Erich Fromm

Fuga dalla libertà

Mondadori, Milano 1987

1.

A distanza di oltre sessant’anni dalla sua prima edizione e di oltre quaranta dalla seconda e definitiva, Fuga dalla libertà conserva un fascino straordinario e offre ancora spunti di riflessione. Al di là dei contenuti, è anzitutto la metodologia adottata a colpire. Accusato di essere un freudo-marxista, e in conseguenza di questo, praticamente rimosso dal dibattito culturale contemporaneo (nonostante il grande pubblico continui ad acquistarne e a leggerne avidamente le opere), nel saggio in questione Fromm rivela la fecondità dell’integrazione dialettica tra due sistemi di pensiero – la psicoanalisi e il marxismo -, entrambi egemonici. che, utilizzati criticamente, offrono i presupposti per un’analisi dei fatti umani che correla le dimensioni macrosociali – la storia, l’economia, l’ideologia – e quelle psicologiche, collettive e individuali.

E’ superfluo affermare che tutti i miei scritti – da La Politica del Super-Io a Sei Introverso? – sono tributari di questa metodologia, che ho tentato di rendere ancora più funzionale: per un verso, arricchendo il pensiero di Marx con gli apporti degli storici della scuola de Les Annales, i quali, con la messa a fuoco del concetto di mentalità, hanno sormontato quanto nell’originario pensiero di Marx sull’ideologia c’era di dogmatico; per un altro, inserendo le scoperte freudiane nella cornice di una teoria della natura umana, incentrata sul riferimento ai bisogni intrinseci, che le illumina e dà ad esse un significato più profondo.

La lettura attenta di Fuga dalla libertà consente di constatare che sia il concetto di mentalità che quello di bisogni intrinseci è implicito nel pensiero di Fromm.

Già nella Premessa al libro l’autore sottolinea che il suo interesse è rivolto a mettere in luce l’interazione tra fattori psicologici e sociologici:

”Additare la rilevanza delle considerazioni psicologiche rispetto alla situazione attuale non significa, secondo me, sopravvalutare la psicologia. L’entità fondamentale del processo sociale è l’individuo, i suoi desideri e timori, le sue passioni e la ragione, le sue disposizioni al bene e al male. Per comprendere la dinamica del processo sociale dobbiamo comprendere la dinamica dei processi psicologici operanti nell’individuo, proprio come per comprendere l’individuo dobbiamo considerarlo nel contesto della cultura che lo plasma.” (p. 11)

L’interazione dunque si dà tra la natura umana, che è il prodotto dell’evoluzione naturale, e l’ambiente sociale, che è il prodotto dell’evoluzione storica. Riguardo alla natura umana, Fromm differenzia nettamente la sua teoria rispetto a quella freudiana delle pulsioni:

“L’analisi esposta in questo libro si fonda sul presupposto che il problema chiave della psicologia è quello dello specifico genere di rapporto che l’individuo ha con il mondo, e non quello della soddisfazione o frustrazione di questo o quel bisogno istintivo per se stesso; inoltre sul presupposto che il rapporto tra l’uomo e la società non è statico. Non è che da una parte abbiamo un individuo dotato della natura di certi impulsi e dall’altra una società in qualche modo separata da lui, che soddisfi o frustri queste tendenze innate. Pur essendoci bisogni comuni  agli uomini, come la fame, la sete, il sesso, quegli impulsi che provocano le differenze nei caratteri degli individui, come l’amore e l’odio, la brama di potere e la sete di sottomissione, il godimento del piacere dei sensi e la paura dello stesso, sono tutti prodotti del processo sociale. Le inclinazioni più belle dell’uomo, come le più brutte, non fanno parte di una natura umana fissa e biologicamente prestabilita, ma derivano dal processo sociale che crea l’uomo.” (p. 19)

Se è vero che l’uomo è un prodotto della storia, non lo è di meno, però, che “la storia è prodotta dall’uomo. Il problema della psicologia sociale è, dunque, quello di “mostrare non solo come le passioni, i desideri, le ansietà mutino e si sviluppino per effetto del processo sociale, ma anche come le energie umane così modellate in forme specifiche diventino a loro volta forze produttive che plasmano il processo sociale.” (p. 21)

Si tratta di principi che possono sembrare ovvi, ma, non appena si cerca di applicarli alla realtà storica o ai fenomeni sociali, rivelano la loro complessità. La loro valorizzazione, infatti,  richiede competenze storiche, economiche, politiche, sociologiche, psicologiche molto ampie.

