Riccardo Bellofiore

La crisi capitalistica e le sue ricorrenze: una lettura a partire da Marx


Introduzione

Nell’attuale dibattito sulla crisi due sono i filoni interpretativi principali che si richiamano a Marx e che proclamano una sua rinnovata attualità. Il primo, proposto da quegli autori che si vogliono marxisti “ortodossi”, è quello che legge la finanziarizzazione come conseguenza della caduta tendenziale del saggio del profitto, e in quest’ottica individua una lunga tendenza alla stagnazione che comincia negli anni Settanta del Novecento. L’altra interpretazione, prevalente per lo più in quei marxisti influenzati dal keynesismo e dal neoricardismo, fa riferimento alla tendenza alla crisi da realizzazione, ovvero da insufficienza da domanda. Questo secondo filone evidenzia come, dopo la controrivoluzione monetarista degli anni Ottanta del Novecento, siano avvenuti profondi mutamenti nella distribuzione del reddito con la caduta della quota dei salari, e sostiene che in un mondo di bassi salari la ragione di fondo  della  crisi  sia  l'insufficienza  della  domanda  di  consumi:  una  prospettiva  più  o  meno dichiaratemente sottoconsumista.

In entrambi i casi, la crisi attuale coverebbe da molto tempo, e sarebbe la crisi di un capitalismo che si può ben definire asfittico, sostanzialmente e (ormai) perennemente stagnazionistico.

Ritengo che un’interpretazione marxiana della crisi non possa essere sganciata dalla caduta tendenziale del saggio del profitto, ma che questa vada interpretata come una sorta di meta-teoria della crisi, che ingloba al suo interno le altre e diverse teorie della crisi che si possono trovare o derivare dal Capitale.

In quel che segue, procederò in prima battuta ad una ricognizione delle diverse teorie della crisi riconducibili a Marx, e che sono di solito esposte come filoni alternativi e incompatibili. In secondo luogo, cercherò di integrare i diversi spunti che si trovano in Marx in un discorso unitario, dentro una lettura non meccanicistica della caduta del saggio di profitto.

Questo discorso si prolunga in uno schizzo storico della dinamica lunga del capitale: dalla Grande Depressione di fine Ottocento, alla Grande Crisi degli anni Trenta del secolo scorso, alla Crisi Sociale nei  processi immediati della valorizzazione degli anni Sessanta-Settanta.

Infine, leggerò su questo sfondo la dinamica capitalistica di fine Novecento e la crisi che si è materializzata in questo ultimo decennio, sottolineando il legame tra finanziarizzazione e frammentazione del lavoro, e cercando di individuare le novità più significative nella morfologia del sistema economico e sociale.


Le teorie marxiane della crisi

La teoria della crisi marxiana è da sempre un terreno accidentato e controverso. L'accumulazione - la conversione del plusvalore in capitale costante e variabile aggiuntivo al fine di produrre plusvalore - è
un processo contraddittorio. Di tali contraddizioni le crisi sono l'espressione necessaria e, ad un tempo, la soluzione temporanea.

La tendenza alla instabilità del capitalismo discende innanzi tutto dal fatto che il capitalismo è una economia di mercato e monetaria. Sul mercato, nella divisione sociale del lavoro, vige una anarchia che può condurre a una realizzazione incompleta del plusvalore prodotto in potenza nel processo immediato di valorizzazione. La presenza della moneta dissocia le vendite dai successivi acquisti, e il tesoreggiamento può interrompere la sequenza per cui l'offerta trova il proprio sbocco sul mercato quando i redditi pagati ai 'fattori' della produzione vengono spesi. Ciò non di meno, la maggior parte della indagine marxiana nei tre libri del Capitale è svolta sul presupposto che le merci siano vendute sul mercato al loro valore sociale o al loro prezzo di produzione (qualcosa di non troppo lontano dalla assunzione di Keynes secondo cui le aspettative di breve periodo delle imprese sono date per pienamente realizzate). Di più, sviluppando uno spunto prezioso di Quesnay poi dimenticato dalla economia politica classica, nel secondo libro Marx costruisce degli 'schemi di riproduzione',  sia semplice che allargata, dove  si dimostra  che  un sentiero di  crescita in equilibrio delle economie capitalistiche 'pure' è una 'possibilità'.

Marx divide il prodotto sociale in due settori, il primo che produce beni capitali e il secondo che produce beni di consumo (si potrebbe procedere ad uno schema a tre settori suddividendo questi ultimi in beni salario e beni di lusso). Il valore prodotto da entrambi i settori viene scomposto nelle somma delle sue tre parti componenti, capitale costante, capitale variabile, plusvalore. Nella riproduzione 'semplice', del tutto astratta e irrealistica, i capitalisti consumano improduttivamente l'intero plusvalore, sicché il sistema si riproduce sulla medesima scala, senza crescita. Nella riproduzione 'allargata', invece, essi investono in parte o del tutto il plusvalore in nuovo capitale costante e variabile, il che consente l'accumulazione. L'acquisizione teorica significativa degli schemi è quella di far vedere molto nitidamente che ogni componente di valore della produzione, e quindi ogni componente dell'offerta, è anche una componente della domanda. E' per questo che vi è sempre l'eventualità che si dia un equilibrio se si rispettano alcuni rapporti inter-settoriali.

Contro Malthus e Sismondi, Marx afferma quindi che il  capitale può crescere nel tempo senza necessariamente incontrare una barriera nella domanda effettiva, perché quest'ultima in fondo è una domanda che sgorga dal proprio seno. Al tempo stesso, contro Ricardo e Say, Marx mostra che una accumulazione 'bilanciata' nel lungo periodo tutto è meno che garantita, visto che l'equilibrio impone che gli scambi abbiano luogo rispettando definite proporzioni, non soltanto in valore, ma anche in valore d'uso e in moneta. L'equilibrio è dunque sì una possibilità, ma anche un 'caso'. E' questo un punto che verrà ripreso molti decenni dopo nei modelli keynesiani di crescita di Harrod e Domar.

D'altra parte, la probabilità che l'equilibrio venga infranto a causa dell'assenza di un piano apre soltanto alla 'possibilità' della crisi, non dimostra affatto la sua 'necessità'. Marx è alla ricerca di una spiegazione
della crisi che sgorghi dall'interno del capitale. In effetti, sostiene Marx, le crisi hanno luogo a partire da una caduta degli investimenti, e questa deriva da una crisi della profittabilità. La questione, dunque, si
trasforma, e diviene quella di comprendere la ricorrenza delle crisi, riconducendola a una compressione del saggio del profitto, e spiegandone le ragioni. Su questo, Marx propone nei suoi manoscritti una serie di prospettive diverse, di cui è dibattuta la possibilità di riconduzione a un quadro unitario e coerente. Di seguito considereremo ne alcune.

La crisi ciclica da esaurimento dell'esercito industriale di riserva

Una prima argomentazione è quella che viene descritta nella legge generale della accumulazione esposta alla  fine  del  primo  libro.  Se  si  assume  una  composizione  del  capitale  costante,  una  crescita
sufficientemente rapida del valore investito finirà con il premere sull'offerta di forza-lavoro, rendendo il c.d. mercato del lavoro più favorevole all'offerta. Crescono di conseguenza i salari, sino ad eccedere la crescita della forza produttiva del lavoro. Tutto il resto rimanendo eguale, cade il saggio di profitto, l'accumulazione rallenta, e con essa si riduce anche la domanda di forza-lavoro. Una risposta a questa difficoltà sta evidentemente nella introduzione di metodi di produzione risparmiatori di lavoro: una risposta che finisce con l'incidere sulla distribuzione del nuovo valore prodotto. Per un dato capitale anticipato, la meccanizzazione riduce la quota del capitale variabile, e perciò della domanda di forza-lavoro: i lavoratori vengono rimpiazzati da macchine, a parità di prodotto. In teoria, l'aumento del saggio di accumulazione può espandere o ridurre l'occupazione effettiva a seconda della forza relativa delle due spinte, quella derivante dall'incremento della dimensione del capitale e quella derivante dal mutamento della sua composizione.

Nel ciclo, il ritmo e la struttura dell'accumulazione del capitale, che è la variabile indipendente, variano continuamente al fine di riprodurre un 'esercito industriale di riserva' di lavoratori che possono essere in
potenza immessi nel processo immediato di valorizzazione. Si esercita così una pressione al ribasso sul salario, che è la variabile dipendente. Una riduzione del salario reale darebbe vita ad un impoverimento 'assoluto': ed è questo, senz'altro, uno dei possibili esiti. Peraltro, la situazione 'normale' che ha in testa Marx è diversa. L'accumulazione capitalistica si accompagna essenzialmente ad una produzione di plusvalore relativo, fondata a sua volta su una dinamica positiva della forza produttiva del lavoro, il che è del tutto compatibile con una crescita del salario reale. In queste condizioni, infatti, un incremento del salario reale non è in contraddizione con l'espansione della quota del nuovo valore che va alla classe capitalistica: un aumento del consumo reale della classe dei lavoratori proveniente dal loro reddito può ben esprimersi in un valore della forza-lavoro declinante.

