale e con la quale vive e lotta. Vi è da meravigliarsi se io dichiaro di fare mie, integralmente, queste conclusioni del Pubblico Accusatore?

Presidente: Adesso basta su questo argomento. Avete altro da dire?

Terracini: Avrei finito se non mi sentissi impegnato a seguire il Pubblico accusatore sul terreno delle previsioni. Non di quelle sentimentali, però, sulle quali egli si è soffermato, e nelle quali mi è troppo facile avere contro di lui la vittoria. Non la gioia e il plauso accoglieranno la nostra condanna ma la tristezza e il dolore, io ne sono certo. Ma è una previsione politica, ancora una volta signor Presidente, quella che io faccio: noi saremo condannati perché riconosciuti colpevoli di eccitamento all'odio fra le classi sociali e di atti incitanti alla guerra civile. Ebbene, non vi sarà alcuno, domani, che leggendo l'elenco pauroso delle nostre condanne non si convinca che questo processo e il verdetto che sta per conchiuderlo siano essi stessi un episodio di guerra civile, un possente eccitamento all'odio fra le classi sociali.

(Il presidente lo interrompe. Vorrebbe togliergli la parola.)

Terracini: Ma ciò non può dirsi, nevvero? Allora io voglio concludere con un pensiero più gaio. Signor Presidente, signori giudici, questo dibattimento è stato davvero la più caratteristica e degna commemorazione dell'ottantesimo anniversario dello Statuto, che voi ieri fra salve di cannoni e squilli di fanfare avete solennizzato per le vie di questa capitale. (Interruzione definitiva del presidente.)

Cadde una grandinata d'anni di galera. Gramsci fu condannato a 20 anni, 4 mesi e 5 giorni (ad altrettanti Roveda e Scoccimarro; a 22 anni, 9 mesi e 5 giorni Terracini).

Circolava la notizia che Gramsci sarebbe finito a Portolongone. L'8 giugno 1928, quattro giorni dopo la sentenza, Teresina prese l'iniziativa di scrivere a Mussolini da Ghilarza. Gli chiedeva di autorizzare «una rigorosa visita medica fiscale» e che poi il fratello fosse «internato in una casa di pena sanitaria dove, con vitto proprio e con regime di cura che si confaccia al suo organismo malaticcio, possa sopportare più umanamente la pena inflittagli»2. Fu visitato. Aveva già perso dodici denti e soffriva, sappiamo da un rapporto 6 luglio 1928 del capo di gabinetto del ministro di Grazia e Giustizia al ministro dell'Interno, di «periodontite espulsiva in dipendenza di disturbi uricemici e di un lieve esaurimento nervoso»3. L'assegnazione a Portolongone fu revocata. Destinato al carcere di Turi, a una trentina di chilometri da Bari, Antonio vi giunse il 19 luglio, dopo un viaggio di traduzione durato dodici giorni:

Il viaggio Roma-Turi è stato orribile. Si vede che i dolori da me sentiti a Roma e che mi sembravano un mal di fegato, non erano che l'inizio dell'infiammazione che si manifestò in seguito. Stetti male in modo incredibile. A Benevento trascorsi due giorni e due notti infernali; mi torcevo come un verme, non potevo né stare seduto, né in piedi, né sdraiato. Il medico mi disse che era il fuoco di S. Antonio e che non c'era da far nulla.

Arrivò estenuato. «Era afflitto», racconta un compagno di carcere, Giuseppe Ceresa, «da un'esplosione cutanea di carattere uricemico, aveva tutte le funzioni digerenti scombussolate, respirava con grande fatica e per fare quattro passi aveva bisogno di appoggiarsi a qualcuno».

Avvertì subito il fiscalismo e l'inumanità del personale dirigente e sanitario. Un prigioniero politico, Aurelio Fontana, ricorda le parole di rimostranza di Gramsci al direttore: «Io sono stato arrestato mentre ancora vigeva il mio mandato parlamentare. Dovrebbe quindi essermi fatto un trattamento analogo a quello a cui venisse eventualmente ammesso un cardinale in istato d'arresto. Vedo, tuttavia, che non mi si tratta nemmeno come un sagrestano». Medico era un dottor Cisternino del quale uno scrittore, Domenico Zucàro, andato a intervistarlo vent'anni dopo, scriverà senza ricevere una smentita o una querela:

Gramsci avrebbe bisogno di maggiori cure mediche e di un miglioramento delle condizioni di vita alle quali è costretto... Il dottor Cisternino lo abbandona, anzi un giorno gli dice che, come fascista, non desidererebbe altro che la sua morte. Non c'è da stupirsi del cinismo di quest'uomo bugiardo e pauroso fino alla vigliaccheria... Secondo quanto si dice in paese, se è chiamato d'urgenza nella notte, ha l'abitudine di fissare l'onorario prima di scendere... Chiede dalla finestra se il cliente è disposto a spendere 5 mila o anche 10 mila lire.

Maggiori premure aveva una parte del personale di custodia; ma la cella di Gramsci era attigua al posto di guardia, e spesso i rumori gli impedivano di riposare.

Note

1 Presidente il generale Alessandro Saporiti, relatore l'avvocato Giacomo Buccafurri, giurati cinque consoli della milizia fascista, accusatore l'avvocato Michele Isgrò.

2 La lettera è  inedita.

3 Il  rapporto è  inedito.

CAPITOLO VENTICINQUESIMO

Ai primi del febbraio 1929, quando era in carcere già da due anni e quattro mesi, ebbe finalmente l'occorrente per lavorare1. Del suo piano di lavoro aveva già esposto le linee generali a Tatiana quattro mesi dopo l'arresto, il 19 marzo 1927.

Sono assillato - scriveva - da questa idea: che bisognerebbe far qualcosa für ewig secondo una complessa concezione di Goethe, che ricordo aver tormentato molto il nostro Pascoli. Insomma, vorrei, secondo un piano prestabilito, occuparmi intensamente e sistematicamente di qualche soggetto che mi assorbisse e centralizzasse la mia vita interiore.

Pensava allora a quattro soggetti: 1) una ricerca sugli intellettuali italiani, le loro origini, i loro aggruppamenti secondo le correnti della cultura, i loro diversi modi di pensare; 2) uno studio di linguistica comparata; 3) uno studio sul teatro di Pirandello e sulla trasformazione del gusto teatrale italiano che il Pirandello aveva rappresentato e contribuito a determinare; 4) un saggio sui romanzi d'appendice e il gusto popolare in letteratura. Come gli diedero carta e penna, non si applicò subito allo svolgimento di questi o d'altri temi; traduceva dal tedesco: «Per adesso faccio solo delle traduzioni, per rifarmi la mano; intanto metto ordine nei miei pensieri» (9 febbraio 1929). S'era intanto fissato il giorno prima uno schema, scrivendo sul frontespizio di un quaderno della Giuseppe Laterza & Figli (duecento pagine, copertina rossonera marmorizzata):

Primo Quaderno (8 febbraio 1929) - Note e appunti - Argomenti principali - 1) Teoria della storia e della storiografia; 2) Sviluppo della borghesia italiana fino al 1870; 3) Formazione dei gruppi intellettuali italiani: svolgimento, atteggiamenti; 4) La letteratura popolare dei romanzi d'appendice e le ragioni della sua persistente fortuna; 5) Cavalcante Cavalcanti: la sua posizione nella struttura e nell'arte della Divina Commedia; 4) Origini e svolgimento dell'Azione Cattolica in Italia e in Europa; 7) Il concetto di folklore; 2) Esperienze della vita in carcere; 9) La «quistione meridionale» e la quistione delle isole; 10) Osservazioni sulla popolazione italiana: sua composizione, funzione dell'emigrazione; 11) Americanismo e fordismo; 12) La quistione della lingua in Italia: Manzoni e G. I. Ascoli; 13) Il «senso comune»; 14) Riviste tipo: teorica, critico-storica, di cultura generale (divulgazione); 15) Neo-grammatici e neo-linguisti («questa tavola rotonda è quadrata»); 16) I nipotini di padre Bresciani.

Fin dall'inizio, dunque, Gramsci aveva ben chiare in mente almeno le linee generali di un suo piano di lavoro. Le precisò meglio a Tatiana in una lettera del 25 marzo 1929: «Ho deciso di occuparmi prevalentemente e di prendere note su questi tre argomenti: - 1° La storia italiana nel secolo XIX, con speciale riguardo della formazione e dello sviluppo dei gruppi intellettuali; -2° La teoria della storia e della storiografia; - 3° l'americanismo e il fordismo».

Lavorava in condizioni difficili, con i libri che il direttore, incline per conformismo di burocrate a resistenze ed a piccole angherie, gli permetteva di ricevere, irregolarmente, dall'esterno. I compagni di prigionia lo ricordano intento per lunghe ore al lavoro. Scriveva senza mai sedersi: passeggiava assorto e solo quando la frase gli si era ben ordinata in testa andava al tavolino, poggiava un ginocchio sullo sgabello e sempre in piedi, un po' curvo, annotava; poi subito riprendeva a passeggiare. Non era mai stato uno scrittore a flusso continuo, nemmeno l'esperienza del giornalismo quotidiano lo aiutava ad andare veloce. Ma, dopo la lunga meditazione, quel poco che aveva da scrivere lo scriveva di getto, senza rifacimenti o cancellature. Così un paio d'ore ogni giorno, con esemplare tenacia, malgrado fossero molti in carcere gli elementi sfavorevoli: quelli generali della vita d'ogni recluso e in più l'impossibilità di consultazione ampia dei libri e dei documenti necessari, la progressiva demolizione del fisico ed anche lo stato di avvilimento per le ombre che la discontinuità della corrispondenza veniva accumulando tra lui e Giulia. Ormai, per Gramsci, il lavoro,  quegli appunti per memoria, quelle brevi note conun'idea fissata nel suo primo abbozzo, quei saggi aperti al completamento o alla rielaborazione erano la vita stessa, erano il suo modo di continuare la lotta rivoluzionaria, di rimanere legato al mondo, idealmente attivo nella società degli uomini. Saranno alla fine 32 quaderni, 21 dei quali scritti o cominciati a Turi: nell'insieme 2848 pagine corrispondenti a quattromila cartelle dattiloscritte. La prima impressione di chi si accosta agli originali è la frammentarietà. Gli argomenti si intrecciano, chiusi nella misura della breve nota: il sunto di un articolo appena letto, un'idea altrui fissata per memoria, il primo abbozzo d'una tesi, le indicazioni per l'impianto di un saggio o la parte del saggio nella stesura definitiva: tutt'una accumulazione di materiali minuti che poi dovranno avere sistemazione organica. A distanza di mesi e persino di anni, come gli è permesso dall'irregolare arrivo dei libri, Gramsci riprende il discorso appena avviato o non approfondito a sufficienza e lo arricchisce di nuove osservazioni, riscrive, amplia, connette gruppi di note precedenti. Sono materiali adesso più solidi, meglio finiti, che però aspettano ancora d'essere disposti, legati, fusi in una costruzione ben equilibrata. A quest'ultimo lavoro di trascrizione o di riscrittura e di riordinamento delle note in un disegno organico, Gramsci non potrà attendere che per alcuni argomenti. L'apparenza di frammentarietà rimane, e tuttavia v'è un'idea centrale, di fondo, cui tutte le note sparse si riconducono.

Qual è questa idea centrale? Già la si coglie, più che in germe, nel saggio sulla questione meridionale2. Lì era posto, in premessa, il problema delle alleanze di classe: il proletariato potrà vincere e garantire stabilità all'ordine nuovo solo nella misura in cui sarà riuscito a conquistare alla sua causa le altre classi sfruttate, la classe contadina in primo luogo; ma la classe contadina, è integrata in un blocco storico dove gli intellettuali medi esercitano il ruolo di diffusori di una Weltanschauung borghese, della concezione di vita elaborata dai grandi intellettuali della classe dominante; per staccare il contadino dal proprietario terriero, è necessario favorire la formazione di un nuovo strato di intellettuali che respingano la Weltanschauung borghese (Gobetti, Dorso). I Quaderni sono la prosecuzione e l'ampliamento del saggio sulla questione meridionale: c'è in essi lo studio della funzione degli intellettuali nella storia d'Italia, sino alla formazione dello stato unitario; c'è la critica delle filosofie che danno un fondamento teorico al dominio borghese; c'è il contributo dell'uomo di pensiero all'elaborazione di una nuova Weltanschauung proletaria, di una nuova concezione di vita opposta a quella borghese e sostitutiva d'essa nella coscienza delle classi sfruttate. È specialmente in queste tre direzioni che il Gramsci dei Quaderni si muove: egli storicizza i movimenti culturali del passato; sottopone a critica la filosofia di Benedetto Croce; combatte le degenerazioni economicistiche, meccanicistiche, fatalistiche del marxismo.

Ogni blocco storico, ogni ordine costituito, pensa Gramsci con originalità rispetto ad altri marxisti, ha i suoi punti di forza non solo nella violenza della classe dominante, nella capacità coercitiva dell'apparato statale, ma anche nell'adesione dei governati alla concezione del mondo che è propria della classe dominante. La filosofia della classe dominante, per una serie di successive volgarizzazioni, è diventata senso comune: è diventata cioè la filosofia delle masse, le quali accettano la morale, il costume, le regole di comportamento istituzionalizzate nella società in cui vivono. Il problema allora, per Gramsci, è di vedere come la classe dominante è arrivata ad ottenere il consenso delle classi subalterne e come queste classi potranno rovesciare il vecchio ordine e istituirne un altro, di libertà per tutti. Non si tratta però di analizzare astrattamente ciò che è il capitalismo in generale e ciò che sono le classi sfruttate. L'esigenza prima di Gramsci è di calarsi in una realtà ben precisa, nella concreta realtà italiana; vedere come s'è formato lo stato borghese italiano e quale funzione hanno esercitato gli intellettuali in questo processo di formazione.

Intanto, perché il popolo ha avuto nel Risorgimento una parte marginale e in ogni caso subalterna lasciando che il Risorgimento si caratterizzasse come «conquista regia» e non come movimento popolare? Perché, risponde Gramsci, mancava al popolo una coscienza nazionale; questa coscienza non poteva essergli data dalla cultura del tempo, dalla letteratura, che era «non nazionale-popolare», in quanto legata a una tradizione di «cosmopolitismo», la tradizione degli intellettuali espressi da due istituzioni sovrannazionali, l'Impero e la Chiesa. In questo vuoto di coscienza nazionale e nella estraneazione del popolo al moto unitario, è stato possibile ai moderati cavouriani dirigere il processo di unificazione, regolarlo ai propri fini, sino alla costituzione di un nuovo stato nel quale sono rifuse le forme della dittatura borghese. Ecco dunque il vizio d'origine dello stato italiano, la causa della sua debolezza e del permanere in esso di tentazioni reazionarie: l'assenza di spirito giacobino nel movimento che gli ha dato vita.

Dopo l'unificazione, il primo grande teorico della Weltanschauung democratico-borghese è Benedetto Croce. Egli ha il merito, sottolinea Gramsci, d'aver energicamente attirato l'attenzione sull'importanza del momento etico-politico nello sviluppo della storia. Lo storicismo idealistico crociano ha provocato la dissoluzione delle interpretazioni correnti del marxismo, rozzamente meccanicistiche, positivistiche, evoluzionistiche. È l'uomo il protagonista unico della storia. Il pensiero è stimolo all'azione, all'attività etico-politica concreta, di creazione di nuova storia. Dunque la filosofia crociana, rivalutando contro le teorie deterministiche il ruolo attivo dell'uomo nello svolgimento del reale, che è creazione dello spirito, ha una funzione di premessa per la ripresa del pensiero marxista, prima intorbidato dall'economicismo, dal meccanicismo fatalista. Ma di quale uomo parla Croce? Dell'uomo storicamente determinato, che vive in una ben concreta realtà, in un insieme di condizioni oggettive verificabili in uno spazio ed in un tempo determinati? No, nella filosofia crociana è presente l'Uomo universale, entità metafisica, non l'uomo sociale, non l'uomo la cui personalità, il cui modo di pensare nasce da un triplice rapporto: dell'uomo con se stesso, con gli altri uomini e con la natura; sono presenti lo Spirito, l'Idea, astrazioni dell'uomo che si muove ed opera all'interno di precisi rapporti sociali. L'uomo, elevato a creatore di storia, è in realtà collocato dallo storicismo crociano fuori della storia. Così, obietta Gramsci, mentre la concezione storicistica della realtà dhe è nella filosofia della prassi si è liberata di ogni residuo di trascendenza e di teologia anche nella loro ultima incarnazione speculativa (l'Uomo, lo Spirito), lo storicismo crociano rimane nella fase teologico-speculativa.

Gramsci definisce Croce il leader nazionale della cultura liberale democratica. Lo storicismo crociano, egli scrive, sarebbe nient'altro che una forma di moderatismo politico, che pone come solo metodo d'azione politica quello in cui il progresso, lo svolgimento storico risulta dalla dialettica di conservazione e innovazione. Nel linguaggio moderno, osserva Gramsci, questa concezione si chiama riformismo. Ma questo storicismo da moderati e da riformisti, prosegue, non è per nulla una teoria scientifica, il «evero» storicismo; è solo il riflesso di una tendenza pratico-politica, una ideologia nel senso deteriore. Jnfatti, perché la «conservazione», primo termine del processo dialettico (tesi), dovrebbe essere proprio quella data «conservazione», quel dato elemento del passato? Il passato è cosa complessa, un complesso di vivo e di morto, in cui la scelta non può essere fatta arbitrariamente, a priori, da un individuo o da una corrente politica. Se la scelta è stata fatta in tal modo (sulla carta) non può trattarsi di storicismo ma di un atto di volontà arbitrario, del manifestarsi di una tendenza pratico-politica, unilaterale, che non può dare fondamento a una scienza, ma solo ad una ideologia politica immediata. Croce vorrebbe dettare a priori le regole del processo dialettico; vorrebbe unilateralmente stabilire ciò che la sintesi deve  conservare della tesi  (il  passato) superato dall'antitesi (movimento innovatore); e mura ii processo dialettico dentro la forma liberale dello stato. Ma come si può domandare che le forze in lotta «moderino» la lotta entro certi limiti (i limiti della conservazione dello stato liberale) senza cadere in arbitrio o in disegno preconcetto? Nella storia reale, osserva Gramsci,  l'antitesi deve necessariamente porsi come radicale antagonista della tesi, fino a tendere a distruggerla completamente ed a sostituirla, e la sintesi sarà un superamento, ma senza che a priori si possa stabilire ciò che della tesi sarà conservato nella sintesi, senza che  si possa a priori «misurare»  i colpi come in un ring convenzionalmente  regolato. Concepire lo svolgimento storico come un gioco sportivo, col suo arbitro e con le sue norme prestabilite da rispettare lealmente, è una forma di storia a disegno, uno dei tanti modi di «mettere le brache al mondo». Questa storia a disegno corrispondeva agli interessi della classe dominante, ed era naturale che lo storicismo moderato e riformista del Croce diventasse la sua ideologia, quando alla dittatura borghese dei  decenni immediatamente successivi all'unificazione doveva succedere un nuovo blocco di potere democratico-borghese. Croce è stato il leader dei movimenti culturali che nascevano per rinnovare le vecchie forme politiche; la sua leadership ha significate la creazione di  un nuovo clima culturale: una nuova Weltanschauung era proposta al consenso dei governati. L'egemonia democratico-borghese ha potuto realizzarsi per l'adesione dei cittadini alla nuova concezione del mondo elaborata dal filosofo del liberalismo.

Il riferimento di Gramsci a Croce è costante: 1) perché egli crede che una ripresa del marxismo non possa non partire dalla proposizione crociana dell'identità di storia e di filosofia; 2) perché l'influenza esercitata dal filosofo del liberalismo obbliga a riflettere sulla funzione dei grandi intellettuali nella vita organica della società civile e dello stato e sul momento dell'egemonia e del consenso come forma necessaria del blocco storico concreto.

Per il primo punto, Gramsci è esplicito.

Come la filosofia della praxis è stata la traduzione dell'hegelismo in linguaggio storicistico, così la filosofia del Croce - egli scrive - è in una misura notevolissima una ritraduzione in linguaggio speculativo dello storicismo realistico della filosofia della praxis... Ora occorre rifare per la concezione filosofica del Croce la stessa riduzione che i primi teorici della filosofia della praxis, Marx ed Engels, hanno fatto per la concezione hegeliana. È questo il solo modo storicamente fecondo di determinare una ripresa adeguata della filosofia della praxis, di sollevare questa concezione (che si è venuta, per le necessità della vita pratica immediata, «volgarizzando») all'altezza che deve raggiungere per la soluzione dei compiti più complessi che lo svolgimento attuale della lotta propone, cioè alla creazione di una nuova cultura integrale, che abbia i caratteri di massa della Riforma protestante e dell'illuminismo francese e abbia i caratteri di classicità della cultura greca e del Rinascimento italiano, una cultura che, riprendendo le parole del Carducci, sintetizzi Massimiliano Robespierre ed Emanuele Kant, la politica e la filosofia, in una unità dialettica intrinseca ad un gruppo sociale non solo francese o tedesco, ma europeo e mondiale. Bisogna che l'eredità della filosofia classica tedesca sia non solo inventariata ma fatta ridiventare vita operante, e per ciò fare occorre fare i conti con la filosofia del Croce, cioè per noi italiani essere eredi della filosofia classica tedesca significa essere eredi della filosofia crociana, che rappresenta il momento  mondiale  odierno  della  filosofia classica  tedesca.

Il problema di fondo è per Gramsci la creazione di una nuova Weltanschauung proletaria, di una nuova concezione di vita che (nella prima fase, di movimento per la conquista dello stato) penetri nella coscienza dei governati e sostituendosi a quella precedente restringa l'area del consenso popolare alla forma liberale dello stato; e poi (nella seconda fase, di gestione del potere conquistato) assicuri al nuovo stato proletario la più ampia base di adesioni. Così il proletariato sarà classe dominante e classe dirigente insieme: dove il «dominio» è per sottomettere e liquidare i gruppi capitalistici e la «direzione intellettuale e morale» è per convincere alla causa del socialismo tutti i gruppi antagonisti del capitalismo. «Un gruppo sociale», egli scrive, «può, anzi deve essere dirigente già prima di conquistare il potere governativo (è questa una delle condizioni principali per la stessa conquista del potere); dopo, quando esercita il potere, e anche se lo tiene fortemente in pugno, diventa dominante ma deve continuare ad essere dirigente»3.

