Esistono innumerevoli storie globali o parziali del pensiero e della politica e non poche esposizioni storiche dell'ideologia: ricorderemo le une e le altre nella Guida per argomenti che precede la Bibliografia generale. In questo capitolo vogliamo soprattutto evitare di compilare riassuntini e panorametti, del tipo di quelli che ancora si usano da parte degli studenti pigri per affrontare esami nozionistici. Rifuggiamo, come dice Marx, da quella «forma professorale, che procede "storicamente" e, con saggia moderazione, raccoglie qua e là il "meglio", senza badare alla contraddizione, ma solo badando alla compiutezza »: ed è «lo svuotamento di tutti i sistemi, di cui si elimina il mordente, per accoglierli insieme in una pacifica contemplazione» (Storia delle dottrine economiche, Einaudi, 1958, III: 519).
I dizionari generali della lingua italiana (soprattutto il Battaglia) e di altre lingue, come pure i dizionari specialistici (rimandiamo anche qui alla Guida), danno molte diverse definizioni e caratterizzazioni del termine 'ideologia', che infatti si rintracciano nella letteratura e nell'uso comune, soprattutto dopo Marx. Per quanto 'ideologia' sia termine dotto, coniato fondendo 'idea' e 'logos' e quindi stipulando un significato nuovo e velleitariamente preciso, una parte della polisemia di cui esso è andato caricandosi sembra dipendere anche dalla già diffusa polisemia dei termini assorbiti. uno scherzo fatto dal vocabolario a Destutt: tanto per cominciare, che su altri scherzi del vocabolario torneremo in 2.5. 'Idea' ha nel Battaglia non meno di diciassette diverse accezioni, anzi gruppi di accezioni: incrociando le quali con tutti i modi in cui si può intendere 'logos' si otterrebbe, ad averci gusto, un mosaico di varie centinaia di significati di 'ideologia' ordinabili in tribù, sette, famiglie e alleanze particolari.
Una situazione come questa non va certo sopravvalutata, come avrebbero fatto di oxoniensi degli anni cinquanta se mai avessero avuto l'audacia di occuparsi di un argomento così scabroso e ungentlemanly; ma nemmeno va sottovalutata o peggio ignorata, come ancora si tende a fare tra noi. Del materiale disponibile già a livello vocabolaristico, integrandolo via via con informazioni tratte dalla letteratura, tenteremo un ordinamento, a un dipresso, dagli usi spregiativi o almeno negativi o limitativi a quelli neutrali descrittivi o addirittura positivi. Come cerniera per il passaggio da primo al secondo insieme di usi adopreremo la filosofia quale luogo d'incontro del falso pensiero con una visione del mondo. La disposizione delle concezioni in linea di massima dal meno al più "grave" (nel senso di dannoso, o pericoloso, o almeno socialmente rilevante) e dal meno al più consapevole: all'inizio si può ancora parlare di mera falsa coscienza, alla fine si è già penetrati nel solenne reame della filosofia. Meno convincente, ma nel complesso non insostenibile, un terzo criterio progressivo dal meno al più generale. La disposizione dell'ideologia come visione del mondo andrà invece (anche qui solo in linea di massima) nella direzione opposta: dal più al meno grave, dal più al meno consapevole e dal più al meno generale, cominciando così dalla filosofia e raggiungendo uno stato in cui si sfuma di nuovo in mera falsa coscienza. In questa seconda metà della classificazione il criterio della generalità sembra reggere meglio. Cammin facendo, indicheremo taluni autori in cui si ritrovano le varie concezioni, in tal modo aggiungendo un pò di spessore storico alla sventagliata terminologica e confermando il circolo cultura-vocabolario-cultura.
Elencheremo undici concezioni dell'ideologia come (i) mitologia e folklore, (ii) illusione e autoinganno, (iii) senso comune, (iv) menzogna, contraffazione, oscurantismo, (v) truffa o inganno consapevole, (vi) falso pensiero in generale, (vii) filosofia, (viii) visione del mondo, (ix) intuizione del mondo, (x) sistema di comportamenti, (xi) sentimento. Un grafico può esser d'aiuto nell'afferrare i principi che reggono questo tentativo di classificazione.
Si noti che ai due estremi (visivamente: alla sinistra e alla destra della pagina) si hanno le concezioni dell'ideologia meno gravi, consapevoli e generali. Come dire che gli estremi si toccano. Questo permette di dare allo schema la forma di un circolo dove su di un diametro verticale abbiamo, equidistanti dal centro, la filosofia (massimo di gravità, consapevolezza e generalità in una commistione di falso pensiero e visione del mondo) e la falsa coscienza (minimo di gravità, consapevolezza e geneneralità in un indistinto mescolarsi di visione del mondo e falso pensiero no espresso, o non pienamente). Ciò giustifica la posizione assunta dall'ideologia come mitologia e folklore (i) quale falso pensiero al minimo dello sviluppo e in parte quale falsa coscienza, e dell'ideologia come sentimento (xi) quale visione del mondo anch'essa al minimo dello sviluppo e anch'essa in parte quale falsa coscienza. Ecco dunque lo schema circolare:
La disposizione proposta e il passaggio dallo schema lineare a quello circolare contengono in embrione alcune innovazioni per lo studio dell'ideologia in generale. Molte precisazioni sono necessarie a chiarire le cose (per es.: in che senso la falsa coscienza è "meno grave"?); ma siccome son proprio quelle che andremo facendo nel corso di tutta la trattazione, non ha senso anticiparle qui. Lasciamo dunque per ora all'immaginazione del lettore, sperabìlmente fervida ed esaltata, altri commenti sul passaggio dal lineare al circolare. Vediamo piuttosto di delimitare la portata della classificazione delle varie concezioni dell'ideologia e inoltre di distinguerla da talune analisi altrui, come pure da altre analisi che qui seguiranno.
Il punto principale è che, se da un lato sarebbe penoso ridurre i problemi dell'ideologia alle centinaia di sfumature che il termine può recare nei più diversi contesti, dall'altro lato non è nemmeno lecito ignorarne la tremenda polisemia, prescegliendo uno soltanto degli usi come niente fosse, senza nemmeno aver preso in considerazione tutti gli altri. Se si praticano anche usi diversi da quelli che più vezzeggiamo, una qualche ragione dovrà pur esserci. Che bell'atteggiamento ideologico (in uno dei molti significati), ignorare questo fatto! Anche noi faremo le nostre scelte; ma le faremo in funzione di una sia pur breve ispezione terminologico-concettuale e nell'ambito di un tentativo di ordinamento.
La classificazione riguarda in generale gli usi rilevabili di 'ideologia', non le sfumature che si incontrano presso un determinato autore, e sia pure dei più importanti. Essa va pertanto distinta da altre analisi ancor più ravvicinate, come quella accennata da Gurvitch (1954, trad. it. 1971: 118121) di ben «tredici significati diversi che non si sovrappongono se non molto parzialmente (ibid.: 119) nel pensiero del solo Marx: ciò che ha meritato da parte di Del Noce prima (1964: 114115) e di Fergnani poi (1965) un'accusa di «eccessiva minuziosità» una minuziosità, aggiungerei, che sgretola la saldezza delle fondamentali e fertilissime concezioni marxiane. La nostra classificazione va anche distinta da vaste trattazioni sistematiche come quella di Jaspers sulla Psicologia delle visioni del mondo (1919 e 1925, trad. it. 1950), col suo approccio alle "situazioni limite" quali formulazioni esistenziali del problema del male (morte, colpa, caso, sofferenza, conflitto) per tacere dell' "Essere onniabbracciante". La trattazione di uno Jaspers, ispirata alla precedente Tipologia delle visioni del mondo di Dilthey, riguarda soprattutto gli atteggiamenti verso la vita e postula una infinita possibilità degli stili di vita. Per noi invece, alla luce sia del materialismo storico sia della semiotica, gli stili di vita sono socialmente indotti e come tali assai condizionati e delimitati; e quella di Jaspers è soltanto un'espressione sia pure altamente e degnamente elaborata, del mito individualistico borghese.
Le nostre esigenze sono assai più limitate. Noi vogliamo attenerci qui agli usi di “ideologia” senza entrare in merito alla restante terminologia della falsa coscienza e dell’alienazione, come faremo invece a partire da 1.3 e poi espressamente nella seconda parte (specie in 2.6 e 2.7). In altre parole, stiamo per ora legati al termine “ideologia” con la parziale aggiunta di altri vocaboli in tutto o in parte sinonimici, come 'falsa coscienza' e 'visione del mondo', o come 'teoria' e 'derivazione' nel Pareto del Trattato di sociologia generale. In questo capitolo vogliamo solo vedere che cosa si sia potuto e/o ancora si voglia intendere con quel termine e coi suoi sinonimi direttamente accettabili, non le distinzioni e precisazioni cui si può giungere prendendo in considerazione anche altri termini usati non già o non solo sinonimicamente, bensì anche complementarmente cioè con una qualche forza oppositiva.
Troviamo dunque che nel corso degli ultimi centottant'anni circa di "ideologia "si è parlato e scritto perlomeno nei ricordati undici gruppi di sensi diversi, cui corrispondono altrettante complesse e variegate concezioni dell'ideologia, in gran parte tuttora viventi. Cominciamo, secondo il programma, dal caso meno consapevole e meno generale dell'ideologia come falso pensiero, ai limiti con la falsa coscienza.
Ideologia come mitologia, folklore, credenze popolari, stereotipi, pregiudizi diffusi.
L'ideologia così intesa si distingue dalle concezioni successive, culminanti nel falso pensiero generalizzato, per il suo carattere settoriale che si presta a confronti con altri settori. E’ meno generale e meno consapevole: sta alle soglie della mera falsa coscienza. Essa in particolare si distingue dall'ideologia come senso comune nella misura in cui a quest'ultimo si riconoscono una componente di sanità e la gran virtù di essere, appunto, comune (anziché soltanto personale, o di gruppo, o di fascia sociale). Le credenze mitologiche, folkloristiche o d'altro genere sono assai meno generalizzate delle visioni del mondo e di altre concezioni che troveremo dall'altra parte della filosofia (nei nostri grafici: a destra della pagina, nella seconda metà dell'ordinamento). Si tratta di invenzioni umane spontanee e inconsapevoli che possono essere interpretate in varie direzioni, incluse quelle dei loro rapporti con la situazione storicosociale e coi fenomeni naturali. Ma tali rapporti non sono diretti e necessari: ogni mediazione è possibile. Una credenza popolare, un'attività folkiorica e un pregiudizio possono essere condivisi da membri di diverse classi che si stanno combattendo sul restante terreno ideologico (in 1.3.4, 3.1.3 e 3.1.5 torneremo sull'argomento nei termini dei sistemi segnici di vario tipo e dell'inerzia della pratica sociale). Il termine 'ideologia', a questo livello, potrebbe anche essere usato in maniera neutrale o almeno senza alcun disprezzo, se non fosse che in questa concezione dell'ideologia non può non albergare il convincimento che la ricerca scientifica o più generalmente il pensiero "razionale" siano qualcosa di meglio della mitologia e del folklore, o almeno qualcosa di più moderno e sviluppato. I primi, si argomenta, sono in grado di studiare i secondi, riconducendoli alle loro matrici sociali e disvelandone il funzionamento; non si dà invece il contrario. La scienza etnologica studia gli aborigeni australiani che sentono gli aerei come dèi e si dedicano al cargo cult. Gli adoratori di aerei, invece, non hanno alcuna idea della scienza etnologica o di altre scienze come le intendiamo noi. Non c'è qui l'indipendenza, l'irriducibilità del sentimento (di cui in (xi)). Così avviene che si usino sintagmi come 'credenza mitologica' anche per descrivere una filosofia o una teoria scientifica sbagliata, 'attività folkloristica' anche per descrivere una prassi politica inconsistente.
Tuttavia l'elemento ideologico negativo, l'indicazione di un pensiero falso quando pur emerge , sta nel giudizio che se ne impartisce dato un certo contesto, non necessariamente nell'attività in quanto tale. Siamo noi al nostro livello di sviluppo, che esprimiamo un giudizio: secondo il quale le ideologie raccolte in questa classe sono una forma di falso pensiero; se sottraessimo quel giudizio, dovremmo classificarle dall'altra parte, come spunti di una visione del mondo. In altre parole, la mitologia qua itologia, il folklore quafolklore, e così via, sono sì ideologici dal nostro punto di vista; ma non per questo costituiscono aspetti negativi della pratica sociale. E solo da un confronto (paretiano, o meglio no), che può scaturire un giudizio negativo. Questo equivale a riconoscere senza riserve il valore sociale oggettivo delle ideologie di questo tipo, le quali certo non mancano di una loro più o meno nascosta organizzazione o struttura, né di un loro potere coesivo ed educativo nei confronti di coloro che le accettano senza porne in causa il fondamento. Sulla natura dei sistemi di credenze sono fondamentali i due libri di Rokeach (1960 e 1968, 1972).
Ideologia come illusione e autoinganno, con varie sfumature indicate dai termini preconcetto, abbaglio, cecità, miopia, oscurantismo e molti altri.
E l'ideologia definita appunto da Jaspers come «autoinganno a scopo di giustificazione, occultamento, evasione”. Viene qui chiaramente alla luce una contrapposizione fra cose vere e reali da un lato e false interpretazioni dall'altro. Se ci si illude e ci si autoinganna, vuol dire che si intrattengono idee o credenze diverse da quelle che verrebbero intrattenute non appena l'illusione cessasse e si riuscisse a vedere come stiano realmente le cose. Una credenza o un mito, invece, non contengono in se stessi la necessità di una tale contrapposizione. Elemento centrale resta peraltro la non volontarietà del processo, soprattutto la sua non volontarietà individuale. Ci può essere uno "scopo sociale" che ci induce ad autoingannarci, ma non è necessario esserne consapevoli. Più spesso che no, ne siamo vittime. La fenomenologia è ricca, interessante e complessa. Con le riserve che faremo in seguito, si possono enucleare vari livelli di non volontarietà e inoltre vari scopi: i tre indicati da Jaspers e altri ancora. La questione della responsabilità morale e politica di chi si illude, e illudendosi inganna senza volerlo il prossimo va di pari passo con altre due: quella della sua posizione nella società, a cominciare dalla sua posizione di classe, e quella dei suoi personali problemi e delle sue motivazioni inconsce. E qui che cominciano a emergere le dimensioni dell'ideologia come espressione di classe e dell'ideologia come psicopatologia individuale.