Abbiamo qui a che fare con quella che Rosa Luxemburg definì la legge della caduta tendenziale del salario relativo, connessa evidentemente con una contrazione del salario come quota del reddito: un impoverimento, appunto, 'relativo', niente affatto assoluto. E' vero però che si possono dare situazioni nelle quali le lotte salariali possono farsi relativamente indipendenti dal mercato del lavoro, infrangendo la tendenza alla compressione del salario relativo. In questo caso, il conflitto salariale si muta in antagonismo contro il modo di produzione presente, e può divenire una causa indipendente della crisi capitalistica.

La meccanizzazione della produzione non va però vista soltanto, e neanche prevalentemente, come una risposta alla compressione dei profitti dovuta allo svuotamento dell'esercito industriale di riserva, o al
limite al salario che si fa variabile indipendente. Essa è invece, e in primo luogo, la materializzazione di una spinta autonoma del capitale a controllare i lavoratori nel luogo di produzione, in modo da
garantirsi l'erogazione di lavoro vivo in eccesso al lavoro necessario. Si dà luogo così ad un aumento del saggio di plusvalore che è logicamente coevo all'espulsione di forza-lavoro dal luogo centrale della
valorizzazione.

Come Marx chiarisce molto bene, l'estrazione di plusvalore relativo connessa al rivoluzionamento dei mezzi di produzione e alla introduzione delle macchine non si incarna peraltro esclusivamente in una spinta verso l'alto della 'forza produttiva' del lavoro. Essa si accompagna anche ad una più elevata intensità del lavoro nell'unità di tempo, e si tira spesso dietro una contemporanea estrazione di plusvalore assoluto, con il prolungamento massimo possibile del tempo di lavoro.

Ciò avviene perché i nuovi metodi vengono introdotti in una 'lotta di concorrenza che garantisce temporaneamente agli innovatori un plusvalore extra a danno degli altri produttori: questi ultimi devono dunque sfruttare di più la propria forza-lavoro, ma gli stessi innovatori cercano a loro volta di realizzare il massimo vantaggio dai nuovi metodi che hanno introdotto. In forza di ciò, la meccanizzazione è una leva potente nella regolazione del valore di scambio e del valore d'uso della forza-lavoro da parte del capitale ai fini della massima estrazione possibile di lavoro vivo.

E però qui si fa avanti un'altra difficoltà. Si è detto che una più elevata composizione tecnica del capitale -  in  breve,  del  rapporto  'fisico'  mezzi  di  produzione-lavoratori,  - è  un  fattore  che  contribuisce
all'espulsione di lavoratori, e dunque di forza-lavoro, dai processi di lavoro. Ma il lavoro vivo, che è la 'sorgente' del valore e del plusvalore, scaturisce proprio dall' 'uso' della forza-lavoro, proviene dunque
dagli esseri umani, in quanto lavoratori in carne ed ossa e cervello. Esso è 'attaccato' ed inseparabile dal loro corpo, che va a sua volta 'incorporato' al capitale: va reso in altri termini parte del corpo materiale
di quest'ultimo, di quel mostro meccanico che è la 'fabbrica' capitalistica.

La dilatazione del lavoro morto corrisponde ad una progressiva penuria del lavoro vivo nel lungo periodo, pur in un maggiore sfruttamento della forza-lavoro. Quando la crescita della composizione 'tecnica' del capitale si traduce nell'aumento della composizione in 'valore' - quando cioè, secondo le definizioni di Marx, un incremento della composizione 'organica' del capitale si concretizza davvero: il che  corrisponde, secondo l'autore del Capitale, alla tendenza prevalente nella dinamica capitalistica - si mette in moto una vera e propria tendenza alla caduta del saggio di profitto. La crisi è ora dovuta ad una composizione in valore che cresce più rapidamente del saggio di plusvalore.

La legge della caduta tendenziale del saggio di profitto

La caduta tendenziale del saggio di profitto è stata interpretata da alcuni autori non soltanto come ragione della crisi ciclica del capitale, ma anche come causa di una caduta 'secolare ' della profittabilità, magari all'interno di una visione del capitalismo come caratterizzato da 'onde lunghe'. Una tesi del genere è controversa dal punto di vista testuale: ma difficilmente argomentazioni di tipo testuale sono dirimenti nel discorso marxiano sulla crisi, che è rimasto sempre ad uno stadio incompiuto, soggetto a tensioni anche contraddittorie, nel tempo ma persino all'interno dello stesso manoscritto.

Conta di più il fatto che una lettura di lungo periodo della caduta tendenziale del saggio di profitto non pare essere del tutto priva di fondamento.

Il perché  è  presto detto. L'applicazione  di  dosi  maggiori  di capitale  costante,  ancor più  quando quest'ultimo sia costituito da capitale fisso, è per Marx un mezzo particolarmente efficace per accelerare l'estrazione di pluslavoro e plusvalore nell'unità di tempo. D'altra parte è vero che in alcune parti dell'opera di Marx il conseguente incremento del saggio di plusvalore non è in grado di compensare, nel lungo periodo l'effetto depressivo della composizione del capitale sul saggio del profitto, e viene dunque degradato a mera 'controtendenza'. A questo proposito, l'argomento più forte a favore di una conclusione del genere è la tesi che vi sarebbe un limite assoluto al pluslavoro che può essere attivato da
una popolazione lavorativa data.

Per comprendere di cosa si tratta, è bene guardare alla composizione del capitale come un indice del rapporto tra, da un lato, il lavoro morto contenuto nei mezzi di produzione e, dall'altro lato, il lavoro
vivo speso nel periodo. Questo rapporto viene approssimato dal rapporto tra capitale costante al numeratore e la somma di capitale variabile e plusvalore al denominatore. Se si fa l'assunzione teorica
che il capitale variabile tenda ad annullarsi, e che dunque l'intera giornata lavorativa si traduca in pluslavoro che si oggettiva in plusvalore, la composizione 'in valore' del capitale può essere vista come il
reciproco del saggio massimo di profitto. Marx potrebbe essere letto come colui che suggerisce in sostanza che il numeratore del saggio massimo di profitto avrebbe una sorta di limite insuperabile e
naturale, una sorta di tetto dei movimenti del saggio effettivo del profitto. Il denominatore, al contrario, può espandersi illimitatamente.

Marx propone un fondamento microeconomico (nel comportamento individuale) a questo risultato macroeconomico  (di  sistema),  che  altrimente  parrebbe  contraddittorio.  Vi  abbiamo  già  alluso.  I
capitalisti individuali introducono, o sono comunque costretti ad introdurre, metodi a più elevata 'intensità di capitale', al fine di abbassare i costi per unità di prodotto: guadagnano così grazie a queste innovazioni un sovra-plusvalore (e un sovra-profitto), ed evitano a loro volta di essere espulsi dal mercato dai competitori. Si tratta di una concezione 'dinamica' della concorrenza, che tende  a differenziare il saggio del profitto all'interno del settore, e che verrà ripresa da Joseph Schumpeter: una visione della concorrenza, si può aggiungere, che rompe alla radice con la visione della concorrenza classico-ricardiana e neoclassica-walrasiana. E' una impostazione che, oltre ad un riferimento forte alle classi sociali, mette moneta e squilibrio nelle fondamenta su cui si costruisce il discorso economico.

Si deve però osservare che non è possibile dedurre da tutto ciò una 'legge' della caduta del saggio del profitto, secondo la quale le controtendenze verrebbero sistematicamente battute dalla tendenza, come talora pare pensare Marx. Una accelerazione della forza produttiva del lavoro in forza della meccanizzazione spinge infatti alla riduzione dei valori (e dei prezzi) di tutte le merci, e dunque anche degli elementi del capitale costante, dei mezzi di produzione. Non è possibile perciò escludere a priori che la svalorizzazione degli elementi del capitale costante sia così accentuata da aumentare lo stesso saggio massimo del profitto, rimuovendo la presunta barriera posta da Marx. Se invece si guarda al saggio effettivo del profitto, esso dipende positivamente dal saggio di plusvalore e negativamente dalla composizione in valore del capitale. La svalorizzazione degli elementi del capitale variabile contribuisce evidentemente all'aumento del saggio di plusvalore, e la svalorizzazione degli elementi del capitale costante può invertire la tendenza all'aumento della composizione del capitale in valore. La critica alla caduta del saggio di profitto argomentata da Marx può essere in questo caso riformulata sostenendo che non vi è alcuna ragione per negare che l'aumento del saggio di plusvalore può più che controbilanciare il (possibile, non necessario) aumento della composizione in valore del capitale.