Prima fase: lotta per la conquista dello stato. L'esperienza rivoluzionaria russa, pensa Gramsci, è irripetibile in Occidente. Lì fu possibile la guerra manovrata, l'attacco fulmineo e rapidamente risolutore, perché la società civile era «primordiale e gelatinosa», lo stato zarista non si reggeva sul consenso dei governati. In Occidente invece, dove la direzione intellettuale e morale della borghesia ha procurato alla forma liberale dello stato il consenso di masse enormi di cittadini, «lo  Stato è una trincea avanzata dietro la quale sta una robusta fortezza di casematte», cioè il modo di vivere e di pensare, le aspirazioni, la morale, il costume che la maggioranza dei cittadini, conformandosi alla concezione del mondo diffusa dalla classe dominante borghese, ha fatto propri: è questa una società civile «resistente  alle "irruzioni" catastrofiche dell'elemento economico immediato (crisi, depressioni, eccetera)». Ecco perché negli stati a direzione liberale è necessario il passaggio dalla guerra manovrata alla guerra di posizione, l'abbandono della strategia bolscevica per una strategia nuova, che si fondi non più sulla conquista pura e semplice dello stato, «trincea avanzata», ma che, per la conquista della «trincea avanzata» e per il mantenimento di questa posizione, s'impossessi della «robusta fortezza di casematte», della società civile.

Mi pare che Ilici aveva compreso che occorreva un mutamento dalla guerra manovrata, applicata vittoriosamente in Oriente nel '17, alla guerra di posizione che era la sola possibile in Occidente... Solo che Ilici non ebbe il tempo di approfondire la sua formula, pur tenendo conto che egli poteva approfondirla solo teoricamente, mentre il compito fondamentale era nazionale, cioè domandava una ricognizione del terreno ed una fissazione degli elementi di società civile.4

Gramsci compie nei Quaderni, come già nel saggio sulla questione meridionale, questa ricognizione del terreno (del terreno italiano); fissa gli «elementi di trincea e di fortezza» che presidiano lo stato borghese: e per far ciò studia lo svolgimento della storia italiana dalla fine della Repubblica di Roma ai Comuni medievali, alla Riforma, al Rinascimento, alla Controriforma, al momento dell'Unità; interpreta, con metodo storicistico, i fatti del passato, sino a definire le reali forze operanti nella società italiana, le forze che hanno portato alla costituzione dello stato unitario; e dopo aver collocato nella loro concretezza storica tutte le correnti culturali italiane, storicizza anche la filosofia crociana, attribuendole in ultima analisi il ruolo di costruttrice di «casematte».

Basta però, nella guerra di posizione, aver identificato gli «elementi di trincea e di fortezza»? Certo, non si combatte se prima non sia avvenuta l'ispezione del terreno. Ma poi, a ricognizione ultimata, occorre che l'esercito assalitore abbia i mezzi per l'attacco; in questo caso, che l'esercito proletario sia ideologicamente agguerrito, che abbia da opporre alla concezione di vita borghese un'altra Weltanschauung, una nuova morale, nuove idealità, un nuovo modo di vivere e di pensare: solo così molte «casematte» cadranno, dileguerà il consenso alla forma liberale dello stato, e il nuovo stato, lo stato proletario, nascerà sorretto dal consenso dei governati.

Seconda fase: la gestione del potere. È stato lo stesso Lenin, rileva Gramsci, a rivalutare, in opposizione alle diverse tendenze «economistiche», il fronte della lotta culturale; è stato lo stesso Lenin a costruire la dottrina dell'egemonia (dominio + direzione intellettuale e morale) come complemento della teoria dello stato-forza (dittatura del proletariato) e come forma attuale della dottrina di Marx. Il significato di ciò è chiaro: il dominio (la coercizione) è un modo del potere, una necessità storica in un dato momento; la direzione è il modo che garantisce la stabilità del potere poggiato su basi di largo consenso. «Dal momento in cui un gruppo subalterno diventa realmente autonomo ed egemone suscitando un nuovo tipo di Stato, nasce concretamente l'esigenza di costruire un nuovo ordine intellettuale e morale, cioè un nuovo tipo di società,  e quindi», sottolinea Gramsci, «l'esigenza di elaborare i concetti più universali, le armi ideologiche più raffinate e decisive»5.

All'elaborazione di questi concetti egli dedica molta parte del suo lavoro. Centrale in Gramsci è la riassunzione del concetto di «dialettica» nel significato hegeliano-marxistico. La polemica gramsciana investe perciò non  solo l'idealismo crociano, che fa un uso speculativo della dialettica ed alla dialettica reale sostituisce una dialettica concettuale, alla dialettica delle cose una dialettica delle idee, così che in Croce, afferma Gramsci, «la storia diventa una storia formale, una storia di concetti e in ultima analisi una storia degli intellettuali, anzi una storia  autobiografica  del pensiero del  Croce,  una  storia di mosche cocchiere»; investe anche, con uguale tensione, il materialismo tradizionale, che al vizio dell'idealismo (la realtà ridotta all'idea) reagisce con un vizio opposto (la realtà ridotta alla  materia) e ignorando la dialettica concepisce evolutivamente il  corso  storico, quando nella storia reale, sostiene Gramsci, il processo non è di evoluzione ma di  negazione totale della tesi: dove l'antitesi tende a distruggere la tesi, non semplicemente a modificarla. Ed anche è investito dalla polemica il materialismo metafisico, cioè il tentativo di scissione, che Gramsci attribuisce a Bukharin, tra filosofia e prassi, tra la filosofia come scienza della dialettica (materialismo dialettico) e la dottrina della storia e della politica (materialismo storico).

Nel Saggio6 - scrive Gramsci - manca una trattazione qualsiasi della dialettica... L'assenza di una trattazione della dialettica può avere due origini; la prima può essere costituita dal fatto che si suppone la filosofia della prassi scissa in due elementi: una teoria della storia e della politica concepita come sociologia... e una filosofia propriamente detta, che poi sarebbe il materialismo filosofico o metafisico o meccanico (volgare). Anche dopo la grande discussione avvenuta contro il meccanicismo, l'autore del Saggio non pare abbia mutato molto l'impostazione del problema filosofico... Egli continua a credere che la filosofia della prassi sia sempre scissa in due: la dottrina della storia e della politica e la filosofia, che egli però dice essere il materialismo dialettico e non più il vecchio materialismo filosofico... La radice di tutti gli errori del Saggio e del suo autore consiste appunto in questa pretesa di dividere la filosofia della prassi in due parti: una «sociologia» ed una filosofia sistematica. Scissa dalla teoria della storia e della politica la filosofia non può  essere che metafisica.

Infine la diffusione della nuova Weltanschauung proletaria. Spetta agli intellettuali organici della classe operaia il compito di conquistare alla causa del socialismo gli intellettuali tradizionali e insieme far diventare la nuova concezione del mondo senso comune. Potrà realizzarsi così, con il passaggio dalla borghesia alla classe operaia delle «casematte» (direzione culturale) e della «trincea avanzata» (dominio), l'egemonia del proletariato.

«Intellettuale collettivo» della classe operaia è il partito, «moderno Principe».

Il moderno principe, il mito-principe, non può essere [come il Principe auspicato dal Machiavelli] una persona reale, un individuo concreto; può essere solo un organismo; un elemento di società complessa nel quale già abbia inizio il concretarsi di una volontà collettiva riconosciuta e affermatasi parzialmente nell'azione. Questo organismo è già dato dallo sviluppo storico ed è il partito politico: la prima cellula in cui si riassumono dei germi di volontà collettiva che tendono a divenire universali e totali... Il moderno Principe deve e non può non essere il banditore e l'organizzatore di una riforma intellettuale e morale, ciò che poi significa creare il terreno per un ulteriore sviluppo della volontà collettiva nazionale-popolare verso il compimento di una forma superiore e totale di civiltà moderna. Questi due punti fondamentali: formazione di una volontà collettiva nazionale-popolare, di cui il moderno Principe è nello stesso tempo l'organizzatore e l'espressione attiva e operante, e riforma intellettuale e morale, dovrebbero costituire la  struttura  del  lavoro.

Ecco dunque, rapidamente disegnato, il tronco dei Quaderni: un'opera di investigazione nella concreta realtà italiana e di elaborazione teorica. Non tutti i problemi sono risolti, e d'altra parte non potevano avere, date le stesse precarie condizioni del lavoro, altro che una soluzione fluida (è Gramsci il primo ad avvertirlo e lo dice esplicitamente in un'avvertenza). Però tutti sono proposti con originalità; e sono proposti con una tale precisione e con una tale ricchezza di indicazioni da non lasciar dubbi sulla linea di ulteriore svolgimento.

Quaderni hanno una numerazione, dovuta a Tatiana Schucht, non nell'ordine di scrittura. È tuttavia possibile (sulla scorta di tre elementi di giudizio: le indicazioni lasciateci da Gramsci in alcune lettere dal carcere; le date rilevabili in qualche quaderno, sul frontespizio o in corso di nota - «scrivo nel  novembre 1930»,  «quaderno iniziato nel 1933» ecc. -; le date delle riviste citate) collocarli nel tempo. Risalgono al primo periodo d'attività (1929-30) i quaderni 16, 20, 9 e 13. Gramsci scrisse in essi il saggio sul X canto dell’lnferno, saggi sugli intellettuali e sulla scuola e note, che saranno ampiamente rielaborate, sul materialismo storico, sulla filosofia di Benedetto Croce e sul Manuale di Bukharin. Probabilmente allo stesso periodo risalgono i quaderni  15, 19 e 26, con traduzioni dal tedesco: favole dei fratelli Grimm, la prima parte del libro Le famiglie linguistiche del mondo, di Franz Nikolaus Fink, un numero speciale della rivista «Die Literarische Welt» dedicato alla letteratura degli Stati Uniti, le conversazioni di Eckermann con Goethe e prose e poesie del Goethe.

Note

1 Lettera del 14 gennaio 1929: «Tra breve potrò anche avere il necessario per scrivere in cella e così sarà soddisfatta la mia più grande aspirazione di carcerato». Il 9 febbraio: «Adesso che posso prendere degli appunti di quaderno, voglio leggere secondo un piano e approfondire determinati argomenti e non più  "divorare"  i  libri».

2 Lettera a Tatiana  del 19 marzo 1927: «Ricordi il rapidissimo e superficialissimo mio scritto sull'Italia meridionale e sull'importanza di Benedetto Croce? Ebbene, vorrei svolgere ampiamente la tesi che avevo allora abbozzato...».

3 Il corsivo è mio.

4 Il corsivo è mio.

5 Il corsivo è mio.

6 Si tratta  de La  teoria del materialismo storico. Manuale popolare di sociologia marxista, pubblicato a Mosca per la prima volta  nel 1921.

CAPITOLO VENTISEIESIMO

Riceveva dalla moglie poche lettere, con intervalli di mesi, ed erano lettere affrettate, scritte a lapis sul primo pezzo di carta che capitava, e di tono volubile, ora burocratiche ora affettuose. Ne era sconcertato:

Ho visto che Giulia non ha ancora scritto, dopo tanto tempo. Ciò mi addolora. Non può trattarsi solo di mancanza di tempo. A me non ha scritto da circa quattro mesi e nel frattempo io le ho scritto due volte senza avere risposta... Non sarei più capace di scriverle, senza prima aver ricevuto qualche sua notizia diretta... Io non ho suscettibilità meschine, ma qualche volta penso che se non mi si scrive, ciò può dipendere anche dal fatto che non si ha più il piacere di ricevere mie lettere e notizie.

Non riusciva a spiegarsi questi lunghi silenzi che talvolta Giulia rompeva con parole non distaccate ed anzi piene di tenerezza: tutto ciò gli sembrava senza logica, e chiedeva a Tatiana: «Come ti pare che debba essere interpretata la sua lettera dove mi dice che dopo la mia lettera del 30 luglio si è sentita più vicina a me, però è rimasta quattro mesi senza scrivermi proprio dopo quella lettera? Io finora non sono riuscito a trovare la sintesi superiore di questa contraddizione e non so se riuscirò a trovarla». Gli era capitato tra le mani un libro di Silvio Spaventa, Dal 1848 al 1861. Lettere, scritti, documenti, pubblicato dal Croce nel '23. Qui aveva letto un passo che era lo specchio del suo stato d'animo. Si trattava di una lettera al padre scritta dal patriota abruzzese nel carcere borbonico: Di voi già non ho nuove da due mesi; da quattro e forse più delle sorelle; e da qualche tempo di Bertrando... Io non penso che sia ora amato meno di quello che sono stato sempre dalla mia famiglia; ma la sventura suol fare due effetti, che spesso lasci spegnere ogni affetto verso gli sventurati e non meno spesso spegne negli sventurati ogni affetto verso di tutti. Io non temo il primo di questi  due effetti in voi, quanto il secondo in me.

Non scrisse più. Naturalmente Tatiana, anche lei senza notizie dirette di Giulia, proponeva al cognato tutta una serie di ipotesi a giustificazione della sorella, ma in proposito le repliche di Antonio erano brusche:

Ti  prego di non domandarmi neanche di scrivere a Giulia, perché mi pare che allora non scriverei neanche più a te. Non credere che sia arrabbiato; lo ero quattro mesi  fa e mi  sono sfogato nelle lettere che allora ti ho scritto. Adesso sono diventato indifferente. Mi pare impossibile anche a me di essermi ridotto così e mi dispiace, ma è successo ed io sono il meno responsabile, dato che si possa parlare di responsabilità in queste cose. Sono stato in crisi più di un anno (molto più) e ho avuto momenti brutti; adesso, come avviene, sono diventato insensibile e non voglio più guastarmi  il sangue e avere delle settimane di maldicapo. Ti prego di non accennare neppure a queste cose, quando mi scriverai. Mandami notizie, se ne ricevi, ma non esortarmi, né farmi delle prediche.

Ebbe da Giulia, nell'anno dal luglio 1929 al luglio 1930, una sola lettera; perciò si giudicava sottoposto a diversi regimi carcerari:

C'è il regime carcerario costituito dalle quattro mura, dalla grata, dalla bocca di lupo ecc. ecc.; era già stato da me preventivato e come probabilità subordinata, perché la probabilità primaria dal 1921 al novembre 1926 non era il carcere, ma il perdere la vita. Quello che da me non era stato preventivato era l'altro carcere, che si è aggiunto al primo ed è costituito dall'essere tagliato fuori non solo dalla vita sociale ma anche dalla vita familiare ecc. ecc. Potevo preventivare i colpi degli avversari che combattevo, non potevo preventivare che dei colpi mi sarebbero arrivati anche da altre parti, da dove meno potevo sospettarli.

Presentiva l'obiezione di Tatiana, che per alleviargli questo secondo regime carcerario sopportava grandi sacrifizi, viaggi e soggiorni a Turi estenuanti nelle sue cattive condizioni di salute, patemi, spese, e tutto ciò con slancio, devota a lui sino a dare l'impressione d'aver perso il gusto di vivere per sé e di non avere altro scopo ormai che la salvezza e la salute e la serenità del cognato. Ad Antonio l'abnegazione di Tatiana certo non sfuggiva, e gliene era riconoscente. Aveva amato e amava Giulia, però; la vicinanza di Tatiana poteva fargli sentire meno pesante il carcere, non estinguere la pena causata dal silenzio di Giulia. Così, rivolto a Tatiana, completava il discorso sul secondo regime carcerario scrivendole: «Ma ci sei tu, dirai tu. È vero, tu sei molto buona e ti voglio molto bene. Ma queste non sono cose in cui valga la sostituzione di persona». Ricevette infine, nell'agosto e nel settembre 1930, due lettere di Giulia. Le rispose:

Mi ha fatto molto piacere ciò che mi scrivi: che avendo riletto mie lettere del 28 e 29, hai rilevato la identità dei nostri pensieri. Vorrei però sapere in quali circostanze e intorno a quale oggetto questa identità è stata da te specialmente rilevata. Nella nostra corrispondenza manca appunto una «corrispondenza» effettiva e concreta: non siamo mai riusciti a intavolare un «dialogo»: le nostre lettere sono una serie di «monologhi» che non sempre riescono ad accordarsi neanche nelle linee generali.

Parve ad Antonio ben corrispondente al loro stato questa novellina popolare scandinava: «Tre giganti abitano nella Scandinavia lontani uno dall'altro come le grandi montagne. Dopo migliaia d'anni di silenzio, il primo gigante grida agli altri due: "Sento muggire un armento di vacche!" Dopo trecento anni il secondo gigante interviene: "Ho sentito anch'io il mugghio", e dopo altri 300 anni il terzo gigante intima: "Se continuate a far chiasso così io me ne vado!"».

S'erano anche spezzati molti fili politici, e Gramsci ne soffriva: perché il suo isolamento politico non era soltanto rescissione dall'attività pratica, slegamento dai vecchi compagni di lotta, ritardata e necessariamente sommaria conoscenza dei problemi e degli indirizzi dibattuti in seno all'Internazionale ed ai partiti comunisti nazionali, quello italiano in primo luogo, ma qualcosa di peggio. Gli ultimi orientamenti dell'Internazionale dopo il VI congresso (7 luglio-1° settembre 1928) e il X Plenum del comitato esecutivo (luglio 1929) non corrispondevano più alla posizione di Gramsci, e Gramsci non pensava di doverla correggere.

Ancora nell'ultimo intervento dell'agosto 1926 al Gomitato Centrale, pochi mesi prima dell'arresto, aveva detto:

Se è pur vero che politicamente il fascismo può avere come successore la dittatura del proletariato, poiché nessun partito o coalizione intermedia è in grado di dare sia pure una minima soddisfazione alle esigenze economiche delle classi lavoratrici che irromperebbero violentemente nella scena politica al momento della rottura dei rapporti esistenti, non è però certo e neanche probabile che il passaggio dal fascismo alla dittatura del proletariato sia immediato1.

Più probabile Gramsci giudicava, come alternativa immediata al fascismo, la soluzione democratico-borghese; e corrispondente a questa diagnosi gli pareva, per il rovesciamento del fascismo, la tattica del fronte di tutte le forze proletarie e di quelle inquadrate o inquadrabili su una piattaforma repubblicana, con l'egemonia della classe operaia guidata dal Partito comunista. Il VI Congresso proclamò invece chiusa la fase «di destra» dell'Internazionale e mise una pietra sopra la tattica del «fronte unico». C'era nella brusca sterzata il riflesso delle aspre lotte interne al Partito bolscevico russo. Stalin aveva liquidato, con il sostegno di Bukharin, il blocco delle opposizioni (Zinovjev, Trotzkij, Kamenev); ma gli toccava ora fronteggiare la dissidenza di Bukharin, che s'era schierato con Tomskij e Rykov nell'«opposizione di destra». Dal '26 Bukharin presiedeva l'Internazionale, succeduto nell'incarico a Zinovjev. Il VI congresso abolì la carica di presidente. Poi il 23 aprile 1929 il comitato centrale del Partito comunista russo escluse Bukharin dall'Ufficio politico e dal Presidium dell'Internazionale. Così dal dibattito sulle questioni russe (e dalla lotta per il potere che al dibattito si accompagnava, combattuta da Stalin con intransigenza estrema) discendeva tutto un nuovo orientamento dell'Internazionale, i cui punti salienti erano: il regime capitalistico è al limite della catastrofe; ovunque la protesta proletaria tende a radicalizzarsi in senso rivoluzionario; all'abbattimento del potere borghese deve immediatamente seguire la dittatura del proletariato, senza fasi intermedie democratico-borghesi; la socialdemocrazia non è una forza rivoluzionaria, la borghesia si serve di essa per arrestare lo slancio rivoluzionario, è una forma della dominazione borghese, è socialfascismo. Ecco dunque la direttiva nuova ai partiti nazionali: azione «autonoma», fuori da un qualsiasi sistema d'alleanze, per l'abbattimento del regime capitalistico; lotta a fondo alla socialdemocrazia; lotta per salvaguardare i partiti dall'«opportunismo», com'erano definite le deviazioni da questa linea.

Una linea settaria nel giudizio di equivalenza socialdemocrazia-fascismo, fantapolitica in generale perché non derivata da una corretta analisi delle situazioni e semplicemente assurda rispetto all'Italia, dove la reazione fascista aveva disperso l'esercito proletario, falcidiato dagli arresti e privato delle sue organizzazioni politiche e dei suoi giornali e non più in grado di rivoltarsi alla dittatura fascista senza avere alleati il semiproletariato contadino e la piccola e media borghesia contrarie al regime. La marcia di avvicinamento del Partito comunista d'Italia a questa linea fu lenta e con strappi. Nel richiamo alla necessità della svolta, Togliatti trovava sordi molti dirigenti e una parte non trascurabile dei quadri intermedi. «La discussione sulle questioni internazionali, che ha avuto luogo nell'ultima riunione del nostro Comitato centrale», doveva ammettere il 3 marzo 1929 «Stato operaio», il mensile del PCd’I diretto da Togliatti, che si stampava a Parigi, «ha rivelato la esistenza, anche in seno ad esso, di una differenziazione la quale si compie seguendo approssimativamente le stesse linee delle differenziazioni che si sono compiute, a proposito dell'accettazione o della interpretazione delle decisioni del VI Congresso mondiale, in quasi tutti gli altri partiti della Internazionale». L'articolo era intitolato Il pericolo dell'opportunismo nel nostro partito. Ribadiva: «Il proletariato pone la sua candidatura alla successione al fascismo perché il dilemma storico davanti al quale si trova la società italiana non è tra un capitalismo progressivo (democrazia borghese) e un capitalismo che regredisce verso il Medio Evo (fascismo), ma è il dilemma tra la dittatura del capitale e la dittatura del proletariato». Il X Plenum (luglio 1929) aumentò la sua pressione sul partito italiano. L'allontanamento di Bukharin e di Humbert-Droz doveva costituire un esempio; e «Stato operaio» fu subito, nel numero di luglio-agosto, assai esplicito:

Senza una epurazione rigorosa delle nostre file, senza la liberazione di esse da chiunque esprime in esse la influenza di una ideologia che non è la nostra, da chiunque tende a portare in esse il dubbio, la esitazione e la confusione, la lotta per la conquista della maggioranza non è possibile. Dalle decisioni del X Plenum gli organi dirigenti del nostro partito dovranno trarre una serie di conclusioni molto importanti... La lotta contro l'opportunismo deve assumere anche nelle nostre file la stessa asprezza che ha assunto nelle file degli altri partiti della Internazionale, cioè deve essere portata senza esitazioni, sino in fondo.