Ideologia come senso comune: cioè, l'ideologia corrisponde al senso comune, il senso comune è ideologia.
Collochiamo qui questa concezione dell'ideologia perché essa assorbe e generalizza il materiale delle due concezioni precedenti pur senza ospitare in maniera sistematica i più gravi elementi di falso pensiero di cui in (iv) e più avanti. Il senso comune non solo rende generico, ma anche appiattisce e in qualche modo attenua tutto ciò che riceve. Al senso comune come ideologia si sogliono contrapporre varie cose, la più usuale delle quali è un "pensiero scientifico" in grado di superano liberandosi della sua componente ideologica col sostituire la precisione alla genericità e la profondità alla piattezza. Allora il senso comune è visto come un insieme disorganizzato o scarsamente organizzato di atteggiamenti, idee, convinzioni, valori di tipo prescientifico. I preconcetti del senso comune sono considerati involontari: chi ne è vittima li ha ricevuti e subiti e non già volontariamente accettati. "Ma adesso arrivo io che sono uno scienziato e ti faccio vedere". Il senso comune viene così caricato di valori negativi; ed è in nome del progresso scientifico, o del progresso in generale, che se ne invoca il superamento.
D'altra parte, il senso comune è anche un insieme di regole di buon senso nelle quali si esprime la tradizione pratico-sapienziale dell'umanità nelle varie forme storicamente determinate da essa assunte. Nel senso comune si riflette la vita quotidiana degli individui umani e dei loro micro-raggruppamenti nelle sue dimensioni esistenziali reali fondate sui bisogni elementari (cfr. Lefebvre, 1958 e 1961; Berger e Luckmann, 1966, trad. it. 1969; Heller, 1970, trad. it. 1975): esso è una piattaforma che permette agli uomini di capirsi e di lavorare insieme, sicché è necessario tenerne conto già ispezionando lo strutturarsi di una qualsiasi base economica. Dal senso comune raccoglie continuamente contenuti il parlare comune che sta a fondamento dell'uso linguistico. E per contro, il comune parlare degli uomini produce quotidianamente le formule del senso comune. Il parlare comune si presenta qui come insieme di tecniche comunitarie irriducibili a quanto s'intende per lingua quotidiana da una parte e per parola individuale dall'altra. Si comprende pertanto come del senso comune ci si sia anche serviti in senso simmetricamente opposto a quello descritto. Il riconducimento al senso comune e al parlare comune è anche una maniera del demistificare: si sono misurate su di essi le ideologie filosofiche come allontanamenti arbitrari dal comune sapere degli uomini, dalla loro vita quotidiana, dall'uso linguistico fondamentale. I dialoghi del metafisico Platone sono tutti intessuti di tali riconducimenti; senza un continuo appello al senso e al parlare comune non avrebbe mai avuto luogo la fondazione aristotelica delle scienze; varie scuole filosofiche medioevali e moderne se ne sono servite (basti ricordare quella scozzese del Settecento e quella novecentesca di G.E. Moore e Wittgenstein). Whorf ci ha fondato la sua "relatività linguistica". Lo stesso Marx, pur non avendo mai teorizzato il senso e il parlare comuni in quanto tali, ha compiuto sia l'operazione di demistificarli quali apparenza che va oltrepassata per raggiungere scientificamente l'essenza nascosta delle cose (soprattutto nelle opere della maturità), sia quella contraria di far appello a essi per demistificare dottrine staccate dalla realtà (soprattutto nell'Ideologia tedesca). Avremo occasione di riportare alcuni luoghi in proposito.
Aggiungiamo ancora che siccome il senso comune è un serbatoio di idee ricevute ma anche di saggezza spicciola, a esso si ricorre spesso anche in maniere direttamente politiche: "accettate le idee correnti o no?"; ma anche "le vostre idee non corrispondono al sentire delle masse". I problemi che s'intravedono a questo punto sono molti e non facili. Per esempio quando Mao afferma che ogni idea porta l'impronta di una posizione di classe, ma poi esorta i comunisti a essere onesti, rispettosi, laboriosi, e così via, sembra che all'appello a una precisa ideologia politica si sovrapponga un appello a regole di condotta universali, la cui piattaforma altro non può essere che quella offerta dal senso comune. Il problema è del tutto aperto.
Se non m'inganno, una vera e propria filosofia del senso e del parlare comune, che ne affronti di petto la profonda ambiguità o ambivalenza e ne svolga tutte le implicazioni anziché limitarsi a prendere posizione in favore o contro di essi, è ancora tutta da scrivere (ma si vedano gli interessanti congiungimenti di Freud e Wittgenstein in Cacciari, 1976, specie IV, 4°). Essa dovrebbe affrontare problemi come quelli di una teoria dei bisogni a un estremo, e come quelli dei rapporti fra lingua e parola e fra lingua nazionale e dialetti all'altro estremo: il punto è che dovrebbe affrontarli insieme. Un'idea organizzativa è di caratterizzare il senso ed il parlare comune come mero presente, cioè come situazioni di fatto sempre provvisorie, interamente prodotte dal passato ma indispensabili per qualsiasi operazione rivolta all'avvenire. Come dire che il senso comune è ideologia elaborata dal parlare comune, ed è dunque di necessità falso pensiero; ma anche che il potere rappresentativo di questa forma di falso pensiero è enorme; lo si può trascurare solo assumendo atteggiamenti dogmatici che ritagliano a colpi d'accetta il fitto e delicato tessuto della vita, dei bisogni, delle credenze, dei sentimenti quotidiani degli uomini.
Ideologia come menzogna non deliberata, oscurantismo volontario ma non pianificato, auto-mistificazione semi-inconscia, contraffazione socialmente indotta e divenuta automatica nell'individuo.
L'accumulo delle caratterizzazioni mostra quanto sia complessa e variegata questa concezione dell'ideologia, cui corrisponde infatti una porzione notevole di quanto più comunemente s'intende per 'ideologia' nel senso negativo del termine. Rientra qui ogni visione parziale delle cose fondata su pregiudizi che servono ai propri interessi personali o di gruppo (è la definizione scelta da Gabel, il quale accentua il carattere sistematico e pseudoteorico della contraffazione). L'involontarietà totale dell'illusione e dell'autoinganno è ormai abbandonata: le operazioni che ora si compiono cominciano ad affacciarsi alle soglie della coscienza e vi operano sordamente; non vi assumono il carattere di una pianificazione consapevole (come in (v) qui sotto), ma sono organizzate verso finalità sociali che l'indagine demistificante può giungere a descrivere con precisione. Sono aumentati sia il tenore di consapevolezza sia l'impatto sociale; accanto all'ideologia quale la rileviamo è ormai emerso, quale fattore necessario a comprenderne l'interno meccanismo, qualcosa di non ideologico che essa serve a celare.
La concezione tipicamente o almeno centralmente marxiana dell'ideologia come illusione interessata, a metà fra il consapevole e l'inconsapevole ma sufficientemente motivata e indirizzata per proteggere se stessa, intessuta di autoinganno e al tempo stesso di inganno del prossimo, appartiene soprattutto a questo livello; ma, come avvertiva Gurvitch, ingloba anche elementi qui elencati sia prima sia dopo. Abbiamo qui un gruppo di significati dominanti di 'ideologia'; si tratta di casi particolarmente intensi e diffusi di falso pensiero. Non appena l'elemento celato viene portato a galla, si trova che l'ideologia è una esplicazione e giustificazione sovrastrutturale della fondamentale realtà strutturale della lotta di classe.
E’ qui che si deve situare anche l'ideologia che Mannheim (1929 e successive traduzioni) chiama "particolare", accentuandone l'aspetto volontario: contraffazione di una situazione reale, fatta con lo scopo di impedirne la conoscenza, come tale distinta da quella che egli chiama "ideologia totale" e che corrisponde alla visione del mondo (qui (viii)). Per Mannheim la visione del mondo è determinata però anche da fattori inconsci, i quali fan sì che essa nasconda le condizioni reali dell'organizzazione sociale sia a coloro cui viene propinata sia agli stessi propinatori, in tal modo svolgendo una funzione prevalentemente conservatrice. Aggiungiamo ancora che per Mannheim l'ideologia si manifesta in idee che trascendono il momento sociale e non sono pertanto realizzabili; mentre egli chiama utopia un progetto suscettibile di essere realizzato. Sono usi strani dei termini, che nemmeno l'autorità di Mannheim è riuscita a imporre e che non possono certo venir attenuati e generalizzati per mezzo di distinzioni forzose, come quella fra 'utopico' e 'utopistico'. Non è da escludere che, passando dal natio ungherese al tedesco e poi all'inglese, egli si sia portato dietro significati che malgrado la sua maestria non sono riusciti ad accomodarsi completamente di lingua in lingua. A mio avviso è meglio abbandonare tali usi al momento storico in cui vennero concepiti e che (malignamente) "hanno trasceso"; e conservare a “utopia'” la comune connotazione di distacco dalla realtà e di visione impossibile. Tutte le ideologie descritte in questo elenco, a differenza di ogni utopia, sono strettamente intrecciate alla realtà e possibilissime: la gente le pratica e gli studiosi se ne occupano.
Per Marx dunque, secondo questo suo uso centrale, l'ideologia è il complesso delle rappresentazioni sovrastrutturali (dottrine filosofiche, politiche, etiche, religiose o d'altro genere), le quali esprimono e giustificano il modo e i rapporti di produzione dominanti. Anche i sistemi segnici e fra essi il linguaggio rientrano nell'ideologia così intesa, pur conservando nei suoi confronti una misura d'indipendenza di cui diremo in 1.3. Inoltre, quando vorremo distinguere l'ideologia dalla falsa coscienza (2.3), vedremo che il fattore linguistico è assai più determinante per la prima che per la seconda. Ora, siccome modo e rapporti di produzione dominanti rendono dominante una certa classe sociale, questa impone le suddette rappresentazioni e dottrine non solo a se stessa, ma anche a tutto il resto della società. Si elaborano così ideologie che investono l'intera società con il fine di farle accettare i rapporti di produzione utili al potere cioè atti a impedirne ogni scadimento. Tutti i testi di Marx sono in un modo o nell'altro fondamentali per capire il meccanismo ideologico: dalle due giovanili "critiche" a Hegel (quella della filosofia del diritto e quella della dialettica e della filosofia hegeliana in generale) fino alle Teorie sul plusvalore e agli inediti finora apparsi, fra cui spiccano i Manoscritti economico-filosofici, L'ideologia tedesca e i Grundrisse. Né sono da dimenticare gli scritti storici principali: Il 18 brumaio di Luigi Bonaparte (1852, 1869) e La guerra civile in Francia (1871), dove il meccanismo dell'ideologia viene rilevato dentro a sviluppi storici reali. Engels, da parte sua, ha dato un duraturo contributo alla chiarificazione dell'ideologia sia collaborando all'ideologia tedesca, sia sparsamente in vari suoi scritti teorici, sia infine in alcune lettere famose (come quella a Franz Mehring del 14 luglio 1893).
E' con Marx ed Engels che l'ideologia assume definitivamente la dignità già intravista sotto altri nomi da Francis Bacon, da Machiavelli e soprattutto dagli illuministi francesi di oggetto di studio sociologico e politico; ed è con essi che si forma una precisa denotazione negativa del termine insieme alle connotazioni che ne allargano la presa sulla realtà. Nell'ideologia tedesca, 'ideologia' voleva ancora dire soprattutto sovrastruttura filosofica di tipo idealistico (ed era uso imparentato a quello di 'falsa coscienza'). In seguito il carattere di contraffazione socialmente indotta e di mistificazione verrà accentuato e culminerà nella demistificazione della merce all'inizio del Capitale notoriamente il singolo testo più difficile che Marx abbia mai scritto, e forse il più importante in assoluto. Con il Lukács di Storia e coscienza di classe la demistificazione marxiana della merce viene ripresa e allargata lungo uno dei suoi filoni centrali, quello della "reificazione" (2.6.1). Tuttavia, nella stessa tradizione marxista è subito presente, si direbbe di necessità, anche un nuovo uso non negativo del termine: nell'«Introduzione» del 1857, ora restituita al suo luogo di introduzione generale ai Grundrisse, 'ideologia' vuol dire sovrastruttura in generale; ed è questo anche l'uso di Lenin, che parla a pieno titolo di "ideologia del proletariato".
Ideologia come truffa o inganno consapevole,
inventato apposta e per così dire pianificato a tavolino con il fine preciso di raggiungere qualche vantaggio pratico ai danni di interessi, idee e valori di almeno un'altra persona, ma in genere di interi gruppi sociali (classi subalterne, nazioni sfruttate, ceti e gruppi umani da strumentalizzarsi; più specificamente, il pubblico, i compratori, i clienti, i pazienti e così via). La distinzione fra singola persona e gruppo sociale è decisiva: non chiameremmo ideologo il truffatore spicciolo, anche se si deve concedere che le tecniche di persuasione cui egli ricorre sono intrise di falso pensiero. Chiaramente ideologiche nel senso dell'inganno consapevole sono invece la propaganda commerciale e ogni forma di imbonimento sociale, comprese in misura rilevante la propaganda politica, l'inculcamento religioso e altre forme più o meno raffinate di trasmissione del pensiero falso. questo naturalmente il livello più alto e più malvagio dell'ideologia nel suo senso peggiorativo. Il pensiero si realizza completamente come falsità. La totale consapevolezza pianificatrice dichiara un totale cinismo. Il disprezzo per i valori umani è assoluto. Non m'importa chi tu sia, ma cosa compri; non mi interessano i tuoi sentimenti e i tuoi problemi, ma solo che tu ubbidisca senza pensare. L'uomo si autodegrada ad animale feroce, verrebbe da dire, proprio in quanto si serve delle proprie capacità umane in maniera soltanto finalistica, con una enorme prevaricazione dei fini sui mezzi. Salvo che, a guardar meglio, l'ideologia come truffa e inganno consapevole è un'invenzione squisitamente umana, assente dal mondo animale (degli altri animali) perché fondata sull’uso di prevedere, sull'uso raffinato del linguaggio e sulla presenza di un meraviglioso serbatoio di impulsi da sfruttare, l’inconscio startificatosi attraverso un milione di anni di evoluzione specificamente umana.