Peraltro, va anche considerato che Marx non formula la legge con riferimento alla composizione 'in valore' del capitale (la grandezza rilevante per la valorizzazione del capitale), ma con riferimento a quella che definisce la composizione 'organica' del capitale. La composizione in valore riflette pienamente la rivoluzione di valore che continuamente sconvolge l'espressione di valore degli elementi del capitale costante e variabile in forza della meccanizzazione. La composizione organica misura invece quegli input ai loro valori (o prezzi) precedenti l'innovazione. Registra dunque in modo pieno l'incremento della composizione 'tecnica' del capitale, del rapporto tra mezzi di produzione (e per Marx, in primis, il capitale fisso) e il lavoro, nel mondo del valore, neutralizzando la controtendenza della svalorizzazione tanto del costante costante quanto del capitale variabile.

Vista l'importanza sempre più estesa del capitale fisso nell'accumulazione, lo scarto tra le due stime della composizioni del capitale segnala anche un divario crescente tra il saggio del profitto in termini di flusso e il saggio del profitto in termini di fondi, un divario che può accrescersi nel tempo e che impone prima o poi un drammatico e improvviso riaggiustamento attraverso la crisi periodica.

La crisi da realizzazione

E' di un certo interesse rilevare che più si accresce il saggio del plusvalore, e dunque più si rafforza per questa via una forza che reprime la tendenza alla crisi del saggio di profitto e la trasforma anzi nel suo
contrario, più il sistema potrebbe scivolare in un terzo tipo di crisi: la crisi da realizzazione. Alcuni marxisti hanno in effetti sostenuto che, se il saggio del profitto cade, il responsabile primo è la domanda
di merci, effettiva o anche solo attesa, in quanto si riveli insufficiente a garantire a livello di sistema uno sbocco finale in forza del quale le merci possano essere vendute a prezzi tali da coprire i costi e il saggio
normale del profitto.

Sul terreno della crisi da realizzo, due posizioni si sono contese il campo. Un approccio  (p.es., Hilferding)  ha  sottolineato  le  'sproporzioni',  cioè  gli  squilibri  settoriali  tra  offerta  e  domanda, appellandosi alla natura anarchica e caotica delle economie di mercato. Se un eccesso di offerta si verifica in importanti rami di produzione, può aver luogo un diffondersi di questo tipo di squilibrio ad altri settori, che infine degenererà in un blocco dello smercio a livello globale. Questo tipo di difficoltà dipende dalla velocità con cui il sistema dei prezzi e delle quantità reagisce allo squilibrio, e (come sosteneva appunto l'ultimo Hilferding) può tendere a scomparire in forme più 'organizzate' del capitalismo. Alcuni dei suoi propositori (p. es., Tugan Baranovski) hanno finito addirittura con il sostenere che il sistema capitalistico, non essendo in fondo altro che una 'produzione per la produzione', non troverebbe un ostacolo autentico nel declino relativo della domanda di consumi, e potrebbe procedere in linea di principio secondo un sentiero stabile di crescita.

La linea alternativa (la cui fautrice principale è Rosa Luxemburg) viene spesso erroneamente qualificata come 'sottoconsumista'. Adottando la terminologia contemporanea, ed esponendo il nocciolo razionale di questa impostazione, quello che in realtà si sostiene è che l'investimento netto non può controbilanciare per sempre un consumo in riduzione, dal momento che la profittabilità dei nuovi macchinari nel lungo periodo dipende dalle vendite future, e queste ultime sarebbero sempre meno prevedibili quando decresce la quota dei consumi nel nuovo valore.

Si tratta di un argomento che ha una sua forza. Pure, esso sembra in contrasto con gli schemi di riproduzione, che mostrano come la domanda al capitale provenga dallo stesso capitale, direttamente o
indirettamente. Non si può di qui concluderne per un necessario bilanciamento tra offerta e domanda aggregate, nello spirito della legge di Say. Gli stessi schemi mostrano infatti, e lo abbiamo ricordato, come le proporzioni di scambio intersettoriali di equilibrio, per la riproduzione semplice e ancor di più per la riproduzione allargata, siano casuali, precari e instabili. Ciò è in particolare vero per la riproduzione allargata, e per una ragione molto semplice. Una estrazione di plusvalore relativo che si approfondisce, con un sempre più elevato saggio di plusvalore, può temporaneamente sconfiggere la tendenza alla caduta del saggio di profitto. Ma, facendo ciò, simultaneamente si rafforzano la tendenza alla caduta del salario relativo (un tema, di nuovo, caro alla Luxemburg), e si modificano i rapporti di scambio necessari allo stabilirsi e al riprodursi dell'equilibrio, sicchè la possibilità della crisi si tramuta sempre più in una sua probabilità.

Abbiamo qui a che fare, si badi, con l'opposto di una prospettiva 'circolazionista'. La tendenza alla sovrapproduzione di merci si innesta su delle sproporzioni che vengono attivate dalla dinamica dello sfruttamento nei processi immediati di valorizzazione.

Per alcuni dei suoi fautori, le crisi da realizzo per insufficienza sistemica di domanda effettiva si farebbero progressivamente sempre più severe, sino a condurre ad un crollo finale. E' questa in effetti
l'opinione della stessa Luxemburg, che fa dipendere l'accumulazione del capitale dalle 'esportazioni nette' verso le aree non-capitalistiche. Quando la globalizzazione del capitale si compie e il mercato mondiale  è  interamente  sussunto  alla  produzione  per  il  (plus)valore,  il  meccanismo  strettamente economico si inceppa. E' però vero che altri autori che perseguono un filo di ragionamento molto simile hanno obiettato che l'esaurimento dei mercati 'esterni' può venire sostituito dall'emergere di una sorta di esportazioni 'interne': così si esprime Michal Kalecki, con riferimento a disavanzi nel bilancio dello stato finanziati monetariamente. Qualcosa del genere, peraltro, era stato intuito dalla stessa Luxemburg nella sua analisi del militarismo come controtendenza all'esaurimento degli sbocchi nel corso del processo accumulativo.

Un ruolo simile, secondo altri autori, lo potrebbe svolgere il consumo improduttivo di parte del plusvalore da parte di terze persone (l'estensione di aree di "rendita", o lo stesso spreco tipico del capitalismo monopolistico). Alcuni autori oggi innestano la espansione del lavoro improduttivo dentro il discorso sulla caduta tendenziale del saggio del profitto. Per chi considera il ruolo del consumo improduttivo dentro la crisi da realizzo, si tratta di deduzioni dal plusvalore che riducono il tasso di accumulazione potenziale, ma che possono garantire un più tranquillo decorso della riproduzione, senza scivolare nell'instabilità, se non addirittura nella recessione e deflazione. In ogni caso, per essere compatibili con il proseguire indisturbato della spirale della valorizzazione capitalistica, tutte queste soluzioni richiedono che continui e anzi si approfondisca lo sfruttamento e la pressione sul lavoro vivo dei lavoratori produttivi di valore. Il che conferma che la variabile centrale del discorso marxiano è il saggio del plusvalore. Sono i cambiamenti e gli antagonismi all'interno dei processi di lavoro - la "lotta di classe nella produzione", dai due versanti - a essere la determinante cruciale della dinamica capitalistica.

A ben vedere, l'unico limite ultimo all'espansione del capitale - alla sua pretesa di porsi come totalità in grado di porre continuamente i propri presupposti - è l'opposizione della classe dei lavoratori dentro i processi di valorizzazione.

Verso una lettura unitaria e diacronica della teoria marxiana della crisi

E' possibile forse, oggi, proporre una visione unitaria delle teorie delle crisi, all'interno di un intento non puramente filologico e marxologico, ma ricostruttivo. Si tratta di leggere la caduta tendenziale del
saggio di profitto come una sorta di meta-teoria delle crisi, che include al suo interno non soltanto l'integrazione tra il c.d. sottoconsumo e le c.d. sproporzioni lungo le linee che si sono già illustrate, ma anche una crisi che origina direttamente dal rapporto sociale di produzione dentro il processo immediato di valorizzazione; e di qui muovere poi ad una analisi delle novità della dinamica capitalistica di fine Novecento, e alla nuova forma della crisi che stiamo sperimentando. Si vedrà come questa linea interpretativa si prolunghi in una ricostruzione della evoluzione del capitale per onde lunghe, che segue  i movimenti 'secolari' delle forme della accumulazione e dell'antagonismo.

Partiamo dalla caduta tendenziale del saggio di profitto intesa come lo sfondo su cui inquadrare l'intero insieme delle crisi capitalistiche nelle loro diverse modalità. Il discorso critico che abbiamo svolto, se nega una caduta 'meccanica' e necessaria del saggio di profitto, non nega affatto che sia possibile che la crescita del saggio del plusvalore sia di fatto inferiore alla crescita della composizione in valore del capitale. In quel caso si avrà effettivamente una caduta del saggio di profitto. E' qualcosa che secondo molti interpreti pare essersi dato storicamente, nella Grande Depressione di fine Ottocento. Il capitalismo reagì, secondo quella che è poi diventata una vulgata, un po' troppo facile con il taylorismo prolungatosi nel fordismo.