Il saggio di Fromm rappresenta un tentativo di applicazione di quei principi ad una determinata realtà storica e ad un problema affiorato drammaticamente nel Novecento. Esso, infatti, è stato scritto nel periodo in cui dal seno dell’Occidente democratico era affiorato il fenomeno del nazismo: un fenomeno che aveva irretito già completamente due nazioni (la Germania e l’Italia) ed esercitava un singolare fascino su tutti i Paesi europei, Gran Bretagna compresa. Si trattava, dunque, di spiegare la genesi storica e culturale di tale fenomeno e di capire le motivazioni che avevano indotto intere popolazioni a rinunciare alla libertà democratica, faticosamente conquistata ed evoluta a partire dalla Rivoluzione francese.

All’epoca, l’interpretazione corrente verteva sull’interpretazione del nazismo come un’aberrazione storica dovuta alla follia di pochi individui (interpretazione ripresa di recente da Papa Ratzinger nel corso della sua visita ai campi di concentramento polacchi). Fromm, invece, lo interpreta in un’ottica molto più ampia, riconducendolo al rapporto ambivalente che l’individuo moderno ha con la libertà. Il nazismo è, dunque, la punta di un iceberg che concerne tutte le società occidentali, e quindi anche quelle democratiche. Quest’ultimo aspetto, per ovvi motivi, è il più interessante. Se, infatti, l’analisi di Fromm è fondata, c’è da chiedersi in quale misura, nel corso dei decenni, il problema della libertà, inteso non già in senso formale, vale a dire come riconoscimento giuridico di diritti individuali inviolabili, bensì in senso sostanziale, come assunzione di responsabilità individuale sull’esercizio della libertà e uso di essa ai fini dell’autorealizzazione individuale e sociale, sia evoluto.

2.

Fuga dalla libertà è un saggio ascrivibile nell’ambito del pensiero forte, di un pensiero cioè che non arretra di fronte alla necessità di spiegare i fatti umani sia pure complessi senza cadere nella trappola del relativismo o della neutralità. Esso si pone esplicitamente come un saggio a tesi. Scrive, infatti, Fromm nella Premessa:

“La tesi di questo libro è che l’uomo moderno, liberato dalle costrizioni della società preindividualistica, che al tempo stesso gli dava sicurezza e lo limitava, non ha raggiunto la libertà nel senso positivo di realizzazione del proprio essere: cioè di espressione delle sue potenzialità intellettuali, emotive e sensuali. Pur avendogli portato indipendenza e razionalità, la libertà lo ha reso isolato e, pertanto, ansioso e impotente. Questo isolamento è intollerabile e l’alternativa che gli si presenta è la seguente: o sfuggire dal peso di questa libertà verso nuove dipendenze e sottomissioni, o progredire verso la piena realizzazione della libertà positiva che si fonda sull’unicità e sull’individualità dell’uomo.” (p. 12)

Questa tesi, identificando implicitamente nello sviluppo storico un lungo travaglio di parto orientato a produrre condizioni atte a favorire la nascita dell’individuo libero, è tipicamente marxista, nel senso di cogliere nell’evoluzione storica una tendenza finalistica e in una certa misura deterministica (almeno nel senso di ritenere che l’obiettivo intrinseco a tale tendenza non potrà essere fallito se non al prezzo di alternative catastrofiche). Essa, peraltro, vedendo nella nascita dell’individuo libero la premessa di un processo d’individuazione orientato a realizzare al meglio le sue potenzialità, implica una concezione psicologica dell’uomo come essere il cui bagaglio motivazionale riconosce, oltre ad un bisogno sociale primario, un bisogno di autorealizzazione che, nel corso della vita, giunge ad essere decisivo per il raggiungimento di un equilibrio psico-fisico.