Tuttavia, a parte i casi di totale dominio barbarico, questo tipo di ideologia, più grave dei due precedenti come livello di elaborazione, lo è di meno nella misura in cui è più facile demistificarlo. Non diciamo che sia meno grave come fatto storico globale; ma che, quando la progettazione ingannevole riguarda la società nella sua interezza, la sua volontarietà non può non trapelare e deve per lo più ricorrere ad apparati repressivi diretti per riuscire a imporsi. E’ dunque questo anche il luogo del trapasso dalla gramsciana società civile alla società politica, dall'ideologia come produzione del consenso all'esercizio se necessario addirittura fisico del dominio (cfr. 1.3.4). Nei casi precedenti, soprattutto in (ii) e (iv), invece, proprio la scarsa o nulla misura di consapevolezza rende difficile la demistificazione, costringe a prendere una distanza esistenziale in maniera intuitiva e poi a mettere in campo teorie a volte molto complesse della demistificazione (soprattutto psicopatologica in (ii), soprattutto economico-politica in (iv)). Qui la distanza esistenziale è già imposta dalla stessa pianificazione mistificante, e i fini pratici di tale pianificazione possono anche risultare subito ovvi.
Bisogna naturalmente distinguere fra consapevolezza del mistificatore e consapevolezza del mistificato. Torneremo su questo punto. E’ intuitivo che ci troviamo di fronte a una ricca fenomenologia che riguarda la produzione del consenso e la trasmissione del sapere in ogni loro aspetto, dalla formazione prescolare e dall'istruzione nei suoi vari gradini all'uso dei mezzi di comunicazione di massa, all'industria culturale, alla propaganda politica e commerciale, alla costruzione e diffusione di criteri per l'emarginazione, e così via. Tutte queste attività sono spesso lavoro sociale non solo pianificato ma anche consapevole; non dimentichiamo però che esse possono svolgersi anche a livello inconscio o preconscio, il che non toglie loro il carattere pianificato ma le fa rientrare in settori ideologici meglio indicati dalle concezioni precedenti.
Ideologia come falso pensiero in generale.
Questo uso esercita un potere di attrazione nei confronti dei precedenti, dei quali costituisce il denominatore comune. Qualsiasi tipo di attività intellettuale, o addirittura il pensare umano senza specificazioni, può essere considerato falso. Al di là di questa generalità non si può andare se non introducendo nell'ideologia un qualche elemento di neutralità, che ne riduce allora il tenore di falsità, oppure mischiando al falso pensiero la visione del mondo cioè trasformando l'ideologia come mero falso pensiero in ideologia come filosofia.
Si possono distinguere due tipi fondamentali di falsità del pensiero. Abbiamo il primo tipo quando l'aggettivo 'falso' viene inteso come contrario di 'vero'; si introduce allora almeno implicitamente la nozione di un pensiero vero. Questo solleva le complesse questioni dei criteri di verità da applicarsi in ogni data ricerca, o addirittura postula l'esistenza di un sapere speciale, in grado di attingere "la verità". Abbiamo il secondo tipo di falsità del pensiero quando l'aggettivo 'falso' viene inteso per conto suo, indipendentemente dal confronto diretto con la verità o addirittura al di fuori di ogni opposizione tra falso e vero o tra falso e reale. La falsità di cui qui si parla è quella di una situazione precaria, di un funzionamento insoddisfacente del pensiero in una data istanza o del pensare umano in generale. Queste nozioni sono presenti in Hegel e in Marx, poi nei loro vari continuatori e interpreti (Sohn-Rethel, 1965, trad. it. 1976, 130: «l'idea di verità.., è una falsa idea di verità, falsificata dal fatto che l'intelletto astratto è staccato dal lavoro manuale...»); nelle interpretazioni freudiane delle principali manifestazioni culturali; e, infine, in molta critica contemporanea della filosofia e della scienza (Wittgenstein e la sua scuola; la scuola operativa nelle sue propaggini tedesche, statunitensi e italiane; Husserl e la sua scuola; la critica esistenzialistica, per es. in Marcel e Berdjaev).
Ideologia come filosofia.
Come preannunciato, con la filosofia non c'è più soltanto falso pensiero, bensì anche visione del mondo: la filosofia è un intreccio delle due componenti. Siccome della visione del mondo parleremo più avanti, ci limitiamo qui a dire della filosofia come falso pensiero; e torneremo sull'ideologia filosofica in 2.9. Secondo le concezioni che assimilano la filosofia all'ideologia quale falso pensiero, alla filosofia si deve negare o in tutto o in parte valore e indipendenza di tipo scientifico. Un primo commento a queste negazioni è che la filosofia non è dunque una scienza: non per nulla in molti ambienti essa è stata per così dire promossa da scienza, che richiede un oggetto da conoscere o almeno da studiare, ad attività, che si esercita su processi in atto con l'intento di commentarli e chiarificarli. Che si tratti di processi individuali, o collettivi e pubblici, invece pienamente sociali e storici, è criterio fondamentale per distinguere fra tre gruppi di correnti. Un secondo commento aIle varie negazioni del valore scientifico di ogni filosofia è che esse considerano dunque il valore scientifico come non-ideologico: la scienza è sapere vero, la filosofia è sapere falso e deve ridursi a una qualche attività accompagnatoria, oppure può anche scomparire. Qui è chiaro che si pone il problema del tenore ideologico della stessa ricerca scientifica, sul che torneremo ripetutamente (soprattutto in 2.6.4 e 3.3.2).
La negazione della filosofia e la sua assimilazione totale o parziale all'ideologia può riguardare l’intero patrimonio storico tramandato come filosofico, il che lascia ancora aperta la possibilità che si presuma di saper inventare una filosofia nuova, la prima a non essere ideologica; oppure può riguardare la possibilità stessa del filosofare (Rogge, 1950, Ceccato, 1964 e 1966; \/accarino, 1974, i due titoli). In altri casi la negazione avviene in funzione di una metafisica accettata per fede, il che è tipico di varie correnti spiritualistiche (si vedano per es.: Pareyson, 1967; Prini, 1974 e 1976). Ci sono poi assimilazioni settoriali. Vengono chiamati ideologici, con accentuazioni più o meno negative: la metafisica perché fondata sull'accettazione di enti non osservabili, o perché troppo comprensiva e come tale sprovvista di senso, o perché superata dalla ricerca scientifica; il pensiero anti-illuministico perché volto all'oscurità anziché alla chiarificazione, o perché portatore di interessi reazionari; l'empirismo perché prono allo studio dei fatti nella sottovalutazione dei procedimenti che ci permettono di isolarli e in tal modo ridotto all'esame delle apparenze anziché rivolto alle sostanze, con rifiuto del pensiero negativo; la filosofia idealistica d'ogni tipo e momento perché staccata dai fatti, o perché fondata sulla gigantesca metafora dello "spirito" (e dei suoi vari equivalenti) quale estrema conseguenza mistificatoria del privilegio accordato all'anima sul corpo, nel che si rispecchia il privilegio del lavoro intellettuale nei confronti del manuale, a sua volta rispecchiante la divisione della società in classe dominante e classe subalterna o addirittura in liberi e schiavi: e andiam dicendo. Queste e altre assimilazioni denigratorie della filosofia all'ideologia sono correnti nei testi dei filosofi contemporanei pressappoco a partire da Marx: il che mostra quanto sia andata a segno proprio la critica marxiana della filosofia come ideologia nel senso negativo del termine, cioè come falso pensiero che in un modo o nell'altro rispecchia ed elabora gli interessi del potere nell'ambito di quella gigantesca fetta della riproduzione sociale che consiste nella produzione del consenso a tutti i livelli.
La concezione dell'ideologia di Destutt de Tracy e le altre a essa connesse rientrano nell'ideologia come filosofia, della quale costituiscono un caso storico che ha per noi la particolare importanza di aver introdotto il termine, ma che si presenta oggi assai settoriale e ingenuo (se ne veda tuttavia l'interpretazione semiotica di Rastier, 1972). Come dice l'etimo, doveva trattarsi di una scienza delle idee in generale quale parte della filosofia, nel cui ambito era chiamata a sostituire la metafisica. Destutt seguiva ancora la psicologia sensistica e associazionistica di Condillac (le idee derivano dalle sensazioni) e pensava pertanto alle idee quali fatti individuali di coscienza: i quali, una volta formatisi, entrerebbero in rapporto fra loro secondo determinati meccanismi di bellissimo effetto. Tutti i tipi di idee dovevano quindi interssare: non solo quelle del pensare, ma anche quelle del ricordare, del volere, e così via. Si trattava insomma di un programma di tipo lockiano, concentrato sui contenuti coscienti della mente e quindi sulla chiarificazione teorica. In gergo contemporaneo, lo si potrebbe definire come una specie di atomismo semantico con conseguente strutturalismo.
Il termine 'ideologia' veniva pertanto usato neutralmente ma assai superficialmente, secondo l'illusione settecentesca della neutralità della scienza; ma c'era anche di mezzo la questione dell'origine delle idee a esaminarsi. Per queste due ragioni era implicita nel programma un'ambizione politica riformistica di tipo astratto e aprioristico, che non poté evitare di entrare in contrasto con la programmazione ideologica alquanto brutale ma assai realistica di Napoleone. Si noti: la politica, date le premesse, non poteva essere che riformistica, e inoltre prevalentemente culturale aI livello scolastico; una politica rivoluzionaria avrebbe richiesto ben altre concezioni della stessa ideologia. Così il Buonaparte perseguitò gli studiosi di "scienza delle idee" quali visionari, chiamandoli spregiativamente ideologues e generalizzandone l'atteggiamento, in termini politici contingenti, come "repubblicano". Assai paradossalmente, egli si trovò ad anticipare nel modo più involontario talune reazioni dello stesso Marx. In Italia il termine venne introdotto da F. Soave e da M. Gioia, entrambi nel 1804; particolarmente spassosa, del secondo, l'associazione fra errori d'ideologia e di zoologia. Lo ritroviamo in Galluppi, Rosmini e Cattaneo.
E’ fin troppo facile, oggi, muovere le seguenti obiezioni. Primo, una scienza neutrale delle idee semplicemente non esiste. In realtà, non si dà alcuna scienza totalmente neutrale; ma è proprio nel campo delle idee e della loro formazione, che la neutralità può venir proposta solo come posizione ideologica estrema. Secondo, le idee sono non soltanto consce, ma anche inconsce. Se decidiamo di chiamare idee solo quelle consce, accettiamo i prodotti rescissi dai processi che li producono. Dovremo almeno ammettere che le idee, consce per nostra graziosa concessione in quanto prodotti, si formano anche inconsciamente e inoltre affondano radici in motivazioni che rimangono inconsce oppure che si trasformano in idee via via che le portiamo alla coscienza: col risultato che ci sarebbero le idee consce in primo grado o immediatamente, e quelle consce in secondo grado perché la loro consapevolezza è un prodotto di nostro lavoro. Ma quest'ultima ipotesi contraddirebbe la previa dichiarazione, secondo la quale il processo di formazione delle idee non ci riguarda, non è per noi oggetto di studio. Concludo che non è possibile chiamare idee solo quelle consce. Terzo, la matrice delle idee non è soltanto individuale, ma anche e anzi prevalentemente sociale. Indipendentemente dal marxismo, lo aveva ben visto Cattaneo, che conviene con questo richiamo distinguere dagli altri "ideologi" nominati poco sopra insieme a lui: egli accentuava l'aspetto storico dello studio delle idee e anzi sosteneva che perfino una sensazione elementare è storicamente determinata, è un fatto sociale.
Queste tre obiezioni distruggono ogni possibile residuo di un approccio alla Destutt de Tracy: lo abbandoniamo pertanto all'istante, né più ci torneremo.
Ideologia come visione del mondo a carattere sistematico, fondata su principi ed elaborata almeno per largo tratto in maniera consapevole.
Tale visione tende alla totalità, vuole abbracciare ogni cosa; si articola in un insieme di convinzioni, dee e ideali atti a orientare la vita pratica. Alcune dottrine tramandate come filosofiche sono assimilabili a questa concezione dell'ideologia; ma tra filosofia e visione del mondo si dà anche uno stacco che torna a vantaggio della seconda. Una visione del mondo, infatti, non è falso pensiero nella misura in cui non ha pretese di realtà, di corrispondenza obbligatoria con qualcosa che essa vuole descrivere e interpretare. Non ha bisogno di fingersi scientifica, o non in tutto; ma nemmeno si distingue per opposizione dalla scienza. Una visione del mondo ha una sua presa sulla realtà, anche se non scientifica; ma per contro, si parla comunemente anche di ideologia scientifica, di visione scientifica del mondo, come tale nettamente diversa dall'ideologia della scienza o degli scienziati (che appartengono semmai a (vi) o a (ii)). In culture nelle quali una scienza come quella sviluppatasi fra noi negli ultimi secoli non esiste e non è ancora penetrata, il problema dei rapporti fra visione scientifica e non scientifica del mondo non si pone nemmeno. Anche espressioni come 'ideologia proletaria' e 'ideologia rivoluzionaria' rientrano in questo uso generalissimo. Si tratta, invero, di un uso tutto sommato neutrale, con il quale siamo passati dall'altra parte del vertice filosofico in cui falso pensiero e visione del mondo s'incontrano. Quando la globalità dell'ideologia intesa come visione del mondo senza falso pensiero - si vuoi dire senza l'influsso determinante del pensiero falso - viene contrapposta alla settorialità di altre visioni, l'uso può addirittura diventare positivo. E’ una concezione comune in campo sociologico, dove si parla spesso di ideologia con atteggiamento descrittivo: dato per esempio un movimento politico, l'insieme dei suoi principi teorici ne costituisce l'ideologia: punto, e basta (in realtà non basta: ma qui si riferiscono atteggiamenti culturalmente reali).