Nella forma in cui questa lettura si è poi affermata - quella di una sequenza storica precisa; e di una continuità non problematica tra organizzazione scientifica del lavoro, prima, e catena di montaggio -
dopo - vi è una discutibile semplificazione, un appiattimento di un processo ben più articolato. Il taylorismo fu solo una tra molte innovazioni organizzative negli Stati Uniti nei decenni immediatamente
precedenti il primo conflitto mondiale. In quanto incremento della intensità del lavoro su base tecnica data, esso, nella sua forma pura, fece fallimento, e venne implementato con efficacia solo quando la guerra  consentì  una  sorta  di  'solidarietà  nazionale'  repressiva.  Fu  semmai  il  fordismo  a  risultare vincente, incorporando molte delle innovazioni e dei principi organizzativi dei decenni precedenti, compresi certamente significativi aspetti del taylorismo. Vinse però proprio perché ritmi e modi del lavoro parevano, ed in parte effettivamente erano, dettati da una diversa base tecnica, sconvolta in profondità dall'innovazione.

Lo stesso fordismo ben presto si trasformò in sloanismo, coniugando già
allora le economie della produzione massificata con la necessità di differenziare il prodotto, anticipando molti di quegli aspetti che vengono oggi erroneamente ritenuti una novità assoluta portata dal c.d. post-
fordismo.

Quello che qui più mi interessa sottolineare è che all'inizio del Novecento la composizione di classe dell'operaio di mestiere viene attaccata e destrutturata mediante l'introduzione della catena di montaggio e di nuove modalità di organizzazione del lavoro. Si riesce in questo modo a spingere verso l'alto il saggio del plusvalore, per il tramite dell'aumento della forza produttiva del lavoro ma anche di una superiore intensità del lavoro; mentre la caccia all'extra-plusvalore si porta dietro una contemporanea estrazione di plusvalore assoluto. Si controbatte così l'effetto depressivo sul saggio del profitto della più elevata composizione in valore del capitale. In questo modo, però, se il capitale sfugge alla crisi da caduta tendenziale del saggio del profitto, vede materializzarsi al suo posto la crisi da realizzazione. Si è visto infatti che l'estrazione accelerata del plusvalore relativo significa sia riduzione della quota dei consumi dei lavoratori sia cambiamento continuo dei rapporti di scambio equilibrio intersettoriali. Ciò rende sempre più probabili quelle sproporzioni che a un certo punto raggiungeranno una massa critica, e daranno quindi luogo ad una caduta della produzione e dell’occupazione nei settori con eccesso di offerta, che poi si generalizza all'intero sistema.

La sovrapproduzione di  merci può essere allontanata nel tempo dal credito e dalla finanza, che stimolano tanto l'investimento che il consumo. In una prima fase, il capitale produttivo di interesse e il capitale fittizio accelerano la riproduzione capitalistica. Liberano infatti l’accumulazione dalla sanzione immediata della validazione del valore prodotto sul mercato finale delle merci. Possono inoltre stimolare bolle speculative che si auto-alimentano e producono effetti reali di sprone all'economia reale. Ma prima o poi l'insufficienza di domanda effettiva che si diffonde in tutto il sistema si fa valere. L'investimento non è più in grado di compensare lo scarto tra produzione e domanda: anche se, si deve aggiungere, la crisi si annuncia in prima battuta come crisi finanziaria, e solo in una seconda fase si manifesta come crisi reale. E' quanto avviene con la Grande Crisi degli anni Trenta del Novecento. La crisi da realizzo va cioè analizzata non soltanto connettendo strettamente sproporzioni e caduta del salario relativo, ma anche dentro una visione da subito monetaria e finanziaria del processo capitalistico.

Vale qui la pena di accennare soltanto al fatto che una analisi di questo genere equivale in realtà a sostenere che tra fine Ottocento e metà Novecento la teoria marxiana deve confrontarsi non solo con
una metamorfosi del capitalismo ma anche della riflessione economica. L' 'economia politica' di cui occorre fare la 'critica' non è più a questo punto da rinvenirsi principalmente in Ricardo, quanto piuttosto nell'eterodossia monetaria di Schumpeter e di Keynes.

La crisi sociale nella valorizzazione

Dalla Grande Crisi se ne uscì non tanto con il New Deal - che non fu affatto, come recita un'altra vulgata, 'keynesiano' - ma con una nuova ancora più devastante grande guerra, il secondo conflitto mondiale. Vi fece seguito, nel mondo diviso in due dalla 'cortina di ferro', la gestione apertamente politica della domanda effettiva. Si trattò di un 'keynesismo' alquanto bastardo, caratterizzato dal traino di una forte componente di spesa militare, e per il resto da un sostegno generico alla domanda aggregata. Esso dette luogo, nel tempo, ad aumenti salariali, al consumo dal reddito come elemento di amplificazione  della  spesa  autonoma  (per  l'effetto  del  c.d.  moltiplicatore),  e  ad  una  sostanziale espansione del welfare, in un contesto che fu definito di 'pieno impiego'.

Una situazione dunque eccezionale nella storia del capitalismo, caratterizzata da lavoro 'stabile' e, si disse, da 'alti salari', tanto
che talora viene definita l' 'età d'oro'. Si deve però ricordare che la piena occupazione seguiva alle conseguenze devastanti della disoccupazione di massa tra le due guerre, e che essa va collocata nel contesto della competizione del capitalismo con un sistema che si diceva alternativo e socialista: l'una e l'altra circostanza fecero del pieno impiego un obiettivo tanto dei governi moderati quanto di quelli progressisti. E si deve ancora sottolineare con forza che salario e welfare crebbero i modo sostanziale solo a partire dagli anni Sessanta, sulla spinta di un conflitto sociale sempre più acceso, in quello che fu la fase finale di quella 'parentesi'. L'era c.d. fordista-keynesiana - i 'trent'anni gloriosi' di cui parla Jean Fourastié - potè in ogni caso essere capitalisticamente sostenibile soltanto per la crescente pressione sui lavoratori 'produttivi', e la conseguente, continua spinta verso l'alto del saggio di plusvalore.

La crisi di questa forma del capitalismo, che matura dalla seconda metà degli anni Sessanta ed esplode nel corso degli anni Settanta, ebbe molte cause, tra cui il riemergere del conflitto inter-imperialistico, la
guerra del Vietnam, l'aumento del prezzo delle materie prime (e in particolare del petrolio), ed altro ancora. Al suo centro vi fu però, a mio parere, innanzi tutto una ragione 'sociale', irriducibile tanto alla
caduta del saggio del profitto in senso stretto quanto alla crisi da realizzo. Si trattò della presenza di un antagonismo sull'estrazione del plusvalore che originava direttamente sul terreno del rapporto capitale-
lavoro nella produzione, e che fu in grado di dar luogo alla compressione del salario relativo almeno per qualche anno. Ciò avveniva non esclusivamente, e nemmeno prevalentemente, nel senso caro al filone neo-ricardiano o a buona parte del primo operaismo: due correnti che sostenevano allora, l'uno e l'altro, come le lotte operaie avessero fatto del valore della forza-lavoro una variabile 'indipendente'. Il punto cruciale fu semmai il controllo che i lavoratori riuscirono a conquistare sulla prestazione di lavoro - ovvero, marxianamente, sull'erogazione del 'lavoro vivo'.

Si tratta di una realtà che può essere compresa appieno solo se si guarda alla teoria marxiana del valore da un 'punto di vista' ben diverso da quello consueto, e si è dunque in grado di intendere in che senso la
teoria del valore è la teoria della crisi. Ma si tratta anche, corrispettivamente, di una realtà che ha aiutato a comprendere meglio il senso più profondo della 'critica dell'economia politica'. E' a questo tema che, prima di procedere oltre con un discorso sulla crisi attuale, dobbiamo volgerci.

Una nuova lettura del lavoro astratto e della teoria marxiana del valore

Il lavoro astratto - attività non immediatamente sociale, lavoro immediatamente privato che diviene sociale nello scambio contro il denaro, ovvero contro quello che è il prodotto dell'unico lavoro
immediatamente sociale - ha come suo risultato il valore. Il valore, a sua volta, è nient'altro che un cristallo di lavoro oggettivato contenuto nella merce, che deve autonomizzarsi ed assumere necessariamente forma monetaria. 'Sostanza' e 'forma' del valore sono di conseguenza inseparabili.

Il valore si costituisce all'incrocio tra produzione e circolazione (finale) delle merci: meglio, si costituisce nel movimento che va dalla produzione immediata allo scambio universale e monetario, dove l'astrazione del lavoro, latente già nei processi capitalistici di lavoro, si perfeziona. Sbaglia chi appiattisce valore (e lavoro astratto) sulla sola produzione, come sbaglia chi lo confina alla sola circolazione; e sbaglia ancora chi non vede in quell'incrocio il movimento che va dall' 'interno' verso l' 'esterno'; e sbaglia infine chi separa 'analisi reale' e 'analisi monetaria'. Quelle categorie hanno una essenziale dimensione processuale, dentro una analisi della totalità capitalistica che è però 'centrata' sul momento della produzione.