Le critiche del X Plenum al partito italiano consistevano, sappiamo da «Stato operaio»: a) in un richiamo a precisare la linea politica del partito, in accordo con le direttive dell'Internazionale e correggendo alcuni «errori» commessi;  b) in un richiamo a dare alla linea politica del partito un rilievo maggiore; c) in un richiamo a condurre con maggiore intensità, chiarezza ed efficacia la lotta contro l'opportunismo di destra sia negli organi dirigenti come in tutti i campi d'attività. In settembre fu espulso dal partito Angelo Tasca. Ma la resistenza continuava. E nel marzo del '30 l'Ufficio politico del PCd'I si spaccò. Il documento proposto ai voti sosteneva:

La stessa pressione che il fascismo esercita tende a coltivare in certi strati di lavoratori la opinione che, data la impossibilità per il proletariato di abbattere rapidamente il fascismo, la miglior tattica sia quella di appoggiare un movimento della borghesia e della piccola borghesia che si proponga di eliminare il fascismo in Italia senza una rivoluzione proletaria.

Questa concezione era definita dal documento «radicalmente falsa»: «La opposizione al regime fascista di un regime di democrazia borghese che dovrebbe succedergli ha il solo scopo di distogliere le masse operaie e contadine dalla lotta rivoluzionaria, dalla preparazione della insurrezione e della guerra civile». Togliatti, Longo e Camilla Ravera votarono per la risoluzione; le si opposero il dirigente della stampa illegale Alfonso Leonetti, il capo del movimento sindacale Paolo Ravazzoli e il capo dell'ufficio d'organizzazione Pietro Tresso; Grieco e Silone erano assenti; peso determinante ebbe il voto di Pietro Secchia, sebbene egli avesse, come rappresentante della Federazione giovanile, solo voto consultivo. Alcuni mesi dopo, Leonetti, Tresso e Ravazzoli furono espulsi dall'Ufficio politico e dal Comitato Centrale. Si aprì nei loro confronti una violenta campagna diffamatoria. Tutti erano obbligati a esprimere pubblicamente una condanna dei tre. Anche su Ignazio Silone, che pure disapprovava la svolta, furono esercitate pres sioni perché si pronunziasse contro i tre2. Gramsci sapeva? E qual era in proposito la sua opinione? Nessun altro, all'infuori del fratello Gennaro, avrebbe potuto entrare legalmente in Italia, raggiungere Antonio nel carcere di Turi e interrogarlo. Togliatti lo cercò: a quel tempo Gennaro Gramsci lavorava a Parigi: gli fu dato l'incarico di mettere Antonio al corrente di tutto e, al ritorno, di riferire il suo punto di vista. Il 9 giugno 1930 s'era arrivati all'espulsione dal partito di Leonetti, Tresso e Ravazzoli. Una settimana dopo, il 16 giugno, Gennaro era a colloquio col fratello nel carcere di Turi.

«Gramsci, pur non potendo conoscere tutti i particolari ma solo la impostazione generale del contrasto», riferiscono Marcella e Maurizio Ferrara, «dette dal carcere il suo consenso alle misure più severe». In realtà le cose ebbero un andamento diverso, anche se poi Gennaro ritenne, vedremo in seguito perché, di dare a Togliatti una versione di comodo del colloquio.

Assisteva all'incontro un agente di custodia sardo, di Paulilatino, un paese vicino a Ghilarza. «Potemmo parlare liberamente», mi dice Gennaro. Nel breve tempo a disposizione disse al fratello ciò che doveva. Antonio ne rimase colpito. Era sulla linea di Leonetti, Tresso e Ravazzoli: non ne giustificava l'espulsione e respingeva la nuova linea dell'Internazionale, condivisa da Togliatti a suo giudizio troppo affrettatamente. Ci fu, a luglio, un secondo colloquio. Dopo essere stato a Ghilarza per vedere i suoi, Gennaro tornò a Turi. Era sorvegliato da un nugolo di poliziotti in borghese. Anche nella trattoria dove mangiava con Tatiana si accorse di essere spiato. Assiste stavolta al colloquio non una guardia ma personalmente il segretario dello stabilimento di pena, incaricato dal direttore. I due fratelli dovettero limitarsi alle notizie di carattere familiare. Quindi Gennaro riprese la via di Parigi. «Andai a trovare Togliatti», mi racconta, «e gli dissi:  "Nino è completamente allineato con voi"». È una conclusione che non mi aspettavo e gliene ho chiesto la ragione. Non capisce questa meraviglia. Per lui la risposta a Togliatti è la sola conclusione logica del solo ragionamento logico, e si spiega: sospettava che nell'incandescenza della lotta, deciso come s'era mostrato il gruppo intorno a Togliatti nel reprimere ogni dissidenza dalla linea dell'Internazionale, l'accusa di opportunismo investisse anche il fratello, una volta che a Parigi e a Mosca se ne fosse conosciuta la vera posizione; perciò la copri. «Se avessi  risposto diversamente», conclude, «neanche Nino  si  sarebbe salvato dalla messa al bando».

Intanto Gramsci, in carcere, stava dentro un vortice di pensieri, dopo le informazioni avute da Gennaro. Scrisse a Tatiana, il giorno della prima visita (16 giugno): «Ho avuto poco fa il colloquio con mio fratello e ciò ha determinato un corso a zig:zag dei miei pensieri». Era uno zig-zag naturale. Poi la riflessione su quell'insieme di problemi e di vicende non lo indusse a mutar linea. Anzi verso la fine dell'anno decise di iniziare un nuovo lavoro di educazione politica tra i compagni di carcere e tenne un corso di lezioni nell'ora del passeggio in cortile.

Si proponeva, sappiamo da un rapporto che Athos Lisa scrisse il 22 marzo 1933 per il Centro del partito appena uscito dal carcere di Turi, di formare nuovi quadri non fuorviati dal settarismo.

Egli infatti - riferisce Lisa - non si stancava di ripetere che il partito era affetto da massimalismo e che il lavoro di educazione politica che egli compiva fra i compagni doveva portare, fra l'altro, a creare un nucleo di elementi i quali avrebbero dovuto portare al partito un contributo ideologico più sano. Nel partito troppo sovente, egli diceva, si ha paura di tutte quelle denominazioni che non fanno parte del vecchio frasario massimalista... Ogni azione tattica che non sia in rispondenza con il soggettivismo dei sognatori è considerata in genere come una deformazione della tattica e della strategia della rivoluzione. Così si parla sovente di rivoluzione senza avere ben precisa la nozione di ciò che occorra per compierla, dei mezzi per raggiungere il fine. Non si sanno adeguare i mezzi alle diverse situazioni storiche. Si è in genere più propensi a fare delle parole che dell'azione politica, o si confonde l'una cosa con l'altra.

Quest'altra testimonianza (del 1938) è di Giuseppe Ceresa:

Si indignava di fronte alla superficialità di certi compagni che nei 1930 affermavano essere imminente la caduta del fascismo (due o tre mesi, al massimo quest'inverno, affermavano questi profeti della faciloneria) e che sostenevano che dalla dittatura fascista si sarebbe immediatamente passati alla dittatura del proletariato. Gramsci combatteva queste posizioni meccaniche, astratte, antimarxiste che si fondavano in gran parte sul fattore «miseria» come decisivo per far sboccare i movimenti delle masse nella rivoluzione proletaria e nella dittatura del proletariato. Egli diceva: «La miseria e la fame possono provocare delle sommosse, delle rivolte che giungono fino a spezzare l'equilibrio stabilito, ma occorrono molte altre condizioni per distruggere il sistema capitalistico».             

«Noi affermiamo», aveva detto Togliatti al VI Congresso dell'Internazionale, «che là instaurazione del fascismo e la trasformazione reazionaria completa che esso fa subire alla società borghese non aprono la prospettiva di una seconda rivoluzione democratico-borghese, ma ci dimostrano che la rivoluzione proletaria è matura, che noi stiamo attraversando il periodo di preparazione politica della rivoluzione proletaria e non il periodo di preparazione di una rivoluzione democratico-borghese».

«Gramsci conservava nella capacità delle masse tutta la sua fede», riferisce Ceresa, «ma non si nascondeva che la cappa di piombo del fascismo aveva inevitabilmente provocato un grande disorientamento, una depressione nel loro spirito di combattività, ed affermava che in queste condizioni le masse aspiravano certamente alla democrazia».

«Stato operaio», espressione del gruppo intorno a Togliatti, aveva scritto:

Noi escludiamo la prospettiva di una cosiddetta «fase transitoria», cioè di un periodo di rivoluzione democratico-borghese che preceda lo sviluppo della rivoluzione proletaria. Questo vuol dire che non possiamo e non dobbiamo lavorare con la prospettiva che la situazione si svilupperà in modo che sarà consentito alle masse lavoratrici e alla loro avanguardia, il proletariato e il Partito comunista, un periodo di legalità o di semi-legalità del movimento, nel quale poter riordinare le forze senza essere giorno per giorno e profondamente disturbati dal nemico. Questo periodo, che fu consentito ai bolscevichi russi dopo la vittoria della rivoluzione borghese del marzo  1917, non sarà consentito a noi.

Gramsci affermava (testimonianza Ceresa):

Il fascismo ha ricacciato il proletariato e tutto il popolo italiano su delle posizioni più arretrate; il processo della lotta di classe in Italia si svilupperà, dunque, sulla linea delle libertà distrutte dal fascismo... La pressione delle masse potrà giungere fino a influenzare una parte di quegli stessi dirigenti fascisti che vivono più a contatto coi lavoratori. Nello stesso tempo si avrà un'attivazione delle correnti di opposizione antifascista-borghese e il passaggio all'opposizione delle correnti «fiancheggiatori» che cercheranno di trarre dei vantaggi dalla ripresa del movimento delle masse contenendo però questo movimento entro i limiti dello Stato borghese. Si può dunque parlare di un passaggio diretto dalla dittatura fascista alla dittatura del proletariato? No, non se ne può parlare senza  cadere nello schematismo.

«Stato operaio»: Si sente ripetere spesso questa affermazione: che, accentuandosi la crisi economica e politica della società italiana, assisteremo a un distacco dal fascismo della borghesia, la quale, spinta dalla situazione stessa, diventerà «antifascista» e sbarazzerà il campo di una grande parte delle istituzioni, dei metodi di governo ecc. in cui consiste l'attuale regime reazionario italiano. La Concentrazione [dei partiti repubblicani] e tutti i «democratici» basano la loro politica su questa prospettiva. Ma una concezione simile o almeno dei riflessi di essa si trovano, senza dubbio, in alcuni strati delle classi lavoratrici italiane e persino in elementi del nostro partito... Vi è una cosa che possiamo, anzi che dobbiamo ammettere, ed è che non si giunge ad una situazione acuta senza che si determinino almeno in una parte delle classi dirigenti degli stati d'animo di panico, o anche solo di mancanza di fiducia nelle proprie forze... Ma se questo è vero, è d'altra parte ancora più vero che noi commetteremmo un gravissimo errore se alla base della nostra politica e del nostro lavoro ponessimo questa prospettiva: che le manifestazioni di incertezza e di panico porteranno alla costituzione di un campo «antifascista-borghese», cioè porteranno a uno schieramento antifascista di queste classi dirigenti... La organizzazione del fascismo è oggi tale che il fascismo non può essere battuto se non da un movimento di massa il quale assuma un carattere insurrezionale e non esiste nessuno strato di borghesia o di piccola borghesia il quale voglia e possa prendere la iniziativa di scatenare un simile movimento.

Gramsci (rapporto Lisa): Al partito è possibile svolgere una azione in comune con i partiti che in Italia lottano contro il fascismo... Le prospettive rivoluzionarie in Italia devono essere fissate in numero di due, cioè la prospettiva più probabile e quella meno probabile. Ora, secondo me, la più probabile è quella del periodo di transizione. Perciò a questo obbiettivo deve improntarsi la tattica del partito senza tema di apparire poco rivoluzionario.

«Stato operaio»: La Concentrazione e la socialdemocrazia parlano di «plutocrazia» anziché di «capitalismo» e di «imperialismo», parlano di «regime paternalistico» anziché di «capitalismo di Stato», di «oscurantismo» e di «prevalere di forze medioevali» anziché di reazione e di dittatura del capitale. Il loro linguaggio vuol fare dimenticare agli operai che la lotta per la rivoluzione proletaria, la lotta per abbattere il regime capitalistico, la lotta per il socialismo è il compito che la storia assegna alla classe operaia oggi ed è il solo contenuto possibile della lotta contro il fascismo. Ogni concessione che noi facciamo, su questo terreno, alle tesi politiche e storiche della Concentrazione e persino al suo frasario equivoco e addormentatore, ogni concessione di questo genere è  opportunismo, è una deviazione sostanziale dalla nostra linea politica.

Gramsci (rapporto Lisa): L'azione per la conquista degli alleati diviene per il proletariato cosa estremamente delicate e difficile. D'altra parte, senza la conquista di questi alleati, è precluso al proletariato ogni serio movimento rivoluzionario3. Se si tiene conto delle particolari condizioni storiche nei limiti delle quali va visto il grado di sviluppo politico degli strati contadini e piccolo-borghesi in Italia, è facile comprendere come la conquista di questi strati sociali comporti per il partito una particolare azione la quale, sviluppandosi per gradi, divenga accessibile agli strati sociali in ragione... Al contadino del meridione d'Italia o di un'altra regione sarà facile, oggi, far capire l'inutilità sociale del Re, ma non altrettanto facile fargli comprendere che il lavoratore può sostituire costui, alla stessa guisa che non crede possibile sostituire il padrone. Il piccolo borghese, l'ufficiale subalterno dell'esercito scontento per la mancata promozione, per le condizioni precarie di vita ecc. sarà più disposto a credere che le sue condizioni potranno migliorare in un regime repubblicano che in quello soviettista. Il primo passo attraverso il quale bisogna condurre questi strati è quello che li porti a pronunciarsi sul problema costituzionale e istituzionale. L'inutilità della Corona è ormai compresa da tutti i lavoratori, compresi i contadini più arretrati della Basilicata o della Sardegna. Su questo terreno al partito è possibile svolgere un'azione in comune con i partiti che in Italia lottano contro il fascismo.

In sostanza, il ragionamento di Gramsci si svolgeva così: 1) anche nella più favorevole delle condizioni, il partito non potrà contare che su un massimo di seimila attivisti; 2) non l'isolamento settario è la tattica più conveniente, ma la ricerca delle alleanze di classe; 3) i contadini arretrati e la piccola borghesia scontenta del suo stato sono guadagnabili ad una alleanza con la classe operaia ma solo per la realizzazione di un obiettivo intermedio, il recupero delle libertà confiscate dal fascismo. Occorreva dunque promuovere e dirigere un vasto movimento popolare antifascista. «Il partito», era la conclusione di Gramsci riferita da Ceresa, «dovrà trovare  una parola d'ordine capace di mobilitare tutte le forze antifasciste per questo movimento».

Il corso di lezioni ai compagni di carcere durò un paio di settimane. Non tutti condividevano le tesi di Gramsci: lo stesso Lisa, ad esempio, e lo spezzino Angelo Scucchia erano su un'altra posizione. Venuta in luce la divergenza, «ognuno dei presenti alla discussione», riferisce Lisa, «fu invitato a riesaminare la questione per tornar a dire il proprio pensiero dopo una quindicina di giorni. Questo riesame del problema non fu più possibile perché il Gramsci, sotto la influenza di false informazioni», ricorda Lisa, «credette che le discussioni che avvenivano fra i compagni si fossero spostate sul terreno frazionistico».

Non si trattava però di «false informazioni».

La verità - riferisce Giovanni Lay - è che effettivamente le discussioni tra i compagni in cella non sempre mantenevano il carattere di discussione politica. Spesso, troppo spesso a mio parere, scendevano al livello del pettegolezzo e persino della calunnia, con apprezzamenti personali su Gramsci che talvolta giungevano alla denigrazione. Io ero allora in cella con Bruno Spadoni e Angelo Scucchia. Lo Scucchia giungeva ad affermare che le posizioni di Gramsci erano posizioni socialdemocratiche, che Granisi non era più comunista, che era diventato crociano per opportunismo, che bisognava denunciare la sua azione disgregatrice al partito, e che pertanto lo si doveva buttar fuori dal collettivo e dal cortile di passeggio. Spadoni ed io, inizialmente, sopportammo con pazienza nella speranza di ricondurre alla ragione questo compagno, ma anche dicendogli chiaramente che non gli avremmo permesso di continuare la sua azione riprovevole. Quando fu chiaro che non c'era nulla da fare ne parlammo con Gramsci. Ci disse subito che anche in altre celle le discussioni spesso degeneravano in apprezzamenti assurdi e portavano solo alla divisione tra  compagni.

La tensione era estrema. Poiché Gramsci tentava di dissuadere i compagni dalla polemica con gli agenti di custodia, ex contadini non direttamente responsabili delle durezze della vita carceraria, «qualcuno lo accusava di eccessivo legalitarismo e perfino di paura di perdere i privilegi di cui egli godeva, cioè il privilegio di poter disporre dell'occorrente per scrivere e dei suoi libri»4.                               

Si isolò. Disse una volta a Lay: «Più volte mi è capitato di dovermi assumere l'ingrato compito di grattare la vernice per vedere cosa ci fosse sotto. Ci sono delle persone, e qualche volta le potete trovare anche tra di noi, che hanno l'apparenza di personaggi importanti e sono soltanto dei parolai».

Note

1 Il corsivo è mio.

2 Nel suo ultimo romanzo, Uscita di sicurezza, Silone ricorda questi momenti importanti e, poco prima del suo allontanamento dal partito l'incontro con Togliatti in Svizzera.

3 I corsivi sono miei

4 La testimonianza è ancora di Lay. Gramsci, in una lettera del 28 marzo 1931 al fratello Carlo scriveva: “Per mantenere rigidamente la mia condotta di assoluta correttezza nell’uniformarmi alle necessità del carcere, mi sono urtato con altri detenuti e ho rotto rapporti personali”.

CAPITOLO VENTISETTESIMO

È uno sfogo del 3 settembre 1933: «L'ispettore Saporiti, quando venne a visitarmi, mi disse (e non so da quale fonte potesse ricavare questa sua affermazione) che nel mio malessere, oltre alle ragioni fisiche, avevano specialmente influito motivi psichici, tra i quali l'impressione di essere stato abbandonato dai miei (non materialmente, ma per certi aspetti della vita interiore che in un intellettuale hanno gran peso)». Dalla metà del '30 alla fine del '32, erano stati per Gramsci due anni e mezzo difficili, aggravati dalla saltuarietà della corrispondenza.

Giulia soffriva d'una forma grave di esaurimento psicofisico; Antonio lo seppe non direttamente da lei, per accenni e poi via via con qualche particolare in più, verso la fine del '30. Le scrisse il 13 gennaio 1931:

In questi ultimissimi tempi sono stato informato, credo in modo definitivo, sulle tue condizioni di salute. Mi pare che questo modo di fare finisca col rendere i rapporti reciproci convenzionali, bizantini, senza spontaneità e non si riflette che i sentimenti suscitati da queste cinture di filo spinato nei rapporti reciproci diventano esasperati e morbosi. Noi ci eravamo promesso di essere sempre franchi e veritieri nell'informarci reciprocamente su noi stessi: ricordi? Perché non abbiamo mantenuto la parola?... Naturalmente io sono molto felice quando ricevo una tua lettera: essa riempie molto del mio inutile tempo e interrompe il mio isolamento dalla vita e dal mondo. Ma credo necessario che tu scriva anche per te stessa, perché mi pare che anche tu debba essere isolata e un po' tagliata dalla vita e che scrivendomi possa sentir meno questa intima solitudine.

La malattia di Giulia lo aiutava adesso a spiegarsene i lunghi silenzi e si rifece tenero:

Sento la mia impotenza a fare qualsiasi cosa di reale ed efficace per darti un aiuto; mi dibatto tra il sentimento di una immensa tenerezza per te che mi appari come una debolezza da consolare immediatamente con una carezza fisica e il sentimento che è necessario da parte mia un grande sforzo di volontà per persuaderti da lontano, con parole fredde e slavate, che tuttavia tu sei anche forte e puoi e devi superare la crisi... Penso che la nostra più grande disgrazia è stata quella di essere stati insieme troppo poco, e sempre in condizioni generali anormali, staccate dalla vita reale e concreta di tutti i giorni. Dobbiamo ora, nelle condizioni di forza maggiore in cui ci troviamo, rimediare a queste manchevolezze del passato, in modo da mantenere alla nostra unione tutta la sua saldezza morale e salvare dalla crisi ciò che di bello c'è pure stato nel nostro passato e che vive nei bambini nostri1.

Ricevette a metà maggio una lunga lettera di Giulia; era diversa dalle solite: vi si riflettevano i segni di ripresa dall'esaurimento psico-fisico, e contribuiva a diradare le nubi che tra marito e moglie c'erano state: «Mi pare che questa lettera inizi un nuovo periodo nei nostri rapporti e di ciò sono molto felice, perché bisogna che ti confessi che avevo già cominciato a "raggomitolarmi" per conto mio e stavo diventando più irsuto di un porcospino. Ora sarai tu che dovrai aiutarmi a ritornare a galla un pochino» (18 maggio 1931). Ma lettere di Giulia uguali a quella dell'8 maggio Gramsci non ne lesse più: nuovi lunghi silenzi e nuove lettere affrettate, poche righe convenzionali senza l'ombra di una notizia concreta. Il 30 novembre 1931 le scrisse:

Dalla tua ultima lettera mi pare che anche tu senti che c'è qualcosa che non va in questa nostra corrispondenza senza continuità, a pezzi e bocconi, a salti di mesi e mesi. Il peggio è che io non riesco a trovare il modo di mutare il corso delle cose. Negli intervalli lunghi del tuo silenzio rifletto a questa situazione che   si  è andata formando, così diversa da ciò che io pensavo cinque anni fa, dopo il mio arresto. Credevo che sarebbe stata ancora possibile una certa comunanza nella nostra vita, che tu mi avresti aiutato a non perdere completamente il contatto con la vita del mondo; per lo meno con la tua vita e con quella dei bambini. Mi pare invece, e lo dico anche se devo farti provare un forte dispiacere, che tu hai contribuito ad aggravare il mio isolamento, facendomelo sentire più amaramente. Tu insisti spesso, nelle tue lettere, che noi «siamo più fortemente uniti, più forti», ma appunto ciò mi pare sempre più che non sia vero e che tu stessa ne dubiti e lotti col dubbio nel momento stesso che ripeti questa affermazione... In realtà non so niente di te: non so neanche se hai ripreso la tua attività di lavoro. Le tue lettere sono estremamente vaghe. Non riesco a immaginare nulla della tua vita. Tante volte ho cercato di iniziare un dialogo con te: ti ho posto delle quistioni, ti ho indicato ciò che sarebbe per me di sommo interesse. Non sono riuscito a ottenere nessun risultato e appunto sono entrato in questo stato d'animo per cui lo scrivere mi è difficile e penoso. Questa ietterà è un nuovo tentativo che faccio per riannodare le nostre vite; mi pare che ci sia ancora il modo e il tempo.