Il ben noto umanesimo radicale di Fromm è del tutto riconoscibile in questi concetti, che assumono la storia come una dimensione che ha un senso e, per di più, un senso umano riconoscibile nella vicenda personale d’ogni individuo.

La pregnanza di questi concetti è evidente nei capitoli (2, 3, 4) nei quali Fromm delinea, con una precisione e una sottigliezza  che potrebbero fare invidia a molti storici di professione, l’emergere dell’individuo con la sua consapevolezza di essere tale da una condizione in cui egli era vincolato alla gerarchia sociale e alla comunità parentale, la contrastata affermazione della libertà come diritto proprio dell’individuo nel periodo del Rinascimento e della Riforma, e infine l’ambivalenza con cui l’uomo moderno vive la libertà.

Quest’ultimo aspetto, nella misura in cui si può ritenere ancora presente nella psicologia contemporanea, in quanto  riconducibile alla persistente egemonia economica, culturale e psicologica del capitalismo, merita la massima attenzione.

Il capitalismo “ha continuato sul piano intellettuale, sociale e politico l’opera che il protestantesimo aveva cominciato liberando l’uomo spiritualmente” (p. 91); esso “non solo ha liberato l’uomo dai vincoli tradizionali, ma ha anche contribuito enormemente all’accrescimento della libertà positiva, allo sviluppo della personalità attiva, critica, responsabile. Tuttavia, pur essendo questo uno degli effetti che il capitalismo ebbe sul processo di ampliamento della libertà, nello stesso tempo rese l’individuo più solo e isolato e lo pervase di un senso di irrilevanza e di impotenza” (p. 92); esso “portò l’individuo a doversi reggere completamente da solo. Quel che faceva, come lo faceva, il suo successo o il suo fallimento erano completamente affar suo. Che tale principio facesse avanzare il processo d’individualizzazione è ovvio... Ma nel promuovere la “libertà da”, questo principio contribuiva a recidere tutti i legami esistenti tra un individuo e l’altro, e pertanto isolava e separava l’individuo dai suoi simili” (p. 93); “il sentimento di isolamento e di impotenza nell’uomo moderno viene ancor più acuito dal carattere che hanno assunto tutti i suoi rapporti umani. Il concreto rapporto di un individuo con un altro ha perduto il suo carattere diretto e umano, e ha acquistato un carattere di manipolazione e di strumentalità. Le leggi del mercato dominano tutti i rapporti sociali e personali.” (p. 100)

 Al di là di tutto questo, la macchina politica ed economica è divenuta complessa al punto tale che l’uomo è giunto a  sentirsi “uno strumento nelle mani di forze esterne soverchianti.” (p. 102)

La libertà positiva – l’assegnazione all’individuo di diritti di libertà inviolabili, la possibilità dell’iniziativa individuale, la crescente illuminazione razionale – si è dunque associata a quella negativa – l’ansia, l’insicurezza, l’isolamento, l’impotenza. L’aumento del tenore di vita, il possesso dei beni, il prestigio sociale hanno in parte compensato gli effetti negativi della libertà, ma solo nel senso di aiutare gli individui a rimuoverli, a mascherarli. Di fatto, “la solitudine, la paura e lo sgomento rimangono: le persone non le possono sopportare indefinitamente. Non possono continuare a portare il peso della “libertà da”; debbono cercare di fuggire del tutto dalla libertà, se non possono progredire dalla libertà negativa a quella positiva. Nel nostro tempo le principali vie sociali di fuga sono la sottomissione ad un capo, come è accaduto nei paesi fascisti, e il conformismo ossessivo, che prevale nella nostra democrazia.” (p. 11)

3.