Entrando, come è a questo punto inevitabile, nel 'laboratorio segreto' della produzione, si vede quanto nella circolazione non soltanto è distorto e dissimulato (è questo ciò che Marx definisce il 'feticismo' che fa scambiare per naturale ciò che è invece specificamente sociale) ma è anche nascosto e opacizzato in un reificato che fa svanire del tutto le tracce del processo di reificazione (è questo ciò che Marx
definisce il 'carattere di feticcio' per cui il processo di oggettivazione si fa cosale ed estraneo nel risultato oggettivato).

Si può a questo punto accedere a quel processo di 'costituzione' dell'oggettualità astratta ed alienata del capitale in forza del quale quest'ultimo ha la sua origine nel 'lavoro': categoria articolata quant'altre mai. Più precisamente, l'indagine della produzione mostra che il 'lavoro vivo', la sorgente del valore, è estratto dalla 'forza-lavoro' di lavoratori salariati, sullo sfondo di una sempre possibile conflittualità, che assume talora il carattere dell'antagonismo. Quella forza-lavoro deve essere acquistata da denaro sul mercato del lavoro, e gli esseri umani che ne sono ineluttabilmente i portatori viventi devono essere portati dentro i processi capitalistici di lavoro, dentro il corpo della fabbrica capitalistica:
quel mostro meccanico che, scrive Marx, solo dopo avere incluso questa alterità può iniziare a lavorare “come se avesse amore in corpo”.

La generazione del valore non si limita a dover trovare una validazione finale nella vendita delle merci contro il denaro quale equivalente generale; essa deve anche partire da una ante-validazione monetaria
nel denaro quale finanziamento alla produzione (riducibile, in una analisi macro-sociale, al monte-salari che acquista la capacità di lavoro dei lavoratori salariati). E' evidentemente in questa natura 'circolare' del ciclo del capitale che si radica in ultima istanza la valorizzazione come produzione di (plus-)denaro a mezzo di denaro; come è anche qui che trova la sua lontana origine la stessa possibilità di una 'finanziarizzazione' dell'economia.

Se lo sguardo non coglie il processo di costituzione del 'feticcio' capitale, quest'ultimo – che è valore, denaro, che figlia plusvalore, e dunque plusdenaro - si presenta come una totalità chiusa in se stessa, che pone ‘automaticamente’ i propri presupposti, in un movimento a spirale, ciclo dopo ciclo. E’ qui che Marx può sembrare nient’altro che l’applicazione del circolo, epistemologico ed ontologico, hegeliano alla realtà capitalistica. Ma dove è massima la tangenza con il filosofo di Stoccarda, maggiore è anche la divaricazione. Il valore e il denaro non si accrescono per partenogenesi ideale, ma solo perché, in quanto lavoro morto, riescono a includere ‘materialmente’ dentro di sé, e a comandare dentro una particolare forma della messa al lavoro degli esseri umani, quella alterità radicale al lavoro morto e al denaro che è la forza-lavoro, ‘appicicata’ ai lavoratori in carne ed ossa. Questi ultimi sono dunque nient'altro che 'forza-lavoro vivente': acquistati dal monte-salari, divengono una parte (variabile) del capitale. Messa in movimento, come lavoro vivo, la capacità di lavoro non solo riproduce il valore passato ma origina il neovalore, e dunque quel plusvalore che ne è parte, e che investito dà origine a tutto il capitale. E' in questo senso che il 'lavoro' è sia la 'parte' che il 'tutto' del capitale.

Sta qui il vero 'scandalo' del capitale - quello scandalo che sfugge totalmente a chi ragiona in termini di 'diritto', 'etica' o 'giustizia'; e che sfugge anche alla Caritas in veritate di Benedetto XVI. La merce non è solo inseparabile dal denaro, e quest'ultimo dal capitale. Vi è di più: il capitale è fondato proprio su quello 'spostamento' - inversione e follia, insieme - per cui il lavoratore vivente è realmente diventato appendice della propria forza-lavoro, e conta ormai solo come prestatore di lavoro vivo.

Se le cose stanno così, la totalità del capitale esiste nella misura in cui si costituisce uno specifico rapporto sociale di produzione, che non può essere dato per riprodotto meccanicamente dalla totalità stessa ma che anzi la ‘apre’, e in una certa misura la ‘infrange’. La valorizzazione viene spiegata da Marx ‘rompendo’ la chiusura della totalità capitalistica, rivelando l’impossibilità della pretesa che ha il capitale di porsi come Soggetto autosufficiente. Lo si capisce bene se si tiene a mente la metafora insistita, da prendere tremendamente sul serio, del capitale come ‘vampiro’. Dal punto di vista del capitale, non vi è ricchezza se non si fa ‘lavorare’ la forza-lavoro, unico fattore a sé esterno oltre la natura. Per mettere al lavoro i lavoratori occorre fornirgli i mezzi di produzione.

Vi è, d’altra parte, una differenza sostanziale tra forza-lavoro e mezzi di produzione. Le tecniche fissano i metodi di produzione, e dunque la forza
produttiva del lavoro per ora lavorata. Il salario reale per la classe operaia viene fissato dal conflitto, ed è traducibile nel lavoro necessario a produrre i beni che lo compongono. Non è però determinato dalla
tecnica il quanto di lavoro che si estrae, in quanto quest'ultimo dipende dai rapporti sociali: perciò anche dalla tecnologia  e  dall’organizzazione del  lavoro che il  capitale  disegna a  sua immagine e somiglianza, secondo una volontà ed una conoscenza estranee ai lavoratori.

Solo grazie alla propria natura di vampiro il capitale trasforma la 'crisalide' - l’incarnazione  del 'fantasma' del valore nel corpo del denaro – in 'farfalla': valore che figlia più valore; lavoro morto che
torna alla vita, e ammassa sempre più lavoro morto, denaro   che produce più denaro.

Il punto da intendere bene è però che dire vampiro significa dire non soltanto inclusione nel capitale del lavoro ma anche dipendenza del capitale dal lavoro. Che tipo di dipendenza? Il capitale ha bisogno, dentro la produzione immediata, del ‘fluido’ vivificante del lavoro come attività: movimento che toglie il valore/denaro dalla sua fissità, e dà vita appunto mostruosa al capitale. Per ottenere lavoro nella produzione il capitale deve prima, sul mercato del lavoro, acquistare la capacità lavorativa. Ma, lo abbiamo già ricordato, il capitale non può davvero ‘staccare’ né la forza-lavoro né il lavoro vivo dai lavoratori. Il capitale esiste in forza di quello che i filosofi chiamano una ‘ipostasi reale’, una sostantificazione dell’astratto e una inversione di soggetto e predicato. La forza-lavoro, inglobata come parte nel capitale, e il lavoro vivo, come attività che produce tutto il capitale, sono a questo punto il soggetto, di cui i lavoratori sono davvero nient’altro che il predicato, una appendice. Il capitale ha acquistato la forza-lavoro dai lavoratori, ha perciò il pieno diritto di usarla, come Marx non si stanca di ripetere. D’altronde, in un senso del tutto trasparente, la forza-lavoro e il suo uso sono, al tempo stesso, dei lavoratori, come Marx altrettanto insistentemente lascia intuire.

Non è affatto scontato che il lavoro ottenuto nella produzione corrisponda a quello atteso dal capitale nel mercato del lavoro. Il capitale deve vincere la 'lotta di classe nella produzione'. Tenere a bada un
possibile antagonismo; conquistare l’egemonia, la cooperazione, il consenso. Lo fa controllando i lavoratori, e pervertendo la natura stessa del lavoro. Impossibile, in questo modo di vedere le cose,
separare estrazione di plusvalore assoluto e relativo, non vedere la simultaneità dei tempi dello sfruttamento. A partire dal lavoro vivo come sorgente del neovalore, una lettura del genere radicalizza lo scandalo della ‘ipostasi reale' nella sussunzione del lavoro al capitale, che da formale si fa reale, quando la prestazione lavorativa non solo 'conta' ma 'è' ormai propriamente 'senza qualità'. Priva non di di qualità tout court, ma di qualità proprie: nel senso, più precisamente, che le proprietà concrete gli vengono dal capitale. E' questo punto di vista sulla teoria del valore e sul lavoro astratto che ci ha consentito di formulare un approccio alla crisi 'sistemica' fuori da un’ottica crollista, puramente oggettivista. Ed è questo punto di vista che ci ha consentito di andare oltre la caduta tendenziale del saggio di profitto e la crisi da realizzo nel disegnare i contorni generalissimi di quella vera e propria 'crisi sociale' che segnò il termine della 'età d'oro' (ma in realtà di ferro) del trentennio post-bellico.

