Dal Capitolo VII
La polemica contro l’Idealismo (pp.175-188)
La destra hegeliana
Alla sua morte, Hegel lasciava una numerosa schiera di discepoli che, anche negli anni seguenti, formò il clima filosofico e culturale della Germania
Ma in questa schiera si verificò ben presto una scissione che determinò la formazione di due correnti antagoniste; e nel 1837 David Strauss (negli Streitschriften, III, Tubinga, 1837) designava queste due correnti, con termini desunti dalle consuetudini del Parlamento francese, come destra e sinistra hegeliana. La scissione era dovuta al diverso atteggiamento assunto dai discepoli di 1-legel di fronte alla religione. Hegel aveva affermato con molta energia che religione e filosofia hanno lo stesso contenuto; ma con altrettanta energia aveva posto la distinzione tra religione e filosofia, in quanto la prima esprime quel contenuto nella forma della rappresentazione, la seconda nella forma del concetto (§ 576). Egli, è vero, non si era pronunziato intorno ai problemi specificamente religiosi, come quelli di Dio, dell'incarnazione e dell'immortalità dell'anima; ma bisogna riconoscere che l'impostazione stessa della sua dottrina, non solo non esigeva, ma addirittura escludeva, che egli si pronunziasse in proposito. Difatti da un lato, egli riconosceva alla religione storica la sua piena validità nell'ambito della sua forma, cioè appunto della ranpresentazione; dall'altro, riteneva che il contenuto della religione fosse ripreso dalla filosofia e portato sui piano del concetto, entro il quale quei problemi non hanno più lo stesso significato. Tuttavia, hegel stesso aveva presentato la sua filosofia come la giustificazione speculativa delle realizzazioni storiche dello spirito del popolo, cioè della Chiesa e dello Stato; sicché si spiega come molti discepoli ritenessero di rimaner fedeli allo spirito del maestro utilizzando la sua filosofia per una giustificazione delle credenze religiose tradizionali.
La destra hegeliana è appunto la scolastica dello hegelismo. Essa utilizza la ragione hegeliana (cioè la sistematica della speculazione di Hegel) allo stesso modo in cui la scolastica medievale aveva utilizzato la ragione aristotelica o la scolastica occasionalista la ragione cartesiana: alfine di una giustificazione della verità religiosa. Numerosissimi professori delle Università tedesche (e specialmente prussiane, dato che il governo prussiano considerava come propria filosofia ufficiale quella di Hegel), teologi, pastori, si dedicano a dimostrare l'intrinseca concordanza dello hegelismo con le credenze fondamentali del cristianesimo e si avvalgono di esso per una cosiddetta giustificazione speculativa ditali credenze. CosI KARL FRIEDRICH G6SCHEL (1781-1861), in uno scritto lodato da Hegel stesso, Aforismi sul non sapere e sull'assoluto sapere (1829), aveva tentato di dimostrare che una giustificazione del soprannaturale si può raggiungere solo con una teologia speculativa in senso hegeliano. In seguito, nello scritto Sulle prove dell'immortalità dell'anima alla luce della filosofia speculativa (1835), egli sviluppò tre prove dell'immortalità, corrispondenti alle tre prove dell'esistenza di Dio e ai tre gradi dell'individuo, del soggetto e dello spirito.
Il tema dell'immortalità ritorna frequentemente nelle polemiche della scuola hegeliana, soprattutto in rapporto alla radicale negazione che dell'immortalità aveva fatto Feuerbach nei Pensieri sulla morte e l'immortalità. Nella polemica intervennero FRIEDRIci-I RIchTER (nato nel 1802), con uno scritto La nuova immortalità (1833), negando che dell'immortalità si potesse parlare dal punto di vista di liege!, e KAsIMIR CONRADI (1784-1849), che invece difese l'immortalità (Immortalità e vita eterna, 1837), come difese in ogni occasione la concordanza tra hegelismo e cristianesimo.
Alla destra hegeliana appartenne in una prima fase BRUNO BAUER (1809-1882) che dopo la pubblicazione della Vita di Gesá (1835) di Strauss, fondò, in polemica con essa, la Rivista di teologia speculativa che si pubblicò per tre anni (1836-38) e fu l'organo della destra hegeliana. Ad essa collaborarono Gòschel, Conradi, Erdmann e GEORG ANDREAS GABLER (1786-1853), sostenitore della pii3 intrinseca concordanza fra hegelismo e cristianesimo. Negli anni successivi Bruno Bauer, insieme col fratello EDGARD (1820-86), passò a sostenere l'esigenza di una critica biblica radicale e si professò ateo (La dottrina hegeliana dell'arte e della religione, 1842; La critica dell'evangelo di Giovanni, 1840; La critica degli evangel: sinottici, 1841-42).
Alla destra hegeliana appartiene anche lo storico della filosofia JOHANN EDUARD ERDMANN (1805-92), autore di Lezioni sulla fede e il sapere (1837),
di uno scritto su Corpo e anima (1837) e di un altro su Natura o creazione? (1840) nel quale il concetto della creazione viene difeso e chiarito nei termi-
ni della speculazione hegeliana. Erdmann scrisse anche un'opera di Psicologia (1840), che però dichiarò di aver composto a puro titolo di «intrattenimento», nonché i Lineamenti di logica e metafisica (1841) e altri scritti teoretici, le cui divergenze dalla dottrina hegeliana sono insignificanti. Nello sviluppo storico della filosofia, Erdmann ammette una doppia necessità: una storica, per la quale ogni sistema di filosofia è l'espressione del carattere del tempo in cui sorge; l'altra filosofica, per la quale ogni sistema deve assumere come proprie premesse le conclusioni del sistema precedente.
Al centro della scuola hegeliana Strauss aveva collocato KARL FRIEDRICH ROSENKRANZ (1805-79) che replicò scherzosamente a questa designazione in una commedia intitolata appunto Il centro della speculazione (1840). Rosenkranz fu il biografo entusiasta di Hegel (Vita di Hegel, 1844; Apologia di Hegel, 1858, contro la monografia pubblicata da Haym nel 1857). Nelle sue opere, numerosissime, ha ripercorso la trama della speculazione hegeliana, che egli riforma quasi esclusivamente nella distribuzione delle parti del sistema. Così nel Sistema della scienza (1850), egli divide l'intera enciclopedia in tre parti: Dialettica, Fisica ed Etica; nella Dialettica l'idea come ragione pone l'essere come pensiero nella universalità dei concetti ideali; nella Fisica l'idea come
natura pone il pensiero come essere nella particolarità della realtà materiale; nell'Etica l'idea come spirito pone l'essere come pensante e il pensiero come esistente per sé, nella soggettività che liberamente conosce se stessa. A sua volta la Dialettica viene divisa da Rosenkranz (Scienza dell'idea logica, 1858-59) in tre parti: Metafisica, Logica e Dottrina dell'idea, la quale ultima unifica l'essere e il pensiero che nelle due altre parti sono contrapposti. Il risultato più notevole di questa ridistribuzione del contenuto della filosofia hegeliana è la limitazione della logica alla dottrina del concetto, del giudizio e del sillogismo, e quindi l'affermazione della sua relativa indipendenza dalla metafisica (che è Ontologia, Eziologia e Teleologia).
Rosenkranz ha voluto così effettuare un parziale ritorno alla logica e alla metafisica aristotelica. La stessa ridistribuzione del contenuto della speculazione hegeliana mostra il suo scritto sulla Filosofia della natura di Hegel (1868) che è un esame della rielaborazione della filosofia della natura di Hegel fatta dall'italiano AUGUSTO VERA nella sua traduzione francese dell'Enciclopedia (Parigi, 1863-66).
Alla filosofia hegeliana si ispirò, per ricondurla a quelli che riteneva i due capisaldi di ogni filosofia, la logica aristotelica e il criticismo kantiano, KUNO FISCHER (1824-1907). La sua opera maggiore è però quella storica. La Storia della filosofia moderna (1854-77) è una serie di imponenti monografie che van- no da Cartesio a Hegel ed ha avuto grandissima influenza sulla cultura filosofica dell'800. - Nel Sistema di logica e metafisica o Dottrina della scienza (1852), Fischer dopo aver delineato in una Propedeutica la storia della logica sino a Hegel, chiarisce in senso hegeliano il metodo della logica, inteso come sviluppo genetico delle categorie. Questo sviluppo è dominato dalla contraddizione, che continuamente pone al pensiero problemi dalla cui soluzione nascono nuovi concetti e nuovi problemi. CosI dalla prima domanda: che cosa è l'essere?, nascono sempre nuovi problemi sino a quello del fondamento dell'essere; e dallo sviluppo di quest'ultimo nasce infine quello dello scopo, che è l'autorealizzazione dell'idea. La logica perciò è divisa in tre parti che concernono rispettivamente, l'essere, il fondamento (o l'essenza) e il concetto (o scopo).
La maggiore personalità della cosiddetta scuola di Tubinga di critica teologica e biblica fu FERDINAND CHRISTIAN BAUR (1792-1860) che nei suoi lavori di critica biblica e sulle origini del cristianesimo (Simbolica e Mitologia o la religione naturale dell'antichità, 1824-25; La gnosi cristiana, 1835; La dottrina cristiana della trinità, 1841) utilizza il principio hegeliano dello sviluppo storico necessario, nel quale vengono a collocarsi i gradi di formazione della coscienza religiosa.
594. LA SINISTRA HEGELIANA. STRAUSS.
Mentre la destra hegeliana è, nella sua tendenza fondamentale l'elaborazione di una scolastica dello hegelismo, la sinistra hegeliana tende invece a una riforma radicale dello stesso hegelismo, contrapponendogli quei tratti e caratteri dell'uomo, che in esso non avevano trovato un riconoscimento adeguato. Sul piano religioso, questa tendenza dà luogo ad una critica radicale dei testi biblici e al tentativo di ridurre il significato della religione a esigenze e bisogni umani (Strauss, Feuerbach). Sul piano storico-politico, al tentativo di interpretare la storia in funzione dei bisogni umani e alla negazione della funzione direttiva della coscienza (Marx).
DAVID FRIEDRICH STRAUSS (27 gennaio 1808-8 febbraio 1874) fu scolaro di Ferdinand Baur a Tubinga e fu in stretti rapporti con la scuola hegeliana. Nel 1835 pubblicò la Vita di Gesù, opera che divenne presto famosa e suscitò le violente polemiche che cristallizzarono la divisione della scuola hegeliana. Quest'opera è il primo tentativo radicale, sistematico e compiuto di applicare il concetto hegeliano della religione alla critica dei testi biblici. Il risultato di questo tentativo e la riduzione del contenuto della fede religiosa, in quanto non si lascia ridurre a filosofia o a storia, a semplice mito. «Se, dice Strauss (Leben Jesu, S 14), la religione porta alla coscienza lo stesso fondo di verità assoluta della filosofia, ma sotto forma di immagine e non di concetto, il mito può mancare soltanto al di sopra o al di sotto del punto di vista proprio della religione, ma è necessario all'essenza stessa di essa». Il mito è un'idea metafisica espressa nella forma di un racconto immaginato o fantastico. Esso ha quindi due aspetti: uno negativo, in quanto non è storia, l'altro positivo, in quanto è una finzione prodotta dall'orientamento intellettuale di una società data (lb., § 15). Esso è diverso dalla leggenda, che è la trasfigurazione o l'invenzione, operata dalla tradizione, di un fatto storico, senza significato metafisico. I miti si trovano in tutte le religioni giacché costituiscono la parte propria ed essenziale della religione stessa; e in realtà ciò che nelle religioni non è mito, o è storia o è filosofia.