Nonostante il libro di Fromm sia divenuto famoso soprattutto per l’analisi della psicologia del nazismo, questa, a mio avviso, nonostante un numero indefinito di osservazioni profonde, si può ritenere la parte più caduca dell’opera. Assumendo Hitler come “il tipico rappresentante della classe media inferiore” (p. 172)  ovvero come “una nullità senza prospettive o possibilità” (id.)  e identificando nell’entusiastico consenso a lui fornito da quella classe il motivo principale della sua ascesa al potere e il piedistallo del regime, Fromm, senza forse rendersene conto, cede al disprezzo appena celato che in lui, umanitarista radicale convinto, evoca un personaggio antiumanitarista per eccellenza.

E’ senz’altro vero che l’alleanza tra Hitler e la piccola e media borghesia è stato un elemento portante della Germania nazista. Intanto, però, non è vero che la classe operaia e la borghesia liberale e cattolica si sono adattate al nazismo con un atteggiamento negativo o rassegnato: purtroppo, molti operai, liberali e cattolici hanno aderito ad esso e lo hanno sostenuto. In secondo luogo, l’ideologia di Hitler ha dei tratti marcatamente antiborghesi ed è in particolare fortemente critica nei confronti della mentalità piccolo-borghese.

Il “mistero” del nazismo sta nell’aver irretito un intero popolo, compresa quella classe media di cui Fromm descrive superbamente i tratti (“l’amore per i forti, l’odio per i deboli, la meschinità, l’ostilità, l’avarizia, sia in fatto di sentimenti che di denaro, e in sostanza l’ascetismo” p. 168), nel culto di un comunitarismo nazionalista animato da una concezione eroica e sacrificale della vita (per quanto razzista e megalomane). Hitler, in breve, è riuscito ad infondere un ardore (patologico) anche alla classe meschina, tradizionalmente avversa a coltivare sogni che ttrascendono i suoi angusti orizzonti.

L’uomo hitleriano era, sulla carta, e intendeva essere altro dal cittadino occidentale chiuso nel culto del suo individualismo e incline unicamente a coltivare i suoi interessi privati. Altro insomma dall’automa, il cittadino medio occidentale, cui Fromm dedica invece, nel quinto e nel settimo capitolo, le sue pagine più ispirate.

Nel quinto capitolo, infatti, dopo aver analizzato i meccanismi di fuga intrinseci a quella che egli definisce la “personalità autoritaria”, incline ad assoggettarsi a chiunque manifesti ai suoi occhi una forza straordinaria e a disprezzare e perseguitare i “deboli”, Fromm identifica nel conformismo da automi il meccanismo prevalente di fuga dalla libertà che prevale nella moderna società democratica.

La descrizione di questa tipologia è molto precisa:

“Per dirla in breve, l’individuo cessa di essere se stesso; adotta in tutto e per tutto il tipo di personalità che gli viene offerto dai modelli culturali; e perciò diventa esattamente come tutti gli altri, e come questi pretendono che egli sia. Il divario tra “me” e il mondo scompare, e con esso la paura cosciente della solitudine e dell’impotenza. Questo meccanismo può essere paragonato alla colorazione protettiva che assumono certi animali. Somigliano talmente al loro ambiente che li si può appena distinguere. La persona che rinmuncia al suo io individuale, e che diventa un automa, identico a milioni di altri automi che lo circondano, non deve sentirsi più sola e ansiosa. Ma il prezzo che paga è alto: è la perdita del suo io.” (p.149)

Fromm si rende ben conto che un’affermazione del genere stride con la convinzione diffusa in Occidente “che la maggioranza di noi sia composta di individui liberi di pensare, sentire, agire come gli garba.” (p. 150) Tuttavia “pur essendoci certamente dei veri individui tra di noi, nella maggior parte dei casi questa convinzione è un’illusione, ed è anzi un’illusione pericolosa, giacché impedisce l’eliminazione di quelle condizioni che creano questo stato di cose.” (id)

Tali condizioni sono da ricondurre, per un verso, alle pratiche educative e, per un altro, alla pratica sociale nel suo complesso. Entrambi, infatti, sembrano, sia pure inconsapevolmente, rivolte  a promuovere, piuttosto che un individuo differenziato e libero, un cittadino capace di integrarsi nella società e di svolgere i ruoli ad esso assegnati in funzione dell’equilibrio del sistema capitalistico. Data la sostanziale incompatibilità di tale sistema con i bisogni umani – sia di giustizia che di autorealizzazione -, quelle pratiche sono incentrate sul condizionamento del pensiero, del sentire e dell’agire al fine di arginare e reprimere le istanze critiche che fanno parte delle potenzialità umane. Il loro effetto, dunque, è di indurre un falso io che l’individuo sente come il suo io:

“L’io originario è l’io che sta alle origini dell’attività mentale. Lo pseudoio è solo un agente che in realtà rappresenta il ruolo che una persona dovrebbe svolgere; esso lo svolge però sotto il nome dell’io. E’ vero che una persona può svolgere molti ruopli, ed essere soggettivamente convinta di essere se stessa in ciascun ruolo. In realtà in tutti questi ruoli la persona è quello che ritiene di dover essere, e in molte persona, se non addirittura nella maggior parte, l’io autentico è completamente soffocato dallo pseudoio.” (p. 164)

Su questa tematica Fromm torna nel capitolo 7, il cui primo sottocapitolo ha un tiolo inequivocabile: L’illusione dell’individualità. Qui gli ostacoli che la cultura del mondo libero, ma in realtà assoggettato al capitale, pone allo sviluppo di una personalità autenticamente libera e, in una certa misura, dotata di un potere critico, sono analizzati con una sottigliezza del tutto sconosciuta ai numerosi manulai che oggi pretendono di insegnare ad essere se stessi. Il momento più importante di questa analisi è da ricondurre al fatto che la coscienza dell’uomo moderno non è più governata da un’autorità esterna né apparentemente da un’autorità interiorizzata (il super-Io freudiano): essa, senza saperlo, si rapporta ad un’autorità anonima “persecutoria” identificabile nell’opinione pubblica, nel senso comune, nel giudizio sociale normativo.

Da questa diagnosi discende la “cura” che Fromm illustra nel secondo sottocapitolo:
”La libertà ha raggiunto un punto critico in cui, spinta dalla logica del suo stesso dinamismo, minaccia di convertirsi nel suo opposto. Il futuro della democrazia è affidato alla realizzazione di quell’individualismo che è stato l’obiettivo ideologico del pensiero moderno dal Rinascimento in poi. La crisi culturale e politica del nostro tempo non si deve al fatto che ci sia troppo individualismo, ma al fatto che quello che crediamo individualismo è diventato una conchiglia vuota. La vittoria della libertà è possibile solo se la democrazia si trasforma in una società in cui l’individuo, il suo sviluppo e la sua felicità, siano il fine e l’obiettivo della civiltà, in cui la vita non debba cercare giustificazioni nel successo o in altre cose, e in cui l’individuo non sia subordinato ad un potere esterno, si tratti dello stato o del meccanismo dell’economia, né sia manipolato da esso; infine una società in cui la coscienza e gli ideali dell’individuo non siano interiorizzazione di pretese esterne, ma siano veramente suoi, ed esprimano i fini derivanti dalla peculiarità del suo essere.” (p. 212)

4.

Se si tenta di valutare la pertinenza dell’analisi di Fromm in rapporto al presente, non è azzardato affermare che le cose non sono molto migliorate. Forse addirittura sono peggiorate.

L’illusione dell’individualità - di un’individualità chiusa nel recinto di una coscienza che adotta meccanismi sempre più sofisticati di mistificazione in rapporto al mondo interiore, tra i quali prevalgono in assoluto la razionalizzazione e la giustificazione – ha raggiunto un acme difficile da sormontare.

La pratica pedagogica si realizza sul registro della convinzione che fare i genitori sia il mestiere più difficile del mondo – convinzione che promuove il narcisismo per cui essere buoni genitori significa tout-court essere normali. Essa poi continua a dare spazio ai buoni principi e ai buoni sentimenti, che obbligano i figli a rimuovere le loro ambivalenze.

La pratica sociale fa sempre più riferimento ad un’immagine adeguata al modello normativo estroverso dominante, che impone l’occultamento sistematico di tutte le umane debolezze. Tale modello implica un blocco dell’emozionalità viscerale, che viene compensata dalla simulazione (inconscia) cognitiva dei sentimenti (eccezion fatta per la rabbia).