C'erano anche, però, dall'una e dall'altra parte seppure in misura diversa, complicazioni psicologiche di non facile scioglimento. La sensazione d'essere lasciata sola in una fase difficile della sua vita (quando Tatiana avrebbe potuto raggiungerla a Mosca per darle un aiuto) amareggiava Giulia non meno di quanto la sensazione di essere dimenticato amareggiasse Antonio. E in questa spirale la crisi dei rapporti si acuiva.

Intanto neanche gli altri di casa erano assidui come Antonio avrebbe desiderato. C'era stata nel '28 la rottura con Mario, e da Varese non venivano lettere. Gennaro, nel suo viaggio a Turi del giugno-luglio 1930, aveva promesso di scrivere con frequenza: una lettera da Namur, abbondantemente censurata, appena dopo la visita; poi più nulla. Per conto suo Carlo attraversava un momento di inquietudine profonda. Era stato costretto a chiudere la bottega di calzature a Ghilarza; aveva lavorato a lungo nelle Latterie sociali di Macomer; alla prima diminuzione di personale s'era trovato senza impiego. Visitò Nino a Turi tra la fine di settembre ed i primi d'ottobre del '30; tornato a Ghilarza, non gli scrisse. «Carlo non mi ha più scritto dopo il suo viaggio a Turi (o almeno io non ho ricevuto le  sue lettere)» (17 novembre  1930). «Carissima mammà, non so  spiegarmi cosa succede. Carlo non mi  ha scritto da più di tre mesi... Io ho pensato che Carlo possa avere avuto delle seccature per causa mia e che non voglia o non sappia spiegarmi un suo stato d'animo di sconcerto o di esitazione» (15 dicembre 1930). S'adoperò per trovargli un impiego. Chi ancora poteva aiutarlo era Piero Sraffa, da alcuni anni docente di economia politica a Cambridge. Già Sraffa gli aveva dimostrato, in più circostanze, la sua devota amicizia. Da lui Delio riceveva giocattoli a Roma; da lui erano pagati i libri che Gramsci ordinava alla libreria milanese fin dai giorni del confino a Ustica. Date le sue amicizie, non gli sarebbe stato forse difficile sistemare Carlo. Antonio glielo propose, ed il 26 gennaio 1931 scrisse al fratello:

Io sono rimasto per qualche tempo nella convinzione che ti tossi stabilito a Milano e perciò non capivo certi accenni di Tatiana a una tua presenza a Roma in un certo momento; solo per caso, da una lettera di Grazietta, mi pare, ho saputo che eri rientrato a Ghilarza. Per un certo tempo ci fu tutto un mistero, per me, e questo mi preoccupava. Perché? Temevo che a Milano, per il solo nome di Gramsci, la polizia ti avesse fatto qualche scherzo poco allegro, nonostante tutti i tuoi documenti e le tue opinioni e le informazioni della questura di Cagliari. So quello che dico e ho visto e sentito sulla mia pelle l'accanimento che questa polizia milanese ha spiegato contro di me.

In effetti Carlo raggiunse Milano nell'inverno del '31; aveva un impiego alla Snia Viscosa. Visitò Nino a marzo. Il 28 dello stesso mese gli fu rinnovata la raccomandazione di scrivere con assiduità: «Per le ragioni che ti ho detto a voce durante il colloquio, vorrei che almeno in questi mesi della tua residenza a Milano, mi scrivessi un po' spesso sulla tua vita e su come te la passi». Rimase a lungo senza scrivere: «Carlo non mi ha ancora scritto; se hai il suo indirizzo scrivigli che il suo modo di fare mi ha molto addolorato; non scrive neanche alla mamma, quantunque sappia le sue condizioni di salute» (4 maggio 1931).

S'aspettava che almeno gli scrivessero le donne di casa. Non gli era però difficile ricostruire la vita della mamma, ormai vecchia e malandata di salute, e di Teresina tra l'impiego alle poste e le faccende domestiche e di Grazietta:

Anche da casa non mi hanno più scritto da un mese almeno. La mamma non può scrivere e le mie sorelle hanno molto da fare; del resto conosco la loro vita per averla condivisa per abbastanza tempo e immagino come si svolgeranno le cose. Ogni giorno la mamma si lamenterà perché nessuno mi scrive e quindi neanch'io scrivo: tutti prometteranno di scrivere il... giorno dopo, ma ognuno penserà che lo farà l'altro e così le cose andranno avanti per un pezzo. È una vita abbastanza curiosa, un po' alla cinese, e mi ricordo perfettamente che così facevo anch'io2.

Talvolta se ne lamentava con la mamma:

Ma perché lasciarmi tanto tempo senza notizie? Anche con la febbre di malaria qualche riga si può scrivere e io mi accontenterò di qualche cartolina illustrata. Sto diventando vecchio anch'io, capisci? e quindi nervoso, più irritabile e più impaziente, [o faccio questo ragionamento: non si scrive a un carcerato o per indifferenza o per mancanza di immaginazione. Nel caso tuo e degli altri di casa non penso neanche si possa trattare di indifferenza. Penso piuttosto che si tratti di mancanza di immaginazione: non riuscite a rappresentarvi esattamente quale possa essere la vita del carcere e quale importanza essenziale abbia la corrispondenza, come riempia le giornate e dia ancora un certo sapore alla vita. Io non parlo mai dell'aspetto negativo della mia vita, prima di tutto perché non voglio essere compianto: ero un combattente che non ha avuto fortuna nella lotta immediata, e i combattenti non possono e non devono essere compianti, quando essi hanno lottato non perché costretti, ma perché così hanno essi stessi voluto consapévolmente. Ma ciò non vuol dire che l'aspetto negativo della mia vita carceraria non esista e non sia molto pesante e non possa almeno non essere aggravato dalle persone care.

Era un discorso rivolto a Teresina, a Grazietta, alla nipotina Mea, allora undicenne, non alla mamma.

Capiva che la mamma non era in condizioni di scrivergli. Lo commosse una lettera dettata a Teresina:

Ho  ricevuto la lettera che mi hai scrittocon la mano di Teresina. Mi pare che devi spesso scrivermi così; io ho sentito nella lettera tutto il tuo spirito e il tuo modo di ragionare; era propriouna tua lettera e non una lettera di Teresina. Sai cosa mi è tornato alla memoria? Proprio mi è riapparso chiaramente il ricordo quando ero in prima o in seconda elementare e tu mi correggevi i compiti:   ricordo perfettamente che non riuscivo mai a ricordare che «uccello» si scrive con due c e questo errore tu me lo hai corretto almeno dieci volte. Dunque se ci hai aiutato a imparare a scrivere... è giusto che uno di noi ti serva da mano per scrivere quando non sei abbastanza forte... Del resto tu non puoi immaginare quante cose io ricordo in cui tu appari sempre come una forza benefica e piena di tenerezza per noi. Se ci pensi bene tutte le  quistioni dell'anima e dell'immortalità dell'anima o del paradiso e dell'inferno non sono poi in fondo che un modo di vedere questo semplice fatto: che ogni nostra azione si trasmette negli altri secondo il suo valore, di bene e di male, passa di padre in figlio, da una generazione all'altra in un movimento perpetuo. Poiché tutti i ricordi che noi abbiamo di te sono di bontà e di forza e tu hai dato le tue forze per tirarci su, ciò significa che tu sei già da allora nell'unico paradiso reale che esista, che per una madre  penso sia il cuore  dei propri figli. Vedi cosa ti ho scritto?

Benché fossero poche le lettere dalla Sardegna, Gramsci sapeva comunque più dei suoi di Ghilarza che dei suoi di Mosca: «Certo conosco meglio i figli di Teresina, che mi hanno scritto parecchie volte e sui quali Teresina mi informa abbastanza perché io, conoscendo il quadro generale della loro vita per esperienza diretta, possa corrispondere. Immagino invece che per Delio e Giuliano io debbo essere come una specie di Olandese volante». Si sentiva molto legato a tutti i bambini; come poteva, procurava di seguirli e di indirizzarli. Aveva scritto una volta a Teresina:

Franco mi pare molto vispo e intelligente: penso che parli già correntemente. In che lingua parla? Spero che lo lascerete parlare in sardo e non gli darete dei dispiaceri a questo proposito. È stato un errore, per me, non aver lasciato che Edmea, da bambinetta, parlasse liberamente in sardo. Ciò ha nuociuto alla sua formazione intellettuale e ha messo una camicia di forza alla sua fantasia... Ti raccomando, proprio di cuore, di non commettere un tale errore e di lasciare che i tuoi bambini succhino tutto il sardismo che vogliono e si sviluppino spontaneamente nell'ambiente naturale in cui sono nati.

Poi anche passava lunghi momenti in cella a confrontare sulle fotografie i bambini della famiglia, studiando le identità e le differenze tra Delio e Giuliano e i figli di Teresina (Franco, Mimma e Diddi) e la bimba di Gennaro, Mea3.

Era malato. Dormiva pochissimo. Nell'ottobre del '30, questo era stato il bilancio delle ore di sonno: «Solo due notti ho dormito cinque ore, per nove notti intiere non ho dormito affatto, le altre notti ho dormito meno di cinque ore, che dà una media generale di poco più di due ore per notte». E spesso il sonno gli veniva interrotto dall'esterno; ricorda Lay: «Gramsci occupava la prima cella del corridoio del primo piano dove, notte e giorno, si svolgeva tutto il traffico per le altre sezioni e per l'infermeria. Solo quando era di servizio qualche guardia meno zelante delle altre il traffico era un poco limitato e meno chiassoso e i guai di Gramsci minori». Gli venivano vuoti alla testa: «Dormo poco, sono dominato da una grande svogliatezza; anche il leggere non mi attrae. Come dicono in Sardegna, giro nella cella come una mosca che non sa dove morire» (20 luglio 1931).

Da qualche mese soffro molto di smemoratezza. Non ho più avuto da un pezzo delle forti emicranie come nel passato (emicranie che chiamerei «assolute»), ma in contraccambio mi risento di più, relativamente, di uno stato permanente che può essere indicato riassuntivamente come uno svaporamento di cervello; stanchezza diffusa, sbalordimento, incapacità di concentrare l'attenzione, rilassatezza della memoria ecc.4

Sette giorni dopo questa lettera, il 3 agosto, ebbe all'una del mattino un'emottisi. Ne scrisse molto più tardi a Tatiana con freddezza, avendo l'aria di chi stende un rapporto:

Non si trattò di una vera e propria emorragia continuata, di un flusso irresistibile come ho sentito descrivere da altri: sentivo un gorgoglio nel respirare come quando si ha del catarro, seguiva un colpo di tosse e la bocca si riempiva di sangue. La tosse non era violenta e neppure forte: proprio la tosse che viene quando si ha un qualcosa di estraneo in gola, a colpi isolati, senza accessi continuati e senza orgasmo. Ciò durò fino alle quattro circa e in questo frattempo cacciai fuori 250-300 grammi di sangue.

Dopo altri particolari concludeva, sempre staccato: «Credo di averti dato tutte le informazioni essenziali. Devo aggiungere che non mi sono indebolito in misura notevole e non ho subito nessun contraccolpo psichico... Come vedi, non c'è niente di preoccupante, quantunque, come dice il medico, occorrerà "sorvegliare"». Non era la catastrofe del corpo, almeno in questa fase, a prostrarlo moralmente. Aveva propensione a giudicare le traversie fisiche senza drammi.

Non così le traversie morali (Giulia che si allontanava, l'irregolarità della corrispondenza da casa, le spaccature ideologiche con i vecchi compagni di lotta e con alcuni comunisti carcerati e la diffamazione come sbocco di queste). Il 3 agosto, scrivendo a Tatiana, non aveva detto dello sbocco di sangue nella notte. Prevaleva, dopo l'emottisi, un altro pensiero, pungente più del male fisico:

Non credere che il sentimento di essere personalmente isolato mi getti nella disperazione o in qualunque altro stato d'animo da tragedia. Di fatto io non ho mai sentito bisogno di un apporto esteriore di forze morali per vivere fortemente la mia vita anche nelle peggiori condizioni; tanto meno oggi, quando io sento che le mie forze volitive hanno acquistato un più alto grado di concretezza e di validità. Ma mentre nel passato mi sentivo quasi orgoglioso di trovarmi isolato, ora invece sento tutta la meschinità, l'aridità, la grettezza di una vita che sia esclusivamente volontà.5

Accennava anche, in quella lettera del 3 agosto 1931, giorno della prima emottisi, al proprio lavoro. Sempre più sentiva, anche senza arrendersi, la difficoltà di svolgere sistematicamente e in profondità i temi che s'era proposto. Aveva scritto a Tania il 17 novembre 1930:

Mi sono fissato su tre o quattro argomenti principali, uno dei quali è quello della funzione cosmopolita che hanno avuto gli intellettuali italiani fino al Settecento, che poi si scinde in tante sezioni: il Rinascimento e Machiavelli ecc. Se avessi la possibilità di consultare il materiale necessario, credo che ci sarebbe da fare un libro veramente interessante e che ancora non esiste; dico libro, per dire solo l'introduzione a un certo numero di lavori monografici, perché la quistione si presenta diversamente nelle diverse epoche e secondo me bisognerebbe risalire ai tempi dell'Impero Romano. Intanto scrivo delle note, anche perché la lettura del relativamente poco che ho mi fa ricordare le vecchie letture del  passato.

Su  queste difficoltà di consultazione tornava adesso, nella lettera del 3 agosto:

Si può dire che ormai non ho più un vero programma di studi e di lavoro e naturalmente ciò doveva avvenire. Io mi ero proposto di riflettere su una certa serie di quistioni, ma doveva avvenire che a un certo punto queste riflessioni avrebbero dovuto passare alla fase di una documentazione e quindi a una fase di lavoro e di elaborazione che domanda grandi biblioteche. Ciò non vuol dire che perda completamente il tempo, ma, ecco, non ho più delle grandi curiosità in determinate direzioni generali, almeno per ora...  Bisogna  anche  tener  conto che l'abito di severa disciappunti, osservazioni, cioè i materiali per i saggi che solo più tardi si sarebbero potuti scrivere secondo un dato ordine. Alle pagine 1 e 2 del quaderno 28 (riempito nel '32) sotto il titolo Note sparse e appunti per una storia degli intellettuali italiani mise questa avvertenza, perché fossero chiari il carattere e la materia del suo lavoro:

1° Carattere provvisorio, di pro-memoria, di tali note e appunti; 2° Da essi potranno risultare dei saggi indipendenti, non un lavoro organico d'insieme; 3° Non può esserci ancora una distinzione tra la parte principale e quelle secondarie dell'esposizione, tra ciò che sarebbe il «testo» e ciò che dovrebbero essere le «note»; 4° Si tratta spesso di affermazioni non controllate, che potrebbero dirsi «di prima approssimazione»: qualcuna di esse, nelle ulteriori ricerche, potrebbe essere abbandonata e magari l'affermazione opposta potrebbe dimostrarsi quella esatta; 5° Non deve fare una cattiva impressione la vastità e l'incertezza di limiti del tema, per le cose sopra dette: non ho affatto l'intenzione di compilare uno zibaldone farraginoso sugli intellettuali, una compilazione enciclopedica che voglia colmare tutte le «lacune» possibili e immaginabili. - Saggi principali - Introduzione generale - Sviluppo degli intellettuali italiani fino al 1870: diversi periodi - La letteratura popolare dei romanzi d'appendice - Folclore e senso comune - La quistione della lingua letteraria e dei dialetti - I nipotini di padre Bresciani - Riforma e Rinascimento - Machiavelli - La scuola e l'educazione nazionale - La posizione di B. Croce nella cultura italiana fino alla guerra mondiale - Il Risorgimento e il partito d'azione - Ugo Foscolo nella formazione della retorica nazionale - Il teatro italiano - Storia dell'Azione Cattolica - Cattolici integrali, gesuiti, modernisti - Il comune medioevale, fase economico-corporativa dello Stato - Funzione cosmopolitica degli intellettuali italiani fino al secolo XVIII - Reazione all'assenza di un carattere popolare-nazionale della cultura in Italia: i futuristi - La scuola unica e cosa essa significhi per tutta l'organizzazione della cultura nazionale - Il «lorianesimo» come uno dei caratteri degli intellettuali italiani - L'assenza di «giacobinismo» nel Risorgimento italiano - Machiavelli come tecnico della politica e come politico integrale o in atto. Raggruppamenti di materia: 1° Intellettuali, quistioni scolastiche; 2° Machiavelli; 3° Nozioni enciclopediche e argomenti di cultura; 4° Introduzione allo studio della filosofia e note critiche ad un saggio popolare di sociologia; 5° Storia dell'Azione Cattolica, cattolici integrali, gesuiti, modernisti; 6° Miscellanea di note varie di erudizione (Passato e presente); 7° Risorgimento italiano (nel senso dell'età del Risorgimento italiano dell'Omodeo, ma insistendo sui motivi più strettamente italiani; 8° I nipotini di padre Bresciani, la letteratura popolare (note di letteratura); 9° Lorianesimo; 10° Appunti sul giornalismo.

Andò avanti malgrado la progressiva demolizione del fisico e l'abbattimento per i fili che si spezzavano o erano intricati da incomprensioni.

Ma forse chiedeva all'organismo più di quanto l'organismo, in quello stato d'afflizione e di gravi malattie mal curate, potesse. Ebbe un tracollo:

Sono giunto a un punto tale che le mie forze di resistenza stanno per crollare completamente, non so con quali conseguenze. In questi giorni mi sento così male come non sono mai stato; da più di otto giorni non dormo più di tre quarti d'ora per notte e intere notti non chiudo occhio. È certissimo che se l'insonnia forzata non determina essa alcuni mali specifici, li aggrava però talmente e li accompagna con tali malesseri concomitanti, che  il complesso dell'esistenza diventa insopportabile6.

S'era inasprito. Alcune iniziative suggerite a Tatiana dal suo «fanatismo romantico» lo esasperavano7. Avrebbe voluto che Tatiana se ne andasse a Mosca8. Due vicende contribuirono a questo punto ad acuirne l'eccitabilità: la notizia, senttagli da Grazietta, che la mamma era moribonda; e un annunzio datogli da Carlo in forma da fargli credere imminente la liberazione.

La signora Peppina era immobilizzata a letto già da molti mesi. Il 7 ottobre 1932 Grazietta scrisse ad Antonio dandogli notizie molto gravi: la mamma aveva già fatto le ultime raccomandazioni e non c'era più nessuna speranza. Un biglietto scritto due giorni dopo da Mea in tono rassicurante calmò un poco Antonio; l'impressione della prima lettera non era tuttavia scomparsa del tutto:

L'idea che la mamma può essere moribonda mentre io non posso saperne nulla di preciso e non posso più rivederla, mi ossessiona e mi perseguita in ogni momento, notte e giorno. La ricordo nei suoi momenti di maggiore energia e forza, rivedo nitidamente tanti quadri della nostra vita famigliare di un tempo, e non riesco a persuadermi che possa essere ridotta come tu scrivi e che ella stessa senta di stare per lasciarci. Non so neppure se tu [la lettera era indirizzata a Grazietta] potrai farle sentire quanto io le ho voluto bene sempre e come una delle maggiori amarezze della mia vita, e che ha avuto tanta efficacia nel formare il mio carattere, sia stato proprio il vedere come la sua esistenza non avesse mai requie, come la sua vita fosse priva di soddisfazioni e di pace duratura9.

Fu in questo stato d'animo, già scosso, che a fine mese lesse un telegramma di Carlo: «Appreso concessione amnistia ti sono vicino pregoti telegrafarmi necessità mia presenza o altro». In realtà, nel decennale della marcia su Roma, c'erano stati provvedimenti di amnistia e di condono, estesi ai condannati politici; ma la riduzione di pena non significava per Gramsci l'immediata libertà. Il telegramma di Carlo gli fece credere, al contrario, «per sette od otto ore», che la sofferenza del carcere stesse per aver termine. E la delusione fu cocente: anche perché su altre vie d'uscita sentiva di non poter più contare, ormai.

Gli era stato riferito, all'inizio dell'anno, di una iniziativa ad alto livello per lo scambio di prigionieri politici. Si interessavano a ciò l'Unione Sovietica (fiduciari lo storico e diplomatico Platon Michailovic Kerzencev ed un altro diplomatico di nome Makar) e il Vaticano. Dopo il fallimento della conferenza di Genova (aprile-maggio 1922), alla quale erano intervenuti anche il ministro degli Esteri sovietico Cicerin ed i monsignori vaticani Pizzardo e Sincero insieme all'arcivescovo di Genova Signori, i rapporti tra Unione Sovietica e Vaticano s'erano ulteriormente inaspriti. Rimanevano tuttavia aperte alcune possibilità d'intesa su questioni specifiche. Ad esempio, il papa aveva ottenuto la liberazione dell'arcivescovo di Mogilév, Cieplak, condannato a morte il 26 marzo 1923. In un sistema di scambio con prelati prigionieri s'inserivano le trattative per la liberazione di Gramsci. C'era stata una visita al carcere di Turi di monsignor Giuseppe Pizzardo, a quel tempo non ancora cardinale. Il vice ministro degli Esteri vaticano non aveva però potuto incontrarsi con Gramsci e s'era limitato a lasciargli, prima di partire, un biglietto di saluto10. Le trattative furono sospese. Quando e ad iniziativa di chi? L'eterodossia di Gramsci rispetto alla «svolta» staliniana era già conosciuta fuori dal carcere, malgrado le parole di Gennaro a Togliatti, ancor prima del rapporto Lisa? O s'opponeva alla sua liberazione Mussolini? Nel settembre del '32, Carlo Gramsci aveva trascorso dieci giorni delle ferie a Ghilarza, per vedere la mamma, che si spegneva lentamente. Al ritorno sulla penisola, andò a Turi.  Dovette  starci  quasi  una  settimana. Nino voleva parlargli di cose delicate, ma non riusciva ad avere presente al colloquio una guardia di sua fiducia davanti alla quale sapeva di poter parlare liberamente: perciò rimandava da un giorno all'altro la trattazione dell'argomento. Finché la guardia amica venne al colloquio, e Nino potè dire al fratello dell'operazione Vaticano e della visita a Turi di monsignor Pizzardo. Era furibondo con Tania, che non l'aveva tenuto al corrente dell'operazione. Avrebbe potuto darle utili suggerimenti, ma lei ormai da un pezzo non veniva a Turi. Di passaggio a Roma, Carlo vide Tania. Le disse, del suo colloquio con Nino e seppe ciò che a lei risultava, per informazioni avute negli ambienti dell'ambasciata sovietica: ad opporsi alla liberazione di Gramsci era stato personalmente Mussolini. Litvinov aveva ufficialmente proposto, tramite l'ambasciatore russo a Mosca, lo scambio di Gramsci con altri prigionieri, e la risposta di Mussolini era stata, sempre secondo la versione di parte sovietica, un secco rifiuto. Svaniva dunque la speranza di una vicina scarcerazione per simile via. Altre eventualità favorevoli non si profilavano.