Ideologia come intuizione del mondo a carattere emotivo, religioso, irrazionale, o comunque diverso dall'esame scientifico del mondo stesso.
Tale diversità può essere o non essere consapevole; ma è pronta a diventarlo se opportunamente sollecitata. La principale differenza fra questo uso e il precedente sta nella misura di globalità: una visione del mondo a carattere sistematico tende a essere onniinglobante; una visione del mondo a carattere intuitivo ed emotivo può permettersi il lusso di" lasciar fuori" grosse fette della realtà e dell'attività umana. E’ necessario distinguere questa concezione dalla precedente per render conto di fenomeni come la fede metafisico-ontologica di molti scienziati che al di fuori di essa praticano rigorosamente i metodi delle loro svariatissime discipline: ci sono matematici, fisici, chimici, biologi, sociologi, psicologi, storici, e così via, che "poi" sono cattolici. protestanti, musulmani, agnostici. atei, o magari buddhisti pre-bodhisattviani. In tal modo si ammette una dualità o pluralità fondamentale di atteggiamenti e orientamenti, quasi un'eco e una moltiplicazione dell'antica opposizione tra fede e ragione. La globalità della intuizione non viene posta in causa: si riconosce che i soli procedimenti razionali non bastano. E’ come dire che la persona umana ha bisogno di varie dimensioni lungo le quali orientarsi e trovare risposte ai suoi vari bisogni. Gli universi del discorso sono indipendenti, o si coprono l'un l'altro solo entro limiti descrivibili con una qualche precisione. Quanto si afferma nell'ambito di un universo del discorso non ha alcuna necessità di ripercuotersi in un altro.
Le difficoltà cui vanno incontro posizioni come quelle accennate non ci debbono chiudere gli occhi davanti ai fatto della loro frequenza e della loro comodità. Né il fatto che esse siano prodotti sovrastrutturali di situazioni sociali conflittuali irrisolte può servire a nascondere la loro esistenza e la loro potenza pratica.
Ideologia come sistema di comportamenti fondati su di una struttura di valori, al limite su di un unico valore assunto come fondamentale e generatore di altri valori.
Rientrano in questa concezione sistemi etici, insiemi di norme morali, codici per la condotta; ma in quanto vengano considerati nel loro aspetto frontale, non nelle loro eventuali connessioni con affermazioni di verità intorno al mondo o con visioni del mondo estese al di là della condotta individuale o di gruppo. Ha così luogo una forte riduzione del campo investito dall'ideologia. Anche nel caso che un sistema di comportamenti riguardi la totalità delle azioni umane, esso non è una visione del mondo, di tutto il mondo, a carattere intuitivo o sentimentale; tanto meno è una visione del mondo di tipo sistematico con tendenze onnivore. Ma inoltre in molti casi un sistema di comportamenti è sottoposto esso stesso a limitazioni: caso tipico la moralità limitata al gruppo cui si appartiene o addirittura fondata sull'appartenenza a un gruppo (Toulmin, 1950, trad. it. 1970; quando invece, come in Mao, la moralità è fondata sull'ideologia, entra in gioco una diversa concezione dell'ideologia stessa); altri casi tipici sono le eccezioni a norme anche fondamentali, come quella del non uccidere (si può uccidere per legittima difesa, si deve uccidere in guerra).
Quando diciamo, ed è uso abbastanza diffuso, che l'ideologia di una persona le impone di fare certe cose e gliene proibisce certe altre, stiamo adoperando la concezione dell'ideologia come sistema di comportamenti. Il riferimento a fattori diversi dal modo di comportarsi è possibile anzi abituale; ma non è necessario, né tampoco sufficiente, a caratterizzare questa concezione.
Ideologia come sentimento riferito a classi di cose appartenenti alla sola natura, o alla sola società, o a un qualche rapporto fra le due.
Non solo ogni visione complessiva è receduta nello sfondo; qui non abbiamo più nemmeno un sistema di comportamenti. Un sentimento è un insieme di inclinazioni personali o di gruppo e arriva fin dove arriva. Guida il comportamento in maniera intuitiva, permea di se stesso l'azione e i suoi oggetti; ma non ha nemmeno bisogno di esprimersi linguisticamente, o almeno può svolgersi senza tale espressione. Ciò lo pone al livello ideologico più basso, in contiguità con la mera falsa coscienza. Chi ama molto le piante e gli animali e se ne occupa e li difende, è mosso da una ideologia in questo senso. Siamo il più lontano possibile dell'ideologia come falso pensiero: per tornare verso la quale dovremmo risalire alla visione del mondo ed attraverso questa alla filosofia quale intreccio di visione del mondo e pensiero falso, ovvero oltrepassare la zona della mera falsa coscienza e rientrare, dall'altra parte del cerchio, nel campo dei pregiudizi, delle illusioni, e così via, fino a raggiungere nuovamente la filosofia.
E utile paragonare la concezione (xi) alla (i). Nell'ideologia come sentimento c'è ancora qualcosa che ricorda alla lontana una visione del mondo, ma non c'è quasi traccia di falso pensiero; c'è un elemento progettante, almeno vago; ma non una pretesa di verità. Nell'ideologia come pregiudizio, stereotipo, credenza, folklore, mitologia, invece, la visione del mondo cede il passo a un falso pensiero di tipo tenue e spesso innocuo.
Se chi ama le piante e gli animali è mosso da una ideologia come sentimento, a maggior ragione sembra esserlo chi ama il prossimo suo e gli si dedica. Tuttavia col passaggio dall'oggetto soltanto vivente, senziente e comunicante all'oggetto umano in senso storico sembra debbano entrare in gioco anche idee o nozioni, cioè qualcosa di "trans-sentimentale", in tal modo aggiungendo a questa concezione dell'ideologia qualcosa di più strutturato. Questi amori o passioni o dedizioni o predilezioni sono forze motivanti costanti e spesso profondissime; ma in nessun caso assumono il carattere di una dottrina anche solo pseudoscientifica.
[...]
Percorriamo ora avanti e indietro la serie delle undici concezioni dell'ideologia elencate, che sono anche altrettanti gruppi di usi del termine 'ideologia'. Emergono alcune caratteristiche che ci aiutano nel lavoro di sfrondamento e semplificazione. Fatta rientrare l'ideologia come scienza delle idee nella filosofia, le altre dieci concezioni si dispongono intorno ai due poli più volte indicati, quello dell'ideologia come falso pensiero (senso negativo o peggiorativo) e quello dell'ideologia come visione del mondo (senso prevalentemente descrittivo o neutrale). Anche qui ci soccorre il Battaglia, che non si spreca al di là dei tre significati fondamentali: quello desueto di scienza delle idee e gli altri due cui stiamo riducendoci. La concezione dell'ideologia come visione del mondo trova la sua espressione più forte in (viii); quella dell'ideologia come falso pensiero trova la sua espressione più generale v in (vi). Le concezioni elencate come intuizione del mondo (ix), sistema di comportamenti (x) e sentimento (xi) sono casi meno sviluppati dell'ideologia come visione del mondo: mancano a essi in varie misure sistematicità, comprensività, livello di elaborazione, consapevolezza. Le concezioni dell'ideologia come mitologia e credenza (i), illusione e autoinganno (ii), senso comune (iii), menzogna e contraffazione (iv), e infine come truffa o inganno consapevole (v), sono casi di falso pensiero, distinti fra loro per misura di consapevolezza e volontarietà. Infine, la concezione dell'ideologia come filosofia, non per nulla indicata come settima al termine della serie delle concezioni negative e subito prima della concezione descrittiva fondamentale, partecipa di entrambe le concezioni polari, in tal modo aprendo il discorso sulla complessità e sottigliezza dell'elaborazione filosofica quale elaborazione ideologica. Su di essa torneremo pertanto con una certa ampiezza al termine della parte seconda, dopo aver messo in campo vario altro materiale. Ci sono alcuni aspetti generali della classificazione sui quali conviene spendere qualche pagina.
Un primo aspetto, che le concezioni così come sono elencate in parte rappresentano ma per altra parte trascurano, è quello della capacità di copertura reale delle varie concezioni e inoltre delle direzioni di tale copertura. Nell'elenco non compare la questione dei gruppi sociali che di fatto accettano una data ideologia: è chiaro che essa ha un ben diverso peso, se la intrattengono solo ristretti gruppi sociali, o invece tutta una società in un periodo del suo sviluppo. Un'altra questione è quella dei rapporti che si vengono a istituire fra vari gruppi sociali (classi, ceti, corporazioni, caste, conventicole, e altri ancora; ma anche il governo, le forze armate, la burocrazia, le chiese, la scuola, e così via). Quando un solo gruppo accetta una data ideologia, qual è la posizione degli altri gruppi? Possono essi restare indifferenti all'ideologia del gruppo accettante, o la debbono subire, o possono averne altre? Quali sono i casi generali di conflitto fra varie ideologie socialmente rilevabili? Sembra chiaro che questioni di questo genere ci sollevano subito al disopra di ogni procedimento vocabolaristico e di ogni intento classificatorio. Un secondo aspetto emerso solo in parte nella classificazione è quello dell'efficacia o capacità di spinta o funzione di potere di ogni data ideologia. Esso taglia di traverso sia le distinzioni recate dall'elenco vocabolaristjco sia la questione dei gruppi sociali portatori o non portatori di questa o quella ideologia. Una visione del mondo nel senso (viii) può essere altamente elaborata ma servire a poche persone sprovviste di potere politico, mentre un mero sentimento nel senso (xi) può risultare dominante in una certa società e determinarne il comportamento globale. Una mitologia (ideologia come falso pensiero nel senso (i)) può pervadere un'intera cultura, mentre un inganno consapevole (senso (v)) può accendersi e spegnersi su di un periodo anche brevissimo. Per dirla anche stavolta con Marx, l'unica vera scienza che possiamo qui riconoscere è la storia.
Inoltre, e potrebbe essere questo un terzo aspetto trascurato nella classificazione, le ideologie nel senso peggiorativo risultano già giudicate, mentre quelle in senso descrittivo non lo sono, o assai meno decisamente. Le seconde più delle prime si presentano pertanto come assoggettabili ex novo a criteri di valutazione che varieranno a seconda del punto di vista assunto. Ma chi ci darà questi criteri? Si presenta a questo punto l'ubbia di un livello metaideologico cioè non-ideologico, che per Pareto era la scienza logico-sperimentale, mentre per taluni marxisti dogmatici era (o continua a essere?) una scienza della rivoluzione a percorso unico, formulata una volta per tutte da un Maestro morto cent'anni fa e da un altro morto cinquant'anni fa, e non più suscettibile di adeguazione alle nuove realtà sociali. In tal modo si vuole osservare la lettera di certe formulazioni contraddicendone anzi distruggendone lo spirito e ignorandone i principi ispiratori. Torneremo ripetutamente su questo punto. Notiamo intanto che le considerazioni svolte sui vari "aspetti" dell'ideologia che la classificazione trascura avrebbero un sapore paretiano solo se volessimo anche noi giudicarne da un punto di vista meta-ideologico, per mezzo di criteri in tutto o in parte sollevati al di sopra del continuo mutare delle circostanze. Sia ben chiaro che rifiutiamo tale possibilità alla radice: è solo nell'ambito del processo storico, in funzione di una valutazione delle circostanze il più possibile obiettiva e pertanto sempre diversa, che è lecito assumere un punto di vista. Sicché, come andremo ripetendo, ogni punto di vista è esso stesso ideologico.
La questione della misura di consapevolezza e volontarietà merita anch'essa qualche commento. Per giudicare della consapevolezza e volontarietà di un'azione o di un'idea bisogna mettere in opera criteri così delicati e complessi, che al di là di talune distinzioni iniziali sembra essi possano operare in modo soddisfacente solo caso per caso, o al massimo per ristretti gruppi di casi. Chi è consapevole di fare una cosa, molte volte la fa volontariamente. Ma questo è solo uno dei casi possibili, giacché si può fare volontariamente una cosa senza affatto conoscere le forze interne ed esterne che ce la fanno fare, i condizionamenti che abbiamo subiti in un passato magari remoto e quelli che stiamo adesso subendo; per contro, si può essere consapevoli di cose che ci troviamo a fare "di mala voglia", o "contro voglia", o addirittura a subire con un senso di costrizione. Ciò vale per il comportamento individuale, di gruppo, di classe, di interi paesi. Qual è la misura di consapevolezza e volontarietà secondo la quale le multinazionali "decidono" di sfruttare i paesi sottosviluppati e "sanno" che stanno sfruttandoli? Qual è la misura di volontarietà che resse l'orrenda avventura statunitense in Vietnam? I bombardamenti su Hanoi venivano pianificati a tavolino volta per volta - intendo quali decisioni politiche e non solo quali azioni militari- ed esprimevano pertanto direttamente una volontà di dominio e sterminio, o erano in parte anche conseguenze pragmatiche di una precedente pianificazione generale avvenuta a un più basso livello di consapevolezza quale espressione di interessi generali accettati come giusti e spontanei o traenti la propria falsa giustificazione da una visione globale del mondo arretrata ed egoistica ma non mai posta in causa? Che cosa "impone" realmente all'Unione Sovietica un continuo controllo sui paesi dell'Europa orientale? L'interesse o addirittura lo sfruttamento economico, la paura di perdere prestigio e potere, l'esigenza di controbattere infiltrazioni occidentali, la fedeltà ai principi della Rivoluzione d'Ottobre, una cecità burocratica accresciutasi su se stessa, o che altro? Qual è la vera ragione per cui Ciang Cing e gli altri tre dirigenti del "gruppo di Shanghai" non hanno potuto parlare alla televisione per far conoscere alle masse il loro punto di vista? Che cosa "aveva in mente" Hua Kuofeng nell'impedirglielo, e in che misura ciò che "aveva in mente" era presente alla sua coscienza od operava invece dal suo interno come insieme di modelli introiettati nel corso della sua lunga formazione di dirigente cinese? E’ lecito attribuirgli uno stato d'animo come, per esempio, la paura che le masse non fossero in grado di formarsi un giudizio obiettivo in base a dibattiti televisivi o d'altro genere, o addirittura il timore che un confronto diretto potesse risolversi in favore dei dissidenti? O si trattò invece d'una elaborazione del tutto consapevole, ispirata a giuste esigenze dell'intero popolo cinese, o di una sua porzione preponderante? E’ chiaro che le diverse misure di consapevolezza e volontarietà, e inoltre la portata della visione ispirante, determinano il tipo di ideologia da rilevarsi.