Un mito evangelico è un racconto che si riferisce immediatamente o mediatamente a Gesù e che si deve considerare non come l'espressione di un fatto, ma come quella di un'idea dei suoi partigiani primitivi. Le due fonti dei miti evangelici sono: 1° l'attesa del Messia in tutte le sue forme, attesa che esisteva nel popolo ebreo prima di Gesù e indipendentemente da lui; 2° l'impressione particolare prodotta da Gesù in virtù della sua personalità, della sua azione, del suo destino, impressione che modificò l'idea che i suoi compatrioti si facevano del Messia.
Partendo da queste idee direttive, Strauss conduce avanti l'analisi filologica e storica dei testi evangelici, rigettando nel mito e nella leggenda ogni elemento soprannaturale o comunque non fondato sulla testimonianza controllata e concorde delle fonti. Il corpo dell'opera è così diretto a dimostrare la differenza tra la religione cristiana, caratterizzata dai suoi miti, e la filosofia. Nella conclusione, Strauss si sofferma a dimostrare invece l'identità di contenuto tra cristianesimo e filosofia. Questo contenuto identico è costituito dall'unità dell'infinito e del finito, di Dio e dell'uomo. «La vera e reale esistenza dello spirito non è né Dio in sé né l'uomo in sé, ma il Dio‑uomo; non è né l'infinità sola, né la sola natura finita, ma il movimento il quale si porta dall'uno all'altro, movimento che dal lato divino è la rivelazione, dal lato umano la religione» (lb., § 147).
L'esigenza che questa unità esca dal campo delle semplici possibilità e si realizzi come una certezza sensibile, è quella che porta al principio cristiano dell'incarnazione, al Dio‑uomo. Ma l'incarnazione, intesa come un fatto particolare, nella persona di un individuo storico determinato, è essa stessa un mito. Solo «l'umanità è la riunione delle due nature, il Dio fatto uomo, cioè lo spirito infinito che si è alienato da sé fino alla natura finita, e la natura finita che ritorna alla sua infinità» (lb., § 148). Perciò Gesù non può essere che uno di quegli individui cosmici nei quali si realizza, secondo Hegel, l'idea sostanziale della storia. Egli è «colui nel quale la coscienza dell'unità del divino e dell'umano è sorta per la prima volta e con energia, e che in questo senso è unico e ineguagliabile nella storia del mondo, senza tuttavia che la coscienza religiosa, conquistata e promulgata da lui per la prima volta, possa sottrarsi ad ulteriori purificazioni ed estensioni che risulteranno dallo sviluppo progressivo dello spirito umano» (lb., § 149).
Nell'altro suo scritto, La fede cristiana nel suo sviluppo e nella lotta con la scienza moderna (1841‑42), Strauss contrappone il panteismo della filosofia moderna al teismo della religione cristiana. La storia del dogma cristiano è la critica del dogma stesso, giacché rivela il progressivo affermarsi del panteismo sul teismo, e giunge con Ilegel a riconoscere chiaramente che Dio non è altro che il pensiero che pensa in tutti, che gli attributi di Dio non sono altro che le leggi della natura, che il tutto è immutabile e che l'assoluto si specchia dall'eternità negli spiriti finiti.
Il carattere naturalistico di questo panteismo si accentua nell'ultimo scritto significativo di Strauss, L'antica e la nuova fede (1872). Egli si pone qui quattro domande: Siamo ancora cristiani? Abbiamo ancora una religione? Come concepiamo il mondo? Come ordiniamo la nostra vita? Alla prima domanda risponde negativamente, alla seconda affermativamente. Anche il panteismo è una religione. «Noi esigiamo per il nostro Universo la stessa venerazione che le persone pie vecchio stile esigono per il loro Dio. Il nostro sentimento per il Tutto reagisce, se viene offeso, in modo affatto religioso» (Der alte und der neue Glaube, § 44). Ma il Tutto, l'Universo, è, in quest'opera di Strauss, quello stesso dei materialisti o almeno può essere scambiato con esso. La disputa fra materialismo e idealismo, dice Strauss, è prevalentemente verbale. Entrambi si oppongono al dualismo tradizionale di anima e corpo, che è il loro comune nemico. E se l'uno parla in termini di atomi e di forze meccaniche, e l'altro in termini di rappresentazioni e di forze spirituali, rimane il fatto che l'aspetto spirituale e quello fisico della natura umana sono una unica e medesima cosa diversamente considerata (lb., § 66).
Strauss è portato dalla teoria dell'evoluzione di Darwin a inclinare verso la concezione materialistica di quello sviluppo cosmico che nelle prime opere considerava come il divenire della ragione. E anche la sua morale diventa naturalistica. «Ogni azione morale degli uomini è il determinarsi dei singoli secondo l'idea della specie. Realizzare questa idea in se stessi, farsi e conservarsi conformi al concetto e al destino dell'umanità, è il dovere degli uomini verso se stessi. Riconoscere e stimolare praticamente in tutti gli altri la specie umana, è il nostro dovere verso gli altri» (lb., § 74). Conformemente a questo ideale, l'uomo deve si dominare la sensibilità, ma non mortificarla. Il dominio sulla natura esterna si può raggiungere solo mediante la solidarietà fra gli uomini; e questa solidarietà si realizza attraverso il saldo ordinamento della famiglia e dello stato. Strauss è favorevole ad una politica conservatrice e si dichiara contrario al movimento socialista (lb., § 84).
595. FEUERBACH: UMANISMO.
Se l'opera di Strauss è, nella sua parte più viva, ancora legata allo hegelismo, si contrappone vivacemente all'hegelismo e ne costituisce il capovolgimento l'opera di Feuerbach. LUDWIG FEUERBACH nacque il 28 luglio 1804 a Landshut nella Baviera e mori a Rechenberg il 13 settembre 1872. Scolaro di Hegel a Berlino, libero docente ad Erlangen, si vide troncare la carriera universitaria dall'ostilità incontrata dalle idee sulla religione esposte in uno dei suoi primi scritti, Pensieri sulla morte e l'immortalità (1830). Si ritirò allora nella solitudine e nello studio e visse quasi sempre a Bruckberg. Nell'inverno 1848‑49, per invito di una parte degli studenti di Heidelberg, tenne in quella città le Lezioni sull'essenza della religione. L'invito era stato reso possibile dagli avvenimenti del '48 e fu soltanto una parentesi nella vita di Feuerbach; che passò i suoi ultimi anni in miseria, a Rechenberg. Dapprima hegeliano fervente, Feuerhach si staccò in seguito dallo hegelismo e il distacco è segnato dallo scritto Critica della filosofia hegeliana (1839), al quale seguirono nello stesso senso le Tesi provvisorio per la riforma della filosofia (1843) e Principi della filosofia dell'avvenire (1844). Ma intanto aveva pubblicato, nel 1841, la sua opera fondamentale L'essenza del cristianesimo; alla quale segui nel 1845 l'altra altrettanto importante L'essenza della religione. Le opere successive non fanno che riprendere e riesporre le tesi contenute in queste due opere: Lezioni sull'essenza della religione (tenute come si è detto nel 1848‑49, ma pubblicate nel 1851); Teogonia secondo le fonti dell'antichità classica ebraico‑cristiana (1857); Divinità, libertà e immortalità dal punto di vista dell'antropologia (1866); Spiritualismo e materialismo (1866); L'eudemonismo (postumo).
Feuerbach comincia col presentare la sua filosofia o la «filosofia dell'avvenire» come il capovolgimento esatto di quella di Hegel. «Il compito della vera filosofia non è di riconoscere l'infinito come finito bensì quello di riconoscere il finito come non finito, come infinito; cioè di porre non il finito nell'infinito, ma l'infinito nel finito». La filosofia di Hegel è pur sempre una teologia perché considera l'essere infinito; ma una teologia è sempre in verità un'antropologia, e il compito della filosofia consiste nel riconoscerla come tale. In altri termini Feuerbach ammette, con Hegel, l'unità dell'infinito e del finito, ma quest'unità si realizza per lui, non in Dio o nell'idea assoluta, ma nell'uomo. Ma ‑ e qui è il punto caratteristico di Feuerbach - l'uomo pur essendo definito da quell'unità, non si riduce ad essa: l'uomo è un essere naturale, reale e sensibile e come tale dev'essere considerato dalla filosofia, che non può ridurlo a puro pensiero, ma deve considerarlo intero «dalla testa al calcagno» (Nachlass, ed. Grim, I, p. 93). Da questo punto di vista i bisogni, la naturalità, la materialità dell'uomo, non cadono fuori della considerazione filosofica, ma dentro; e nello stesso tempo, l'uomo dev'essere considerato nella sua comunione con gli altri uomini, nella quale soltanto ritrova la libertà e l'infinità. «La vera dialettica non è un monologo del pensatore solitario con se stesso, ma un dialogo tra l'io e il tu» (Fil. dell'avvenire, § 62). Ora la religione soltanto ha sempre considerato l'uomo nella sua totalità e concretezza; di qui l'interesse di Feuerbach per la religione e il suo tentativo di dar luogo a una filosofia che soppianti la religione proprio nel suo tratto essenziale.
A questo scopo è diretta la critica religiosa contenuta nell'Essenza del cristianesimo e nell'Essenza della religione. Il fondamento e l'oggetto della religione è l'essere dell'uomo. «Ma la religione è la coscienza dell'infinito: perciò essa non è e non può essere altro che la coscienza che l'uomo ha, non della limitazione, ma dell'infinità del suo essere» (Ess. del crist., § 1). La coscienza, in senso proprio, è sempre coscienza dell'infinito; ed è perciò la coscienza che l'uomo ha dell'infinità della sua natura. In questa tesi fondamentale è già implicita l'intera filosofia di Feuerbach. «L'essere assoluto, il Dio dell'uomo, è l'essere stesso dell'uomo». Ogni limitazione della ragione o in generale della natura umana è un'illusione. L'uomo singolo può ben sentirsi limitato, e in questo si distingue dall'animale; ma ciò accade unicamente perché ha il sentimento o il pensiero della perfezione e dell'infinità della sua specie. Dice Feuerbach: «Pensi tu l'infinito? Ebbene tu pensi ed affermi l'infinità della potenza del pensiero. Senti tu l'infinito? Tu senti ed affermi l'infinità della potenza del sentimento». In questo senso la coscienza che l'uomo ha di Dio è la coscienza che egli ha di se stesso; la sua conoscenza dell'essere supremo è la conoscenza che egli ha del suo proprio essere. «La religione è la prima ma indiretta coscienza che l'uomo ha di se stesso; perciò la religione precede dappertutto la filosofia, non solo nella storia dell'umanità ma anche in quella degli individui».