Inasprito dalla rovina fisica e in condizioni di cresciuta stanchezza morale, Gramsci venne meditando il proposito di risolvere una volta per sempre, in modo non equivoco, i rapporti con Giulia. Era guarita o almeno aveva superato la fase critica della malattia. I progressi del suo stato sembravano a Gramsci evidenti: «Il tuo processo di ideazione è ridiventato limpido e chiaro, senza dubbi, pentimenti, irrisolutezze» (1° agosto 1932). «Si capisce che fai dei progressi giganteschi, di settimana in settimana, verso condizioni generali fisiche e psichiche di piena sanità e di superiore equilibrio» (2 agosto 1932). E ancora il 9 agosto, in una lettera a Tatiana: «Adesso mi pare proprio si possa positivamente affermare che Giulia è "uscita fuor del pelago alla riva" e che incomincia per lei una vita nuova». Ma tutto ciò non bastava evidentemente a sciogliere nodi tenaci. Un viaggio di Giulia in Italia, coi bambini, avrebbe forse dato ai loro rapporti l'antica freschezza; e questo viaggio Antonio lo desiderava; si può cogliere un riflesso di simile desiderio in una lettera di Tatiana a Grazietta, del 30 novembre 1932: «Poco tempo fa ho avuto notizie da Giuliane dei bambini, tutti stanno in buona salute. Giuliano ha voluto scrivere al suo babbo e gli ha chiesto la sua fotografia. Vogliamo sperare che fra non molto il bimbo potrà venire a conoscere il suo padre. Non è vero? Speriamo»11. Giulia non venne. Da un po' Antonio aveva rinunciato a capire l'atteggiamento della moglie: «Sono un sardo senza complicazioni psicologiche e mi costa una certa fatica comprendere le complicazioni degli altri»; poi anche, analizzando con spietatezza il suo passato, s'era convinto d'avere nei confronti di Giulia una «colpa», una colpa d'«egoismo», però non dell'egoismo più comune, «quello che consiste nel far servire gli altri da strumento per il proprio benessere e la propria felicità». Il punto era un altro e nasceva dalla sua vicenda di combattente politico:

Quando si è legata la propria vita ad un fine e si concentra in questo tutta la somma delle proprie energie e tutta la volontà, non è immancabile che alcune o molte o sia pure una sola delle partite individuali rimanga scoperta? Non sempre ci si pensa e perciò ad un certo punto si paga. Si scopre magari che si può sembrare egoisti proprio a quelli cui meno si era pensato di poterlo sembrare. E si scopre l'origine dell'errore che è la debolezza, la debolezza di non avere saputo osare di restare soli, di non crearsi legami, affezioni, rapporti ecc.

C'era adesso un rimedio? Si poteva ancora riparare a quell'antica «debolezza»? Parve a Gramsci che il rimedio fosse il ritorno alla solitudine con la restituzione della libertà a Giulia. Lei aveva trentasei anni, abbastanza giovane per costruirsi un'esistenza meno tormentata. Per la prima volta il 14 novembre 1932 Antonio espose a Tatiana questo suo disegno:

È difficile incominciare, ma proverò. Ecco. Ho saputo qualche tempo fa che parecchie donne, che avevano il marito in carcere, condannato a pene alte, si sono ritenute sciolte da ogni vincolo morale e hanno cercato di costruirsi una vita nuova. Il fatto è avvenuto (a quanto si riferisce,) per iniziativa unilaterale. Può essere giudicato diversamente, da diversi punti di vista. Può essere biasimato, può essere spiegato e anche giustificato. Personalmente, dopo averci pensato su, io ho finito con lo spiegarlo e anche col giustificarlo. Ma se ciò avvenisse per accordo bilaterale, non  sarebbe ancor più giustificato? Naturalmente non voglio dire che sia una cosa semplice, che si possa fare senza dolore e senza contrasti  profondamente laceranti. Ma, anche in queste condizioni, si può fare, se ci si persuade che si debba fare... Perché un essere vivo deve rimanere legato a un morto o quasi?... Come dico, la cosa non è semplice, occorre uno strappo violento, una lacerazione dolorosa, occorre prevedere, dopo la decisione, un certo periodo di rimorsi, di pentimenti, una oscillazione, ma in fondo si può prevedere che ciò può essere superato e che si può creare una vita nuova. Espongo a te la quistione, credi, con molta persuasione, perché tu la comunichi a Giulia, oppure mi consigli di comunicargliela io direttamente. È una cosa molto, molto seria; ci ho pensato da molto tempo, forse dal primo giorno che sono stato arrestato, in forme diverse, scherzosamente prima, poi con maggiore serietà e approfondimenti. Ho anche pensato che ciò poteva sembrare un gesto, molto romantico. Ho anche pensato che ciò poteva anche sembrare una furberia, una specie di ricatto sentimentale (come dire? ti offro questo, appunto perché tu sia schiacciato dalla mia magnanimità e sii costretto a rifiutare)... È necessario che l'iniziativa parta da me, questo è sicuro... Io penso che Giulia, pur non essendo più una giovinetta, possa ancora crearsi liberamente una nuova fase di vita. In ogni modo, può, violentemente, sia pure, dare un nuovo indirizzo alla sua esistenza. E tutta una serie di quistioni coordinate verrebbero risolte. Io rientrerei nel mio guscio «sardo». Non voglio dire che non soffrirei. Ma ogni giorno che passa mi rende sempre più insensibile e adattabile. Potrei sopportare, mi abituerei... Tu devi essere, in questo caso, di una grande forza d'animo e devi essere assolutamente imparziale. Devi pensare a ciò che ti ho scritto con molta freddezza, pensando all'avvenire di Giulia e alla sua vita.

Non era una risoluzione improvvisa e legata all'umore di un un momento. Rispose a Tatiana una settimana dopo, il 21 novembre:

Attendo la lettera che mi annunzi, in cui intendi rispondere alla mia precedente; gli accenni che fai, però, non mi soddisfano per nulla. Non capisco cosa significhi che il mio «sentire è inadeguato alle circostanze». Intanto non si tratta di «sentire», nel senso immediato della parola, ma di qualcosa che tiene conto di una larga prospettiva e in cui è difficile scindere il sentimento dalla ragione. È un sentire, certo, ma le premesse al sentimento non sono impulsi emozionali o passioni istintive, ma una lunga meditazione fatta con tutta calma e freddezza.

E il 5 dicembre:

Cara Tania, ti prego con tutto il cuore di non voler discutere, analizzare, cercare di confutare la mia lettera del 14 novembre... Una sola cosa devi rispondermi: sei disposta a renderti tu interprete presso Giulia di ciò che ti ho scritto, o lo ritieni impossibile? Un sì o un no, ecco ciò che desidero sapere. Ogni contorno di discussione mi dispiacerebbe immensamente. Si tratta di un'operazione chirurgica, in un certo senso di una decapitazione, è giustificata solo se eseguita con un taglio netto, deciso; altrimenti diventerebbe un supplizio cinese. Avrei desiderato che tu mi avessi risposto subito; non l'hai potuto fare. Pazienza. Ora però non devi girare il coltello nella piaga.

Il 30 dicembre 1932 la signora Peppina si spense a Ghilarza. Immaginarono che Antonio non avrebbe sopportato il colpo e non glielo dissero. Tre mesi dopo, il 3 aprile 1933, Antonio raccomandava a Teresina: «Prima che mi dimentichi, occorre che ti avverta di fare tanti auguri da parte mia a mammà per le feste di Pasqua. Quest'anno mi sono dimenticato di farle gli auguri per il suo onomastico e ciò mi dispiace molto».

Note

1 Lettera a Giulia del 9 febbraio 1931.

2 Lettera  a Tatiana del 1° giugno 1931.

3 «Ho ricevuto una lettera di mia sorella Teresina con la fotografia di suo figlio Franco, nato qualche mese dopo Delio. Mi pare non si rassomiglino affatto, mentre invece Delio rassomiglia moltissimo a Edmea. Franco non è ricciuto e deve essere castano oscuro; inoltre Delio è certamente più bello.» «Mi ha colpito molto che Franco, almeno nella fotografia, rassomigli poco alla nostra famiglia: deve rassomigliare a Paolo [Paulesu, marito di Teresina] e alla sua stirpe campidanese e forse addirittura maurreddina: e Mimi a chi somiglia?» «Tatiana mi ha trasmesso qualche settimana fa alcune fotografie dei bambini di Teresina che mi sono piaciute molto. È vero che Mimi rassomiglia molto a Emma quando era piccola. Del resto è meraviglioso come questi bambini hanno i lineamenti di famiglia (anche Delio e Giuliano hanno molto marcati questi lineamenti); pare di vedere facce già viste tante volte che affiorano al ricordo di tanti anni di lontananza. Diddi mi pare che rassomigli tanto a Teresina come era quando abitavamo ancora a Sorgono e andavamo all'asilo delle monache; non è pero ricciuta e bionda come era Teresina. L'ultima fotografia di Delio che ho ricevuto mi ha dato l'impressione di rivedere Mario quando aveva otto anni; così Giuliano ha un faccino che nei lineamenti generali mi ricorda Nannaro e specialmente zio Alfredo.»

4 Lettera del 27 luglio 1931.

5 Il corsivo è mio.

6 Lettera  del 29  agosto  1932.

7 «Ripensando in questi giorni alle cose passate, mi sono persuaso che quando Giulia mi scriveva due o tre lettere all'anno, sempre uguali, stereotipate e in cui si sentiva l'imbarazzo e lo sforzo, ciò non era dovuto che parzialmente alla sua malattia; era dovuto certamente a una proposta che le avevi fatto nei miei riguardi, che era disonorevole per me e che ella aveva tutte le ragioni di credere dovuta alla mia iniziativa. Come spiegare altrimenti certe sue espressioni sibilline recenti, in cui ella scrive che ha riconosciuto di essere stata ingiusta nelle sue opinioni al mio riguardo?»

8 «Giulia crede che tu rimanga a Roma e non ti decida a raggiungere i tuoi genitori perché non sai deciderti a troncare i rapporti di relativa vicinanza con me. Non so se abbia ragione e se questa sia la ragione sola o anche quella prevalente che ti trattiene. Se così fosse, dovresti prendere una decisione e partire senz'altro.»

9 Lettera del 17 ottobre 1932.

10 Il biglietto è ora conservato all'Istituto Gramsci. La dicitura a stampa è: prima riga: Mons. Giuseppe Pizzardo; seconda riga: Sostituto della Segreteria di Stato di S. S.; sotto, a mano: Ossequi.

11 La lettera è inedita.

CAPITOLO VENTOTTESIMO

Era l'alba del '33. Finiva per Gramsci un anno di tormenti, e un altro se ne annunciava ugualmente buio. Lo presentiva; scrisse il 2 gennaio 1933 poche righe di bilancio:

L'anno vecchio non era precisamente pieno di ricordi piacevoli per me; è stato l'anno più brutto che ho passato in carcere. Né l'anno nuovo si presenta con prospettive allettanti. Se l'anno 32 è stato brutto mi pare che il 33 debba essere peggiore. Sono logorato e nello stesso tempo le gravezze vanno aumentando; il rapporto tra le forze disponibili e lo sforzo da sostenere è ancora peggiorato. Tuttavia non sono demoralizzato, anzi la mia volontà trae alimento proprio dal realismo con cui analizzo gli elementi della mia esistenza e resistenza.

Già da allora, non curato, Gramsci se ne moriva iì morte lenta. Continuava a soffrire d'insonnia, si sentiva alle volte «come sospeso per aria, senza equilibrio fisico, nelle condizioni che si hanno quando viene la vertigine e il capogiro o quando si è ubbriachi». I denti erano caduti, affliggevano Gramsci penosi disturbi gastrici. E contemporaneamente, a far completa la catastrofe del corpo, avanzavano la tisi, l'arterio sclerosi e il morbo di Pott (le vertebre erano progressivamente distrutte, e in corrispondenza dei muscoli dorsali si formavano ascessi).

Ma, almeno all'inizio del '33, le facoltà critiche e volitive, quasi fossero separate dal corpo in disfacimento, esterne ad esso e per nulla condizionate dalla sofferenza fisica, riuscivano a mantenersi lucide, sempre al massimo della tensione: «Io ho attraversato molti brutti momenti, mi sono sentito tante volte fisicamente debole, però non ho mai ceduto alla debolezza fisica e per quanto è possibile dire in queste cose, non credo che cederò neanche d'ora in avanti. Eppure posso aiutarmi ben poco. Quanto più mi accorgo di dover attraversare brutti momenti, di essere debole, di veder aggravarsi le difficoltà, tanto più mi irrigidisco nella tensione di tutte le mie forze volitive» (30 gennaio 1933). Era una vita di dolore, «odiosa» e insopportabile, ma ugualmente Gramsci voleva viverla:

Sono da qualche tempo, circa da un anno e mezzo, entrato in una fase della mia vita che, senza esagerazioni, posso definire catastrofica. Non riesco più a reagire al male fisico e sento che le forze mi vengono sempre più a mancare. D'altronde non voglio abbandonarmi alla corrente, cioè non voglio trascurare nulla che sia pure astrattamente possa offrire una possibilità di porre un termine a questo soffrire. Mi pare che se trascurassi qualche cosa, ciò, in un certo senso, equivarrebbe a un suicidio. Sono diventato pieno di contraddizioni, è vero, ma non fino al punto da non comprendere queste cose elementari...1.

Era però di carne e d'ossa, uomo, non pensiero puro. Lo torturava infine un incubo: aveva resistito, fin lì, al terrorismo fascista, respingendo sempre il ricatto dell'istanza di grazia: ma se, schiacciata dalla sofferenza fisica, nell'ipnosi della mente per il progredire delle malattie, la volontà cedesse? Annotò in un quaderno:

Si sente dire: «Ha resistito per 5 anni, perché non per 6? Poteva resistere un altro anno e trionfare». Intanto in qualche caso si tratta del senno di poi, perché al 5° anno il soggetto non sapeva che solo un altro anno di sofferenza lo aspettava. Ma a parte questo: la verità è che l'uomo del 5° anno non è quello del 4°, del 3°, del 2°, del 1° ecc.; è una nuova personalità, completamente nuova, nella quale gli anni trascorsi hanno appunto demolito i freni morali, le forze di resistenza che caratterizzavano l'uomo del 1° anno. Un esempio tipico è quello del cannibalismo.

Svolse l'esempio anche in una lettera a Tatiana:

Immagina un naufragio e che un certo numero di persone si rifugino in una scialuppa per salvarsi senza sapere dove, quando e dopo quali, peripezie effettivamente si salveranno. Prima del naufragio, come è naturale, nessuno dei futuri naufraghi pensava di diventare... naufrago e quindi tantomeno pensava di essere condotto a commettere gli atti che dei naufraghi, in certe condizioni, possono commettere, per esempio l'atto di diventare... antropofaghi. Ognuno di costoro, se interrogato a freddo cosa avrebbe fatto nell'alternativa di morire o di diventare cannibale, avrebbe risposto, con la massima buona fede, che data l'alternativa, avrebbe scelto certamente di morire. Avviene il naufragio, il rifugio nella scialuppa ecc. Dopo qualche giorno, essendo mancati i viveri, l'idea del cannibalismo si presenta in una luce diversa, finché a un certo punto, di quelle persone date, un certo numero diviene davvero cannibale. Ma in realtà si tratta delle stesse persone? Tra i due momenti, quello in cui l'alternativa si presentava come una pura ipotesi teorica e quello in cui l'alternativa si presentava in tutta la forza dell'immediata necessità, è avvenuto un processo di trasformazione «molecolare»... e non si può dire, altro che dal punto di vista dello stato civile e della legge... che si  tratti delle stesse persone.

Il dramma era, per Gramsci, di sentire un mutamento simile in sé:

La personalità si sdoppia: una parte osserva il processo, l'altra lo subisce, ma la parte osservatrice (finché questa parte esiste significa che c'è un autocontrollo e la possibilità di riprendersi) sente la precarietà della propria posizione, cioè prevede che giungerà un punto in cui la sua funzione sparirà, cioè non ci sarà più autocontrollo, ma l'intera personalità sarà inghiottita da un nuovo «individuo» con impulsi, iniziative, modi di pensare diversi da quelli precedenti.

Sono parole scritte lunedì 6 marzo 1933.

Giorni prima, i compagni di passeggio avevano visto Gramsci andare nel cortile a zig-zag. Del suo pessimo stato s'era accorta anche Tatiana, stabilitasi fissa in una locanda di Turi. Scriveva il 1° marzo a Teresina: «Credo che sia proprio necessario di venire a trovarlo il più spesso possibile in questi tempi, che certamente egli sta attraversando qualche crisi di esaurimento  fisico  nervoso  abbastanza  grave  per  impressionare»2. Le era mancato il coraggio di comunicargli la morte della mamma, questo penoso incarico l'atterriva: «Ma pensare che un giorno egli per forza verrà a conoscenza della sciagura che l'ha colpito insieme coi suoi fratelli, non so immaginarmi come egli prenderà questa notizia». La mattina di martedì 7 marzo, l'indomani della lettera sui naufraghi, appena levato dal letto, Gramsci cadde a terra e non riuscì più a rialzarsi con le sue forze.

Delirava. Seppe in seguito, dai compagni ammessi a turno in cella per assisterlo, il bolognese Gustavo Trombetti e un operaio di Grosseto, di certi suoi discorsi, intramezzati di lunghe tirate in dialetto sardo, sull'immortalità dell'anima: «Pare che per una intera notte ho parlato dell'immortalità dell'anima in un senso realistico e storicistico, cioè come una necessaria sopravvivenza delle nostre azioni utili e necessarie e come un incorporarsi di esse, all'infuori della nostra volontà, al processo storico universale ecc. Ad ascoltarmi era un operaio di Grosseto che cascava dal sonno e che credo abbia creduto che io impazzissi, secondo l'opinione anche della guardia carceraria di servizio». Era lo sbocco dell'arteriosclerosi. Le manifestazioni acute del male durarono più giorni:

Parlai lungamente in una lingua che non era compresa e che certo è il dialetto sardo, perché ancora fino a qualche giorno fa [la lettera è di due settimane dopo il primo attacco]  mi accorsi che inconsciamente mescolavo all'italiano parole e frasi in sardo. Le  finestre e le pareti della stanza apparivano agli occhi come popolate di figure, specialmente di facce, senza più nulla di spaventevole, anzi nelle pose più diverse, sorridenti ecc. Invece sembrava di tanto in tanto che si formassero nell'aria delle masse compatte ma fluide che si accumulavano e poi si precipitavano su di me, facendomi arretrare con un tonfo nervoso nel letto. Così la retina manteneva le immagini passate a lungo ed esse si sovrapponevano alle più recenti ecc. Anche all'udito ebbi delle allucinazioni.  Se chiudevo gli occhi per riposare, sentivo delle voci chiare che domandavano: «Ci sei?» «Dormi?» ecc. o altre parole staccate.

La «parte osservatrice» di Gramsci non era dunque scomparsa e poteva ancora seguire criticamente il processo. Fino al giorno primo dell'attacco di arteriosclerosi, c'era stato in lui un incubo, il dubbio atroce di un mutamento in atto, di un processo di sostituzione della vecchia personalità con una nuova, senza più freni morali, disposta al gesto ripugnante del cannibale (la capitolazione a inoltrare la domanda di grazia). In realtà allo sfacelo fisico non corrispondeva la catastrofe del carattere.

Venne a colloquio Tatiana.

Ad un certo punto - riferirà - allorché Antonio cercava di persuadermi che egli, nel corso di questi ultimi anni, aveva fatto tutto il suo possibile per mantenersi nelle migliori condizioni, ma che non si può far nulla perché egli possa rimettersi stando ancora nel carcere... la guardia presente si rivolse a me e mi disse che io dovevo dire a Nino ciò che egli avrebbe dovuto fare: - Dato che egli afferma di aver fatto il possibile per salvaguardarsi, ora dovrebbe fare la cosa maggiore -. Potete immaginare come restai male, allorché la guardia, al mio cenno che non intendevo cosa volesse dire, proseguì: - Deve dire a suo cognato, signorina, ciò di cui abbiamo parlato in amministrazione -. Allora, senza ira, con una tranquillità che mi ha veramente sorpreso, Nino disse rivolgendosi alla guardia: - Ah, capisco; non è una cosa nuova, è una cosa ben vecchia; si tratta di fare una istanza di grazia, non è vero? Ora questa è una forma di suicidio, e se si vuole scegliere una forma piuttosto che l'altra, si fa presto, ma è una cosa ben vecchia -. Allorché gli dissi che nel paese tutti quanti, oltre il personale dell'amministrazione, mi vorrebbero suggerire questo mezzo per vederlo fuori, però che questo non era segno di cattiveria di questa povera gente, tutt'altro, che era segno di simpatia per lui, egli ammise che era segno di cecità e di ignoranza, non di cattiveria... Vi dico la verità, non so capire talvolta come va che Nino teme di attraversare intelletualmente una crisi così grave...