Si noti che tutte le domande sperimentalmente avanzate si spezzerebbero ulteriormente, ove appena ci domandassimo a chi debba o possa meglio applicarsi il giudizio di consapevolezza e volontarietà. Ai soli governanti o anche ai governati (remoti sono i tempi di Machiavelli; ma non certo scomparse le mistificazioni dello scettro da lui temprato)? O forse solo ai quadri relativamente alti? O invece anche ai quadri intermedi? Esempi, e domande su di essi, si possono facilmente moltiplicare fino al punto di diventare ridicoli: il che induce alla conclusione che consapevolezza e volontarietà in quanto tali, isolate da tutto il resto, non riescono a fornire criteri univoci per giudicare delle azioni politiche, e anzi non giungono nemmeno a classificarle. Di ciò che è politico non sì discorre, o si discorre assai vagamente, in termini di volontarietà e consapevolezza.
Quanto poi alle azioni individuali (ammesso che sia davvero possibile isolarle dalle sociali), non possiamo ogni volta sottoporre ad analisi terapeutica il portatore di ideologie col fine di collocarlo in una delle caselle predisposte. Oltre a tutto, la collocazione avverrebbe al termine del processo temporale dell'analisi (essa stessa un rapporto sociale), ma riguarderebbe uno stadio iniziale, precedente all'analisi stessa; e l'analista risulterebbe necessariamente imbevuto, lui soltanto, di una scienza demistificante (svilupperemo questo punto in seguito). Proprio perché Marx e Freud, in questo certamente solidali, hanno disvelato condizionamenti e motivazioni dell'agire umano facendo esplodere una volta per tutte ogni precedente concezione della psiche come qualcosa di indipendente e delle forze che vi si muovono come sempre presenti alla coscienza, che le concezioni dell'ideologia elencate dopo il falso pensiero per così dire ricadono all'indietro su di esso.
Ma inoltre, il principale criterio applicato per distinguere l'ideologia come visione del mondo dalle altre concezioni "neutrali", quello della sistematicità, non può non applicarsi anche a tutte le concezioni dell'ideologia come falso pensiero: anch'esse possono essere più o meno sistematiche. Per l'opposto, i principali criteri che (con le riserve fatte) potrebbero esser d'aiuto nel graduare le varie concezioni dell'ideologia come falso pensiero, la consapevolezza e la volontarietà, non possono non applicarsi anche a tutte le concezioni dell'ideologia come visione del mondo più o meno sistematica. La stessa opposizione fra ideologia come falso pensiero e ideologia come visione del mondo sembra insomma destinata a traballare, se appena introduciamo criteri comparativi d'una qualche malignità. La classificazione degli undici gruppi di usi si conferma per quello che è: un mero rilevamento empirico, al massimo con un tal quale innobilimento storiografante, e inoltre con l'applicazione di alcuni criteri come la "serietà", la generalità e la consapevolezza. Tale classificazione getta una qualche luce sullo svariare degli usi rilevabili a livello vocabolaristico e storiografico; pone un po' di ordine in un terreno simbolico sommamente disordinato; ha il merito di conferire alla filosofia una posizione centrale e di appendere come festoni ai suoi fianchi alcuni gruppi di concezioni distinguibili. Tuttavia la classificazione per sé presa non è certo in grado di avvicinarsi alla soluzione dei problemi di fondo dell'ideologia. Ora che la nostra brava classìficazione l'abbiamo fatta, ora che accettando e facendo subire al lettore lo svariare terminologico possiamo dire di non aver volontariamente trascurato alcuna fra le concezioni correnti dell'ideologia, non ci resta che tentare una strada affatto diversa ci sentiamo anzi autorizzati a intraprenderla.
Quella che dobbiamo trovare per sollevarci fuori dal guazzabuglio storiografico-terminologico, è una "chiave" per l'interpretazione unitaria della situazione storico-sociale in generale, col fine di collocare l'ideologia in tale situazione. O meglio, dobbiamo sceglierne almeno una, giacché di chiavi ce ne sono parecchie. E’ infatti in gioco nientemeno che una interpretazione della società e della storia, la quale si allarga senza soluzioni di continuità in dottrina generale dell'uomo e della sua posizione nel cosmo. Il possesso di una chiave interpretativa e la sua applicazione metodica dovrebbero evitarci di riandare ogni volta a problemi soggiacenti, o di ripercorrere ogni volta la storia dell'ideologia, o di tener conto ogni volta dei dissensi che si danno oggi sull'argomento e degli interessi che tali dissensi rappresentano, si esprimano essi o no in differenze anche terminologiche. Dal momento che l'uso più pregnante e ricco di conseguenze dell'apparato concettuale dell'ideologia è quello marxista, risulta del tutto opportuno proporre qui, come duplice chiave, due fra le nozioni più vaste e profonde del marxismo teorico: quella della pratica sociale e quella dell'alienazione. La seconda verrà adoperata lungo tutta la seconda parte, quale motivo essenziale della trattazione. In questo capitolo viene applicata la prima a titolo d'inquadramento generale.
Oggetti principali del nostro discorso, come abbiamo detto, saranno l'ideologia come falso pensiero e l'ideologia come progettazione sociale. In questi due aspetti dell'ideologia confluiscono, insieme ad altri strumenti concettuali, anche le due principali nozioni di ideologia che emergono dalla letteratura: quella chiamata peggiorativa nel primo, quella chiamata descrittiva nel secondo. In ogni progettazione ideologica si esprimono gli interessi della classe egemonica e si rispecchia, attraverso mediazioni, il modo di produzione dominante; ovvero, la progettazione è avviata dai rappresentanti di una classe subalterna, in vista di un diverso modo di produzione e di una diversa organizzazione dei rapporti umani. Si noti che diciamo progettazione, non mera visione del mondo: si tratta di qualcosa di pianificato a vari livelli della consapevolezza, qualcosa che almeno in linea di principio investe la società nella sua interezza e sul lungo periodo. Ogni progettazione ideologica parte comunque da una situazione repleta di falso pensiero: convoglia falso pensiero in modo consapevole o no; oppure, tentando di districarsene, ha comunque a che fare con esso. Proponiamo pertanto quali principali due tipi di ideologia come progettazione sociale: la reazionaria o conservatrice e la innovatrice o rivoluzionaria. Fra reazione e conservazione, come fra innovazione e rivoluzione, ci sono importanti differenze; ma la principale linea divisoria passa fra il primo gruppo e il secondo, distanziando il conservare dall'innovare.
Ripetiamo questo preambolo con un'altra impostazione. Per afferrare bene gli "oggetti" del nostro discorso, è necessario collocarli accanto ad altri che formino insieme a essi delle totalità nell'ambito delle quali il loro senso e la loro portata si precisino. Le due totalità cui faremo più spesso riferimento sono quella della pratica sociale e quella dell'alienazione; gli "altri oggetti" sono la coscienza e il pensiero falsi coi vari ordini di praxis che a questi necessariamente si accompagnano; fanno parte del quadro anche gli sforzi e i progetti per diminuirne la falsità. Tali sforzi e progetti danno luogo a vari ordini di conflitti: fra apparenza e realtà, fra fenomeno ed essenza, fra reale e possibile, fra realtà presente come "rifiutata" e realtà futura come "progettata", e così via, nei quali si riflettono al livello sovrastrutturale i conflitti e le contraddizioni sociali. Anche gli sforzi e i progetti sono ideologici; ma il loro fondamento è diverso da quello delle ideologie che impongono la realtà presente o si limitano ad accettarla. Nel carattere ideologico degli stessi sforzi e progetti volti a diminuire la falsità della realtà riemerge l'aspetto di falso pensiero dell'ideologia, quello in cui è confluita la tradizionale nozione peggiorativa.
Nella terminologia che andiamo introducendo o rievocando, l'alienazione comprende dunque falsa coscienza, falso pensiero e vari ordini di falsa praxis. Senza praxis non si danno coscienza e pensiero; senza praxis falsa non si danno falsa coscienza e falso pensiero; e viceversa. proprio sul rapporto fra praxis e coscienza false, ma ancor più significativamente tra falsa praxis e falso pensiero, che si esercita quello sforzo conflittuale da cui può prendere l'avvio una progettazione disalienante. Dai vari ordini di praxis contrapposti alla coscienza e al pensiero distinguiamo qui, con stipulazione abbastanza diffusa, la totalità della pratica sociale, che tutti li comprende così come comprende ogni altra attività umana. Qualsiasi istanza di pratica sociale (preciseremo in 2.2.1 in che senso si possa parlare qui di comportamento) è sempre praxis e coscienza o praxis e pensiero.
La nozione di pratica sociale deve a sua volta trovare una collocazione nei confronti di altre nozioni generalissime, che sembrano indicare più o meno lo stesso campo. Consideriamo due altre nozioni, quella di riproduzione sociale e quella di storia. Se esaminiamo talune frasi comunemente usate, come 'gli uomini producono la storia', 'le forze che muovono la storia', e altre simili, troviamo la storia in posizione di complemento oggetto, quale prodotto di un lavoro esercitato dagli uomini secondo modalità e attraverso fasi strumentali che si ripetono. La nozione di pratica sociale sembra invece riferirsi prevalentemente a ciò che gli uomini fanno, al loro operare quali membri riuniti della comunità. Tale riferimento considera gli uomini "per conto loro", cioè li vede nella fase in cui si distaccano dalla natura e almeno provvisoriamente si contrappongono a essa: tanto che uno dei momenti essenziali della pratica sociale è l'appropriazione e lo sfruttamento delle risorse naturali. Cioè ancora: la pratica sociale è pratica degli uomini come attori della storia, come operatori sulla natura e su se stessi. Nemmeno la natura è invece esclusa dalla nozione della riproduzione sociale, in quanto per riprodursi una società deve già servirsi di quello che la natura le offre. La riproduzione sociale, infatti, è l'insieme di tutti i processi per mezzo dei quali una comunità o società sopravvive, accrescendosi o almeno continuando a esistere. La nozione ha una forte connotazione economica, giacché gli individui debbono come minimo mangiare, bere, proteggersi dalle intemperie. II cuore della riproduzione sociale sta pertanto nella produzione di beni per il consumo immediato (al livello iniziale, nell'appropriazione di beni offerti dalla natura). Ma in nessun modo l'attività produttrice di tali beni può coprire per intero la riproduzione sociale, nemmeno ai primordi. Anche per soddisfare bisogni materiali immediati, infatti, gli individui debbono riunirsi in gruppi, ponendo subito in atto più complessi processi sociali a cominciare dal linguaggio nel contesto di tutti i sistemi segnici; e gli stessi beni materiali, già a un livello elementare dello sviluppo, non vengono consumati subito per intero, bensì anche o prevalentemente messi da parte ("accumulati") per essere consumati in seguito: il che comporta ulteriori forme di organizzazione fra gli individui del gruppo. Tutti i processi principali che si svolgono in una società, e non solo quelli direttamente produttivi, fanno insomma parte integrante della riproduzione sociale fin dall'inizio. appunto in tal modo che gli individui si formano, si isolano l'uno dall'altro, prendono coscienza del mondo e di se stessi. Parafrasando un celebre detto di Wittgenstein e al tempo stesso prendendone le debite distanze, potremmo dite che la riproduzione sociale è "ciò che avviene" (was der Fall ist).
Da queste indicazioni (altre ce ne sono, che tralasciamo qui) sembrerebbe possibile raggruppare le tre nozioni in esame quali momenti della realtà sociale in generale, secondo una tripartizione fondata sullo schema elementare del lavoro produttivo (lavoratori e lavoro; materiali e strumenti; prodotti):
Realtà sociale
1) Pratica sociale: lavoro svolto dagli uomini in società; adopera come materiali e come strumenti gli uomini stessi e la natura già da essi modificata, cioè la storia passata.
2) Riproduzione sociale: enorme macchina, cioè organizzazione strumentale, inventata e costruita dagli uomini per produrre la storia; la macchina è comprensiva sia degli uomini stessi sia della natura, che in essa vengono adoperati e conme materiali e come strumenti,
3) Storia: prodotto della pratica sociale per mezzo della riproduzione sociale, a sua volta comprensiva degli uomini e della natura quali prodotti.
Ma siccome la realtà sociale colta nel suo divenire altro non è che riproduzione sociale, la tripartizione può essere subito sostituita con la seguente, semplificando:
Riproduzione sociale
1) pratica sociale come lavoro;
2) macchina per produrre la storia, con le sue interne articolazioni; cioè la riproduzione stessa viene vista nel suo momento strumentale;
3) storia come prodotto.
Queste tripartizioni vengono da un taglio immediato del processo storico della riproduzione sociale, del quale rappresentano sincronicamente ogni dato istante. Il prodotto precedente è sempre già presente sia come materiale sia come strumento di nuovo lavoro. Si eliminano in tal modo le apparenti contraddizioni fra proposizioni assai usate come "gli uomini che producono la storia", "gli uomini quali strumenti di forze sovrapersonali", "gli uomini quali prodotti storici", e altre simili: le quali indicano tutte questo o quell'aspetto di una realtà unitaria in movimento, Producendo la storia, infatti, gli uomini producono e riproducono se stessi adoperando se stessi anche se per lo più non sanno come (vedi qui avanti). Molte inutili discussioni si sarebbero evitate, se si fosse applicato dialetticamente lo schema elementare del lavoro produttivo: ogni cosa, infatti, può essere o lavoro o strumento o prodotto; ogni cosa può essere materiale su cui si svolge un nuovo lavoro.