L'analisi che Feuerbach fa della religione in generale e del cristianesimo in particolare è, conseguentemente, la riduzione degli attributi divini ad attributi umani: della teologia ad antropologia. La ragione come unità, infinità e necessità dell'essere è il primo attributo della divinità; perché è in realtà il primo attributo dell'uomo che, riferendolo a Dio, ne prende coscienza lui stesso. Allo stesso modo, l'idea della perfezione divina non è che un'idea direttiva e costitutiva dell'uomo: essa gli fa vedere ciò che egli dovrebbe essere e non è, lo mette in uno stato di tensione e di disaccordo con se stesso e lo spinge all'amore, per il quale Dio si riconcilia con l'uomo cioè l'uomo con l'uomo. «Dio è amore, questa che è la proposizione più sublime del cristianesimo, esprime solo la certezza che il cuore ha di se stesso, del la sua potenza come della sola potenza legittima cioè divina... Dio è amore significa che il cuore è il Dio dell'uomo, l'essere assoluto. Dio è l'ottativo del cuore cambiato in un presente felice» (lb., § 13).
Da questo punto di vista bisogna intendere il mistero dell'incarnazione e della passione. Che Dio stesso prenda la carne dell'uomo e soffra per lui è cosa che esprime l'eccellenza dell'uomo e dell'amore umano, nonché la natura divina della sofferenza sopportata per il bene degli uomini. Sicché la fede in Dio non è che il Dio dell'uomo, e la Trinità cristiana, che è fede, amore e speranza, ha il suo fondamento nel desiderio umano di veder realizzati i propri voti. Il miracolo è appunto un voto realizzato soprannaturalmente.d è quindi il frutto della fantasia che vede realizzati senza ostacoli tutti i desideri degli uomini. Cristo è Dio conosciuto personalmente, cioè Dio nella sua rivelazione, nella sua manifestazione sensibile. Il cristianesimo, legando strettamente Dio e l'uomo, è la religione perfetta. Quanto alla fede nella vita futura, essa è soltanto fede nella vita terrestre quale dovrebbe essere; non concerne una vita sconosciuta e diversa, ma solo la verità, l'infinità e l'eternità della vita umana.
Ogni religione, quindi anche il cristianesimo, contiene sempre tuttavia un elemento di illusione e di errore. Se essa è l'insieme dei rapporti dell'uomo col suo proprio essere ‑ e in ciò consiste la sua forza e la sua potenza morale ‑ considera quest'essere come se fosse altro dall'uomo ‑ e questa è la sua debolezza, l'origine dell'errore e del fanatismo. Feuerbach dedica perciò la seconda parte del suo scritto sull'Essenza del cristianesimo a mettere in luce le «contraddizioni» implicite nell'esistenza di Dio e nei punti fondamentali del cristianesimo.
Nello scritto sull'Essenza della religione (1845), comincia a delinearsi l'indirizzo naturalistico della filosofia di Feuerbach. Dio viene identificato con la natura; e il sentimento di dipendenza, nel quale (con Schleiermacher) viene riconosciuta l'essenza della religione, è inteso come dipendenza dell'uomo dalla natura. «Il sentimento di dipendenza degli uomini è il fondamento della religione; l'oggetto di questo sentimento di dipendenza, ciò da cui l'uomo è dipendente e si sente dipendente, è originariamente nient'altro che la natura. La natura è il primo originario oggetto della religione, come la storia di tutti i popoli e di tutte le religioni dimostra» (Ess. della rel., 2).
Ora la dipendenza dalla natura è sentita soprattutto nel bisogno. Il bisogno è il sentimento e l'espressione del non essere dell'uomo senza la natura; e l'appagamento del bisogno è il sentimento opposto dell'indipendenza dalla natura e del dominio su di essa. Ora dal bisogno e dalla difficoltà di soddisfarlo nasce la religione; la quale ha perciò come suo presupposto l'opposizione tra il volere e il potere, tra il desiderio e l'appagamento, tra l'intenzione e l'effetto, tra la rappresentazione e la realtà, tra il pensiero e l'essere. «Nel volere, nel desiderare, nel rappresentare, l'uomo è illimitato, libero, onnipotente ‑ è Dio; ma nel potere, nell'appagamento, nella realtà, è condizionato, dipendente, limitato ‑ è uomo, nel senso di un essere finito» (lb., 5 30).
Ora Dio è il principio immaginato e fantastico della realizzazione totale di tutte le volontà e i desideri umani. Dio è l'essere a cui niente è impossibile; ed è perciò la rappresentazione immaginata di un assoluto dominio delle volontà umane sulla natura, di una completa realizzazione dei desideri umani (lb., 42). A Dio si attribuisce la creazione del mondo naturale proprio per attribuirgli il più assoluto dominio della natura e quindi la capacità di volgere questo dominio al servizio degli uomini. «Dio è la causa, l'uomo è lo scopo del mondo; Dio è l'essere primo in teoria, ma l'uomo è l'essere primo in pratica» (lb., § 53). Di qui il principio: «qual è il tuo cuore, tale è il tuo Dio». Quali sono i desideri degli uomini, tali sono le loro divinità. I Greci avevano divinità limitate perché i loro desideri erano limitati. I desideri dei cristiani sono senza limiti; essi vogliono essere più felici degli dèi dell'Olimpo, vogliono il compimento di ogni possibile desiderio, l'eliminazione di ogni limite e di ogni necessità; perciò la divinità cristiana è una divinità infinita e onnipotente (lb., § 55). Ma per tutte indistintamente le religioni è vero il principio che «la divinità degli uomini è lo scopo finale della religione» (lb., § 29).
Le Lezioni sull'essenza della religione (1848‑49) riespongono e fondono i due scritti precedenti, ma non contengono nulla di nuovo. Gli scritti succesivi di Fenerbach insistono con espressioni violentemente polemiche e talora paradossali su di una antropologia per la quale il corpo e l'anima, lo spirito e la carne, sono inseparabilmente e necessariamente connessi. L'accentuazione che i bisogni, e con essi l'aspetto materiale o fisico dell'uomo, hanno nella sua considerazione antropologica, porta Feuerbach ad affermazioni paradossali, come quella contenuta già nel titolo di un suo scritto del '62, II mistero del sacrificio o l'uomo è ciò che mangia. Ma Feuerbach non è mai giunto al materialismo, cioè alla riduzione dello spirito alla materia, dell'anima al corpo. Ciò che gli preme è rivendicare, nella forma più energica, l'integralità dell'uomo, che non è mai puro spirito e pensiero come d'altronde non è mai pura materia. L'aspetto fisiologico del pensiero, dice Feuerbach, viene alla coscienza soltanto nei momenti patologici quando il pensiero è ostacolato e turbato dal bisogno inappagato o dalla malattia; ma «l'anima è là dove ama, più che là dove vive» (Spiritualismo e materialismo, Werke, X, pp. 163‑64).
Gli ultimi scritti di Fenerbach, Spiritualismo e materialismo (1866), Eudemonismo (postumo), contengono la sua dottrina morale. La volontà non è libera, perché si identifica con l'impulso totale dell'essere individuale umano verso la propria felicità. Ma la felicità non si restringe in una sola persona, allo stesso modo che l'individuo umano non vive nel suo isolamento; essa abbraccia l'io e il tu, e tende a ripartirsi su una pluralità di persone. Il principio della morale è dunque la felicità bilaterale o multilaterale.
Feuerbach non giustifica la coincidenza tra la felicità propria e la felicità altrui, coincidenza nel cui àmbito soltanto, com'egli esplicitamente avverte, la ricerca della felicità diventa virtù. Si limita a riaffermare, in senso politico oltreché filosofico, la stretta connessione dell'uomo con gli altri uomini; e dice di sé che non è «né materialista né idealista, né filosofo della identità. Che cosa è dunque? Egli è col pensiero ciò che è nel fatto; nello spirito ciò che è nella carne, nell'essenza ciò che è nei sensi, ‑ uomo; o piuttosto, giacché egli riconduce l'essenza dell'uomo alla società, uomo sociale comunista» (Werke, VII, p. 310).
La filosofia di Feuerbach è il tentativo di capovolgere la teologia di Hegel in un'antropologia fondata sullo stesso principio, l'unità dell'infinito e del finito. Ma questo principio non si presta a fondare un'antropologia autentica, che non può essere che la ricerca del fondamento e della struttura del finito come tale. Perciò l'opera di Feuerbach, pur avendo prospettato con forza e vivacità polemica l'esigenza di una dottrina dell'uomo, non può dirsi che abbia contribuito in larga misura alla costruzione di questa dottrina.
596. STIRNER: L'ANARCHISMO
Un'opposizione estrema all'universalismo di Hegel, che aveva preteso negare e dissolvere l'individuo, è rappresentato dall'individualismo anarchico di Stirner. MAX STIRNER, pseudonimo di JOHANN KASPAR SCHMIDT, nacque in Bayreuth il 25 ottobre 1806, mori il 25 giugno 1856. Fu scolaro di Hegel a Berlino. La sua opera L'unico e la sua proprietà fu pubblicata nel 1845 ed è il solo scritto notevole. Egli è anche l'autore di una Storia della reazione (1852) e di altri scritti polemici e occasionali pubblicati e raccolti dopo la sua morte.
La tesi fondamentale di Stirner è che l'individuo è l'unica realtà e l'unico valore; la conseguenza che Stirner trae da questa tesi è l'egoismo assoluto. L'individuo, proprio nella sua singolarità, per la quale è unico e irripetibile, è la misura di tutto. Subordinarlo a Dio, all'umanità, allo spirito, a un qualsiasi ideale, sia pure a quello stesso dell'uomo, è impossibile, giacché tutto ciò che è diverso dall'io singolo, ogni realtà che si distingua da esso e gli si contrapponga, è uno spettro, di cui egli finisce per essere schiavo. Stirner condivide la tesi di Feuerbach che Dio non è nulla fuori dell'uomo e che è la stessa essenza dell'uomo. Ma questa tesi è insufficiente, e semplicemente preparatoria, rispetto alla tesi radicale che ne deriva. L'essenza dell'uomo è già qualcosa di diverso dall'uomo singolo, è già un ideale che pretende di subordinarlo a sé. In tal modo l'uomo diventa a se stesso un fantasma, perché non vale più nella sua singolarità ma come idea, come spirito, come specie, cioè come qualcosa di superiore a cui deve subordinarsi. Stirner si rifiuta di riconoscere alcunché di superiore all'uomo stesso.
Egli non fa nessuna differenza tra gli ideali della morale, della religione e della politica e le idee fisse della pazzia. Il sacrificio di sé, il disinteresse, sono forme di «Ossessione, che si ritrovano tanto negli atteggiamenti morali quanto in quelli immorali», «Il disinteresse pullula rigoglioso con l'ossessione, tanto nei possedimenti del demonio, quanto in quelli dello spirito benigno; da una parte nei vizi, nelle follie, ecc., dall'altro nell'umiltà, nel sacrificio, ecc.» (L'unico, trad. ital., p. 46). Che l'uomo debba vivere e operare a vantaggio di un'idea è, secondo Stirner, il più pernicioso pregiudizio che l'uomo abbia mai coltivato, giacché è il pregiudizio che lo rende schiavo di una gerarchia. La chiesa, lo stato, la società, i partiti, sono gerarchie di questo genere che pretendono asservire il singolo additandogli qualcosa che è al di sopra di lui. Il socialismo stesso, pur tendendo a sottrarre l'uomo alla schiavitù della proprietà privata, lo vuole asservire alla società. La libertà che esso predica è dunque illusoria.