Era stata lei stessa, Tatiana, a inoltrare il 15 settembre 1932 una istanza al capo del governo perché un medico esterno di fiducia fosse autorizzato a visitare Gramsci in carcere. Il 20 marzo il professor Umberto Arcangeli potè vedere l'infermo. A suo giudizio era necessario, per un tentativo di ricupero della salute, un radicale cambiamento delle condizioni d'ambiente, possibile solo con una domanda di grazia. Gramsci s'oppose, e l'accenno alla grazia fu tolto dal certificato, che diceva:

Antonio Gramsci è sofferente di male di Pott; egli ha delle lesioni tubercolari al lobo superiore del polmone destro, che hanno provocato due emottisi, delle quali una in quantità notevole seguita da forte febbre durata parecchi giorni; egli è attaccato d'arteriosclerosi con ipertensione delle arterie. Egli ha avuto svenimenti con perdita della conoscenza e parafasia che hanno durato parecchi giorni. Dal mese di ottobre 1932 egli è diminuito di sette chili.

Il professor Arcangeli concludeva: «Gramsci non potrà lungamente sopravvivere nelle condizioni attuali; io considero come necessario il suo trasferimento in un ospedale civile o in una clinica a meno che non sia possibile accordargli la libertà condizionale». Non ci furono tuttavia, per qualche tempo, nel regime carcerario di Gramsci, mutamenti sensibili.

La sofferenza fisica lo inaspriva. Si rivolgeva ai suoi cari con tono risentito. Era impaziente e facile a scoppi di collera. Tatiana e Carlo sapevano però quanto fossero meritevoli d'indulgenza quegli scatti e, pazienti, continuavano a prodigarsi. Con Giulia, Antonio seguiva una linea ondulatoria. Dopo il disegno di separazione legale, c'erano state oscillazioni e pentimenti e poi ancora propositi di taglio netto e nuove irrisolutezze. Le voleva bene, le indecisioni discendevano da ciò. Il 21 marzo, venti giorni dopo l'attacco d'arteriosclerosi, le scrisse: «Non ho ricevuto tue lettere, né notizie dei bambini da un pezzo. In questo frattempo io ti ho scritto parecchie volte. Credo che neanche Tania abbia ricevuto notizie e lettere. Ti prego di scrivermi e di rassicurarmi». Gli dava inquietudine anche la mancanza di notizie della mamma; il silenzio dei suoi non lo insospettiva sino a fargli capire la verità, ma lo preoccupava. Scrisse a Teresina il 30 aprile: «Ho ricevuto due cartoline con gli auguri tuoi, di Grazietta e di tutti i bambini. Non mi avete più mandato notizie di mammà e non ho visto il suo ricordo nelle cartoline. Ti prego di scrivermi in proposito e di pregare Grazietta che mi scriva».

Dopo qualche settimana di relativo sollievo riprese a precipitare. Le cure a Turi erano inadeguate alla gravità delle molte malattie. Ci sarebbe voluta ben altra assistenza medica, quand'anche gli si rifiutasse l'applicazione di un articolo del codice penale, il 176, che stabiliva la concessione della libertà condizionale ai malati gravi. Era costretto a starsene continuamente in branda («A letto posso stare con gli occhi chiusi e non vedere le pareti che mi girano intorno»). Il 29 maggio scrisse, ripetendo parole di Romain Rolland («Il pessimismo dell'intelligenza e l'ottimismo della volontà») che erano diventate una sua massima:

Fino a qualche tempo fa io ero, per così dire, pessimista con l'intelligenza e ottimista con la volontà. Cioè, sebbene vedessi lucidamente tutte le condizioni sfavorevoli e fortemente sfavorevoli a ogni miglioramento nella mia situazione (tanto generale, per ciò che riguarda la mia posizione giuridica, come particolare, per ciò che riguarda la mia salute fìsica immediata), tuttavia pensavo che con uno sforzo razionalmente condotto, con pazienza e accortezza, senza trascurare nulla nell'organizzare i pochi elementi favorevoli e nel cercare di immunizzare i moltissimi elementi sfavorevoli, fosse stato possibile di ottenere un qualche risultato apprezzabile, di ottenere per lo meno di poter vivere fisicamente, di arrestare il terribile consumo di energie vitali che progressivamente mi sta prostrando. Oggi non penso più così. Ciò non vuol dire che abbia deciso di arrendermi, per così dire. Ma significa che non vedo più nessuna uscita concreta e non posso più contare su nessuna riserva di forze da esplicare.

La risposta del ministero ad una istanza per il suo trasferimento nell'infermeria di un altro carcere tardava. Il 15 giugno Tatiana andò nuovamente a colloquio in carcere («L'ho trovato con la faccia gonfia per il dolore alle gengive»). Ebbe conferma un paio di giorni dopo dello sfacelo di Antonio che continuava. In una lettera, inedita, del 21 giugno all'amica Nilde Perilli, così scriveva: «Nino mi ha scritto che ha peggiorato ancora come quando ebbe la crisi il giorno 7 marzo... Nella lettera di oggi Nino è ancora ritornato sull'argomento di Giulia come a novembre scorso. Sono disperata». Giunse a Tatiana la notizia della morte del padre: il signor Apollo s'era spento a Mosca il 29 maggio. In queste condizioni di spirito, ebbe il 1° luglio un nuovo colloquio con Antonio. Trovò un uomo svuotato di volontà, un'ombra d'uomo. E l'indomani lesse:

Sono immensamente stanco. Mi sento distaccato da tutto e da tutti. Ieri al colloquio ne ho avuto la riprova. Devo dirti che il colloquio mi pesava come un supplizio e che non vedevo l'ora che finisse. Voglio dirti la verità con tutta franchezza e brutalità, se la parola è più adatta. Non ho niente da dirti e da dire a nessuno. Sono svuotato. L'ultimo tentativo di vita, l'ultimo sussulto di vita l'ho avuto in gennaio. Non hai capito. O non mi sono fatto capire, nelle condizioni in cui devo muovermi e parlare. Non c'è ora più nulla da fare. Credi pure, se qualche altra volta ti capiterà nella vita di avere esperienze come quella che hai avuto con me, che il tempo è la cosa più importante: esso è un semplice pseudonimo della vita.

Tatiana non s'arrese. Era lei stessa molto malata e già in un'età, avviata ai cinquant'anni, che non permette senza grave logorio le fatiche da lei sopportate negli ultimi tempi. La vita in un paesino come Turi non sembrava la più conveniente, nelle sue condizioni di salute. Ma non tornò a Roma neanche dopo questa lettera di Antonio. Ne ricevette un'altra quattro giorni dopo, il 6 luglio:

Ho domandato di poterti scrivere questa lettera straordinaria. Credo che a quest'ora avrai già ricevuto la lettera da me scritta domenica e sarai rimasta addolorata. Sono diventato mezzo pazzo e non sono sicuro di non diventarlo completamente  tra breve... Ti prego di  credere che non posso più resistere. Il  dolore al cervelletto e alla scatola cranica mi  fanno uscire da me stesso. Così è aggravata e si aggrava progressivamente la difficoltà nell'uso delle mani, ciò che non può essere semplicemente dovuto all'arteriosclerosi... È venuto oggi a visitarmi un ispettore dell'amministrazione carceraria, il  quale mi  ha dato la più ampia  assicurazione che d'ora innanzi sarò curato... L'ispettore mi ha assicurato che il Ministero vuole interessarsi del mio caso: spero così  che una cosa tanto semplice, come quella di essere inviato in una infermeria carceraria organizzata modernamente, non sia difficile da ottenere. È una cosa che succede spesso. Non posso darti indicazioni, perché ignoro: ho sentito parlare delle infermerie di Roma e di Civitavecchia, ma mi interessa poco il luogo. Mi interessa di essere tolto da questo inferno in cui muoio lentamente.

Si limitarono a cambiarlo di cella. Era una cella semi-interrata, umida, attigua alle celle di punizione; ma rispetto alla precedente, vicina al corpo di guardia, presentava il vantaggio d'essere isolata dai rumori. Gramsci aveva ora un compagno fisso di stanza, Gustavo Trombetti. Allontanato dagli insopportabili rumori di prima, ebbe un momentaneo sollievo e il 24 luglio, pochi giorni dopo il trasferimento, poteva scrivere a Tatiana:

Credo di poterti dire, nonostante abbia visto come siano precarie queste constatazioni, di stare un po' meglio. Il cambiamento di cella, e quindi di alcune delle condizioni esteriori della mia esistenza, mi ha giovato nel senso che ora posso almeno dormire, o almeno non ci sono le condizioni che mi impedivano il sonno anche quando ero assonnato e mi risvegliavano bruscamente mettendomi in agitazione e in orgasmo. Non dormo regolarmente ancora, ma potrei dormire; in ogni caso anche quando non dormo, non sono molto agitato.

Studiava e scriveva. Al 1933 risalgono i quaderni 1 (note miscellanee su argomenti vari), 2 (elementi di politica), 4 e 22 (note miscellanee).

Il cambiamento di cella era però una soluzione inadeguata. Riprese a precipitare. Gli occorrevano cure serie, non un semplice spostamento da un piano all'altro. Dovette aspettare ancora a lungo (e intanto le malattie progredivano) prima che il ministero si risolvesse a trasferirlo, sempre come recluso, in un luogo di cura: Era stato condannato al carcere, non alla pena di morte. Espiava però una condanna dura più della pena di morte: perché, lasciato senza cure, si spegneva tra sofferenze inaudite un poco ogni giorno. Il dubbio che fosse il ministero dell'Interno a frapporre intralci indusse Carlo a chiedere direttamente a Mussolini il trasferimento di Antonio in una clinica: andò a Roma il 23 agosto 1933 e stese un esposto; si doveva farlo arrivare a Mussolini, e Carlo lo diede al medico che accompagnava col pronto soccorso il capo del governo nei suoi viaggi. Ma la risposta non venne subito. S'era intanto costituito a Parigi un comitato per la liberazione di Gramsci e delle altre vittime del fascismo: ne facevano parte autorevoli   esponenti   della   cultura   democratica,  da Romain Rolland a Henri Barbusse. La dichiarazione del professor Arcangeli, trasmessa da Piero Sraffa ai giornali e pubblicata a maggio dall'«Humanité» ed a giugno dal «Soccorso rosso», aveva emozionato l'opinione pubblica internazionale. Infine il governo fascista, sotto la spinta dell'opinione internazionale, dovette  piegarsi a non  lasciar morire Gramsci senza cure.

Ci fu il 1° settembre 1933 un fonogramma del ministro dell'Interno ai prefetti di Viterbo, Terni, Rieti, Frosinone e Roma per chiedere che fosse indicata una località non marina con casa di salute «adatta accogliere importante condannato politico affetto tubercolosi et altre gravi malattie abbisognevole cure speciali. Casa da scegliere dovrebbe essere molto ben vigilabile»3.

S'erano persi anni e mesi forse decisivi, dalla prima emottisi del 3 agosto 1931 e dal primo attacco d'arteriosclerosi del 7 marzo 1933. A fine ottobre ne fu decisa la nuova residenza, sempre in stato di detenzione: a Formia, nella clinica del dottor Giuseppe Cusumano, purché Gramsci accettasse di pagarsi la retta, 120 lire al giorno, e le spese per le misure di sicurezza, inferriate alle finestre ecc. Il 13 novembre 1933 Carlo andò a Formia per la stesura del contratto con la clinica. L'ordine di partenza arrivò il 18 novembre.

Accompagnati dalla guardia carceraria addetta al magazzino - ricorda Gustavo Trombetti - ci recammo in magazzino e lì preparammo i suoi bagagli. Mentre, d'accordo con me, egli teneva in «chiacchiere» la guardia, io infilavo i 18 quaderni manoscritti [in realtà erano 21] nel baule in mezzo ad altra roba... Ritornati in cella, Gramsci non volle dormire per il rimanente della notte... Verso le sei del mattino successivo, quando ancora era buio pesto, venne la scorta armata... Lo fecero montare su una carrozza, gli misi  accanto la sua valigia, ci abbracciammo.

Andava all'infermeria di un carcere di transito, Civitavecchia. «Che impressione terribile ho provato in treno, dopo sei anni che non vedevo che gli stessi tetti, le stesse muraglie, le stesse facce torve, nel vedere che durante questo tempo il vasto mondo aveva continuato a esistere coi suoi prati, i suoi boschi, la gente comune, le frotte di ragazzi, certi alberi, certi orti - ma specialmente che impressione ho avuto nel vedermi allo specchio dopo tanto tempo.» Arrivò a Civitavecchia la sera dello stesso 19 novembre. C'erano in quel carcere molti altri politici, Terracini, Scoccimarro, Negarville, Pajetta ecc. Ma s'evitò che Gramsci si incontrasse con qualcuno d'essi. «Non fu visto», ricorda Celeste Negarville, «che da un solo compagno, per puro caso, mentre questi veniva accompagnato dal capo guardia e Gramsci alla visita medica. Questo compagno ci raccontò che Gramsci camminava lentamente e che gli era parso febbricitante, rinchiuso nel suo cappotto di recluso del quale teneva il bavero rialzato».

Note

1 Lettera a Tatiana del 13 febbraio 1933.

2 La lettera è inedita.

3 Il fonogramma è inedito.

CAPITOLO VENTINOVESIMO

Raggiunse Formia il 7 dicembre 1933. Un carabiniere lo custodiva in camera, e altri, sino a venti, vigilavano nei corridoi e in giardino. Ma se le misure poliziesche continuavano ad essere applicate con severità, erano almeno cambiate le cure; meglio, adesso lo curavano e, per quanto si trattasse di una clinica modesta, con sanitari non specialisti, e le cure fossero tardive, iniziate a uno stato già molto avanzato delle malattie, in qualche misura l'organismo parve reagire. Una volta la settimana, il giovedì, gli era permesso passeggiare nel giardino della clinica. Il dottor Cusumano giudicava ciò necessario, e il 19 dicembre il Ministero aveva dato il nulla osta. Vennero, per Natale, Tatiana e Carlo.

Il giorno di Natale - scrisse poi Carlo a Teresina - non ce lo hanno lasciato vedere e allora abbiamo fatto passare il tempo con una gita a Gaeta. Il giorno di Santo Stefano siamo stati con Nino un'ora la mattina e un paio d'ore nel pomeriggio... Nino, e questo tientelo per te, ha una lesione all'apice del polmone destro. È diventato Piccolino e magro. Martedì era di umore buono e ci ha accolto molto cordialmente. La febbre serale è discesa e la pressione arteriosa diminuita. Io ho lasciato la casa di cura non col cuore stretto come quando si lasciava il carcere, ma con una leggerezza che in fondo non è altro che speranza1.

E Tatiana: «Ora, a poco a poco, egli riprende coraggio e pertanto si può sperare in un qualche miglioramento delle sue condizioni fìsiche. Difatti le sue sofferenze viscerali sono meno gravi, egli digerisce un po' di più e con minor fatica e dolore»2. Ma neanche allora, a un anno dalla morte della mamma, ebbero la forza di dirglielo. Teresina aveva preparato e spedito il solito pacco natalizio. Il giorno di Santo Stefano, Carlo ottenne dal capitano dei carabinieri che il pacco fosse consegnato: «Nell'aprire il pacco di biscotti per la verifica da parte dei carabinieri, Nino ha detto: "Questi li ha fatti certamente mammà". Io ho risposto di sì». Tatiana commentava in una lettera del 14 gennaio 1934:

È naturale che Carlo non abbia avuto il cuore di parlare diversamente. Ma certo che questa sua ignoranza della sciagura che ha colpito la famiglia, necessaria ora che egli stesso è stato tanto grave, e che ha bisogno ancora di tanti riguardi, questa sua ignoranza è nel contempo una grave difficoltà che si presenta a noi quando si verrà costretti a dire la verità. Speriamo il più tardi possibile e sempre accompagnata di menzogne necessarie per potergli fare intendere la cosa senza che ciò debba essergli causa di qualche altra grave ricaduta per la sua salute già abbastanza scossa3.

L'8 marzo 1934, quando s'avvicinava il giorno di San Giuseppe, onomastico della signora Peppina, Gramsci ancora ne ignorava la scomparsa, avvenuta ormai quasi un anno e mezzo prima. Le scrisse:

Carissima mamma, l'anno scorso, per le gravi condizioni di salute in cui mi trovavo proprio di questi giorni, non mi fu possibile di inviarti gli auguri per il tuo onomastico. Non voglio che anche quest'anno trascorra senza ricordarti la mia grande tenerezza. Tatiana ha tenuto informata Teresina delle mie nuove condizioni di vita, che pur non essendo delle migliori, non possono certo essere paragonate a quelle di un anno fa. Non ho scritto finora perché sono stato sempre un po' scombussolato e anche perché sapevo che Tatiana, che viene a visitarmi tutte le domeniche, vi teneva informate. Non sono ancora ridiventato padrone delle mie forze fisiche e intellettuali; nell'ultimo tempo passato a Turi mi ero logorato in modo quasi catastrofico e la ripresa è molto lenta, con ricadute e oscillazioni... Ho poche informazioni delle tue condizioni di salute.

Non aveva scritto ad altri, dopo l'arrivo a Formia, e in una lettera inedita del 13 aprile, così scriveva Tatiana a Teresina: «Da novembre Nino non ha più scritto a Giulia e neppure a me, l'unica sua lettera è stata quella che egli ha indirizzato a casa sua per l'onomastico di sua povera mamma. Egli non ha, credo, la forza di scrivere e lei potrà ben immaginare quanto la cosa possa far soffrire Giulia che da oltre un anno non ha ricevuto notizie dirette da Nino».

Lo stato di salute continuava ad essere, anche nel nuovo ambiente, se non catastrofico come a Turi, certo ancora precario. Gramsci avrebbe voluto essere trasferito nella clinica per malattie nervose «Poggio Sereno» di Fiesole. Inoltrò in tal senso una domanda in aprile. Il 12 luglio 1934 fu visitato dal professor Vittorio Puccinelli, della clinica «Quisisana» di Roma. Rinnovò tre giorni dopo, il 15 luglio, l'istanza di trasferimento. Il 22 luglio scrisse a Tatiana:

Stamane mi sono deciso a scriverti perché mi sentivo più scombussolato del solito. Ora ripiglio la lettera stando a letto. Ho avuto nuovamente un lungo brivido e la temperatura è salita a 39,4. In questo momento è 38,4... Mi raccomando alla tua buona volontà per l'intervista col comm. Leto [capodivisione affari generali al ministero], che mi pare adesso ancor più indispensabile. Ti posso dire che mi pare utile spiegargli come è stata scelta la clinica di Fiesole e come si sia cercato di tener conto specialmente delle esigenze della polizia, perché io sono realista e non mi  nascondo le difficoltà né cerco giocare a moscacieca... Puoi domandare se, tardando ancora una soluzione, sia possibile per me cambiare alloggio provvisoriamente a Formia stessa. Il malessere di oggi è dovuto, in gran parte almeno, al fatto che non ho dormito: è giunta la famiglia Cusumano e sulla mia testa è un continuo va e  vieni, dalle 5 del mattino a mezzanotte. Molte assicurazioni mi sono state fatte, ma la realtà è che le mie condizioni sono morbose e ogni piccolo fruscio mi mette in orgasmo.

La pratica per il trasferimento non andava avanti. A fine estate del '34, trovandosi nelle condizioni indicate dall'articolo 176 del codice penale, Gramsci chiese, primo, la libertà provvisoria, secondo, di poter consultare un sanitario di fiducia, per eleggere il domicilio secondo le esigenze del suo stato fisico («poiché non posso fare a meno di risiedere in una clinica specializzata o accanto a una clinica specializzata»). C'era stata all'estero una intensificazione della campagna a favore di Gramsci. Nel numero di settembre «Soccorso rosso» scrisse: «In Italia Mussolini vuole assassinare Gramsci negandogli l'applicazione delle norme contenute nello stesso codice fascista. Gramsci dovrebbe essere liberato in base alle disposizioni del codice fascista». Anche uscì un opuscolo di Romain Rolland con il racconto del martirio di Gramsci. L'istanza fu accolta il 25 ottobre 1934; ma al decreto di liberazione condizionale non seguì alcun sensibile mutamento nella vita dell'infermo. Gli tolsero il carabiniere dalla camera, pur senza revocare il servizio di vigilanza esterno; le inferriate furono divelte; gli era permesso uscire dalla clinica: ma gliene mancavano le forze. Uscì, a piedi e in carrozza, solo un paio di volte, con Tatiana, il fratello Carlo e Piero Sraffa, l'amico devoto di tutti questi anni di pena. Era adesso in una condizione paradossale: formalmente «scarcerato» dal 29 ottobre 1934, ma non libero d'andare altrove per curarsi in una clinica specializzata. A Roma vi si opponevano, sospettando che in realtà Gramsci meditasse la fuga: questa intenzione gli era periodicamente attribuita. Ed ecco il 12 febbraio del '35 una nota della questura di Roma alla questura di Littoria: «Tatiana Schucht - vi si diceva - ha preso accordi con Antonio Gramsci per una evasione finanziata da antifascisti residenti a New York». L'indomani, 13 febbraio, arrivarono a Formia quattro agenti ciclisti. In questo clima, il trasferimento di Gramsci a Fiesole o comunque in un luogo meno sorvegliabile della clinica Cusumano sembrava al Governo poco prudente. Il 23 maggio del '35 ci fu il primo no del Ministero, ribadito il 13 agosto dopo due altri esposti di Gramsci. Così la liberazione condizionale accordata nell'ottobre del '34 finiva per mutare di poco o di nulla il regime di vita del «beneficiario»: che intanto continuava a studiare e a scrivere.

È certo al limite dell'umano la forza di volontà di questo uomo che, malgrado le sofferenze lancinanti, non si abbandonava alla corrente, e alla catastrofe del corpo reagiva senza disperazione, rifugiandosi in quel che di integro era rimasto in lui, il vigore intellettuale, e continuava a studiare ed a scrivere. Appartengono al periodo di Formia (1934-35) cinque quaderni iniziati a Turi e gli undici scritti interamente nella clinica Cusumano. Gramsci rielaborava e trascriveva, mettendole in un certo ordine, le note dei quaderni precedenti. Cominciava a vedersi ora, non più soltanto la grande serie di materiali, ma l'intera equilibrata costruzione del pensiero gramsciano. E tuttavia la probità intellettuale spingeva Gramsci a scrivere sul frontespizio del quaderno 18 (dov'erano in gran parte rifuse le note del quaderno 28):

Le note contenute in questo quaderno, come negli altri, sono state scritte a penna corrente per segnare un rapido pro-memoria. Esse sono tutte da rivedere e controllare minutamente perché contengono certamente inesattezze, falsi accostamenti, anacronismi. Scritte senza aver presenti i libri cui si accenna, è possibile che dopo il controllo debbano essere radicalmente corrette perché proprio il contrario di ciò che è scritto risulti vero.