Valore d'uso della forza-lavoro, crisi capitalistica e nuove problematiche

Quella crisi sociale ebbe uno dei suoi punti alti nel lungo 'autunno caldo' italiano in cui culminano le lotte operaie degli anni Sessanta: lotte che vennero poi contagiate dalla contestazione studentesca del Sessantotto, e si dispiegarono pienamente nell'arco di anni tra il 1969 e il 1973. Una esperienza illustrata bene - proprio tenendo conto di quanto si è appena detto sulla teoria del valore marxiana - da due citazioni che traggo da interviste dell'epoca, la prima ad un lavoratore della Fiat e la seconda ad un economista allora impegnato in una ripresa (sia pur problematizzante) del discorso teorico di Marx nella sua integralità.

Nel primo caso si tratta di un brano tratto da un'intervista del "Corriere della sera" ad alcuni operai, registrata durante l'autunno caldo del '69 e mai pubblicata su quel quotidiano. Fu resa disponibile vent'anni fa da Pino Ferraris che la aveva nel suo archivio, e comparve sul "manifesto". Un operaio,

Sergio Gaudenti, dice: "Io voglio spiegare i punti decisivi di queste lotte: gli scioperi selvaggi, la lotta contrattuale che la Fiat ha cercato di fermare sospendendo 30 mila operai. Il padrone con il salario crede di comprare un operaio come si compra un chilo di mele. Tu ti vendi e io ti pago. Poi ti consumo come voglio. La mela la tagliuzzo, la faccio cuocere, la lascio marcire [...] la mordo. Il destino della merce è infatti quello di lasciarsi consumare [...] Ma l'operaio è una merce un poco speciale, non basta
vendersi ad un buon prezzo, non vuole più lasciarsi consumare come piace ai padroni. E' una merce questa che vuole avere il potere di controllare ogni giorno il modo del suo consumo, per questo ora si
fanno le lotte interne sul lavoro per il controllo operaio".

La seconda citazione è parte delle risposte che dette nel 1973 Claudio Napoleoni, che insegnava allora a Torino, ad un questionario ancora del manifesto: "la lotta operaia è venuta assumendo caratteri tali per cui
essa non è stata più né semplicemente redistributiva né semplicemente normativa, ma è diventata politica  in  un  senso  più  stretto,  in  quanto  cioè  ha  indebolito  spesso  profondamente,  una  delle condizioni necessarie alla realizzazione del rapporto capitalistico, ossia la subordinazione, la mancanza di autonomia, della classe operaia all'interno del processo produttivo . . . la crisi economica, e sociale, è dovuta essenzialmente a questa spinta operaia, nel senso che il processo accumulativo, già colpito dai successi ottenuti, al principio degli anni Sessanta, sul terreno della distribuzione, è stato poi ancor più duramente colpito da quella conquista di autonomia operaia che ha fortemente limitato la possibilità di risposta del capitale in termini tradizionali, in termini cioè di aumento del grado di sfruttamento".

Vi è nell'una e nell'altra citazione l'idea che l'autonomia (possibile, mai garantita) del valore d'uso della forza-lavoro dai movimenti del capitale rimanda alla caratteristica peculiare di questa merce così diversa
dalle altre, cioè al fatto che in questo caso non è possibile separazione tra merce venduta (capacità lavorativa, acquistata per estrarre lavoro in quanto attività) e individuo concreto.(che ne è il portatore, e dunque è colui che effettivamente deve erogare quella attività). Quella autonomia è possibile, e mai garantita, perché fa riferimento all'essere umano come soggetto storicamente determinato, dentro il lavoratore collettivo soggetto alla socializzazione capitalistica nella produzione immediata. Ha come sua condizione - avrebbe detto giustamente Napoleoni - una 'mediazione politica e sindacale': ma quella mediazione non può mai essere pensata, almeno nel discorso marxiano, come separata ed esterna alla soggettività sociale. Il capitale è per questo una 'contraddizione in movimento': perché nel luogo principe della valorizzazione è simultaneamente vero che il 'lavoro' è del capitale come è dei lavoratori. Riscoperta delle ragioni degli operai in carne ed ossa contro un sistema produttivo che pretendeva di ridurli a rotelle di un meccanismo - questo fu allora la 'centralità operaia'.

Al tempo stesso, le lotte degli anni Sessanta e Settanta aprono a tre problematiche nuove. La prima è questa: poter dire (grazie a quelle lotte e a quella soggettività sociale) che l'origine della ricchezza capitalistica sta nella differenza tra il lavoro vivo erogato dai lavoratori salariati e il lavoro oggettivato nei mezzi di sussistenza che tornano loro, cioè nella differenza tra valore d'uso e valore di scambio della forza-lavoro come parte della forza-lavoro vivente, equivale ad affermare la dipendenza del capitale da un elemento 'naturale', che ha un 'corpo'. La produzione capitalistica è in primo luogo uso della forza- lavoro, e consuma innanzi tutto i lavoratori che ne sono i portatori. La questione ambientale ed ecologica, meglio la 'questione della natura', ha qui una sua fondazione del tutto materialistica e sociale: sfruttamento dell’essere umano sull’essere umano e distruzione della natura sono caratteristiche distintive, e che si tengono insieme, del modo di produzione capitalistico. Lo aveva visto bene quel Marx che scriveva nel primo libro del Capitale che “la produzione capitalistica sviluppa la tecnica e la combinazione del processo di produzione sociale solo minando al tempo stesso le fonti primigenie di ogni ricchezza: la terra e il lavoratore”. E in effetti le lotte sulla salute e sulla nocività degli anni Sessanta e Settanta ebbero qualità nuova anche perché aprivano ad una possibilità di rapporto tra antagonismo sociale e problematiche che oggi definiremmo 'verdi', una possibilità che però andò presto dispersa.

La seconda e la terza problematica sono in qualche misura connesse a quanto si è appena detto. Le lotte dentro il lavoro, sul valore d'uso della forza-lavoro, rompevano nella loro natura più profonda con quell'industrialismo e quel produttivismo che avevano tradizionalmente inquinato il movimento operaio, e che erano d'altra parte largamente presenti anche nelle frange meno tradizionali. Le lotte nella
produzione che esprimevano la 'centralità operaia' erano al tempo stesso lotte contro la 'centralità della produzione'. Ne veniva colpito anche quel 'marxismo delle forze produttive' che riduce il materialismo
storico a una prospettiva nella sostanza tecnologica. Erano certo, in questo senso, lotte per la liberazione  'dal'  lavoro:  liberazione  dal  lavoro  salariato,  liberazione  da  una  visione  totalizzante  e
oppressiva del lavoro.  Esse erano però anche  e simultaneamente  e inseparabilmente  lotte per la liberazione 'del' lavoro. Ponevano dal basso la questione del 'cosa' e del 'come' produrre. Contestavano
contemporaneamente la forma e la natura della attività, così come la forma e la natura assunte dalla scienza e dalla tecnica, andando ben oltre la mera denuncia dell' 'uso capitalistico' delle macchine.

La messa in questione della valorizzazione nel luogo 'centrale' della produzione capitalistica - tanto più nella misura in cui la critica dell'economia politica diveniva, oltre che critica della società, anche critica del dominio sulla natura e critica del produttivismo - esigeva un prolungamento in uno 'sbocco politico' che non vi fu. L'epoca keynesiana cadde ‘da sinistra’. Ai nuovi caratteri della crisi rispose un lungo processo di 'decostruzione' del mondo del lavoro che si tratta adesso di passare ad indagare, sia pure sommariamente.

Le molte facce del neoliberismo

La crisi attuale è comprensibile solo se si legge in modo meno approssimativo di come non si faccia di solito l'ultimo trentennio, che viene spesso catalogato con l'etichetta un po' vaga di 'neoliberismo'. All'innovazione tecnica e organizzativa si affiancarono l'innovazione finanziaria e l'innovazione nella politica economica, secondo modalità altrettanto originali. Si è così costituito negli anni Novanta un 'nuovo' capitalismo di cui si tratta di intendere l'ascesa se si vuole capirne il crollo.

Vediamo meglio. Le due gambe su cui si mosse la reazione del capitale alle lotte operaie e alla crisi degli anni Settanta furono la frantumazione del lavoro e la finanziarizzazione. L'una e l'altra ebbero caratteri nuovi. La frantumazione del lavoro infatti, fu in modo significativo l'altra faccia di una inedita 'centralizzazione senza concentrazione'. La finanziarizzazione, a sua volta, si incarnava questa volta in una autentica 'sussunzione reale del lavoro alla finanza e al debito': una inclusione delle famiglie e dei consumatori - in sostanza, dunque, del mondo del lavoro - all’interno dell’universo finanziario. La sussunzione reale del lavoro alla finanza finiva con l'approfondire la centralizzazione senza concentrazione, e più in generale un ulteriore giro di vite nello sfruttamento del lavoro.