La vera libertà non può avere altro centro e altro fine che l'io singolo. «Perché, se si aspira alla libertà per amore dell'io, non fare di questo io il principio, il centro, il fine di ogni cosa? Non valgo io più della libertà? Non sono forse io che rendo libero me stesso, non sono forse io il primo?» (lb., pp. 121‑22).
La libertà d'altronde è una condizione puramente negativa per l'io; la condizione positiva è la proprietà. «Che cosa è la mia proprietà? Quello che è il mio potere. Il diritto io me lo conferisco da me col prendermi la mia proprietà e col dichiararmi, senza bisogno d'altri, proprietario» (lb., p. 189). Il fondamento della proprietà non è altro che il potere dell'io singolo. Perciò la proprietà vera è la volontà. «Non già quell'albero, bensì la mia forza di disporre di esso come mi pare, costituisce la mia proprietà». In questo senso, anche i sentimenti costituiscono la proprietà dell'io singolo; ma ne costituiscono la proprietà non in quanto sono comandati o idealizzati, ma in quanto spontanei e strettamente connessi con l'egoismo dell'io. «Anch'io amo gli uomini, dice Stirner (lb., p. 215), ma li amo con la coscienza dell'egoista, li amo perché il loro amore mi rende felice, perché l'amore è incarnato nella mia natura, perché cosI mi piace. Io non riconosco alcuna legge che m'imponga d'amare».
Ma da questo punto di vista anche l'altro uomo per il quale io abbia interesse o amore, non è una persona ma un oggetto. «Nessuno è per me una persona che abbia diritto al mio rispetto, ma ciascuno è, come ogni altro essere, un oggetto per il quale provo o non provo simpatia, un oggetto interessante o non interessante, un oggetto di cui mi posso o non mi posso servire» (lb., p. 231). Sicché non è possibile una società gerarchicamente ordinata e organizzata, ma soltanto un'associazione nella quale l'individuo entra per moltiplicare la sua forza e in cui pertanto non vede altro che un mezzo. L'associazione può nascere solo dal dissolvimento della società, che rappresenta per l'uomo lo stato di natura; e può essere solo il prodotto di una insurrezione che sia la rivolta del singolo e miri ad abolire ogni costituzione politica: cosa che invece le rivoluzioni non fanno, perché mirano a sostituire una costituzione ad un'altra.
Le idee di Stirner, pur nella forma paradossale e spesso urtante in cui sono formulate, esprimono un'esigenza che si afferma violentemente tutte le volte che viene negata od elusa: quella dell'unicità, dell'insostituibilità, della singolarità dell'uomo. E quest'esigenza ha fatto la fortuna del libro di Stirncr (che è tradotto in tutte le lingue) nella cultura contemporanea. Ma lo stesso Stirner, chiarendo il presupposto ultimo delle sue affermazioni, ha messo in luce il carattere astratto e imperfetto che ha dato alla rivendicazione di quest'esigenza. Per lui l'uomo, il singolo, è un dato, una realtà inesprimibile, una pura forza naturale. Non può essere più o meno uomo, non può diventare un vero uomo, più che la pecora non possa diventare una vera pecora. «Credete forse che io voglia consigliarvi d'imitare i bruti? No, certo ‑ anche questo sarebbe un nuovo compito, un nuovo ideale ‑» (lb., p. 245). Non è possibile nessuna distinzione, nessun conflitto tra l'uomo ideale e l'uomo reale. «Io, l'Unico, sono l'uomo. La questione che "cosa è l'uomo?" si trasforma nella questione "chi è l'uomo?". Nel che cosa si cercava il concetto; nel chi la questione è risolta perché la risposta è data da quello stesso che interroga» (lb., p. 270).
L'uomo è una forza, una forza naturale che si espande: ecco tutto. Il problema non è come egli debba conquistare la vita, ma come debba spenderla e goderla; non come debba formare il suo io, ma come debba dissolverlo ed esaurirlo (lb., p. 237). Perciò Stirner chiude il suo libro con la frase: «Io ho riposto la mia causa nel nulla». L'unico fa di se stesso la sua proprietà e consuma se stesso: quest'è l'ultima parola di Stirner.
CAPITOLO VIII.
KIERKEGAARD (pp. 191-209)
597. VITA E SCRITTI.
L'opera di Kierkegaard non può essere certo ridotta a un momento della polemica contro l'idealismo romantico. Sta di fatto però che molti temi di essa costituiscono una precisa antitesi polemica ai temi di quell'idealismo. La difesa della singolarità dell'uomo contro l'universalità dello spirito; quella dell'esistenza contro la ragione; delle alternative inconciliabili contro la sintesi conciliatrice della dialettica; della libertà come possibilità contro la libertà come necessità; e infine della categoria stessa della possibilità, sono punti fondamentali della filosofia kierkegaardiana che nel loro insieme costituiscono un'alternativa radicalmente diversa da quella sulla quale l'idealismo rosnantico aveva indirizzato la filosofia europea. Si tratta però di un'alternativa che rimase pressoché inoperante nella filosofia dell'800 e che solo alla fine di questo secolo cominciò ad acquistare risonanza dapprima nel pensiero religioso poi in quello filosofico.
SÒREN KIERKEGAARD nacque in Danimarca a Copenhagen il 5 maggio 1913. Educato da un padre anziano nel clima di una religiosità severa, si iscrisse alla facoltà di teologia di Copenhagen, dove fra i giovani teologi dominava l'ispirazione hegeliana. Nel 1840, dopo circa 10 anni dal suo ingresso all'Università, si laureava cots una dissertazione Sul concetto dell'ironia con particolare riguardo a Socrate che pubblicava l'anno seguente. Ma non intraprese la carriera di pastore alla quale la sua laurea lo abilitava. Nel 1841‑42 fu a Berlino e ascoltò le lezioni di Schelling, che v'insegnava la sua filosofia positiva, fondata (come s'è visto, § 565) sulla distinzione radicale tra realtà c ragione. Dapprima entusiasta di Schelling, Kierkegaard ne fu presto deluso. Dopo di allora, egli visse a Copenhagen con un capitale lasciatogli dal padre, assorto nella composizione dei suoi libri. Gli incidenti esteriori della sua vita sono scarsi e apparentemente insignificanti: il fidanzamento, che egli stesso mandò a monte, con Regina Olsen; l'attacco di un giornale umoristico, «Il corsaro», di cui si dolse e si crucciò come di una persecuzione; la polemica, che occupò gli ultimi anni della sua vita, contro l'ambiente teologico di Copenhagen e specialmente contro il teologo hegeliano Martensen. Kierkegaard moriva l'11 ottobre 1855.
Ma quegli episodi hanno avuto, nella sua vita interiore (come ne fa testimonianza il Diario) e nelle sue opere, una risonanza profonda e apparentemente sproporzionata alla loro reale entità. Kierkegaard parla nel Diario di un «grande terremoto» che si è prodotto ad un certo punto nella sua vita e che lo ha costretto a mutare il suo atteggiamento di fronte al mondo (Tagebucher, 11, A 805). Egli accenna soltanto vagamente alla causa di questo rivolgimento («Una colpa doveva gravare su tutta la famiglia, un castigo di Dio discendere su di essa; essa doveva scomparire, cancellata come un tentativo mal riuscito dalla potente mano di Dio»); e per quanto i biografi si siano affaticati, indiscretamente quanto inutilmente, a determinarla, è chiaro che essa rimane, dinnanzi agli occhi dello stesso Kierkegaard, come una minaccia vaga e terribile insieme. Kierkegaard parla poi nel Diario, e ne parlò anche sul letto di morte, di una «scheggia nelle carni» che egli è stato destinato a portare; e anche qui, di fronte alla mancanza di ogni dato preciso, sta il carattere grave e ossessionante della cosa. Fu appunto probabilmente questa scheggia nelle carni che gli impedI di condurre in porto il suo fidanzamento con Regina Olsen, che egli ruppe, dopo qualche anno, di sua spontanea iniziativa. Anche qui nessun motivo preciso, nessuna causa determinata; solamente il senso di una minaccia oscura e inafferrabile, ma paralizzante. Perciò pure non intraprese la carriera di pastore né nessun'altra; e di fronte alla sua stessa attività di scrittore dichiarò di porsi in «un rapporto poetico» cioè in un rapporto di distacco e di lontananza: distacco ancora accentuato dal fatto che egli pubblicò i suoi libri sotto pseudonimi diversi, quasi a impedire ogni riferimento del loro contenuto alla sua stessa persona. Questi elementi biografici vanno tenuti continuamente presenti per la comprensione dell'atteggiamento filosofico di Kierkegaard.
Ecco intanto le sue opere principali: Il concetto dell'ironia (1841); Aut‑Aut, di cui fa parte il Diario di un seduttore (1843); Timore e tremore (1843); La ripetizione (1843); Briciole filosofiche (1844); Ii concetto dell'angoscia (1844); Prefazione (1844); Stadi nel cammino della vita (1845); Postilla conclusiva non scientifica (1846); Il punto di vista sulla mia attività di scrittore (postumo ma composto nel 1846‑47); La malattia mortale (1849). Kierkegaard è anche autore di numerosi Discorsi religiosi; e pubblicò nel 1855 (maggio‑settembre) il periodico «Il momento», nel quale trovarono posto i suoi attacchi contro la chiesa danese.
598. L'ESISTENZA COME POSSIBILITA’.
Ciò che costituisce il segno caratteristico dell'opera e della personalità di Kierkegaard è l'aver cercato di ricondurre la comprensione dell'intera esistenza umana alla categoria della possibilità e di aver messo in luce il carattere negativo e paralizzante della possibilità come tale. Già Kant aveva riconosciuto a fondamento di ogni potere umano, una possibilità reale o trascendentale; ma di tale possibilità egli aveva messo in luce l'aspetto positivo, che ne fa un'effettiva capacità umana, limitata bensì, ma che ritrova, nei limiti stessa sua validità e il suo impegno di realizzazione.
Kierkegaard scopre e mette in luce, con un'energia mai prima raggiunta, l'aspetto negativo d'ogni possibilità che entri a costituire l'esistenza umana. Ogni possibilità è infatti, oltre che possibilità‑che‑sí sempre anche possibilità‑che‑non: implica la nullità possibile di ciò che è possibile, quindi la minaccia del nulla. Kierkegaard vive, e scrive, sotto il segno di questa minaccia. Si è visto come tutti i tratti salienti della sua vita si siano rivestiti, ai suoi stessi occhi, di un'oscurità problematica. I rapporti con la famiglia, l'impegno di fidanzamento, la sua stessa attività di scrittore, gli appaiono carichi di alternative terribili, che finiscono per paralizzarlo. Egli stesso ha vissuto in pieno la figura cosI potentemente descritta nelle pagine finali del Concetto dell'angoscia: quella del discepolo dell'angoscia, di chi sente in sé le possibilità annientatrici e terribili che ogni alternativa dell'esistenza prospetta. Perciò di fronte a ogni alternativa, Kierkegaard si è sentito paralizzato.