Non dobbiamo dimenticare che le tre nozioni di pratica sociale, riproduzione sociale e storia, data la loro vastità, vengono spesso usate ognuna per conto suo, come capace di indicare connotativamente l'intero campo. Chiaramente, esse non si danno l'una senza l'altra; e il fatto stesso che i rapporti da esse riassunti siano sempre anche temporali, tal che è possibile tenerli teoricamente distinti solo per mezzo di un taglio sincronico immediato, mostra come esse, pur accentuando utilmente vari aspetti dell'intero processo, si coprano reciprocamente fin quasi a esaurirsi l'una nell'altra. un caso tipico di "unità nella distinzione".
Nel corso di questo volume sarà utile usare tutte e tre le nozioni a seconda del contesto e del momento stilistico. Ci sarà tuttavia una prevalenza nell'uso di 'pratica sociale'. L'ideologia, pur essendo come ogni altro oggetto sociale un prodotto storico essa stessa. e pur costituendo parte integrante di ogni processo di riproduzione sociale, si presta infatti a essere avvicinata con maggior vigore dal punto di vista della pratica sociale. O almeno, a ciò si prestano gli aspetti qui considerati essenziali dell'ideologia, il falso pensiero e la progettazione sociale: i quali impongono di vedere gli uomini come produttori e al tempo stesso come vittime, come agenti consapevoli o inconsapevoli ma comunque sempre come capaci di agire. Da questo punto di vista, distinguere fra ideologie significa distinguere fra pratiche sociali; e se si vuole cambiare l'ideologia, si deve cambiare la pratica sociale.
Non c'è nulla che non appartenga alla riproduzione sociale, che non sia il prodotto storico di una forma di pratica sociale. Questo è vero sia in senso descrittivo sia in linea di principio. Un approccio descrittivo alla riproduzione sociale porterebbe alla compilazione di una specie di enorme catalogo di tutte le principali attività umane, il che presenta subito la duplice difficoltà di distinguere le attività principali dalle secondarie e di istituire rapporti fra di esse. L'avvio sistematico di un tale catalogo non è impossibile, ma esce completamente dai limiti di questo volume. Limitiamoci a ricordare che il fattore empirico-descrittivo inerente all'idea stessa del catalogare potrebbe servire da correttivo all'astrattezza e ai pregiudizi delle costruzioni soltanto teoriche.
In che senso, piuttosto, è possibile affermare che tutto appartiene alla riproduzione sociale in linea di principio? Non è certo un senso idealistico: la riproduzione sociale non è solo coscienza o linguaggio o pensiero; è anche un insieme di processi in varie maniere più direttamente materiali, che si svolgono realmente sul pianeta Terra, e dei quali coscienza, linguaggio e pensiero sono semmai i prodotti (si vedano qui le ricerche di Trân due Thao sulle origini materialistiche del linguaggio e della coscienza). Quando si afferma che in linea di principio tutto appartiene alla riproduzione sociale (che tutto viene prodotto dalla pratica sociale, che tutto è storico), non si vogliono certo affermare proposizioni come, per esempio, che i sassi o gli alberi non esistano anche "per conto loro", quali oggetti "esterni" o, come si diceva una volta, "indipendentemente dal pensiero". Oppure che l'evoluzione geologica non abbia preceduto quella biologica, e questa la sociale, di modo che la prima ha una sua totale indipendenza temporale dalla seconda, e la seconda dalla terza (la clausola 'temporale' è necessaria perché si deve tener conto delle retroazioni del biologico sul geologico e del sociale su entrambi). Oppure che l'uomo non possegga un corpo soggetto a forze biologiche entro certi limiti non o scarsamente controllabili, tanto che entro quei limiti si può dire che l'uomo è posseduto dal proprio corpo. Si vuole invece affermare che qualsiasi oggetto, qualunque sia il suo ordine o tipo di esistenza, viene sempre individuato, assunto e adoperato dentro alla riproduzione sociale. Tutti i discorsi che si possono fare, a cominciare dalla costituzione dei loro oggetti, sono forme o aspetti o momenti della pratica sociale.
Nemmeno in teoria si può oltrepassare la riproduzione sociale, giacché qualsiasi operazione concettuale altro non è che un'istanza della pratica sociale essa stessa. Prima che la riproduzione sociale prendesse le mosse, non c'erano né coscienza né linguaggio né pensiero né, tantomeno, distinzioni come quelle fra storia e preistoria, o fra preistoria e aggregati umani primordiali, o fra uomo e animale, o più genericamente fra uomo e natura. Un insieme concettuale come quello dell'ominazione ha cominciato a formarsi dopo almeno quattromila anni di storia documentata preceduta da molte migliaia di secoli di lenti sviluppi. solo in quanto c'è, esiste e si svolge, una riproduzione sociale altamente sviluppata, che possiamo, ora, ricostruire una situazione precedente al suo formarsi e al tempo stesso affermarne l'esistenza reale, ciò che richiede l'uso di procedimenti e criteri di giudizio notevolmente complessi. L'esame di tali procedimenti e criteri non può rientrare nel presente discorso; tuttavia qualcosa se ne dirà in 2.2, trattando dell'attribuzione di proprietà alle cose. Qui contentiamoci di osservare che chi pensa di "oltrepassare" la pratica sociale per attingere un reame che ne sarebbe esente, lo fa con lo strumento di precisi sviluppi della pratica sociale cui appartiene. C'è anche chi giunge a conferire al proprio esercizio individuale o di gruppo della pratica sociale, cioè a qualcosa di altamente selezionato e condizionato, l'ascoso potere di delimitare la pratica sociale in generale: magari di delimitarla "dall'esterno" e allora cadiamo nel ridicolo.
La stessa concezione di una natura esterna all'uomo, che l'uomo ritrova in se stesso come forza reale e condizionante dalla nascita alla morte, è sempre appunto una concezione, un modo di vedere e interpretare la realtà, insomma un oggetto che l'uomo ha costruito col suo pensiero. La Natura non esiste per gli altri animali: è un'invenzione umana, impensabile senza la Storia. Come tale essa è a sua volta condizionata da tutto ciò che produce e condiziona l'uomo e il suo pensiero: tanto è vero che di concezioni della natura ce ne sono state e continuano a essercene molte diverse. L'assunzione di una natura indipendente dalla riproduzione sociale equivale anch'essa al trasferimento del risultato di una certa pratica sociale, la quale appunto ha permesso la formazione di una generalizzazione come quella della natura senza aggettivi né specificazioni ma retta da leggi formali universalmente valide, a una situazione che si vorrebbe sottratta alla pratica sociale. Sono qui fondamentali le ricerche di George Thomson e Alfred SolinRethel sull'economia monetaria, lo scambio di merci e il denaro come sfondo sociale reale delle astrazioni filosofiche e scientifiche: se non si fosse prima giunti al denaro quale portatore di mero valore di scambio e quale metro di tale valore, non si sarebbe mai potuto giungere alla nozione di una natura sprovvista di qualità, oggettivata quantitativamente e come tale misurabile.
Perfino quando "cerchiamo un contatto diretto e spontaneo con la natura", seguiamo precise rotaie ideologiche che sono state costruite per noi dalla società cui apparteniamo. In altre circostanze storico-sociali, il problema di "entrare in contatto con la natura" non si pone nemmeno. Qualsiasi teoria non solo della natura, ma anche dell'uomo, della società, della storia, e andiam dicendo, è insomma essa stessa sempre interna, e non mai esterna, alla riproduzione sociale. Lungi dallo svolgersi secondo una qualche teoria, la pratica sociale produce e adopera teorie che le servono ai propri fini.
Le considerazioni fin qui fatte contengono in nuce sia una critica radicale di ogni ideologia conservatrice sia un richiamo al carattere interno alla pratica sociale, e perciò sempre transitorio, delle stesse ideologie rivoluzionarie. Una nozione della rivoluzione a percorso unico e buona una volta per tutte, semplicemente non esiste. Torneremo su questi punti lungo tutta la terza parte.
La riproduzione sociale è la categoria fondamentale, o meglio la matrice di tutte le categorie possibili, il principio sia reale sia metodologico di tutte le cose. Solo che tale principio non è una mera parte della realtà oggettivala, come l'acqua per Talete; e nemmeno è la realtà tutta intera ridotta a natura, come in ogni forma di naturalismo oppure qualcosa clic trascenderebbe una volta per tutte la natura, come in ogni forma di spiritualismo o idealismo. Il "principio" è la realtà stessa quale somma di fattori naturali e fattori storici: una "somma" che l'uomo è andato componendo via via che produceva e riproduceva se stesso in forme sempre più complicate e sempre più consapevoli. Diventa perfino ovvio, che tale somma sia soggetta a incessante cangiamento nel tempo e nello spazio. Non solo l'incessante cangiamento sta sotto gli occhi di tutti; la sua negazione è inconcepibile in linea di principio. Sono dunque le forze reali che in ogni dato caso determinano il processo della riproduzione sociale quale somma di fattori naturali e storici, quelle che debbono interessarci di più. È da tali forze che le varie ideologie scaturiscono.
Per analizzare ulteriormente la riproduzione sociale al livello di semplicità cui questa parte introduttiva deve mantenersi, è chiaro che occorrono criteri semplificativi. Si tratta di trovare all'interno della riproduzione sociale alcune distinzioni sufficientemente contenutistiche per non essere vuote e sufficientemente formali per poterle riapplicare indipendentemente dall'incessante variare dei contenuti storico-sociali. Il rinvenimento di distinzioni del genere fu opera precipua del materialismo storico, che aveva alle spalle l'universale concreto; esso continua a occuparsene, anche se l'universale concreto si è forse un p0' arrugginito. Ogni sistema di distinzioni ottenuto applicando criteri semplificativi appropriati può configurarsi come modello per ulteriori ricerche. Ricorderemo qui tre modelli, distinti fra loro e tuttavia interconnessi, che pensiamo utili ai nostri fini. Essi sono l'articolazione in produzione, scambio e consumo; l'opposizione fra struttura e sovrastruttura; e la tripartizione in modi di produzione, sistemi segnici e ideologie. A questi tre modelli si farà riferimento lungo tutta la trattazione. Altri modelli verranno introdotti più avanti.
(i) I tre momenti principali di ogni caso concreto di riproduzione sociale sono la produzione, lo scambio e il consumo. Lo scambio non è qui da intendersi nel senso ristretto di scambio mercantile, affermatosi e universalizzatosi con la produzione per il mercato; bensì in un senso più ampio, che comprende ogni tipo di scambio sia mercantile sia pre o nonmercantile con i loro sviluppi in varie forme di circolazione, distribuzione ed esclusione e che ha la sua radice nell'originaria istituzione di rapporti o "commercio" fra gli uomini (è il Verkehr di cui parlano ripetutamente Marx ed Engels fin dall'Ideologia tedesca). È possibile distinguere i momenti della produzione, dello scambio e del consumo sia al livello individuale sia a quello collettivo. Adoperiamo pure, per semplicità, una terminologia mercantile; chi mangia una mela non la sta comprando, né la sta producendo; chi lavora alla costruzione di un'automobile non la sta vendendo né usando egli stesso. Chi baratta o comperaovende un qualsiasi oggetto, anzi, può ftirlo proprio in quanto, nell'atto, prescinde da se stesso come produttoreoconsumatore dello stesso bene (anche se nella realtà non c'è mai un distacco totale: per esempio chi vende avrà denaro con cui comprerà cose che consumerà). A queste diverse posizioni degli individui corrispondono come loro sviluppi istituzionalizzati diversi complessi di attività sociali: esistono fabbriche e industrie; reti distributive e negozi; ed esistono consumatori. Che il consumo come fruizione sia ultimamente individuale non deve nascondere il fatto che esistono fruizioni specificamente sociali, operabili solo in compagnia; e comunque, i fruitori appartengono sempre a gruppi sociali le cui modalità consumistiche sono in gran parte minutamente determinate dalla produzione e dallo scambio.
In un senso più fondamentale, in effetti, produzione scambio e consumo sono inestricabilmente connessi: come è stato mostrato definitivamente (per fissare una data) fin dal 1857 (Marx, Grundrisse, trad. it. Backhaus, i: 537), essi appartengono alla stessa totalità, non esistono l'uno senza l'altro. La loro unità è dialettica: dal che non segue che essi siano identici. Per via di questa unità soggiacente alle diversificazioni apparenti, operare in uno qualsiasi dei tre momenti significa operare ipso facto anche negli altri due, almeno nel senso che vengono messi in opera dei fattori medianti verso di essi. Così chi consuma promuove lo scambio e la produzione, chi scambia promuove la produzione e il consumo, chi produce promuove il consumo e lo scambio. Affinché l'azione esercitata in uno dei tre momenti raggiunga gli altri due entreranno in gioco delle mediazioni che nella realtà possono anche essere lente, e inoltre soggette a polverizzazione periferica e a proliferazioni fenornenologiche d'ogni genere; si tratta tuttavia sempre di mediazioni preordinate e inevitabili nella sostanza.
I tre momenti, si noti bene, non riguardano soltanto i cosiddetti , materiali, quelli destinati al sostentamento fisiologico dell'individuo; bensì anche i beni cosiddetti culturali e spirituali, non immediatamente materiali, come il linguaggio e gli altri istituti sociali d'ogni genere, i sistemi di valori, la distribuzione e organizzazione degli individui dentro al sistema sociale. Tutto viene continuamente prodotto, scambiato, consumato. Anche le ideologie; ed è questa forse una delle ragioni per cui vari autori contemporanei richiamano all'elemento fluido delle ideologie, al loro continuo variare, all'impossibilità di stabilire una volta per tutte cosa sia ideologico e cosa non lo sia (cfr. Lefebvre, 1961, pp. 208218). Ancor più interessante di questo richiamo sembra la constatazione che i due livelli del circolo produzionescambioconsumo, quello della distinzione e quello della soggiacente uniiii, si addicono perfettamente all'ideologia. Chi produce un'ideologia non la sta, in quel momento, scambiando né consumando; e così via per tutti i momenti. Tuttavia, in un senso più fondamentale, il consumo di ideologie ne alimenta produzione e scambio, lo scambio di ideologie ne alimenta la produzione e il consumo, la produzione di ideologie ne alimenta il consumo e la circolazione. Ciò vale sia al livello sociale, dove un gruppo al potere non può accontentarsi di produrre un'ideologia, né di farla circolare una volta prodotta (infatti, deve anche farla consumare), sia al livello individuale e perfino dentro ai vari strati della psiche di ognuno.