Sweezy, Minsky, e il ruolo dell'indebitamento privato

La sussunzione formale del lavoro alla finanza muove i primi passi alla fine dell'Ottocento, e l'esplosione del debito delle famiglie è in parte già responsabile dello scoppio della Grande Crisi. Parte dei lavoratori cominciavano a poter risparmiare, e il loro risparmio fluiva sui mercati finanziari. Negli anni Ottanta del Novecento inizia a venire a maturazione una nuova forma del primato della finanza, che aveva cominciato a mettere radici nel ventennio precedente.

Per capire lo svolgersi di questo processo sono utili sia il contributo di un economista keynesiano, Hyman Philip Minsky, che quello di un economista marxista Paul Marlor Sweezy: entrambi, si deve dire,
alquanto eretici nei rispettivi campi. L’idea di Sweezy è che il capitalismo monopolistico nutrisse una tendenza strutturale alla stagnazione, e che questa però non si potesse inverare mai compiutamente perché sconfitta di volta in volta da controtendenze, in senso lato, politiche. Sweezy si rende conto sin dai primi anni Settanta che quando il saggio di profitto e il saggio di investimento si abbassano, la controtendenza principale alla tendenza alla stagnazione non è più solamente lo stato interventista
keynesiano, incentrato sulla spesa militare, bensì l’indebitamento. Coglie, in particolare, il crescente ruolo dell'indebitamento privato, e in questo dell'indebitamento delle famiglie. Quasi nessuno oggidì
cita Sweezy.

Minsky, invece è un autore divenuto di moda. La sua ipotesi secondo cui il capitalismo tenderebbe a far degenerare la stabilità in instabilità finanziaria è parsa a molti una riflessione importante per poter spiegare la crisi attuale. Nel caso di Minsky, l'indebitamento privato si impenna
come conseguenza non tanto della tendenza alla stagnazione quanto piuttosto della spinta alla accumulazione reale del capitale. I protagonisti del suo modello di base sono le imprese non finanziarie, e gli investimenti in beni capitali.

In breve, ciò che sostiene Minsky è questo. Un capitalismo finanziariamente sofisticato come quello del Novecento è soggetto necessariamente all'alternanza di euforia e panico. Quando si esce da una grande crisi le unità 'produttive' intrattengono posizioni sane e 'coperte', nel senso che le loro entrate nette monetarie di cassa sono sufficienti a restituire ai finanziatori e alle banche quanto avevano ottenuto in
prestito caricato dell’interesse. Le cose procedono talmente bene che a un certo punto sia i banchieri che gli imprenditori diventano più ottimisti: non è però una pura e semplice illusione, è la realtà stessa dei risultati economici nel corso ascendente del ciclo che li induce a scelte espansive. Le loro posizioni si fanno dunque più coraggiose, e da 'coperte' diventano 'speculative'. E' proprio questa attitudine speculativa che in Minsky (come  in Marx,  peraltro) accelera l’investimento di  lungo termine. La posizione speculativa è caratterizzata da entrate nette monetarie di cassa sufficienti a pagare gli interessi, ma non a restituire la quota annuale del capitale preso a prestito. In alcuni periodi le unità economiche devono rifinanziarsi. In questo caso, però, al rischio economico si aggiunge ora il rischio finanziario. L’economia è cioè più fragile, perché le imprese potrebbero doversi rifinanziare a tassi di interesse crescenti. Ma in realtà le cose potrebbero continuare ad andare talmente bene che, se pure vi fosse una tendenza del sistema bancario ad aumentare il costo del denaro, gli intermediari finanziari potrebbero intervenire inventando 'quasi-monete' altrettanto liquide.

E' facile che a questo punto l'euforia dia luogo a bolle nei prezzi delle attività, e le posizioni di un numero crescente di operatori diventino 'ultraspeculative'. Una posizione ultraspeculativa è quella in cui le entrate nette monetarie di cassa non consentono neppure di pagare gli interessi, e la sua razionalità sta soltanto nella speranza di guadagni di conto capitale. Gli agenti si indebitano cioè nella speranza di una rivalutazione del valore delle attività in cui investono, quali azioni, immobili, e così via. A un certo punto, sostiene Minsky, si dovrà determinare un crollo di questo castello di indebitamento, crollo per lo più originato da un repentino, drastico e inatteso aumento dei tassi di interesse deciso dalla Banca Centrale.

Minsky formulò questa interpretazione negli anni Sessanta, per spiegare la Grande Crisi. La risposta 'keynesiana', utile per impedire la deflazione da debiti e l'avvitamento verso il basso dell'economia reale, è quella dove la Banca Centrale svolge il ruolo di prestatore di ultima istanza (immettendo nel sistema liquidità senza limiti e ad un basso tasso di interesse), e dove il governo spende in disavanzo (finanziando l'eccesso sulle imposte con nuova moneta). Non si tratta solo di una spesa per incrementare direttamente la domanda effettiva, come nella lettura del keynesismo più tradizionale. Il punto di vista di Minsky è che il governo in questo modo fornisce anche 'contante', entrate di cassa che migliorano la posizione finanziaria delle imprese e delle banche.

Gli anni Sessanta erano ancora anni di relativa stabilità, le crisi finanziarie sembravano storia del passato. Minsky intuisce però che l’instabilità finanziaria in realtà non è affatto scomparsa, e che si riproporrà, ma sotto altre vesti. Ciò che è avvenuto negli anni Settanta ha per molti versi confermato le previsioni dell'economista statunitense. La risposta iniziale alla 'crisi sociale' accoppia l'inflazione (per erodere le conquiste salariali, ma anche l'aumento nominale del prezzo delle materie prime) e la deflazione (per attaccare l'occupazione, ma anche per tenere sotto controllo l'inflazione). Agli scivolamenti nella crisi si risponde, in una prima fase, ancora con espansione della spesa e aumento dell'offerta di moneta. Il risultato è stato la 'stagflazione'. Ancora in coerenza con Minsky, la Grande Crisi 'non si ripete' grazie ad un  Grande  Stato  e  una  Grande  Banca  Centrale  (ma  anche,  aggiungeva,  un  Grande  Sindacato).

L'intervento attivo della politica economica, ma anche gli stabilizzatori automatici, determinano un 'pavimento' più elevato alla crisi. Questo però ha significato, sempre secondo le linee del ragionamento
di Minsky, non soltanto un aumento dei prezzi dei beni legato all'aumento dei salari: ha significato pure una crescita più lenta rispetto al trentennio postbellico,.

Questo stato di cose ha comportato, a partire dagli anni Ottanta, una vera e propria svolta ad U nella politica economica, che si pone l'obiettivo di comprimere violentemente l’aumento dei prezzi e dei
salari, e accetta di imporre altrettanto violentemente una riduzione dell’attività produttiva. Il centro di queste politiche c.d. 'monetariste' erano la pretesa di controllare rigidamente l'offerta di moneta,
l'attacco alla spesa pubblica (in primo luogo sociale), l'attacco al lavoro. Da questo punto in poi, a me pare, la dinamica capitalistica e la stessa instabilità finanziaria non possono essere più comprese
pienamente se ci si attiene strettamente al modello originario di Minsky - anche se, va aggiunto, l'ultimo Minsky ha fornito alcuni suggerimenti interpretativi di grande interesse per comprendere il nuovo
scenario. Si tratta della transizione a ciò che egli chiama il money manager capitalism, che corrisponde a quello che autori francofoni definiscono come le capitalisme patrimoniale, e che qui viene ribattezzato come 'sussunzione reale del lavoro alla finanza e al debito'.

La prima fase del neoliberismo: la svolta neo-conservatrice del monetarismo e la crisi mancata

Prima di entrare nel dettaglio della sussunzione reale del lavoro alla finanza e al debito è bene rilevare che il 'colpo di stato' nella politica economica promosso da Volcker, Reagan e Thatcher avrebbe dovuto
inverare, ben al di là di un capitalismo stagnazionistico, il ritorno di una Grande Crisi per insufficienza di domanda effettiva. La riduzione dell’offerta di moneta ha fatto in effetti schizzare verso l’alto i tassi di interesse (nominali e reali) e dunque cadere gli investimenti privati. L’attacco al lavoro ha compresso il salario come quota, e talora lo stesso salario reale, facendo declinare la quota dei consumi derivanti dal reddito. I tagli al welfare avrebbero dovuto accompagnarsi ad una drastica flessione della spesa dello stato. Visto che gli imprenditori non producono per il magazzino ma per vendere sul mercato a prezzi adeguati a garantire la valorizzazione del capitale, il quesito è come questo primo capitalismo 'neoliberista' si sia procurato gli sbocchi. La risposta da dare qui è non è molto lontana da una risposta alla Sweezy: v’è stata una controtendenza politica. Si è evitata la crisi con una 'svolta nella svolta', con il doppio disavanzo di Reagan a metà degli anni ‘80: il disavanzo nei conti dello Stato (che fu trainato anche, se non soprattutto, dalla nuova spesa militare) e il disavanzo nei conti con l'estero (che fece degli Stati Uniti, e più in generale del capitalismo anglosassone, la locomotiva dell'area capitalistica, e fu così anche in grado di fornire domanda ai capitalismi 'neoliberisti' di altre aree del pianeta).