Egli stesso dice di essere «una cavia d'esperimento per l'esistenza» e di riunire in sé i punti estremi di ogni opposizione. «Ciò che io sono è un nulla; questo procura a me e al mio genio la soddisfazione di conservare la mia esistenza al punto zero, tra il freddo e il caldo, tra la saggezza e la stupidaggine, tra il qualche cosa e il nulla come un semplice forse» (Stadien auf dem Lebensweg, trad. Schrempf‑Pfeiderer, pp. 246‑47). Il punto zero è l'indecisione permanente, l'equilibrio instabile tra le alternative opposte che si aprono di fronte a qualsiasi possibilità. E questa fu senza dubbio la scheggia nelle carni di cui Kierkegaard parlava: l'impossibilità di ridurre la propria vita a un compito preciso, di scegliere tra le alternative opposte, di riconoscersi e attuarsi in una possibilità unica. Questa impossibilità si traduce per lui nel riconoscimento che il proprio compito, l'unità della propria personalità, è appunto in questa condizione eccezionale di indecisione e di instabilità e che il centro del suo io è nel non aver un centro.
La sua attività letteraria non ebbe perciò altro fine che quello di chiarire le possibilità fondamentali che si offrono all'uomo, gli stadi o i momenti della vita che costituiscono le alternative dell'esistenza e tra le quali l'uomo generalmente è condotto a scegliere, mentre egli, Kierkegaard, non poteva scegliere. La sua attività fu quella di un contemplativo; ed egli si disse e si credette poeta. E moltiplicò la sua personalità con pseudonimi, in modo da accentuare il distacco tra se stesso e le forme di vita che veniva descrivendo, in modo da far intendere chiaramente che egli stesso non s'impegnava a scegliere tra esse. Soltanto nel cristianesimo egli vide un'àncora di salvezza: in quanto il cristianesimo gli sembrava insegnare quella stessa dottrina dell'esistenza che a lui pareva l'unica vera e nello stesso tempo offrire, con l'aiuto soprannaturale della fede, un modo di sottrarsi al peso di una scelta troppo gravosa.
Dall'altro lato, la filosofia hegeliana appare a Kierkegaard l'antitesi del punto di vista sull'esistenza da lui vissuto, e un'antitesi illusoria. Le alternative possibili dell'esistenza non si lasciano riunire e conciliare nella continuità di un unico processo dialettico. In questo, l'opposizione delle alternative stesse è solo apparente, perché la vera ed unica realtà è l'unità della ragione con se stessa. Ma nella ragione l'uomo singolo, l'uomo concretamente esistente è assorbito e dissolto. Di fronte ad essa, Kierkegaard presenta l'istanza del singolo, dell'esistente come tale. «La verità, egli dice (Tagebucher, I, A, 75), è una verità solo quando è una verità per me». La verità non è l'oggetto del pensiero ma il processo con cui l'uomo se l'appropria, la fa sua e la vive: l'appropriazione della verità è la verità.
Alla riflessione oggettiva propria della filosofia di Hegel, Kierkegaard contrappone la riflessione soggettiva, connessa con l'esistenza: la riflessione nella quale il singolo uomo è direttamente coinvolto quanto al suo stesso destino e che non è oggettiva e disinteressata, ma appassionata e paradossale. Hegel ha fatto dell'uomo un genere animale giacché solo negli animali il genere è superiore al singolo. Il genere umano ha invece la caratteristica che il singolo è superiore al genere (lb., X2, A, 426). Questo è, secondo Kierkegaard, l'insegnamento fondamentale del cristianesimo; ed è il punto su cui bisogna combattere la battaglia contro la filosofia hegeliana e in generale contro ogni filosofia che si avvalga della riflessione oggettiva. Kierkegaard considera come un aspetto essenziale del compito che si è proposto l'inserzione della persona singola, con tutte le sue esigenze, nella ricerca filosofica. Non per nulla egli avrebbe voluto far scrivere sulla sua tomba questa sola espressione: «Quel singolo» (lb., 18).
599. STADI DELL'ESISTENZA.
Il primo libro di Kierkegaard s'intitola significativamente Aut‑Aut. È una raccolta di scritti pseudonimi che presentano l'alternativa di due stadi fondamentali della vita: la vita estetica e la vita morale. Il titolo stesso indica già come questi stadi non siano due gradi di uno sviluppo unico che passi dall'uno all'altro e li concili. Tra uno stadio e l'altro vi è abisso e salto. Ognuno di essi forma una vita a sé, che con le sue opposizioni interne si presenta all'uomo come un'alternativa che esclude l'altra.
Lo stadio estetico è la forma di vita di chi esiste nell'attimo, fuggevolissimo e irripetibile. L'esteta è colui che vive poeticamente, cioè vive insieme di immaginazione e di riflessione. Egli è dotato di un senso finissimo per trovare nella vita ciò che vi è di interessante, e sa trattare i casi vissuti come se fossero l'opera dell'immaginazione poetica. CosI l'esteta si foggia un mondo luminoso, dal quale è assente tutto ciò che la vita presenta di banale, insignificante e meschino; e vive in uno stato di ebrezza intellettuale continua. La vita estetica esclude la ripetizione, che implica sempre monotonia e toglie l'interessante alle vicende phi promettenti. La vita estetica è concretamente rappresentata da Kierkegaard in Giovanni, il protagonista del Diario del seduttore, che sa porre il suo godimento, non nella ricerca sfrenata e indiscriminata del piacere, ma nella limitazione e nell'intensità dell'appagamento. Ma la vita estetica rivela la sua insufficienza e la sua miseria nella noia.
Chiunque viva esteticamente è disperato, lo sappia o non lo sappia; la disperazione è l'ultimo sbocco della concezione estetica della vita (Entweder‑Oder, trad. Hirsch, II, p. 206). Essa è l'ansia di una vita diversa che si prospetta come un'altra alternativa possibile. Ma per raggiungere quest'altra alternativa, bisogna attaccarsi alla disperazione, scegliere e darsi ad essa con tutto l'impegno, per rompere l'involucro della pura esteticità e riagganciarsi con un salto all'altra alternativa possibile, la vita etica. «Scegli dunque la disperazione, dice Kierkegaard; la disperazione stessa è una scelta giacché si può dubitare senza scegliere di dubitare ma non si può disperarsi senza sceglierlo. Disperandosi, si sceglie di nuovo e si sceglie se stesso, non nella propria immediatezza, come individuo accidentale, tua si sceglie se stesso nella propria validità eterna» (lb., p. 224).
La vita etica nasce appunto con questa scelta. Essa implica una stabilità e una continuità che la vita estetica, come incessante ricerca della varietà, esclude da sé. Essa è il dominio della riaffermazione di sé, del dovere e della fedeltà a se stessa: il dominio della libertà per la quale l'uomo si forma o si afferma da sé. «L'elemento estetico è quello per il quale l'uomo è immediatamente ciò che è; l'elemento etico è quello per cui l'uomo diviene ciò che diviene» (lb., p. 190). Nella vita etica l'uomo singolo si sottopone a una forma, si adegua all'universale e rinuncia ad essere l'eccezione. Come la vita estetica è incarnata dal seduttore, la vita etica è incarnato dal marito. Il matrimonio è l'espressione tipica dell'eticità, secondo Kierkegaard: esso è un compito che può essere proprio di tutti.
Mentre nella concezione estetica dell'amore, una coppia di persone eccezionali può essere felice in forza della sua eccezionalità, nella concezione etica del matrimonio può diventar felice ogni coppia di sposi. Inoltre la persona etica vive del suo lavoro. Il suo lavoro è anche la sua vocazione perciò essa lavora con piacere: il lavoro la mette in relazione con altre persone, e adempiendo il suo compito essa adempie a tutto ciò che può desiderare al mondo (lb., p. 312).
La caratteristica della vita etica in questo senso è la scelta che l'uomo fa di se stesso. La scelta di se stesso è una scelta assoluta perché non è la scelta di una qualsiasi determinazione finita (che non è mai il «se stesso») ma la scelta della libertà: cioè in fondo della scelta stessa (lb., p. 228). Una volta effettuata questa scelta, l'individuo scopre in sé una ricchezza infinita, scopre che ha in sé una storia nella quale riconosce la sua identità con se stesso. Questa storia include i suoi rapporti con gli altri sicché nel momento in cui l'individuo sembra isolarsi di più, penetra più profondamente nella radice con la quale si riattacca all'intera umanità. Per la sua scelta, egli non può rinunziare a nulla della sua storia, neanche agli aspetti di essa più dolorosi e crudeli; e nel riconoscersi in questi aspetti, egli si perite. Il pentimento è l'ultima parola della scelta etica, quella per cui questa scelta appare insufficiente e trapassa nel dominio religioso. «Il pentimento dell'individuo, dice Kierkegaard, coinvolge se stesso, la famiglia, il genere umano, finché egli si ritrova in Dio. Solo a questa condizione egli può scegliere se stesso e questa è la sola condizione che egli vuole perché solo cosI può scegliere se stesso in senso assoluto» (lb., p. 230).
La scelta assoluta è dunque pentimento, riconoscimento della propria colpevolezza, della colpevolezza perfino di ciò che si è ereditato. «Il suo se stesso si trova in qualche modo fuori di lui e dev'essere conquistato; e il pentimento è il suo amore perché egli lo sceglie assolutamente, per la mano di Dio» (lb., p. 230). Questo è lo scacco finale della vita etica, lo scacco per cui essa, in virtù della stessa struttura che la costituisce, tende a raggiungere la vita religiosa.
Non c'è tuttavia continuità tra la vita etica e quella religiosa. Tra esse c'è anzi un abisso ancora più profondo, un'opposizione ancora più radicale che tra l'estetica e l'etica. Kierkegaard chiarisce questa opposizione in Timore e tremore, raffigurando la vita religiosa nella persona di Abramo. Vissuto fino a 70 anni nel rispetto della legge morale, Abramo riceve da Dio l'ordine di uccidere il figlio Isacco e di infrangere così la legge per la quale è vissuto. Il significato della figura di Abramo sta nel fatto che il sacrificio del figlio non gli è suggerito da una qualsiasi esigenza morale (come fu, per esempio, per il console Bruto) ma da un puro comando divino che è in contrasto con la legge morale e con l'affetto naturale e non trova alcuna giustificazione innanzi ai familiari stessi di Abramo. In altri termini l'affermazione del principio religioso sospende interamente l'azione del principio morale. Tra i due principi non c'è possibilità di conciliazione o di sintesi. La loro opposizione è radicale.
Ma se è così, la scelta tra i due principi non può essere facilitata da nessuna considerazione generale né decisa in base a nessuna regola. L'uomo che ha fede come Abramo opterà per il principio religioso, seguirà l'ordine divino anche a costo di una rottura totale con la generalità degli uomini e con la norma morale. Ma la fede non è un principio generale: è un rapporto privato tra l'uomo e Dio, un rapporto assoluto con l'assoluto. E’ il dominio della solitudine: non si entra in essa «in compagnia», non si odono voci umane e non si scorgono regole. Di qui deriva il carattere incerto e rischioso della vita religiosa. Come può l'uomo esser certo di essere l'eccezione giustificata? Come può sapere che egli è l'eletto, colui al quale Dio ha affidato un compito eccezionale, che esige e giustifica la sospensione dell'etica? C'è un solo segno indiretto: la forza angosciosa con cui proprio questa domanda si pone all'uomo che è stato veramente eletto da Dio. L'angoscia dell'incertezza è la sola assicurazione possibile.