L’insicurezza, la paura, l’impotenza sono cresciute sistematicamente in conseguenza della globalizzazione e della percezione di un mondo nel quale il capitalismo ha ormai nettamente sopravanzato il potere politico nazionale.

Se la democrazia era in crisi all’epoca in cui Fuga dalla libertà è stato scritto, oggi la crisi è più acuta per quanto mascherata da istituzioni che, nei Paesi occidentali, sono solide. I segnali più inquietanti della crisi provengono dagli Stati Uniti, laddove un popolo traumatizzato dall’attacco terroristico dell’11 settembre ha consegnato la sua sorte ad un uomo che promette di difendere con ogni mezzo la sua sicurezza e il suo tenore di vita: la guerra preventiva, il misconoscimento della Convenzione di Ginevra sui prigionieri di guerra, la violazione della privacy dei cittadini statunitensi, l’indifferenza nei confronti dell’inquinamento climatico, il mantenimento di un enorme debito pubblico, ecc.

L’analisi di Fromm, insomma, ha precorso i tempi e appare ancora drammaticamente attuale.

Il problema che essa pone però è quello contro cui la cultura critica, da Marx in poi, è sempre venuta ad urtare: come liberare la coscienza umana dalla mistificazione che essa adotta spontaneamente e per influsso dell’ideologia al fine di serbare la sua unità e la sua peraltro precaria coesione, e di soddisfare il suo bisogno di sentirsi normale?

A riguardo, la ricetta umanistica di Fromm appare, purtroppo, poco convincente. Essa, infatti, dando all’uomo un valore infinito (attribuzione peraltro necessaria per salvaguardare la sua dignità), ignora che un passaggio essenziale sulla via dell’autorealizzazione è la scoperta, da parte dell’individuo, della radicale insignificanza oggettiva del suo esser-ci e la necessità di farsi carico di tale insignificanza per riempire di senso un involucro vuoto. Ciò significa che la solitudine esistenziale viene prima di quella prodotta dallo sviluppo storico-sociale (dal capitalismo) attraverso la separazione dell’uomo dall’uomo. Mascherata in passato dall’appartenenza comunitaria, essa è divenuta drammatica via via che il capitalismo ha fluidificato, e in qualche misura, dissolto il legame sociale. La regressione verso forme di appartenenza sostitutive (razza, nazione, classe sociale, e, al limite, normalità), che Fromm analizza acutamente, non sono solo la conseguenza dell’insicurezza e dell’impotenza prodotta dal capitalismo, bensì anche della tendenza, intrinseca alla soggettività, di sottrarsi al confronto con i contenuti esistenziali dell’ansia.

Se questo è vero, riesce evidente che, se non sopravviene tale confronto, l’autorealizzazione può divenire essa stessa un processo di alienazione, per esempio sul registro del narcisismo (sia esso riferito ad uno status sociale raggiunto o alla cultura intellettualistica o allo spiritualismo religioso).

D’altro canto, se Fromm fosse ancora vivo, si sorprenderebbe degli usi del tutto  impropri cui è andato incontro nel nostro mondo, soprattutto a livello di pratica psicoterapeutica individuale e di gruppo, il termine autorealizzazione. Il successo crescente della teoria del pensiero positivo, che enfatizza quel termine sino a livelli ridicoli, lo avrebbe di sicuro fatto inorridire.

Al di là dello sviluppo storico, c’è dunque un problema preliminare inerente la struttura stessa dell’essere umano. Tale problema è riconducibile alla contraddizione tra la consapevolezza, implicita nei contenuti dell’ansia esistenziale (vulnerabilità, precarietà, finitezza), della sua oggettiva insignificanza, e la motivazione incoercibile verso la felicità. Sulla base dell’accettazione di quella consapevolezza, il tendere verso la felicità comporta sia la pratica di legami sociali significativi sia lo sviluppo delle potenzialità individuali nella direzione dell’autorealizzazione.