Il quaderno 18 contiene il saggio sul Manuale popolare di sociologia marxista di Bukharin, studi sugli «strumenti logici del pensiero», sulla «traducibilità dei linguaggi scientifici» e sui vari problemi di filosofia e ancora note su Antonio Labriola, Alessandro Levi, Alessandro Chiappelli, Luciano Herr, Giovanni Gentile, Antonio Rosmini, Antonio Lovecchio, Ettore Ciccotti, Giuseppe Rensi, Corrado Barbagallo, Georges Sorel, Pierre Joseph Proudhon, Henri De Man, G. A. Borgese. Nel quaderno 29 (soltanto 24 pagine scritte) sono rielaborate alcune vecchie note sulla storia degli intellettuali e sull'organizzazione della scuola e della cultura. Il quaderno 30, intitolato da Gramsci Noterelle sulla politica di Machiavelli, comprende studi sui partiti, sull'analisi delle situazioni e dei rapporti di forza, sull'economismo, sul cesarismo, sull'egemonia politico-culturale, sul volontarismo e le  masse sociali. L'insieme di note sulla filosofia di Benedetto Croce sono trascritte nel quaderno III (gli ha dato il numero romano Gramsci). Due sole pagine, l'inizio della traduzione di una favola dei fratelli Grimm ripresa da un quaderno precedente, sono scritte nel quaderno 31. Questi i cinque quaderni cominciati a Turi e proseguiti a Formia. Gramsci però non si limitava ad una seconda stesura delle vecchie note ed a raggrupparle omogeneamente per argomento. I quaderni di Formia contengono molti studi nuovi. Spiccano il 6 (su problemi di critica letteraria) ed il 10 (Note sul Risorgimento). Infine la scrittura si fece saltellante, tradiva l'esaurimento delle energie fisiche; e nell'estate del '35 Gramsci interruppe il suo lavoro senza poter più rivedere e sistemare in un quadro organico una parte delle note.

Dieci mesi dopo l'accoglimento della sua istanza di liberazione condizionale, potè trasferirsi in un'altra clinica. Lasciò Formia il 24 agosto 1935, diretto alla clinica «Quisisana» di Roma.

Note

1 La lettera è inedita

CAPITOLO TRENTESIMO

Fu visitato dal professor Frugoni il 26 agosto. Era in condizioni disperate: morbo di Pott, tbc polmonare, ipertensione a 200, crisi anginoidi e crisi di gotta. Eppure lottò ancora.

Pensava a Giulia. Riprese a scriverle1. Le propose il 14 dicembre di venire in Italia:

Io credo che tu faresti una cosa magnifica venendo in Italia, da tutti i punti di vista. Per la salute, che forse si ristabilirebbe in modo definitivo, e per me, che ho bisogno di  sentirti vicina, di riannodare profondamente i vincoli che sempre ci hanno unito ma che da troppi anni sono diventati qualcosa di etereo e di astratto. Cara, io ti ho sempre aspettato, e tu sei  stata sempre uno degli  elementi essenziali della mia vita, anche quando non avevo nessuna tua notizia precisa o ricevevo da te lettere rare e senza sostanza vitale e anche quando io non ti scrivevo perché non  sapevo cosa scriverti, perché mi pareva che tu non volessi darmi nessun punto di presa e di contatto. Credo che sia giunto il momento di porre termine a questa condizione di cose e ciò può essere fatto se tu vieni da me, perché io non posso muovermi. Sono certo molto logorato e mi pare difficile poter riprendere le mie forze di una volta: tuttavia credo che tu puoi fare molto per me e credo che anch'io posso fare qualcosa per te, non molto, ma qualcosa... Cara, io metto in ciò che ti scrivo tutta la mia tenerezza, anche se essa non appare dalle parole scritte. Del resto, tu ricordi che nel 1923 io non ero molto eloquente e tuttavia so che tu sentivi tutta la profondità dei miei sentimenti per te, che non sono cambiati per nulla, o certo si sono rafforzati e diventati più sereni perché ci sono, assieme a noi, i due nostri ragazzi.

A lungo insiste: «Dopo tanto tempo, dopo tanti avvenimenti, che in gran parte mi sono sfuggiti nel loro significato più reale, dopo tanti anni di vita meschina, compressa, fasciata di buio e di miserie grette, poter parlare con te da amico ad amico, mi sarebbe molto utile... Ebbene, sono proprio persuaso che da ogni punto di vista un tuo viaggio avrebbe conseguenze ottime per entrambi» (25 gennaio 1936). Giulia non venne. Antonio si spegneva lentamente.

Il suo cuore - sappiamo da una lettera inedita di Tatiana del 18 aprile 1936 - è molto indebolito, e benché sotto qualche aspetto le sue condizioni fisiche sembrino migliorate, in realtà è ben lungi da essere così. Anzi temo che Nino sia diventato un invalido. Ha sofferto troppo in questi anni e attualmente il suo organismo troppo logorato non riesce assolutamente a vincere lo stato di esaurimento fisico in cui è caduto. E poi, troppi organi vitali del suo corpo sono ridotti a funzionare a stento.

Sembrava, o forse era veramente, distaccato da tutto. Non risulta una sua presa di contatto con Togliatti o con altri dirigenti o quadri del partito. Nella clinica «Quisisana» era relativamente libero, a parte la sorveglianza esterna. Volendolo, avrebbe potuto riannodarsi, per il tramite dei familiari che lo visitavano, ad elementi del partito: un biglietto, poche righe. Non c'è traccia di simili iniziative.

Ora Gramsci si rivolgeva soltanto a Giulia, ai figli lontani. Non conosceva Giuliano, se non per fotografia. Delio aveva adesso, nel '36, dodici anni. Tra loro si intrecciavano a distanza colloqui di tenerezza infinita:

Caro Delio, [...] ti ringrazio di aver abbracciato forte forte la mamma per parte mia: penso che devi farlo ogni giorno, ogni mattino. Io penso sempre a voi; così immaginerò ogni mattino: ecco che i miei figli e Giulia pensano a me in questo momento. Tu sei il fratello maggiore, ma devi dirlo anche a Julik: così ogni giorno avrete i «cinque minuti col babbo». Cosa ne pensi?2

Le energie si affievolivano. Un po' lo teneva su la prospettiva del vicino ritorno alla libertà. La pena sarebbe scaduta il 21 aprile 1937. Pensava di tornarsene in Sardegna, per vivere in assoluto isolamento. Lo scrisse a casa. Come il padre seppe di questo disegno, gli salì la febbre, per l'emozione.

Era malato, vecchio, settantasette anni. Non vedeva Nino dal '24. Anche gli altri figli erano fuori casa, lontani: Gennaro a Bilbao, arruolato nella milizia repubblicana spagnola per la lotta a Franco; Mario ufficiale in Africa, dove s'era fermato dopo aver combattuto la guerra d'Abissinia; e Carlo a Milano. Si spegneva con i figli sparsi nel mondo. Ed ecco, a rianimarlo, la notizia del ritorno di Nino.

È Mea Gramsci a ricordare quei momenti:

Quando  stava  per  spirare  la  pena - racconta - zio Nino scrisse a noi. Voleva che gli cercassimo una camera a  Santulus-surgiu. C'era stato da studente, e il clima gli si confaceva. Siamo andate io, Teresina e un'amica, Peppina Montaldo. Abbiamo   trovato la camera, era una bella camera. Così aspettavamo di giorno in giorno che zio Nino arrivasse. Nonno, in quel periodo, stava molto male. Sembrava però sollevato, all'idea del ritorno del figlio. Zio Nino doveva arrivare il 27 aprile, aspettavamo di ora in ora. Finisce il giorno, e nulla. Eravamo delusi. Nonno aveva tanto sperato che quel giorno il figlio arrivasse. Sarà per l'indomani, pensiamo. Sennonché l'indomani entra a casa una donna e chiede: «Ma è vero che Nino è morto?». Noi rimaniamo di pietra. «Lo ha detto la radio, l'ho sentito alla radio», dice la donna. Poi è cominciata ad affluire la gente, tutti venivano a farci le condoglianze. Nonno stava male e nessunoaveva il coraggio di dirglielo, e quindi era necessario che uno rimanesse in camera sua, proprio vicino all'ingresso, per evitare che qualcuno entrasse e gli dicesse la verità. In camera con nonno in genere rimanevo io, che ero ragazzina, avevo diciassette anni. A un dato momento, non so come, io sono mancata. Ero in cucina, sento grida, accorriamo, era nonno che gridava: «Assassini, me l'hannoammazzato». Questo lo ricordo precisamente. Diceva: «Me l'hanno ammazzato». E si tirava i capelli, si tirava la barba, si picchiava... Non so, era una scena impressionante, sa...

Nino era morto alle 4,10 del 27 aprile; aveva quarantasei anni. Gli fecero il funerale l'indomani pomeriggio, sotto il temporale. Seguiva il feretro soltanto una carrozza, con Tatiana e Carlo dentro.

Francesco Gramsci morì appena due settimane dopo, il 16 maggio 1937. Tante volte, prima d'andarsene, aveva riletto le parole scritte da Nino alla mamma il 10 maggio 1928, alla vigilia del processo:

Vorrei, per essere proprio tranquillo, che tu non ti spaventassioò ti turbassi troppo qualunque condanna siano per darmi. Che tu comprendessi bene, anche col sentiménto, che io sono un detenuto politico e sarò un condannato politico, che non ho e non avrò mai da vergognarmi di questa situazione. Che, in fondo, la detenzione e la condanna le ho volute io stesso, in certo modo, perché non ho mai voluto mutare le mie opinioni, per le quali sarei disposto a dare la vita e non solo a stare in prigione. Che perciò io non posso che essere tranquillo e contento di me stesso. Cara mamma, vorrei proprio abbracciarti stretta stretta perché sentissi quanto ti voglio bene e come vorrei consolarti di questo dispiacere che ti ho dato: ma non potevo fare diversamente. La vita è così, molto dura, e i figli qualche volta devono dare dei grandi dolori alle loro mamme, se vogliono conservare il loro onore e la loro dignità di uomini.

Note

1 Lettera del 25 novembre 1935: «Sono più tranquillo  da  quando ho  ripreso a  scriverti».

2 Dicembre 1936.

Avvertenza. Mentre questo volume era in preparazione sono state pubblicate, su «l'Unità» del 23.1.1966, quattro lettere di Gramsci, due delle quali - una del periodo cagliaritano (qui a p. 75), l'altra del periodo degli studi universitari a Torino (qui a p. 105) - erano presentate come pubblicate per la prima volta.

 

Nota bibliografica

1. Opere di Gramsci

1.1. Lettere.

Una prima raccolta di 218 lettere dal carcere venne pubblicata dall'editore Giulio Einaudi nel 1947. Non erano tutte integrali. I tagli discendevano da tre ordini di considerazioni: 1°, per il gruppo di lettere dal confino di Ustica, il calcolo politico, oggi severamente giudicato, di nascondere la cordialità dei rapporti fra Gramsci e Bordiga; 2°, escludere i riferimenti privati che i familiari di Gramsci ancora in vita potevano desiderare di non pubblica conoscenza; 3°, ridurre ogni lettera alle sue linee essenziali, con la soppressione di aspetti marginali. Malgrado l'incompletezza della raccolta e i tagli, il ritratto intellettuale e morale di Gramsci emergeva abbastanza netto, ed ancora oggi quell'edizione può essere letta da chi voglia un primo vigoroso abbozzo del personaggio. - Una scelta di queste lettere apparve, per gli Editori riuniti, nel 1961. Vi era premesso il notevole discorso pronunziato da Luigi Russo nell'aula magna della Scuola Normale Superiore di Pisa il 27 aprile 1947, dieci anni dopo la scomparsa di Gramsci. - Altre lettere, messe via via a disposizione dai familiari o da altri corrispondenti, sono uscite in giornali e riviste. Le hanno raccolte, insieme ad una parte di quelle edite da Einaudi e ad altre inedite, Giansiro Ferrata e Niccolò Gallo per le edizioni del Saggiatore (secondo volume dell'antologia 2000 pagine di Gramsci). Il volume, apparso nel 1964, comprende 64 lettere del periodo 1912-1926 e 268 lettere dal carcere. È rilevante il lavoro di annotazione dei due curatori. - Infine una raccolta completa di lettere dal carcere è uscita nella Nuova Universale Einaudi a cura di Sergio Caprioglio e di Elsa Fubini (1965). Sono 428 lettere in gran parte riscontrate sugli originali. I curatori vi hanno premesso notizie sui corrispondenti (ma non tutto ciò che riguarda la famiglia Schucht è completamente esatto) ed una molto puntuale cronologia dove sono schematicamente riferite le svolte e i fatti salienti della vita di Gramsci. Conclude l'opera l'indice dei libri e dei periodici citati nelle lettere. Eccellente è il lavoro di annotazione, con molti contributi originali alla conoscenza di Gramsci.

La produzione gramsciana può essere distinta in due grandi periodi: gli articoli ed i saggi usciti in giornali e riviste dal 1914 al 1926; i Quaderni del carcere.

1.2. Scritti del periodo 1914-1926.

L'editore Einaudi ha pubblicato finora gli articoli usciti in «Il Grido del Popolo», in «La Città futura» e nell'«Avanti!» dal 1914 al '18 (Scritti giovanili, 1958); una raccolta della rubrica Sotto la Mole, che appariva quotidiana sull'«Avanti!» (Sotto la Mole, 1960); gli scritti dell'«Ordine nuovo» settimanale (L'Ordine nuovo, 1919-1920,  1954). Ancora da Einaudi è uscita nel 1963 una antologia dell'«Ordine nuovo» settimanale, curata da Paolo Spriano, autore di un esemplare saggio introduttivo (ripubblicato dagli Editori  riuniti nel 1965 col titolo Gramsci e L'Ordine nuovo). Scritti del periodo precedente l'arresto appaiono in 2000 pagine cit. Ferrata e Gallo vi hanno ordinato, oltre ad una scelta di testi già pubblicati nelle edizioni einaudiane, articoli del periodo 1921-26, tolti da «L'Ordine nuovo» quotidiano, da «L'Ordine nuovo» quindicinale, da «Stato operaio» e da «l'Unità». L'antologia del  Saggiatore comprende anche l'intervento di Gramsci alla Camera dei deputati del 16 maggio 1925, la lettera al PCUS dell'ottobre '26 ed il saggio incompiuto Alcuni temi della quistione meridionale, pubblicato per la prima volta a Parigi nel gennaio del 1930 su «Stato operaio». 2000 pagine (che d'ora in avanti indicheremo D) è aperto da una lucida prefazione di Ferrata, che si amplia e continua' a svolgersi nelle successive premesse ai diversi gruppi di scritti gramsciani. - Elsa Fubini cura attualmente l'edizione degli scritti  1921-22 e  1923-26.

1.3. Quaderni.

Le 2.848 pagine di trentadue quaderni che Gramsci riempì, negli anni del carcere, di note e di appunti sono la grande eredità lasciata alle nuove generazioni. «Le 2.848 pagine dell'originale - ha scritto il primo ordinatore dei Quaderni, Felice Platone, in «Rinascita» dell'aprile 1946 - corrispondono a circa quattromila pagine dattilografate. Appena entrata in possesso dei quaderni, Tatiana Schucht provvide a numerarli applicando a ognuno di essi un'etichetta sulla copertina e una sul dorso, ma nella numerazione non tenne alcun conto dell'ordine in cui i quaderni erano stati scritti (così il quaderno scritto per primo e iniziato l'8 febbraio 1929 porta il numero 16); uno dei quaderni, contrassegnato da Gramsci con la cifra III e intitolato La filosofia di Benedetto Croce, per motivi che ignoriamo, non è stato numerato come gli altri. Ventuno quaderni sono stati scritti (o almeno iniziati) nel carcere di Turi di Bari e recano su ogni foglio il timbro della Casa Penale; ogni foglio è numerato a cura della Direzione del carcere e la copertina o la prima pagina recano la scritta: "Il presente quaderno contiene fogli numerati dall'uno al... appartenente alla M.la 7047 Gramsci Antonio". Qualche volta questa scritta è sostituita dalla semplice dicitura: "M.la 7047 fogli..." seguita dalla firma del direttore del carcere. Gli altri undici quaderni, e precisamente il 3, il 5, il 6, il 10, l'il, il 12, il 17, il 31, il 23, il 25 e il 27 secondo la numerazione di Tatiana Schucht, non sono timbrati e non recano nessun'altra indicazione della Casa Penale: sono quindi stati scritti negli anni 1934-35 dopo il trasferimento di Gramsci alla clinica di Formia. Nel 1935, Gramsci interruppe, e per sempre, il lavoro: la sua lucidità e il suo vigore intellettuale erano rimasti intatti come attestano coloro che poterono intrattenersi con lui in quegli ultimi mesi della sua vita; ma le sue energie fisiche erano esaurite.»

Il lavoro di datazione delle note presenta difficoltà notevoli. L'edizione Einaudi le pubblica in sei volumi in questo ordine: Il materialismo storico e la filosofia di Benedetto Croce, 1948; Gli intellettuali e l'organizzazione della cultura, 1949; Il Risorgimento, 1949; Note sul Machiavelli, sulla politica e sullo Stato moderno, 1949; Letteratura e vita nazionale, 1950 (comprende anche le cronache teatrali apparse sull'«Avanti!» dal 1916 al 1920); e Passato e presente, 1951. Nei sei volumi einaudiani sono organicamente raggruppati temi svolti in quaderni diversi, anche a distanza d'anni. Un'antologia di scritti gramsciani (articoli, lettere, note del carcere) è uscita per gli Editori riuniti nel 1963 a cura di Carlo Salinari e Mario Spinella. Col titolo Elementi di politica è anche uscita nel 1964, sempre per gli Editori riuniti, una raccolta curata da Mario Spinella.

Vasta è la letteratura critica sul pensiero di Gramsci. In mancanza di una bibliografia generale  [ma cfr. le Note bibliografiche di G. Carbone in «Società», 1, marzo 1951, pp. 156-58, parzialmente integrate e aggiornate da Carlo Leopoldo Ottino nella Bibliografia aggiunta a Concetti fondamentali nella teoria politica di A. G., Milano 1956; per il periodo 1921-1926, Stefano Merli, Il Partito comunista italiano (1921-1926) (rassegna bibliografica), in «Annali» dell'Istituto Giangiacomo Feltrinelli, III, 1960, pp. 656-738; cfr. anche le Note bibliografiche  aggiornate e ragionate aggiunte dal Romano ad Antonio Gramsci, Torino 1965, e i brevi cenni, a cura di  S. Caprioglio, alle pp. XLVII-XLVIII di Lettere dal carcere, Torino 1965], ci limiteremo a segnalare i volumi monografici di Nicola Matteucci, A. G. e la filosofia della prassi, Milano 1951, di C. L. Ottino, Concetti fondamentali cit., e i due  volumi di saggi Studi gramsciani, Roma 1958 e La città futura, Milano 1959, oltre alla interpretazione di G. Tamburrano, Antonio Gramsci. La  vita, il pensiero, l'azione, Lacaita, Manduria   1963.

2. Biografie di Gramsci 2.1. Biografie generali.

Il primo tentativo biografico è di Lucio Lombardo-Radice e Giuseppe Carbone, Vita di Antonio Gramsci, Edizioni di Cultura Sociale, Roma  1952. Le successive ricerche hanno messo in  evidenza i molti limiti dell'opera, del resto avvertiti in prefazione dagli stessi autori. - Di Giuseppe Tamburrano è Antonio Gramsci cit.Il profilo biograficoè schematico; qualche giudizio ha dato spunto a discussioni talvolta non serene. Nell'ampia monografia di Salvatore Francesco Romano, Antonio Gramsci cit.,  non  si rivelano contributi nuovi; ma i capitoli  sugli  anni torinesi  sono  esaurienti. - Due  notevoli  ricerche  ha  compiuto Domenico Zucaro per gli anni dell'Università e per quelli del carcere  (Antonio Gramsci all'Università di Torino  1911-1915, in «Società», dicembre 1957; e Vita del carcere di Antonio Gramsci, Edizioni  Avanti!, Milano-Roma 1954). I due saggi contengono notizie originali e precisazioni molto utili.

2.2. L'infanzia.

Sulla situazione politica in Sardegna al tempo dell'arresto di Francesco Gramsci: Camillo Bellieni, La lotta politica in Sardegna dal 1848 ai giorni nostri, in La Sardegna nel Risorgimento, antologia di saggi storici, Sassari 1962; Francesco Pais Serra, Relazione dell'inchiesta sulle condizioni economiche e della sicurezza pubblica in Sardegna, tip. Camera dei deputati, Roma 1896 (riprodotta in parte nella Antologia storica della questione sarda, a cura di Lorenzo Del Piano con prefazione di Luigi Bulferetti, Padova 1959); Alfredo Niceforo, Delinquenza in Sardegna, con prefazione di Enrico Ferri, ed. Sandron, Palermo 1897.

Su Ghilarza dalla metà dell'Ottocento a fine secolo: G. Casa-lis, Dizionario geografico-storico-statistico-commerciale degli Stati di S. M. il Re di Sardegna, Torino 1833-1856, s. v. Ghilarza, curata da Vittorio Angius; Michele Licheri, Ghilarza, Gailizzi, Sassari  1900.

Su Gramsci bambino: Maria Cutrì, Nella casa di Ghilarza, in «l'Unità» del 27 aprile 1947.