La fede è appunto la certezza angosciosa, l'angoscia che si rende certa di sé e di un nascosto rapporto con Dio. L'uomo può pregare Dio che gli conceda la fede; ma la possibilità di pregare non è essa stessa un dono divino? CosI c'è nella fede una contraddizione ineliminabile. La fede è paradosso e scandalo. Cristo è il segno di questo paradosso: è colui che soffre e muore come uomo, mentre parla e agisce come Dio; è colui che è e si deve riconoscere come Dio, mentre soffre e muore come un misero uomo. L'uomo è posto di fronte al bivio: credere o non credere. Da un lato è lui che deve scegliere, dall'altro ogni sua iniziativa è esclusa perché Dio è tutto e da lui deriva anche la fede. La vita religiosa è nelle maglie di questa contraddizione inesplicabile.
Ma questa contraddizione è quella stessa dell'esistenza umana. Kierkegaard vede perciò rivelata dal cristianesimo la sostanza stessa dell'esistenza. Paradosso, scandalo, contraddizione, necessità e nello stesso tempo impossibilità di decidere, dubbio, angoscia, sono le caratteristiche dell'esistenza e sono nello stesso tempo i fattori essenziali del cristianesimo. Di un cristianesimo, però, che Kierkegaard si accorse (negli ultimi anni della vita) esser assai lontano da quello delle religioni ufficiali. «Sono in possesso di un libro, egli scrisse una volta, che in questo paese può dirsi sconosciuto e di cui voglio quindi dare il titolo: "Il Nuovo Testamento di nostro Signore e Salvatore Gesù Cristo" ». La polemica contro il pacifico e accomodante cristianesimo della chiesa danese, polemica nella quale dichiarò di scendere in campo, più che per il cristianesimo, per la sincerità e l'onestà, dimostra come in realtà egli difendesse nel cristianesimo il significato dell'esistenza che aveva riconosciuto e fatto proprio. Ma questo significato, se si trova espresso e, per così dire, incarnato storicamente nel cristianesimo, non è limitato al dominio religioso ma è connesso con ogni forma o stadio dell'esistenza. La religione ne è consapevole, ma non lo monopolizza: la vita estetica e la vita etica lo includono, come si è visto, ugualmente. E le opere più significative di Kierkegaard sono quelle che lo affrontano direttamente e lo fissano nel suo significato umano.
600. IL SENTIMENTO DEL POSSIBILE: L'ANGOSCIA.
Kierkegaard si è dapprima fermato a delineare gli stadi fondamentali della vita, presentandoli come alternative escludentisi e come situazioni dominate da irrimediabili contrasti interni. L'approfondimento della sua ricerca lo porta al punto centrale nel quale si radicano le stesse alternative della vita ed i loro contrasti: l'esistenza come possibilità. Kierkegaard affronta direttamente, nelle sue due opere fondamentali, il Concetto dell'angoscia e La malattia mortale, la situazione di radicale incertezza, di instabilità e di dubbio, in cui l'uomo si trova costituzionalmente per la natura problematica del modo d'essere che gli è proprio. Nei Concetto dell'angoscia questa situazione è chiarita nei confronti del rapporto dell'uomo col mondo, nella Malattia mortale nei confronti del rapporto dell'uomo con se stesso, cioè nel rapporto costitutivo dell'io.
L'angoscia è la condizione generata nell'uomo dal possibile che lo costituisce. Essa è strettamente connessa coi peccato ed è a fondamento dello stesso peccato originale. L'innocenza di Adamo è ignoranza; ma è un'ignoranza che contiene un elemento che determinerà la caduta. Questo elemento non è né calma né riposo; non è neppure turbamento o lotta, perché non c'è ancora niente contro cui lottare. Non è che un niente: ma proprio questo niente genera l'angoscia. A differenza del timore e di altri stati analoghi che si riferiscono sempre a qualcosa di determinato, l'angoscia non si riferisce a nulla di preciso. Essa è il puro sentimento della possibilità. «Il divieto divino, dice Kierkegaard, rende inquieto Adamo perché sveglia in lui la possibilità della libertà. Ciò che si offriva all'innocenza come il niente dell'angoscia è ora entrato in lui, e qui resta un niente: l'angosciante possibilità di potere. Quanto a ciò che può, egli non ne ha nessuna idea, altrimenti sarebbe presupposto ciò che ne segue, cioè la differenza tra il bene e il male.
Non vi è in Adamo che la possibilità di potere, come una forma superiore d'ignoranza, come un'espressione superiore di angoscia, giacché in questo grado più alto essa è e non è, egli l'ama e la fugge». Nell'ignoranza di ciò che può, Adamo possiede il suo potere nella forma della pura possibilità; e l'esperienza vissuta di questa possibilità è l'angoscia. L'angoscia non è né necessità né libertà astratta cioè libero arbitrio; è libertà finita, cioè limitata e impastoiata, e cosI si identifica coi sentimento della possibilità.
La connessione dell'angoscia col possibile si rivela nella connessione del possibile con l'avvenire. Il possibile corrisponde completamente all'avvenire. «Per la libertà, il possibile è l'avvenire, per il tempo l'avvenire è il possibile. CosI all'uno come all'altro, nella vita individuale corrisponde l'angoscia». Il passato può angosciare solo in quanto si ripresenta come futuro cioè come una possibilità di ripetizione. CosI una colpa passata genera angoscia, solo se non è veramente passata, giacché se fosse tale potrebbe generare pentimento, non angoscia. L'angoscia è legata a ciò che non è ma può essere, al nulla che è possibile o alla possibilità nullificante. Essa è legata strettamente alla condizione umana.
Se l'uomo fosse angelo o bestia, non conoscerebbe l'angoscia; e difatti essa manca o diminuisce negli stadi che degradano o inclinano verso la bestialità, nell'aspiritualità per la quale l'uomo è troppo felice, e troppo privo di spirito. Ma anche in questi stadi l'angoscia è sempre pronta ad insorgere: è mascherata e nascosta, ma è lì, pronta a riprendere il suo impero sull'uomo. «E possibile che un debitore riesca a liberarsi dal suo creditore e ad ammansirlo con le parole, ma vi è almeno un creditore che non è mai stato ingannato, ed è lo spirito». La spiritualità infatti è la riflessione dell'uomo su se stesso, sulla sua propria condizione umana, sull'impossibilità di adeguarsi a una vita puramente bestiale.
La coscienza della morte è parte essenziale della spiritualità. «Quando la morte si presenta nella sua vera faccia scarna e truculenta, non la si considera senza timore. Ma quando essa, per burlarsi degli uomini che si vantano di burlarsi di lei, si avanza camuffata, quando soltanto la nostra meditazione riesce a vedere che, sotto le spoglie di quella sconosciuta, la cui dolcezza c'incanta e la cui gioia ci rapisce nell'impeto selvaggio del piacere, c'è la morte ‑ allora siamo presi da un terrore senza fondo».
Le pagine conclusive dei Concetto dell'angoscia esprimono in modo potentemente autobiografico la natura dell'angoscia come sentimento del possibile. La parola più terribile pronunciata da Cristo non è quella che impressionava Lutero: Mio Dio perché mi hai abbandonato? ma l'altra che egli rivolge a Giuda: Ciò che tu fai, affrettalo! La prima parola esprime la sofferenza per ciò che accadeva, la seconda l'angoscia per ciò che poteva accadere; e solo in questa si rivela veramente l'umanità del Cristo; perché umanità significa angoscia. La povertà spirituale sottrae l'uomo all'angoscia; ma l'uomo sottratto all'angoscia è lo schiavo di tutte le circostanze che lo sballottano di qua e di là senza méta. L'angoscia è la più gravosa di tutte le categorie.
Kierkegaard collega l'angoscia strettamente con il principio dell'infinità o dell'onnipotenza del possibile: principio che egli esprime più spesso dicendo: «Nel possibile, tutto è possibile». Per questo principio, ogni possibilità favorevole all'uomo è annientata dall'infinito numero delle possibilità sfavorevoli. «Di solito, dice Kierkegaard, si dice che la possibilità è leggera perché s'intende come possibilità di felicità, di fortuna, ecc. Ma questa non è affatto la possibilità; questa è un'invenzione fallace che gli uomini nella loro corruzione imbellettano per avere un pretesto di lamentarsi della vita e della provvidenza e per avere un'occasione di farsi importanti ai propri occhi. No, nella possibilità tutto è ugualmente possibile e chi fu realmente educato mediante la possibilità ha compreso tanto il lato terribile quanto quello piacevole di essa. Quando si esce dalla sua scuola si sa meglio di come un bambino sa le sue lettere che dalla vita non si può pretendere nulla e che il lato terribile, la perdizione, l'annientamento abitano a porta a porta con ciascuno di noi; e quando si è appreso a fondo che ciascuna delle angosce che noi temiamo può piombare su di noi da un istante all'altro, siamo costretti a dare alla realtà un'altra spiegazione: siamo costretti a lodare la realtà quando anche essa gravi su di noi con mano pesante e a ricordarci che essa è di gran lunga più facile che non la possibilità» (Der Begriff Angst, V).
E’ l'infinità o indeterminatezza delle possibilità che rende insuperabile l'angoscia e ne fa la situazione fondamentale dell'uomo nel mondo. «Quando l'accortezza ha fatto tutti i suoi calcoli innumerevoli, quando il gioco è fatto, ecco l'angoscia, ancor prima che il gioco sia vinto o perduto nella realtà; e l'angoscia mette una croce davanti al diavolo, sicché non può più andare avanti e la più astuta combinazione dell'accortezza scompare come uno scherzo di fronte a quel caso che l'angoscia forma mediante l'onnipotenza della possibilità» (lb., V). In tal modo l'onnipotenza della possibilità divezza dall'accortezza che si muove tra le cose finite ed educa l'individuo «a riposare nella provvidenza». Allo stesso modo, essa dà il senso infinito della colpa che non può essere visto attraverso la finitezza: «Se un uomo è colpevole, è colpevole infinitamente» (lb., V).
601. IL POSSTBILE COME STRUTTURA DELL'IO: LA DISPERAZIONE.
L'angoscia è la condizione in cui l'uomo è posto dal possibile che si riferisce al mondo; la disperazione è la condizione in cui l'uomo è posto dal possibile che si riferisce alla sua stessa interiorità, al suo io. La possibilità che provoca l'angoscia è inerente alla situazione dell'uomo nel mondo: è la possibilità difatti, di circostanze, di legami, che rapportano l'uomo al mondo. La disperazione è inerente alla personalità stessa dell'uomo, al rapporto in cui l'io è con se stesso e alla possibilità di questo rapporto. Disperazione e angoscia sono quindi strettamente legate, ma non identiche: entrambe tuttavia sono fondate sulla struttura problematica dell'esistenza.