Nel momento dello scambio largamente inteso sta la radice principale della comunicazione quale scambio, appunto, di messaggi sia verbali sia nonverbali della loro circolazione e distribuzione. Ora, siccome anche i messaggi, come ogni altra cosa, debbono essere prodotti e consumati oltre che semplicemente scambiati, avremo, dentro alla dimensione generale dello scambio, una produzione, uno scambio e un consumo di messaggi. Un aspetto essenziale di ogni ideologia è che essa viene trasmessa come complesso messaggio, articolato ovviamente in un alto numero di messaggi semplici, da individuo a individuo dentro a ogni gruppo sociale e da un gruppo sociale a un altro: l'aspetto segnico è indispensabile all'ideologia. Avremo dunque una produzione, uno scambio e un consumo dei messaggi ideologici. Nel terzo modello qui avanti torneremo sul momento dello scambio di messaggi introducendo la nozione di sistema segnico; peroreremo sia la larghezza e profondità di ogni sistema segnico realisticamente inteso, sia il suo carattere più spesso inconscio che conscio. Emerge qui un'ulteriore corrispondenza con la spesso notata inconsapevolezza o addirittura cecità di moltissime operazioni e condizioni ideologiche.
(ii) Dentro alla riproduzione sociale si dà un'opposizione fondamentale che taglia di traverso la tripartizione in produzione, scambio e consumo e divide la riproduzione sociale in due metà compresenti. Abbiamo da un lato i modi di produzione, a loro volta suddivisibili in forze produttive e rapporti di produzione: essi costituiscono la parte più determinante della base o struttura in ogni istanza di riproduzione sociale, nella quale rientrano anche quelle che Mario Rossi chiama « le forme esistenziali di convivenza e collaborazione produttiva fra gli individui (per esempio, i rapporti familiari e i rapporti di lavoro) » (1974: 504; vedi anche Dhoquois, 1971: 256: anche al livello dei rapporti materiali troviamo rapporti "ideali"). Dall'altro lato abbiamo la cosiddetta sovrastruttura, cioè tutto ciò che non riguarda il modo di produzione in maniera diretta, che in qualche misura se ne distacca e acquista una sua relativa autonomia, sviluppandosi anche (benché mai soltanto) secondo leggi sue proprie. La sovrastruttura è caratterizzata dal fattore ideologico; vi si comprendono tutte le istituzioni non direttamente economicoproduttive né semplicemente esistenziali e tutte le attività artistiche, letterarie, scientifiche, religiose, politiche.
Si danno fra queste due metà della riproduzione sociale rapporti complessi e anzi aggrovigliati. Non si può certo dire che i fondatori del materialismo storico li abbiano sviscerati; che anzi, pur esaminando a fondo sia la struttura da un lato sia vari aspetti della sovrastruttura dall'altro, sui rapporti in quanto tali cioè sulle loro effettive modalità si sono limitati a qualche cenno. Si deve aggiungere che, malgrado la levatura di taluni contributi (per es. Lukács, 1923, trad. it. 1967), nessuno fra gli interpreti successivi li ha mai chiariti fino in fondo, o anche solo in maniera sufficientemente sistematica. Com'è noto Gramsci suddivide le sovrastrutture in società civile (scuole, chiese, associazioni, giornali, partiti, mercato delle idee: sfera dell'ideologia, dove si produce una egemonia fondata sul cosiddetto "libero consenso" delle masse) e società politica (governo, polizia, forze armate, tribunali: sfera dello Stato, dove ha luogo l'esercizio diretto del dominio quando viene a mancare il "libero consenso"). Tale suddivisione contiene elementi che ci rimandano all'indietro verso i rapporti di produzione nell'atto stesso in cui sembrano sottrarre la società politica all'ideologia (si vedano però di Gramsci molte altre osservazioni: nell'edizione 1975 le pp. 433434 e passim). In altre parole, come dice Bobbio (1968: 26), Granisci opera con due dicotomie, quella fra struttura e sovrastruttura e quella fra società civile e società politica; ma non per questo giunge a operare con un sistema tricotomico. Su ciò torneremo fra un momento. Ci sono poi alcuni pochi esempi di analisi veramente ravvicinata (come quello di Williams, 1973); ma la questione rimane in uno stato magmatico, tuttora apertissimo allo svariare delle interpretazioni: fino al punto che si potrebbe perfino azzardare l'ipotesi che un determinato oggetto sociale sia strutturale o sovrastrutturale non mai per conto suo, ma solo a seconda del modo in cui lo si considera, del discorso in cui lo si situa.
Non sembra tuttavia che l'opposizione fra struttura e sovrastruttura possa mai essere abbandonata. Non c'è dubbio che essa faccia intravedere qualcosa di assolutamente fondamentale. Malgrado lo svariare delle interpretazioni, esistono alcuni punti generali su cui regna l'accordo, o almeno un notevole accordo. Con felice paradosso, si tratta proprio dei punti più importanti in generale. Essi sono i più importanti anche per il nostro discorso. 11 primo è che ogni modo di produzione esercita un continuo influsso sulla propria sovrastruttura, e che questo influsso è preminente su ogni altro. II secondo è che l'ideologia appartiene alla sovrastruttura e anzi ne costituisce l'elemento comune principale. Il terzo punto è che la sovrastruttura reagisce (come minimo: può reagire) sul modo di produzione. In altre parole, modi di produzione e sovrastrutture ideologiche si svolgono in stato di costante azione reciproca, ma tale azione presenta varie asimmetrie: si dà fra le due metà un circolo, ma il ritmo e gli effetti della circolazione non sono sempre gli stessi. Secondo un'ipotesi di lavoro cui qui possiamo solo accennare, al circolo fondamentale o "deferente" si aggiungerebbero degli epicicli come quelli inventati dall'astronomia tolemaica per spiegare le irregolarità nel moto dei pianeti. Le sovrastrutture avrebbero un loro movimento autonomo lungo l'epiciclo, il che spiegherebbe gli sfasamenti (anticipazioni, immobilità, ritardi) nei confronti del moto fondamentale. Così, per esempio, una teoria che sta "ruotando" all'indietro lungo il proprio epiciclo può sembrare immobile, o retrograda, o rallentata pur mentre segue, insieme a tutto l'epiciclo, il moto lungo il circolo deferente.
L'importanza dei tre punti di accordo di cui s'è parlato può essere indicata come segue. La preminenza dell'influsso esercitato dal modo di produzione su tutto il resto ha la sua radice nel cuore economico della riproduzione sociale (di cui sopra) e serve dunque al potere per perpetuare se stesso. Per contro, la retroazione della sovrastruttura permette la progettazione ideologica rivoluzionaria, giustifica il primato della politica e ci sottrae a una visione meccanicodeterministica della storia.
(iii) Per aprire alcune mediazioni consapevoli fra struttura e sovrastruttura, da vari anni è sembrato utile allo scrivente introdurre almeno come ipotesi di lavoro una terza parte o dimensione, quella dei sistemi segnici. La comunicazione avviene per mezzo di sistemi segnici. Anzi, secondo una concezione realisticamente allargata di qualsivoglia sistema segnico, questo comprende non solo almeno un codice (cioè i materiali su cui si lavora, gli strumenti con cui si lavora e le regole per applicarli: che sono tuttt, a loro volta, prodotti di precedente lavoro); ma anche tutti i messaggi che si scambiano e si possono in linea di principio scambiare nell'ambito dell'universo di discorso istituito dal sistema segnico stesso. Con un ulteriore allargamento realistico, ogni sistema segnico contiene anche gli individui e i gruppi sociali che lo operano. Come risultato di tale duplice allargamento realistico, si può dire che un sistema segnico è una fetta della realtà ed è una forma di programmazione sociale.
Ora, come si accennava, la comunicazione trova la sua radice principale nel momento dello scambio in generale, intermedio fra produzione e consumo. Sommando queste considerazioni e proiettandole sui due modelli precedenti, si può ricavare che il terzo modello costituisce un tentativo di mediazione e sintesi fra di essi. La riproduzione sociale avverrebbe pertanto a tre livelli: dei modi di produzione, dei sistemi segnici e delle sovrastrutture, Fra questa triade,che in sè comprende la bipartizione del secondo modello (struttura e sovrastruttura) e la triade del primo (produzione, scambio e consumo) ci sarebbe così un'intima corrispondenza, in parte già segnalata dalla terminologia corrente.
De! fattore ideologico si deve dire che esso opera a tutti e tre i livelli, altrimenti ci sarebbe qualcosa di sociale sottratto all'ideologia: esisterebbe, dentro alla riproduzione sociale, una specie di barriera che l'ideologia non può valicare. Tuttavia, il fattore ideologico si manifesta ed è individuabile prevalentemente al livello sovrastrutturale, nelle istituzioni e attività umane. Considerando che ogni attività, per svolgersi significantemente, richiede strutture già istituzionalizzate in maniera sovrapersonale, è possibile far rientrare la nozione di attività umana in quella di istituzione sociale. Parleremo pertanto, semplificando, di istituzioni ideologiche: non per distinguerle da altre istituzioni che ideologiche non sarebbero, bensì per accentuarne un carattere costante e anzi principale. In altre parole, il sintagma 'istituzioni ideologiche' copre per intero la porzione di riproduzione sociale cui si riferisce, e inoltre copre potenzialmente l'intera riproduzione sociale. Così concepite, le istituzioni ideologiche altro non sono che articolazioni della sovrastruttura. In certo qual modo. esse corrispondono al momento del consumo, così come la struttura di fondo corrisponde alla produzione e i sistemi segnici allo scambio e circolazione. Si comincia forse così a gettare un po' di luce su taluni rapporti solitamente ritenuti oscuri. Le ideologie sono prodotti da consumarsi e infatti tutti gli uomini devono continuamente pascersene.. Ma il consumo permesso dallo scambio (circolazione, distribuzione), "produce" la produzione e lo scambio stesso. In ogni dato caso, pertanto, un certo modo di produzione è a sua volta aiutato dai sistemi segnici e dalle ideologie che lo accompagnano. Si giustifica in tal modo la retroazione della sovrastruttura sulla struttura Così il cerchio si chiude e si rinnova.
Da quanto si è detto finora risulta che i sistemi segnici, originatisi nel momento dello scambio, occupano in prevalenza una posizione intermedia fra modi di produzione e istituzioni ideologiche; possono però essere a loro volta mediati. La situazione più comune e più facilmente comprensibile è quella descritta, in cui i sistemi segnici mediano i modi di produzione con le istituzioni ideologiche, o queste con quelli; ma si possono postulare, e si danno nella realtà, anche tutti gli altri casi teoricamente possibili di mediazione. Con terminologia semplificata potremmo dire che anche i modi di produzione e i sistemi segnici sono impregnati di ideologia, anche i sistemi segnici e le ideologie partecipano al processo della produzione, anche i modi di produzione e le ideologie sono sistemi segnici. Ognuna di queste affermazioni indica una direzione di approccio e fors'anche un campo di studio. Tuttavia la teoria generale proposta accentua la tripartizione della riproduzione sociale in modi di produzione, sistemi segnici e ideologie.
Dal punto di vista del comportamento umano di gruppo o individuale (considerando il secondo come caso particolare del primo), che la riproduzione sociale avvenga sostanzialmente a tre livelli significa che altrettanti sono i livelli principali in cui il comportamento stesso è programmato (l'argomento è ripreso in 3.1.1 e seguenti), « Nell'atto della riproduzione stessa, scrive Marx, mutano non solo le condizioni oggettive, ... ma mutano anche i produttori in quanto estrinsecano nuove qualità, sviluppano e trasformano se stessi attraverso la produzione, creano nuove forze e nuove concezioni, nuovi modi di traffico [Verkehrsweisen), nuovi bisogni e un nuovo linguaggio» (Grundrisse, trad. it. Backhaus, 1: 474). Gli individui e i gruppi imparano a svolgere tutte le loro attività su tre piani: quello del modo di produzione, quello dei sistemi segnici e quello delle istituzioni ideologiche. Ciò può avvenire a un qualsiasi gradino della scala più lucida consapevolezza fino all'inconsapevolezza più totale, alle soglie del soltantobiologico. Si presenta qui un intricato problema che potremmo chiamare il problema dell'insegnamento tacito e dell'apprendimento inconsapevole, involontario, soltanto subito. questa una dimensione nascosta del sociale, senza la quale non si capirebbe come avvenga la trasmissione delle ideologie soprattutto nell'aspetto del falso pensiero ma anche in quello di progettazioni sociali non espressamente formulate e tuttavia vigenti e obbliganti (cfr. 3.1.4).
Anche se queste osservazioni sono rimaste al livello della più vasta generalità, non sì deve dimenticare neanche per un istante che la programmazione dei comportamenti conscia o inconscia che essa sia per i programmatori, per i "programmati", o per entrambi ha luogo sempre e soltanto dentro a una situazione totalmente determinata. Non c'è alternativa: che la determinazione sia sempre totale, fa parte delle nozioni introdotte. Se a un certo punto scopriamo che "c'è anche un altro fattore", non facciamo che arricchirne la descrizione della situazione in esame. Anche il nuovo fattore (nuovo per noi che prima non lo conoscevamo, o non ne avevamo tenuto debito conto) inevitabilmente vi contribuisce. Da ciò risulta che ogni azione sociale, in linea di principio, si ripercuote dappertutto. Su ognuno dei tre piani della riproduzione sociale si affermano pertanto le forze sociali che si trovano nelle condizioni di agire più efficacemente, di esercitare i controlli più completi: quelle dette, appunto, dominanti. Così il potere programma a ogni livello il proprio perpetuarsi.