Sulla crisi economica, sul banditismo e sui fermenti sociali nell'isola tra la fine del secolo ed i primi del Novecento: Francesco Pais Serra, Relazione cit. (i dati sul banditismo sono ripresi da Lorenzo Del Piano in La Sardegna nell'età contemporanea, Gailizzi, Sassari 1964, di utile consultazione); Sebastiano Satta, Intervista coi banditi Derosas, Delogu e Angius (in collaborazione con Gastone Chiesi), Gailizzi, Sassari 1894: ristampato dal Nuraghe nel 1925 con prefazione di Vincenzo Soro; Enrico Costa, Giovanni Tolu. Storia di un bandito sardo narrata da lui medesimo, preceduta da cenni storici sui banditi del Logudoro, Dessi, Sassari 1897; Carlino Sole, Felice Cavallotti e la Sardegna, in La Sardegna nel Risorgimento cit.; Camillo Bellieni, Attilio Deffenu e il socialismo in Sardegna, Il Nuraghe, Cagliari 1925; Mario Ciusa Romagna, prefazione ai Canti di Sebastiano Satta, Mondadori, Milano 1955; Luigi Nieddu, Primi appunti per una storia del socialismo in Sardegna, in «Ichnusa», a. IV, nn. 13 sgg.; Alberto Bossolo, Lo sciopero di Bugerru del 1904, in «Movimento operaio», a. VI, maggio-giugno 1954; Angelo Corsi, L'azione socialista tra i minatori della Sardegna. 1898-1922, Comunità, Milano 1959 (è un'opera fondamentale per lo studio del movimento operaio nell'isola; utilissimo perché vi sono raccolti documenti di straordinario interesse). La testimonianza di Togliatti sulla proposta di Gramsci d'un saggio che approfondisce il rapporto banditismo-dazi doganali è in Gramsci sardo, numero speciale del «Ponte» dedicato alla Sardegna, a. VII, n. 9-10, settembre-ottobre 1951. Il giudizio di Gramsci sulla psicologia dei contadini è nell'articolo Operai e contadini, apparso su «L'Ordine nuovo» del 2 agosto 1919 (ora nella raccolta einaudiana e nell'antologia curata da Salinari e Spinella). La testimonianza di Velio Spano sulla distinzione fatta da Gramsci fra l'operaio della Fiat e l'operaio della Montevecchio è in Gramsci, raccolta di scritti pubblicati in Francia tra il 1937 ed il '38 (testi di Togliatti, Amoretti, Ceresa, Farina, Grieco, Mario e Rita Montagnana, Negarville, Parodi, Platone e Spano) e riediti nel 1945 a Roma dalla Società Editrice L'Unità.

2.3. La prima giovinezza.

Il  clima  politico  in  Sardegna  durante  gli  studi  ginnasiali  e liceali di Gramsci, le sommosse: Ottone Bacaredda, L'Ottanta-nove cagliaritano, Valdès, Cagliari 1909; Alberto Boscolo, I moti del 1906 in Sardegna (uno studio notevole anche per ricchezza d'informazione), in «Studi Sardi», a. VIII, fase. I-III, 1948; l'opera di Angelo Corsi cit.; Michelangelo Pira, Salvemini e il Partito Sardo d'Azione, in «Rinascita Sarda», a  I, n. 4, 15 ottobre 1957. Spunti rilevanti contiene il saggio di Renzo Laconi, Note per  una  indagine gramsciana, in «Rinascita Sarda»,  a.  I, n.  2, 15 giugno  1957.  Il giudizio  di  Gramsci  su Umberto Cao è riferito da Velio Spano in Gramsci cit. - Inesistente è la letteratura  sulle vicende politiche in Sardegna  dal  1908 al  1911, gli anni liceali di Gramsci. Ho ricostruito lo sfondo politico di quegli anni a  Cagliari e nell'isola sulle collezioni dell'«Unione Sarda», della  «Nuova  Sardegna», del «Paese» e della «Voce  del Popolo». - Di  utile  consultazione il breve  saggio  di A.  Cajati, Gli anni liceali di Gramsci, in «Annali del Liceo classico Dèttori di Cagliari», 1963, Il tema Oppressi e oppressori è pubblicato in D.

2.4. All'Università di Torino.

Le correnti di pensiero, i professori, i compagni: Palmiro Togliatti, Gramsci, Parenti, Firenze 1955 (specialmente il capitolo terzo Pensatore e uomo d'azione, testo del discorso pronunziato all'Università di Torino il 23 aprile 1949), e ancora di Togliatti, Gramsci sardo, in «Il Ponte», cit.; Domenico Zucaro, Antonio Gramsci all'Università cit.; Angelo Tasca, I primi dieci anni del Partito comunista italiano, in «Il Mondo», 18 agosto 1953 e seguenti (cinque puntate); l'ottimo saggio di Paolo Spriano, Torino operaia nella grande guerra (1914-1918), Torino 1960 (contributo notevole alla conoscenza di quegli anni); Marcella e Maurizio Ferrara, Conversando con Togliatti, Roma 1953; Annibale Pastore, Gramsci tra i miei discepoli, nell'«Avanti!» del 25 febbraio 1951, e Eccezionale studente, nell'«Avanti!» del 3 gennaio 1962 (una dichiarazione di Pastore è raccolta da Zucàro nel saggio più  volte citato).  Un interessante profilo di Umberto Cosmo, Un professore antifascista, è stato scritto da Franco Antonicelli in Trentanni di storia italiana, Torino 1961. Del Cosmo appare una lettera in nota a Lettere dal carcere, NUE, Torino 1965. Il Battoli è ricordato da Gramsci in molte lettere e in più note dal carcere raccolte in Letteratura e vita nazionale (pp. 202, 206, 207, 211).

Il socialsardismo di Gramsci è testimoniato da Togliatti in Gramsci sardo, cit. e nel Gramsci, cit. (specialmente il capitolo Gramsci, la Sardegna, l'Italia). L'appello dell'Internazionale contadina al V congresso del Partito sardo d'azione a Macomer fu pubblicato su «l'Unità» di Milano, numero sequestrato, e «quasi inedito» su «Stato operaio», aprile 1927: è riapparso in «Rinascita Sarda» del 15 giugno 1957. La polemica gramsciana a proposito del Mezzogiorno «palla di piombo» è nel saggio sulla questione meridionale, ripubblicato in D.

2.5. Le prime esperienze politiche.

Per i grandi scioperi degli operai dell'automobile: Paolo Spriano, Socialismo e classe operaia a Torino dal 1892 al 1913, Torino 1958.

Sulla battaglia antiprotezionista in Sardegna: Camillo Bellieni, Attilio Deffenu cit.; Lorenzo Del Piano, Attilio Deffenu e la rivista «Sardegna», Sassari 1963; Michele Saba, Antonio Gramsci e Attilio Deffenu, in «Riscossa», a. II, n. 17, 23 aprile 1945.

Ho ricostruito le prime elezioni a suffragio allargato in Sardegna sui quotidiani «L'Unione Sarda» e «La nuova Sardegna» e sul settimanale socialista «Il Risveglio dell'Isola». L'accenno di Gramsci all'attesa mitica delle elezioni è in Il Risorgimento, p. 113. La testimonianza di Tasca sulla reazione di Gramsci alle elezioni del 1913 è in I primi dieci anni del Partito comunista italiano, cit. Qui anche le notizie sul movimento giovanile socialista  a Torino.

Il ritratto che Gobetti scrive di Gramsci è in Rivoluzione liberale, Bologna 1924 (ripubblicato da Einaudi nel 1964 con un saggio  introduttivo  di  Gaspare De Caro).

Sull'esigenza di sprovincializzazione Gramsci ha scritto la nota che apre Passato e presente, cit.

L'episodio della proposta candidatura di Salvemini è riferito da Gramsci nel saggio sulla questione meridionale. Salvemini è intervenuto con chiarimenti e correzioni nella prefazione a Scritti sulla questione meridionale, Torino 1955 (comprende anche una lettera di Tasca: la testimonianza salveminiana è ripresa nella raccolta di scritti del Salvemini Movimento socialista e questione meridionale,  a cura di Gaetano Arfè, Milano  1963). Una lettera di Ottavio Pastore è pubblicata da Spriano in Torino operaia cit. Si veda a questo proposito, anche Tasca, I primi dieci anni cit. A proposito del dibattito all'interno del PSI alla vigilia della guerra, fondamentale è il saggio di Leo Valiani, Il Partito socialista italiano nel periodo dalla neutralità all'intervento, Milano 1963. Poi Renzo De Felice, Mussolini il rivoluzionario, Torino 1965. La testimonianza di Montagnana sul «mussolinismo» dei giovani rivoluzionari è in Ricordi di un operaio torinese, Roma 1949. Di utile consultazione Enzo Santarelli, Socialismo rivoluzionario e «mussolinismo» alla vigilia del primo conflitto europeo, in «Rivista storica del socialismo», maggio-dicembre 1961. Per la posizione di Gramsci: A. Tasca, I primi dieci anni cit.; P. Spriano, Torino operaia cit.; Aldo Romano, Antonio Gramsci tra la guerra e la rivoluzione, in «Rivista storica del socialismo», ottobre-dicembre 1958; Marcella e Maurizio Ferrara, Conversando con Togliatti, cit.

L'accenno di Gramsci alle ripetizioni procurate da Cosmo è in Franche parole ad un borghese, uscito sull'«Avanti!» piemontese il 5 novembre 1920 (ora anche in D).

La testimonianza di Annibale Pastore è nello studio di Zucàro, Antonio Gramsci all'Università cit. Marcella e Maurizio Ferrara fanno risalire agli anni dell'università l'interesse di Gramsci per Antonio Labriola. L'affermazione sembra contestabile. In tutti gli scritti giovanili di Gramsci, Labriola è citato una sola volta, nel 1918 (ora a pag. 163 degli Scritti giovanili). - Sulla formazione di Gramsci eccellente è il saggio di Gastone Manacorda in Studi gramsciani, atti del Convegno tenuto a Roma nei giorni 11-13 gennaio1958, Editori riuniti, Roma.

I moti del 17 maggio 1955: P.Spriano, Torino operaia cit

2.6. Il giornalista.

Piero Gobetti, Storia dei comunisti torinesi scritta da un liberale, in «La Rivoluzione liberale» del 2 aprile 1922 (ora in Scritti politici, Einaudi 1960); P. Spriano, Torino operaia cit.; G. Trevisani, Gramsci e il teatro italiano, in Studi gramsciani, cit.

Per le conferenze: P. Spriano, Torino operaia cit.; Rita Montagnana, La sua grandezza e la sua semplicità, in Gramsci, cit.

L'episodio ricordato da Battista Santhià è in Con Gramsci all'Ordine  nuovo», Roma 1956.

Del numero unico «La Città futura» l'editore Andrea Vi-glongo ha stampato nel 1952 un numero limitato di riproduzioni fotografiche. Il richiamo di Gramsci al suo scritto giovanile è in una nota del carcere raccolta in Materialismo storico e la filosofia di Benedetto Croce, pag.  199.

Sulla vicende culminate nei moti dell'agosto 1917, oltre al volume di Spriano, Torino operaia cit., v.: Ezio Avidgor, Il movimento operaio torinese durante la prima guerra mondiale, in La città futura, Milano  1959.

Sul «Club di vita morale»: la lettera di Gramsci a Giuseppe Lombardo Radice è in «Rinascita», 7 marzo 1964; altre notizie dà Spriano nel numero di «Rinascita» del 28 marzo 1964.

A proposito di Aron Wizner, il compagno polacco traduttore: Sergio Caprioglio, Un compagno polacco citato da Gramsci, in «Rinascita», 13 marzo 1965.

Il giudizio di Gobetti su «Il Grido» è in La Rivoluzione liberale, cit.

2.7. Primo dopoguerra

Il ricordo di quando Velio Spano sentì per la prima volta il nome di Gramsci è in Gramsci, cit.

Su Gramsci e Lenin: P. Togliatti, Gramsci e il leninismo, in Studi gramsciani, cit.; poi, Carlo Cicerchia, Rapporto col leninismo e il problema della rivoluzione italiana, in La città futura, cit.

Il polemico giudizio di Gramsci sui primi numeri de «L'Ordine nuovo» è in Programma dell'Ordine nuovo, uscito in due puntate sull'ON il 14 ed il 28 agosto 1920.

Per «L'Ordine nuovo»: di consultazione indispensabile è l'esemplare saggio di Spriano che introduce a una scelta antologica, nella collana einaudiana «La cultura italiana del '900 attraverso le riviste». Poi ancora la Storia dei comunisti torinesi e La rivoluzione liberale di Gobetti; A. Tasca, I primi dieci anni cit.; Umberto Calosso, Gramsci e «L'Ordine nuovo», in «Quaderni di Giustizia e Libertà», agosto 1933; Felice Platone, Antonio Gramsci e «L'Ordine nuovo», in  Gramsci, cit.

M. Montagnana racconta l'episodio di Gramsci tra gli agenti di custodia in Ricordi di un operaio torinese, cit.

Per il congresso socialista di Bologna dell'ottobre 1919: Franco Pedone, Il Partito socialista italiano nei suoi congressi, Milano  1963.

Sul movimento dei consigli di fabbrica: P. Spriano, Torino operaia cit.; Id., il saggio introduttivo alla raccolta   antologica «L'Ordine nuovo»; Id., L'occupazione delle fabbriche. Settembre 1920, Torino 1964; Umberto Terracini, Gramsci e i consigli di fabbrica, in «Calendario del Popolo», febbraio 1955; B. Santhià, Con Gramsci all'Ordine nuovo, cit.; P. Togliatti, Gramsci, capo della classe operaia italiana, in Gramsci, cit.; Gaetano Arfè, Storia dell'Avanti!, Milano-Roma 1956; M. Montagnana, Ricordi di un operaio torinese, cit.; Marcella e Maurizio Ferrara, op. cit.

Il giudizio di Lenin sul programma dell'«Ordine nuovo» è in Sul movimento operaio italiano, Roma 1962.

La lettera a Zino Zini è in «Rinascita», 25 aprile '64.

2.8.  La scissione di Livorno.

Le citazioni di Lenin e di Serrati sono tolte dal Sul movimento  operaio italiano, cit.

Per il gruppo di educazione comunista: B. Santhià, Con Gramsci cit.; Franco Ferri, La situazione interna della sezione socialista torinese nell'estate del 1920, in «Rinascita», aprile 1958.

Per la disputa Gramsci-Bordiga-Serrati: Alberto Caracciolo, Serrati, Bordiga e la polemica gramsciana contro il «blanquismo» o settarismo di partito, in La città futura, cit.; Giansiro Ferrata, Saggio introduttivo alle 2000 pagine cit., P. Spriano, Saggio introduttivo all'antologia dell'ON, P. Togliatti, Saggio introduttivo a La formazione del gruppo dirigente del Partito comunista italiano, Roma 1962; G. Arfè, Storia dell'Avanti!, cit. Il discorso di Gramsci sulle «allucinazioni particolaristiche» è in Due rivoluzioni, ON, 3 luglio 1920.

La visita di Gramsci alla SPA è raccontata da Santhià in Con Gramsci cit.

La testimonianza di Tasca sulla mancata candidatura di Gramsci è in I primi dieci anni cit.

Sulle giornate di Livorno: F. Pedone, Il Partito socialista italiano nei suoi congressi cit.; Ottavio Pastore, Il congresso di Livorno nei ricordi di un giornalista, in «l'Unità», 21 gennaio 1949.

La resistenza all'inclusione di Gramsci nel primo comitato centrale del PCd'I è testimoniata da Togliatti nel citato Saggio introduttivo a La formazione del gruppo dirigente cit. Qui, a p. 102, il giudizio di Gramsci sul «distacco della maggioranza del proletariato italiano dalla Internazionale comunista».

2.9.  Gramsci, Bordiga, l'Internazionale.

Il rimprovero di Togliatti è in La formazione cit., p. 213. Il  commento di Lenin al Congresso di Livorno è in Sul movimento cit. p 223. Il discorso di Gramsci sullo stato di necessità è in Contro il pessimismo, «L'Ordine nuovo» quindicinale, 15 marzo 1924, ripreso poi in D. - Gobetti parla di «inerzia» e di «cervello e attività inaridite» in «La Rivoluzione liberale» del 2 aprile 1922.

Per il viaggio di Gramsci a Gardone: Sergio CaprioglioUn mancato incontro Gramsci-D'Annunzio a Gardone nell'aprile 1921 in «Rivista storica del socialismo», gennaio-agosto 1962  nn. 15-16.

Per la polemica sul «fronte unico»: i passi di Lenin sono in Sul movimento cit.; i passi di Togliatti in La formazione cit.

Il richiamo di Gramsci alla «formula lapidaria» e nel rapporto al Congresso di Lione, febbraio 1926, pubblicato da «l'Unità» Il valore esclusivamente consultivo delle tesi sulla tattica votate al Congresso di Roma è più volte affermato da Gramsci nelle lettere del 1923-24 comprese in La formazione cit.; qui anche il giudizio  su Rakosi.

Su Gramsci a Vienna: Bruno Fortichiari, Ricordo di Gramsci.

1923 - Vienna in «Questioni del movimento operaio», Movimento Operaio, Milano 1958; Guido Zamis,  Gramsci  a  Vienna   nel 1924 in «Rinascita», 28 novembre 1964. - In «l'Unità» del 16 febbraio 1964: la lettera del 12 sett. 1923 con la quale Gramsci suggeriva il titolo del giornale e una interessante nota di Leonetti

Le fonti per il lavoro compiuto da Gramsci per allineare il partito italiano alla politica dell'Internazionale sono in La formazione cit. (alcune lettere sono riprese in D).

Sull'aggressione a Gennaro Gramsci il 18 dicembre 1922 a Torino - Mario  Montagnana,  Ricordi cit.

La testimonianza di Platone sulla vita di Gramsci a Roma dopo il ritorno da Vienna è in Gramsci, cit.; qui anche la testimonianza di Velio Spano sui primi gruppi giovanili dell «Ordine nuovo»; qui la testimonianza di Giuseppe Amoretti su «l'Unità» e la crisi Matteotti.

L'articolo La crisi italiana riproduce il rapporto di Gramsci al comitato centrale dopo la crisi Matteotti. Il rapporto apparve il 17 luglio 1924 in «l'Unità» e il 21 agosto in «Stato operaio». L'articolo fu pubblicato il 1° settembre da «L'Ordine nuovo» quindicinale (ed è ripreso in D).

Sul convegno clandestino di Cagliari: Franco Restaino, Con Gramsci a Is Arenas, in «Rinascita sarda», D. Zucaro, Vita del carcere di Antonio Gramsci, Milano-Roma 1954 (vi è pubblicato il rapporto del colonnello dei carabinieri Valenzuola). Sulla visita a Ghilarza: Celeste Negarville, Gramsci maestro e capo, in Gramsci cit.

2.10. La dittatura, l'arresto.

A. Tasca, Nascita e avvento del fascismo; Luigi Salvatorelli e Giovanni Mira, Storia d'Italia nel periodo fascista, Torino 1956; Franco Catalano, L'Italia dalla dittatura alla democrazia, Milano 1962.

Sulla scuola di partito per corrispondenza: Rita Montagnana, La sua grandezza e la sua semplicità, in Gramsci, cit.

Il discorso di Gramsci alla Camera è pubblicato in D. - L'appunto di Spano è in Gramsci, cit. - La profezia di Gobetti in «La Rivoluzione liberale» del 22 aprile 1924.

In Gramsci, cit. la testimonianza di Giovanni Farina su Gramsci a Milano. - Gramsci e il bimbo di Bibolotti: Fidia Sassano, Ricordo  di  Gramsci, in l'«Avanti!», 29 gennaio   1961.

Sulle Tesi di Lione: Marcella e Maurizio Ferrara, op. cit. - Il giudizio di Togliatti sulle Tesi è in II Partito comunista italiano,   Roma  1961.

Sulla perquisizione della camera di Gramsci: D. Zucaro, Vita del carcere cit. (in appendice è il verbale di perquisizione).

La lettera di Gramsci al CC del Partito bolscevico fu pubblicata da Tasca in «Problemi della rivoluzione italiana», aprile 1928; ripresa da «Corrispondenza socialista», 1° dicembre 1958 e da «Rinascita», 30 maggio 1964 (con la replica di Togliatti). È anche in D, che pubblica un chiarimento di Togliatti (un ulteriore chiarimento di Togliatti è in «Rinascita», 13 giugno 1964). Sull'arresto: nel novembre del '26 Camilla Ravera scrisse una lettera a Togliatti, pubblicata in «Rinascita», 5 dicembre 1964. Altra lettera a Togliatti di Ruggero Grieco è stata pubblicata in «Rinascita», 24 luglio 1965.

2.11. Il carcere.

D. Zucaro, Vita del carcere cit.; Giuseppe Ceresa, In carcere con Gramsci, in Gramsci, cit. (è una testimonianza fondamentale sul corso di lezioni politiche tenute in carcere da Gramsci dopo la svolta dell'Internazionale); Athos Lisa, Discussioni politiche con Gramsci in carcere, in «Rinascita», 12 dicembre 1964 (è il rapporto che Lisa scrisse per il Centro estero del PCd'I ai primi del '33 sulle conversazioni politiche di Gramsci: lo presenta Franco Ferri); Giovanni Lay, Colloqui con Gramsci nel carcere di Turi (i contrasti di Gramsci con i compagni) in «Rinascita», 20 febbraio 1965. Per la polemica sulla «svolta» vedere l'antologia di «Stato operaio» curata da F. Ferri per gli Editori riuniti. - Gustavo Trombetti testimonia sulla partenza di Gramsci da Turi in Vita di Antonio Gramsci di Lombardo Radice e Carbone, cit., e poi: In cella con la matricola 7047, in «Rinascita», settembre 1946, e Piantone di Gramsci nel carcere di Turi, in «Rinascita», 1° maggio 1965; Giovanni Farina, Gramsci come l'ho conosciuto (i giorni a Regina Coeli dopo il processo), in Gramsci, cit.; Mario Garuglieri, Ricordo di Gramsci, in «Società», n. 7-8, 1946 (vi sono molte inesattezze); Aurelio Fontana, Cinque aneddoti della vita carceraria di Antonio Gramsci, in «Rinascita», marzo 1952. Sulle letture di Gramsci in carcere: Giuseppe Carbone, I libri del carcere di Antonio Gramsci, in «Movimento operaio», luglio-agosto 1952. - Gli atti del processo sono raccolti da Domenico Zucàro in II processone, Roma 1961: un testo fondamentale.

Per gli spunti biografici forniti da Gramsci nelle lettere rinviamo a D (lettere del periodo 1912-1926) ed a Lettere dal carcere, NUE, cit. Alcune altre lettere, inedite, sono conservate da Teresina Gramsci; una è in possesso di Mimma Quercioli Paulesu; altre lettere inedite ho avuto in consultazione dall'Istituto Gramsci.