«L'io, dice Kierkegaard, è un rapporto che si rapporta a se stesso, è, nel rapporto, l'orientamento interno di questo stesso rapporto. L'io non è rapporto, ma è il ritorno su se stesso del rapporto». Posto ciò la disperazione è strettamente legata alla natura dell'io. Difatti l'io può volere, come può non volere, esser se stesso. Se vuole esser se stesso, poiché è finito, quindi insufficiente a se stesso, non giungerà mai all'equilibrio e al riposo. Se non vuole esser se stesso, cerca di rompere il proprio rapporto con sé, che gli è costitutivo e quindi si urta anche qui contro un'impossibilità fondamentale. La disperazione è la caratteristica sia dell'una che dell'altra alternativa.
Essa è perciò la malattia mortale, non perché conduca alla morte dell'io ma perché è il vivere la morte dell'io: è il tentativo impossibile di negare la possibilità dell'io o rendendolo autosufficiente o distruggendolo nella sua natura concreta. Le due forme della disperazione si richiamano l'un l'altra e si identificano: disperare di sé nel senso di volersi disfare di sé significa voler essere l'io che non si è veramente; voler essere se stesso ad ogni costo significa ancora voler essere l'io che non si è veramente, un io autosufficiente e compiuto. Nell'uno e nell'altro caso la disperazione è l'impossibilità del tentativo.
Dall'altro lato, l'io è secondo Kierkegaard «la sintesi di necessità e di libertà» e la disperazione nasce in lui o dalla deficienza di necessità o dalla deficienza di libertà. La deficienza della necessità è la fuga dell'io verso possibilità che si moltiplicano indefinitivamente e non si solidificano mai. L'individuo diventa «un miraggio». «Alla fine, dice Kierkegaard, è come se tutto fosse possibile, ed è proprio questo il momento in cui l'abisso ha ingoiato l'io» (Die Kranleheit zum Tode, I, C, A, b).
La disperazione è qui quella che oggi chiamiamo «evasione», cioè il rifugio in possibilità fantastiche, illimitate, che non prendono piede e non si radicano in nulla. «Nella possibilità tutto è possibile. Perciò nella possibilità ci si può smarrire in tutti i modi possibili ma essenzialmente in due. L'una di queste forme è quella del desiderio, dell'aspirazione, l'altra è quella malinconico‑fantastica (la speranza, il timore o l'angoscia) » (lb., I, C, A, b).
C'è poi la disperazione dovuta alla deficienza del possibile. In questo caso, «la possibilità è l'unica cosa che salva. Quando uno sviene si manda per acqua, acqua di colonia, gocce di Hoffmann; ma quando qualcuno vuol disperarsi bisogna dire: "Trovate una possibilità, trovategli una possibilità". La possibilità è l'unico rimedio; dategli una possibilità e il disperato riprende lena, si rianima, perché se l'uomo rimane senza possibilità è come se gli mancasse l'aria. Talvolta l'inventiva della fantasia umana può bastare per trovare una possibilità; ma alla fine, cioè quando si tratta di credere, giova soltanto questo, che a Dio tutto è possibile» (lb.).
Proprio perché a Dio tutto è possibile, il credente possiede il contraveleno sicuro contro la disperazione «il fatto che la volontà di Dio è possibile, fa sì che io possa pregare; se essa fosse soltanto necessaria, l'uomo sarebbe essenzialmente muto come l'animale» (lb.).
Come opposto della fede, la disperazione è il peccato: e perciò l'opposto del peccato è per l'appunto la fede, non la virtù. La fede è l'eliminazione totale della disperazione, è la condizione in cui l'uomo, pur orientandosi verso se stesso e volendo esser se stesso, non si illude sulla sua autosufficienza ma riconosce la sua dipendenza da Dio. In questo caso, la volontà di esser se stesso non urta contro l'impossibilità dell'autosufficienza che determina la disperazione, perché è una volontà che si affida alla potenza da cui l'uomo stesso è posto, cioè a Dio. La fede sostituisce alla disperazione la speranza e la fiducia in Dio. Ma porta pure l'uomo al di là della ragione e di ogni possibilità di comprensione: essa è assurdità, paradosso e scandalo. Che la realtà dell'uomo sia quella di un individuo isolato di fronte a Dio, che ogni individuo come tale, sia esso un potente della terra o uno schiavo, esista dinanzi a Dio, ‑questo è lo scandalo fondamentale del cristianesimo, scandalo che nessuna speculazione può togliere o diminuire. Tutte le categorie del pensiero religioso sono impensabili. Impensabile è la trascendenza di Dio, che implica una distanza infinita tra Dio e l'uomo e così esclude qualsiasi familiarità tra Dio e l'uomo anche nell'atto del loro più intimo rapporto. Impensabile è il peccato nella sua natura concreta, come esistenza dell'individuo che pecca. La fede crede nonostante tutto, e assume tutti i rischi. La fede è, per Kierkegaard, il capovolgimento paradossale dell'esistenza; di fronte all'instabilità radicale dell'esistenza costituita dal possibile la fede si appella alla stabilità del principio di ogni possibilità, a Dio, ‑cui tutto è possibile. CosI la fede soltanto si sottrae alla minaccia della possibilità e capovolge la negazione implicita in questa minaccia in un'affermazione fiduciosa.
602. LA NOZIONE DI «POSSIBILE».
I tratti che Kierkegaard ha riconosciuti propri dell'esistenza umana nel mondo, l'angoscia e la disperazione, derivano all'esistenza stessa dalle strutture i possibilità che la costituiscono. Nelle opere in cui Kierkegaard ha drammaticamente descritto quei tratti e che sono le più famose non c'è tuttavia un'analisi della nozione di possibile. Tale analisi era invece stata data da Kierkegaard nello scritto Briciole di filosofia del 1844, per quanto, come vedremo, i chiarimenti che qui vengono addotti non sono sempre coerenti con l'uso che della nozione di possibile Kierkegaard ha fatto nel Concetto dell'angoscia e nella Malattia mortale.
Nell'intermezzo di quello scritto (§ 1) Kierkegaard correttamente osserva che l'errore di Aristotele nella trattazione del possibile (De lnterpretatione, 13; cfr. § 85) è stato quello di considerare lo stesso necessario come possibile; e poiché il possibile può non essere e il necessario non può non essere egli è stato condotto ad ammettere, oltre al possibile «mutevole», che può non essere, un possibile immutabile che significa semplicemente «non impossibile». Kierkegaard osserva che egli avrebbe dovuto semplicemente negare che il possibile entri nel necessario, o che il necessario entri nel possibile. Pertanto, anche la tesi di Hegel che la necessità è la sintesi del possibile e del reale è frutto, secondo Kierkegaard, di una confusione. Se il possibile e il reale, egli dice, divenissero nella loro sintesi il necessario, passerebbero a costituire un'essenza assolutamente diversa e, divenendo, diverrebbero ciò che esclude il divenire (il necessario). Se i concetti di possibile e di necessario si tengono fermi bisogna ritenere, secondo Kierkegaard, che «il necessario non diviene» e che «il divenire non è mai necessario». Difatti il necessario non può mutare perché si rapporta sempre a se stesso e vi si rapporta sempre allo stesso modo. Il necessario è per definizione. Nulla di esso può essere annientato mentre il divenire è sempre un annientamento parziale, nel senso che il possibile che esso prospetta (non solo quello escluso ma anche quello adottato) è annientato dalla realtà cui esso mette capo.
Queste notazioni sono tenute presenti da Kierkegaard nella sua analisi del concetto di storia (cfr. più oltre). Ma nei due scritti che abbiamo esaminato l'uso che Kierkegaard fa della nozione di possibile non è perfettamente coerente con esse. Nella Malattia mortale ricorre ad esempio la definizione della realtà come «unità di possibilità e di necessità»: una definizione che combina due categorie che, secondo le Briciole, vanno tenute separate. Inoltre in entrambe le opere si afferma l'infinità del possibile nel senso che si ammette che le possibilità sono «infinite» o, in altri termini, «l'onnipotenza della possibilità». L'angoscia nasce infatti dal numero infinito delle possibilità e dalla loro radicale negatività; e la disperazione nasce dell'eccesso o dalla deficienza delle possibilità dell'io. Questa infinità del possibile attribuita all'uomo, questa «onnipotenza» del possibile sembrano tuttavia contrastare con la finitudine che Kierkegaard riconosce propria dell'uomo.
Certamente Kierkegaard implica che tutte (o quasi) le possibilità umane sono destinate allo scacco, almeno finché non si appoggiano sulle possibilità di Dio e non sono convalidate da esse. Ma, in primo luogo, una possibilità «destinata allo scacco» non è una possibilità, come non è una possibilità quella «destinata al successo». La forma della possibilità è quella dell'alternativa, dell'aut‑aut, sulla quale Kierkegaard ha tanto insistito.
Se per l'uomo le possibilità non hanno questa forma, l'uomo non vive nella possibilità ma nella necessità: nella necessità dello scacco. E se vive nella necessità, neppure Dio può salvarlo se non a patto di trasmutarne la natura e di renderlo pari a lui: giacché il necessario è ciò che non può essere diverso da quello che è. D'altronde, che «a Dio tutto è possibile» significa questo: per quanto disastrosa o disperata la situazione in cui un uomo viene a trovarsi, Dio può sempre trovare per lui, per questo singolo uomo, una possibilità che gli dia respiro e lo salvi. Ma Dio può far questo perché ha a sua disposizione infinite possibilità. Se l'uomo si trovasse nella stessa situazione, non avrebbe, ovviamente, bisogno di Dio.
La dottrina dell'infinità e dell'onnipotenza del possibile di cui Kierkegaard si è avvalso nel Concetto dell'angoscia e nella Malattia mortale non è perciò molto coerente con la nozione del possibile che Kierkegaard aveva stabilito nelle Briciole di filosofia e si può considerare come una specie di contaminazione concettuale tra questa dottrina e la nozione romantica di infinito.
603. L'ISTANTE E LA STORIA.
Come si è detto, le Briciole di filosofia contengono pure la nozione kierkegaardiana della storia. Come dominio della realtà che diviene, la storia è, secondo Kierkegaard, il dominio del possibile.
Il divenire può includere in sé una duplicazione cioè una possibilità di divenire all'interno del proprio divenire: questo secondo divenire è propriamente il luogo della storia. Esso si effettua in virtù di una libertà di azione relativa, che a sua volta rimanda ad una causa dotata di libertà d'azione assoluta. Nella storia il passato non ha maggiore necessità dell'avvenire. Se il passato, per il fatto di essersi realizzato, fosse divenuto necessario, l'avvenire stesso sarebbe necessario quanto alla sua realizzazione futura. Voler predire l'avvenire (profetizzare) e voler intendere la necessità del passato sono una sola e medesima cosa ed è solo questione di moda se una generazione trova l'uno più plausibile dell'altro. Il passato non è necessario nel momento in cui diviene; non diventa necessario divenendo (questo sarebbe contraddittorio) e ancora meno lo diventa nell'atto di essere compreso o interpretato.
Se divenisse necessario nell'atto di essere inteso, guadagnerebbe ciò che l'intendimento di esso perderebbe, giacché quest'ultimo intenderebbe altra cosa (la ciò che il passato è, e sarebbe un cattivo intendimento. Se l'oggetto inteso muta nell'intendimento, quest'ultimo si muta in errore. La conclusione è che la possibilità, dalla quale è risultato il possibile divenuto reale, accompagna sempre il reale stesso e resta accanto al passato, anche se nel frattempo sono scorsi millenni. La vera realtà del passato non è, dunque, che la sua stessa possibilità.