La rilevanza del presente approccio per il problema dell'ideologia sta in questo, che i sistemi segnici servono al potere soprattutto come produttori e organizzatori del consenso. Studiando questo aspetto della cosa, nel 1967 tentai di avanzare una definizione semiotica di 'classe dominante' come "la classe che possiede il controllo dei codici e della produzione, circolazione e interpretazione dei messaggi che con quei codici si possono costruire". Tale definizione non copre tutto ciò che si deve intendere per classe dominante, ma ne copre una porzione sostanziale.
Servendoci dell'edizione critica e alla luce di varie nuove letture, credo si possa oggi dire che Gramsci aveva perlomeno intravisto tutto ciò. Ovviamente, ne ragionava in termini del tutto presemiotici; ma di ciò non si può fargli alcun carico, le date e le circostanze essendo quelle che furono. Confesso di aver intrattenuto la visione fantastorica di uno scambio di vedute fra il giovane Granisci e il vecchio Peirce, o fra il vecchio Granisci e il giovane Morris; ma per nulla fantastorico è il fatto che le osservazioni di Gramsci sul linguaggio continuino a essere così stimolanti (l'intera pagina 3217 dell'« Indice per argomenti » dell'edizione critica elenca luoghi in proposito). Per quanto l'ipotesi di una mediazione operata in prevalenza dai sistemi segnici abbia trovato la sua radice principale nello studio diretto di questi ultimi, è pertanto utile ricordare come tale operazione non sia in disaccordo con quella compiuta da Gramsci introducendo la nozione di società civile, a suo modo intermedia fra struttura e sovrastruttura pur senza richiedere il passaggio da un sistema dicotomico a uno tricotomico. In termini gramsciani, l'ipotesi sarebbe dunque questa, che la società civile, fondamentalmente, altro non sia che l'insieme dei sistemi segnici così come essi sono organizzati in una determinata società e, generalizzando, in qualsiasi società. La mancanza della dimensione semiotica ha impedito a Granisci di passare da uno schema dicotomico a uno tricotomico; a maggior ragione gli ha impedito la relativizzazione totale dei vari contenuti nei confronti dei vari momenti dello schema.
Per meglio afferrare l'importanza dei sistemi segnici nella progettazione sociale, quali mediatori prevalenti fra il modo di produzione e le istituzioni ideologiche e quali organizzatori del consenso, si debbono tener presenti vari fattori. Ne ricordiamo qui tre principali.
(a) C'è in primo luogo il fattore dell'enorme varietà e complessità dei sistemi segnici, non solo di quelli verbali, ma anche di quelli nonverbali, la cui emersione costituisce un fatto nuovo, tipicamente contemporaneo. di cui nessuno poteva tener conto ante eventum. Qui c'è da rimandare a un qualsiasi testo di semiotica che tratti l'argomento (in italiano si vedano le puntigliose classificazioni di Eco, 1974 e 1975; per vari aspetti della cosa, gli scritti di Avalle, Corti, De Mauro, Heilmann, Maldonado, Ponzio, Rosieflo, RossiLandi, Segre; per una rapida introduzione con bibliografia, Calabrese e Mucci 1975). Affinché il presente discorso abbia un oggetto, vale però la pena di trascrivere almeno alcuni spunti classificatori. Ovvia è la distinzione fra sistemi segnici verbali (le lingue, il linguaggio in generale o particolari linguaggi, i sistemi paralinguistici e postlinguistci) e sistemi segnici nonverbali: il codice dei secondi è costruito con materiale diverso dal suono articolato e dalla sua trascrizione grafica; si usa un'indicazione negativa, 'nonverbale', solo in riferimento alla varietà dei materiali adoperabili. In quanto segue, tralasciando altre distinzioni, l'oso di 'linguaggio' e 'linguistico' sarà limitato ai sistemi segnici verbali. Quanto a quelli nonverbali, essi possono, secondo una distinzione proposta da Jakobson (1970), venir suddivisi in oggettuali e organici. Nei primi l'uomo si comporta con qualcosa di estraneo al proprio organismo, o almeno distaccato da esso: cioè adopera o degli oggetti rilevati in natura o dei prodotti obiettivati del suo proprio lavoro. Nel secondo si comporta col proprio corpo, cioè semplicemente si comporta. In entrambi i casi, materiali e strumenti che compongono il codice non sono suoni articolati (non sono fonazioni; e tanto meno sono grafie, che quelle fonazioni trascrivono e fissano). Si noti come anche queste considerazioni siano fondate sullo schema elementare del lavoro produttivo, di cui esaltano taluni aspetti. Anche gli oggetti rilevati in natura sono a loro modo dei prodotti, in quanto per rilevarli è necessario l'esercizio di una determinata pratica sociale; e anche il corpo umano, in quanto usabile per significare qualcosa, è un prodotto sociale. Alla produzione degli oggetti e dei corpi in quanto tali si aggiunge comunque, o si accompagna, la produzione segnica, che avviene adoperando quegli stessi oggetti e corpi in varie determinate maniere. Si parla qui di" aggiunta" o "accompagnamento" solo perché si è prima nominata la produzione nonsegnica, e inoltre per richiamare l'attenzione sul fatto che un corpo prodotto per altri scopi, o rintracciato in natura, può anche essere usato come signuns; non certo per spezzare in due parti dei processi solitamente unitari. (Le nozioni di lavoro e produzione segnici in generale e linguistici in particolare sono state da me introdotte fin dal 1961 e 1965 e dipoi variamente elaborate da me stesso e da altri studiosi; per es., Ponzio, 1973 e 1974, ha accentuato l'aspetto socialmente determinato della produzione segnica; Eco, 1975, ha analizzato brillantemente il processo lavorativo linguistico svolto dal singolo individuo, indipendentemente, Petronio ha interpretato l'intera produzione letteraria di un popolo come espressione dei successivi stadi di riproduzione sociale da esso attraversati).
Altri spunti per la classificazione dei sistemi segnici: essi sono più o meno specieuniversali, più o meno speciespecifici, più o meno istituzionalizzati, il che taglia di traverso in tre diversi modi sia la distinzione fra sistemi segnici verbali e nonverbali, sia quella fra sistemi segnici nonverbali oggettuali e organici.
A titolo di esempio, la danza è un sistema segnico organico a livello di istituzionalizzazione relativamente alto di caso in caso, ma molto vario e insieme molto ristretto; si tratta di un'attività universale diffusa, alla quale partecipano però solo taluni settori di ogni società; e siccome ci sono ovvi casi di danza presso altri animali, non la si può chiamare speciespecifica per l'uomo. U mercato economico è un sistema segnico oggettuale a livello di istituzionalizzazione estremamente alto e obbligante, quasi del tutto panumano anche se non necessariamente specieuniversale, giacché una "umanità senza mercato" è perfettamente concepibile (mentre non lo è, per es., un'umanità senza linguaggio); ma è sicuramente speciespecifico, giacché un mercato economico presso altri animali non esiste. Il linguaggio, nelle varie lingue in cui si manifesta, è un sistema segnico specieuniversale, speciespecifico e a livello di istituzionalizzazione altissima, ed è inoltre sia oggettuale sia organico: la compresenza di tutti questi fattori spiega il suo potere di copertura e la sua necessità.
(b) Il secondo fattore è quello della non-consapevolezza, del carattere inconscio e sovrapersonae dei sistemi segnici, specie di quelli non-verbali. Qui 'sovrapersonale' si accompagna a 'ipopersonale': nel senso che, se la personalità si identifica per un tratto essenziale con la coscienza individuale, tutto ciò che sfugge alla presa della mente individuale anzi della pluralità delle menti individuali deve per forza collocarsi al di sotto del livello della coscienza di ogni singolo individuo. Distinguiamo due maniere principali in cui i sistemi segnici, specie i nonverbali, sono per la maggior parte inconsapevoli. In moltissimi casi sappiamo soltanto che stiamo adoperando un qualche sistema segnico, ma non sappiamo affatto come esso funzioni; in moltissimi altri casi non sappiamo nemmeno che stiamo adoperando un sistema segnico. Nel secondo caso ancor più che nel primo potremmo dire che è il sistema segnico ad adoperare noi (questo lo aveva già capito Hamann; solo che la "lingua che ci parla" era per lui la lingua di Dio). Il nostro stesso consenso, allora, ci può apparire non solo come "spontaneo", ma addirittura come "naturale". Abbiamo assorbito un'ideologia particolare attraverso i sistemi segnici che la convogliano, ma nell'ignoranza del veicolo crediamo di parlare per noi stessi o addirittura in nome dell'umanità. In maniera non certo dissimile, ci muoviamo "spontaneamente" o addirittura "naturalmente" dentro al sistema degli oggetti mercificati. Il mercato è infatti un sistema segnico di enorme potenza. Questo argomento verrà ripreso soprattutto in 3.1.3. E' soltanto con l'avvento, nel corso degli ultimi pochi decenni, della teoria della comunicazione, della nuova linguistica e soprattutto della semiotica, a loro volta promosse dal formarsi delle comunicazioni di thassa e di scambi quotidiani a livello planetario (le uno e gli altri espressione del neocapitalismo e neoimperialismo), e inoltre dall'emersione del cosiddetto Terzo Mondo coi suoi sistemi di segni e di valori non riducibili ai nostri, che i sistemi segníci hanno cominciato ad emergere nell'attenzione degli studiosi. Il fatto che gli uomini, come dice Marx, continuino a « fare cose che non sanno di fare », mostra l'importanza dello studio dei sistemi segnici quali forme di programmazione al livello inconsapevole. La presa di coscienza delle cose che si facevano senza saperlo ha funzione demistificante e favorisce dunque il formarsi di nuove programmazioni sociali. In tal modo anche il neocapitalismo, come già il capitalismo classico, ha portato alla superficie e resi disponibili gli strumenti adeguati alla sua stessa distruzione.
(e) Il terzo fattore da teller presente sta nelle difficoltà sempre incontrate affrontando rapporti fra struttura e sovrastruttura, fra modi di produzione e istituzioni ideologiche. Tale difficoltà è ben presente nella nota diatriba sulla posizione della lingua dentro al circolo strutturasovrastruttura (con la nota "esecuzione" scientificopolitica operata nel 1950, per buone ragioni apparenti e cattive ragioni nascoste, da Stalin ai danni di Marr, il quale aveva buone ragioni nascoste e cattive ragioni apparenti). La nostra ipotesi è che lo studio dei vari sistemi segnici quali elementi mediatori possa esser di ausilio nella spiegazione di fenomeni complessi come la compresenza di una determinata ideologia, qualunque sia la forma della sua istituzionalizzazione, e di un determinato modo di produzione, qualunque sia il suo grado di sviluppo. In che modo la società giunge a istituire una data ideologia a partire da un dato modo di produzione? In che modo una ideologia debitamente costruita può peraltro retroagire su di un modo di produzione? Quali sono le mediazioni che permettono tali operazioni e ne assicurano il successo? Come mai vasti gruppi di individui vengono portati, in maniera ascosamente necessaria, a credere nelle stesse cose e a vivere tali loro credenze, a "consumarsele" quotidianamente non già come precisi prodotti storici, ma in modo (come si diceva) spontaneo o addirittura pseudonaturale, per così dire riadoperandole nella loro nuova immediatezza? Vengono subito in mente gli strumenti esteriori di tali gigantesche operazioni, come la scuola, la propaganda, i mezzi di comunicazione di massa, e andiamo dicendo. La loro descrizione è necessaria, ma non sufficiente. Bisogna penetrare nei meccanismi della formazione della coscienza degli individui, ma per così dire non dalla parte degli individui bensì da quella della società che li produce e condiziona. Si può qui parlare forse li psicologia sociale di un particolare approccio alla psicologia sociale. Ma ancor meglio si può dire che questo è un luogo d'incontro per varie discipline del sociale, il che conferma sia il carattere pervasivo delle ideologie sia l'impossibilità che un singolo studioso esamini i fatti di tale "pervasione" in maniera sufficientemente rappresentativa e al tempo stesso sufficientemente rigorosa dal punto di vista delle varie metodologie costituite.
Adoperiamo per un momento l'astrazione di una Mente Sociale che programma, in maniera sovrapersonale, cose che l'individuo accoglie in se stesso inconsapevolmente e riesce a scoprire solo per mezzo di uno specifico lavoro liberatorio. Potremmo dire che la Mente Sociale costruisce sistemi segnici e li impone, in tal ,ar;do appunto mediando fra i due livelli del modo di produzione e delle istituzioni ideologiche. Quanto c'è di comune nei tre livelli permette la trasmissione; quanto c'è di distinto fra di essi permette di operare anche a un livello soltanto; e la funzione intermedia (anche se solo prevalentemente tale) dei sistemi segnici ne fa gli strumenti principali dell'intera operazione programmante.
Solitamente avviene che i sistemi segnici intermedi si facciano portatori delle strutture del modo di produzione, permeandone le istituzioni ideologiche, le quali servono allora a giustificano. Ma un opportuno lavoro politico può servirsi dei sistemi segnici per permeare di nuovi valori ideologici il modo di produzione dominante con il fine di scalzarlo. In determinate circostanze, il Partito può essere la Mente Sociale che emerge e si organizza. Nella misura in cui riesce davvero a rappresentare i più vasti interessi possibili, che son quelli del lavoro umano vivente nella sua generalità, il Nuovo Principe potrà anche permettersi di disvelare la struttura di fondo di ogni Principe: ciò che i Principi precedenti non erano certo in grado di fare, né avrebbero fatto anche se avessero potuto. La struttura di fondo del Nuovo Prinpe è quella dei sempre compresenti sistemi segnici verbali e non-verbali, fra loro riorganizzati dalla forza di una progettazione socIale In tal modo, e nella misura indicata, la pratica sociale del Partito promuove e realizza una nuova ideologia.