Di qui deriva che l'organo per la conoscenza della storia è la fede. La percezione immediata non può ingannare e non è soggetta a dubbio; ma essa ha sempre per oggetto il divenuto, non il divenire, quindi il presente, non la storia, che è il passato. La storia esige un organo che sia conforme alla sua natura; la quale include una duplice incertezza, in quanto è il niente del non essere o la distruzione della possibilità che si è realizzata, e nello stesso tempo la distruzione di tutte le altre possibilità che sono state escluse. Ma questa è appunto la natura della fede, giacché la certezza della fede implica sempre l'abolizione di una incertezza analoga a quella del divenire.
La fede crede ciò che non vede; non crede che la stella ci sia, perché questo si vede, ma crede che la stella è stata creata. Lo stesso accade per qualsiasi evento. Ciò che è accaduto, è immediatamente conoscibile, ma non è conoscibile immediatamente l'atto dell'accadere. La duplicità dei fatti accaduti consiste nell'essere accaduti e nell'essere il luogo di un passaggio dal niente ad una possibilità multipla. La percezione e la conoscenza immediata ignorano l'incertezza con la quale la fede si rivolge al suo oggetto, ma ignorano anche la certezza che scaturisce da quella incertezza. Kierkegaard ne conclude che la fede è una decisione e che perciò esclude il dubbio. Fede e dubbio non sono due generi di conoscenza, tra i quali ci sia continuità, ma piuttosto due passioni contrarie.
La fede è il significato del divenire, il dubbio è la protesta contro una conclusione che voglia oltrepassare la conoscenza immediata.
Da questo punto di vista, la storia non è per nulla una teofania, la rivelazione e l'autorealizzazione di Dio. Il rapporto tra l'uomo e Dio non si verifica nella storia cioè nella continuità del divenire umano, ma piuttosto nell'istante, inteso come subitanea inserzione della verità divina nell'uomo. In questo senso, il cristianesimo è paradosso e scandalo. Se il rapporto tra l'uomo e Dio si verifica nell'istante, ciò vuol dire che l'uomo per suo conto vive nella non‑verità; e la conoscenza di questa condizione è il peccato. Kierkegaard contrappone il cristianesimo così inteso al socratismo, secondo il quale l'uomo invece vive nella verità e si tratta soltanto per lui di renderla esplicita, di trarla fuori maieuticamente.
Il maestro per il socratismo è una semplice occasione per il processo maieutico, giacché la verità abita sin dal principio nel discepolo. Socrate perciò rifiutava di chiamarsi maestro e dichiarava di non insegnare nulla. Ma dal punto di vista cristiano, poiché l'uomo è la non‑verità, si tratta di ricreare l'uomo, di farlo rinascere, per renderlo adatto alla verità che gli viene da fuori. Il maestro è perciò un salvatore, un redentore, che determina la nascita di un uomo nuovo, capace di accogliere nell'istante la verità di Dio.
Il rapporto istantaneo tra l'uomo e Dio, in cui l'iniziativa è tutta divina, perché l'uomo è non verità, esclude che l'uomo possa con le sue forze elevarsi a Dio, che egli possa dimostrarne l'esistenza. «Se Dio non esiste ‑ dice Kierkegaard ‑ dimostrarlo è assolutamente impossibile; ma se esiste è addirittura follia. Nell'istante in cui comincia la prova, io ho già presupposto la sua esistenza; e non come cosa dubbia, giacché un presupposto non può esser tale, ma come cosa fuori questione, altrimenti non avrei intrapreso la prova, comprendendone l'impossibilità».
Finché si rimane sul terreno dei fatti sensibili e palpabili o su quello delle idee, nessuna conclusione può giungere all'esistenza, ma solo partirne. Non si prova, per esempio, l'esistenza di una pietra ma si prova soltanto che questa cosa esistente è una pietra; ii tribunale non prova l'esistenza di un criminale ma prova che l'accusato, che certamente esiste, è un criminale. Se si volesse risalire a Dio dai suoi atti concreti cioè da ciò che immediatamente si percepisce nella natura e nella storia, si rimarrebbe sempre in sospeso nel timore che accadesse qualcosa di cosi terribile da mandare in aria tutte le prove. Se non si resta in sospeso, ciò accade perché non si considerano 1e cose immediatamente presenti, ma determinati concetti di esse. E in tal caso la prova non parte dagli atti concreti ma solo sviluppa un idealismo, che è presupposto; forti della fiducia in esso, si osa allora sfidare anche le obiezioni future. Ma questa non è una prova, è solo lo sviluppo di un presupposto idealistico.
Dio rimane quindi al di là di ogni possibile punto d'arrivo della ricerca umana. L'unica sua possibile definizione, secondo Kierkegaard, è quella che lo contrassegna come differenza assoluta; ma è una definizione apparente, perché una differenza assoluta non può essere pensata, e allora questa differenza assoluta non significa altro che l'uomo non è Dio, che l'uomo è la non-verità, il peccato. La ricerca di Dio non ha fatto un passo innanzi.
L'istante è dunque l'inserzione paradossale e incomprensibile dell'eternità nel tempo, e realizza il paradosso del cristianesimo, che è la venuta di Dio nel mondo. In questo senso soltanto, il cristianesimo è un fatto storico; e se ogni fatto storico fa appello alla fede, questo particolare fatto storico implica una fede alla seconda potenza perché esige una decisione che superi la contraddizione implicita nell'eternità che si fa tempo, nella divinità che si fa uomo. Ma questo fatto storico non ha testimoni privilegiati, giacché la sua storicità si ripresenta, nell'istante, ogni volta che il singolo uomo riceve il dono iella fede. Kierkegaard afferma a questo proposito che non c'è nessuna diflerenza tra il «discepolo di prima mano» e il «discepolo di seconda mano» di Cristo. L'uomo che vive dopo molti secoli dalla venuta di Cristo, crede all'informazione del contemporaneo di Cristo solo in virtù di una condizione che a lui stesso deriva direttamente da Dio. Per lui quindi si verifica originalmente la venuta di Dio nel mondo, e ciò accade in virtù della fede. La divinità di Cristo non era più evidente per il testimone immediato, per il contemporaneo di Gesù, di quanto non lo sia per qualsiasi cristiano che abbia ricevuta la fede. In ogni caso, quella rivelazione non può accadere che nell'istante, e presuppone un organo adatto, la fede, e un dato necessario, la coscienza del peccato. Essa presuppone altresì un concetto del maestro diverso da quello del socratismo: Dio nel tempo.
604. BILANCIO KIERKEGAARDIANO.
La filosofia di Kierkegaard è, nel suo complesso, un'apologetica religiosa e precisamente il tentativo di fondare la validità della religione sulla struttura dell'esistenza umana come tale. Si tratta tuttavia di un'apologetica assai lontana dalla razionalizzazione della vita religiosa che era stata effettuata da Hegel e che, dopo di Hegel, era diventato il compito della destra hegeliana. La religione non è per Kierkegaard una visione razionale del mondo né la trascrizione fantastica o emotiva ditale visione; è soltanto la via della salvezza cioè l'unico modo di sottrarsi all'angoscia, alla disperazione e allo scacco delle possibilità che costituiscono l'uomo, mediante l'instaurazione di un rapporto immediato con Dio. Il ritorno a Kierkegaard nella filosofia contemporanea è stato iniziato dalla cosiddetta «rinascita kierkegaardiana», proprio in vista di questo aspetto della filosofia di Kierkegaard.
Dall'altro lato, Kierkegaard ha offerto all'indagine filosofica strumenti che si sono rivelati efficaci: come i concetti di possibilità, di scelta, di alternativa e di esistenza come modo d'essere proprio dell'uomo; e ha insistito su quell'aspetto della filosofia per la quale essa è non tanto un sapere oggettivo quanto un atteggiarsi o un progettarsi totale dell'esistenza umana e quindi impegno in tale progettazione. Questa dimensione è stata poi fatta propria da tutte le correnti dell'esistenzialismo contemporaneo.
La categoria del «singolo», sulla quale egli ha tanto insistito da un capo all'altro della sua opera, costituisce un altro dei suoi contributi alla problematica del pensiero moderno. In primo luogo il singolo si contrappone alla universalità impersonale dell'Io di Fichte, dell'Assoluto di Schelling e dell'Idea di Hegel ed esprime l'irriducibilità dell'uomo, della sua natura, dei suoi interessi e della sua libertà a qualsiasi entità infinita, immanente o trascendente, che pretenda assorbirlo.
In secondo luogo il singolo si contrappone alla «massa», al «pubblico», alla «folla», in quanto è entità differenziata e individuata, che ha un valore in sé, non riducibile a quella dell'unità indifferenziata del numero. In questo senso Kierkegaard contrappone la comunità, nella quale il singolo è, alla folla in cui il singolo è un nulla. «La folla, dice Kierkegaard, è un nonsenso, una somma di unità negative, di unità che non sono unità, che diventano unità per via della somma mentre la somma dovrebbe essere e diventar somma per via delle unità» (Tagebucher, X2, A 390). In questi due contesti, la categoria del singolo serve a Kierkegaard per affrontare problemi che sono diventati, a distanza di un secolo, ancora pii urgenti: e principalmente quello della salvaguardia dell'individuo contro il conformismo e l'appiattimento nella mentalità di «massa».
Ma la stessa categoria del singolo viene pure da Kierkegaard opposta al «popolo» e in generale agli ideali egualitari e democratici che cominciavano ad affacciarsi nelle rivoluzioni e nei movimenti di un secolo fa; ed è usata per difendere la forza e i privilegi dello stato e una specie di governo di «sacerdoti cristiani» non meglio identificati (Das eine was not tut [1847‑48J, trad. Ulrich, in Zeitwende, I, p. 1 sgg.). In quest'aspetto, la categoria del singolo serve a Kierkegaard per la difesa di posizioni politicamente conservatrici.
Infine quella categoria ha un significato prevalentemente religioso. Kierkegaard non ignora certo che del «singolo» fanno parte i rapporti con gli altri e quelli con il mondo che definiscono la sfera del suo «compito» o del suo lavoro; ma da ultimo ciò che a lui interessa è la solitudine del singolo di fronte a Dio. La sua stessa definizione dell'io (cioè della personalità umana) come di «un rapporto che si rapporta a se stesso» data nella Malattia mortale, sembra chiudere il singolo nella sua privata intimità. E sembra pure che i rapporti con gli altri e i rapporti di lavoro rimangano per Kierkegaard limitati allo stadio dell'etica che è pur sempre uno stadio provvisorio dell'esistenza; mentre nello stadio religioso, che è quello definitivo, il singolo si trova isolato di fronte a Dio. «Come singolo, dice Kierkegaard, l'uomo è solo: solo in tutto il mondo, solo al cospetto di Dio» (Tagebücher, VIII, A 482).
In contrasto con quest'ultimo aspetto del pensiero di Kierkegaard, il marxismo e l'esistenzialismo, pur assumendo anch'essi la difesa del singolo, cercheranno d'integrarlo nei suoi rapporti con il mondo e con gli altri e di comprenderlo nella sua storicità.