Questa lettura qualifica però il capitalismo neoliberista come un capitalismo segnato prevalentemente dalla tendenza stagnazionistica. E' questa idea di un capitalismo 'asfittico' ad essere dominante anche
nelle narrazioni tanto marxiste ortodosse (da caduta tendenziale del saggio del profitto di tipo tradizionale) quanto keynesiane o neoricardiane (nella versione sottoconsumista cara ad altri marxisti). Dalla metà degli anni Novanta essa con tutta evidenza non regge più. Non spiega l'emergere di un capitalismo dinamico e vivace in molte aree del pianeta, se si escludono il Giappone, in preda ad una lunga deflazione, e l'Europa, nelle doglie del parto della moneta unica e sotto il giogo di politiche restrittive. Il periodo 1995-2007, in particolare, è dapprima segnato dalla new economy, e poi dall'esplosione della Cina, in un quadro che sfugge alle interpretazioni correnti. La sfida è dunque quella di formulare, come è tipico della lezione di Marx, una visione di questo 'nuovo' capitalismo che dia conto, ad un tempo, della sua ascesa e della sua crisi. A questo fine è utile tornare allo spirito dell'ipotesi della instabilità finanziaria di Minsky, se non alla sua lettera.

La sussunzione reale del lavoro alla finanza e al debito, il risparmiatore maniacale e il consumatore indebitato

Una caratteristica centrale e paradossale dell’ultimo capitalismo è il primato dei piccoli risparmiatori.

Organizzati in fondi istituzionali, tra cui i fondi pensione, i loro soldi e il loro risparmio vitale viene gestito da money manager in una ottica di 'valorizzazione' (qui nel senso di valorizzazione del capitale
fittizio) che ha un orizzonte di breve termine. E’ una situazione storicamente nuova, una situazione nella quale sono sì gli azionisti a dominare sui manager, ma all’interno degli azionisti sono i piccoli azionisti a contare più dei grandi azionisti, beninteso in forma alienata, per il tramite appunto dei money manager. Ciò che altrove ho definito il 'capitalismo dei fondi pensione' ha significato un enorme afflusso di denaro sui mercati finanziari, e azionari in particolari.

Allo stesso fenomeno hanno contribuito le privatizzazioni dei beni pubblici, e poi dei beni comuni (le c.d. nuove enclosures). Ciò ha comportato a sua volta una accentuata crescita dei prezzi delle azioni, e ha fatto sì che le imprese non finanziarie potessero finanziarsi con l’equity, cioè con titoli di proprietà, senza ricorrere all’indebitamento. Le imprese sono riuscite a collocare facilmente le loro azioni ad alti prezzi, quindi si potevano finanziare a basso costo. Questo nella logica del modello di Minsky sarebbe in verità un elemento stabilizzante, non destabilizzante: e così è in effetti stato nella sostanza per molti anni, una volta che si tenga conto di mutamenti istituzionali e della politica economica. Vediamo in che senso.

Su scala internazionale si erano andate determinando due condizioni istituzionali che facilitavano l'esplosione della finanziarizzazione nella sua nuova forma: il doppio disavanzo degli Stati Uniti sotto la
presidenza Reagan, negli anni Ottanta, e la lunga deflazione giapponese, negli anni Novanta. A questo si aggiungeva la risposta della Federal Reserve alla grave crisi borsistica del 1987, che chiariva che il nuovo
governatore di quella banca centrale era disposto a renderla una prestatrice di prima istanza ogni qual volta i mercati fossero messi a rischio nei loro guadagni speculativi. I mercati erano periodicamente
inondati di liquidità, l'offerta di moneta si faceva sempre più espansiva anche grazie al Greenspan put, e dal Giappone iniziava un sistematico carry trade (un arbitraggio consistente nell'indebitarsi in yen, a bassissimi tassi di interesse, per investire altrove, con rendimenti più elevati). Non solo lo squilibrio sui mercati finanziari, ma anche quello nelle bilance correnti, tendeva a riprodursi invece di essere eliminato dalle reazioni supposte spontanee del puro meccanismo economico.

La corsa verso l'alto dei prezzi dei titoli sui mercati azionari in un contesto di globalizzazione finanziaria e di libertà pressoché illimitata dei movimenti dei capitali ha dato origine a quella che può ben essere descritta come una fase 'maniacale' dei risparmiatori. Si origina di qui un paradosso. Se le attività rendono sempre più, il risparmio sul reddito da lavoro tende a svanire, e fa emergere la figura del consumatore 'indebitato'. E' quest'ultimo, in effetti, ad aver trainato la crescita degli Stati Uniti, e come abbiamo detto sono stati gli Stati Uniti e gli altri paesi del capitalismo anglosassone (eccetto il Canada) a divenire gli acquirenti finali dei modelli neomercantilisti in giro per il modo (ai vecchi protagonisti come il Giappone, la Germania, l'Est asiatico, si sono aggiunti nell'ultimo decennio alcuni altri paesi emergenti, ma soprattutto la Cina).

Il lavoratore traumatizzato e la centralizzazione senza concentrazione

Il risparmiatore in fase maniacale come il suo alter ego, il consumatore indebitato, sono due figure per niente sganciate dalle trasformazioni delle condizioni del lavoro. Sono anzi a ben vedere l'inevitabile contrappasso del 'lavoratore traumatizzato'. L’espressione fu impiegata da Greenspan alla metà degli anni Novanta, almeno secondo il racconto di chi ha riportato la giustificazione che il governatore della Banca Centrale statunitense dette allora a chi, nel 1995, era fronte di una caduta del tasso di disoccupazione al di sotto del 6% (il preteso tasso 'naturale' di disoccupazione) premeva per un aumento del tasso sui federal funds. Greenspan non soltanto registrava un cambiamento strutturale dovuto all'innovazione tecnologica, ma faceva riferimento anche alla trasformazione nel mercato e nel processo di lavoro, a quel drammatico cambiamento sociale dovuto al primo neoliberismo, ma anche al crollo del socialismo reale. Non soltanto la produttività stava aumentando più di quanto potessero registrare i dati che guardavano al passato, ma la stessa frammentazione del lavoro dovuta alle politiche di ristrutturazione e al raddoppio dell'esercito industriale di riserva su scala planetaria indebolivano quel legame inverso fra tasso di disoccupazione e tasso di aumento dei salari, che va sotto il nome di 'curva di Phillips'. Quest'ultima si era molto appiattita: ad una diminuzione del tasso di disoccupazione non corrispondeva  cioè  più  un’accelerazione  dei  salari.  Era  dunque  possibile  spingere  verso  l'alto  la produzione senza che i salari aumentassero. In questo contesto giocava anche la possibilità sempre maggiore per i consumatori americani di acquistare beni a basso costo, visto che il dollaro si rivalutava, ma soprattutto che arrivavano beni a basso costo non solo dai paesi dell’Est asiatico ma anche dalla Cina. Poteva tornare la piena occupazione: meglio, la piena sotto-occupazione di lavori precari; un lavoro precario nel quale cresceva il peso del lavoro migrante.

La trasformazione delle condizioni del lavoro era anche il prodotto di una vera e propria ‘centralizzazione’  senza  ‘concentrazione’:  un  fenomeno  inedito  rispetto  al  mondo  immaginato dall'autore del Capitale. L’unità tecnica di produzione si è spesso ridotta. Anche senza ‘concentrazione’, il comando tecnico, finanziario e produttivo ha continuato comunque a ‘centralizzarsi’, con fusioni e acquisizioni. Le unità produttive sono state connesse ‘in rete’, lungo filiere transnazionali, stratificate secondo una gerarchia interna dei diversi moduli. Nel frattempo si determinava in alcuni settori un eccesso di offerta strutturale, esito di una concorrenza sempre più aggressiva tra i global player. Tutto ciò contribuiva evidentemente a tenere il mondo del lavoro nella morsa dell’insicurezza e della precarizzazione.

Questi mutamenti hanno accompagnato una metamorfosi nella natura stessa del lavoro. La volatilità dei mercati, la domanda sempre più di sostituzione che si rivolge ai beni di consumo di massa, i nuovi
bisogni, hanno fatto della 'qualità' del prodotto – ma dunque anche della prestazione lavorativa – un asset competitivo. Il capitale pretende più 'qualità' dal lavoro. Si devono creare valori d’uso 'sociali', che si possano vendere sul mercato, e ciò non può non incidere sul lavoro 'concreto' prestato dal lavoratore collettivo. Si vuole un lavoro sempre più attivo, con un contenuto intenzionale maggiore. Si è passati da procedure e norme di rendimento definite ‘a priori’ in un contesto organizzativo e tecnologico stabile – la produzione  come  un ‘piano’  da  eseguire secondo sequenze  rigide  - alla  produzione  come  un ‘compito’ da realizzare con flessibilità . Questo non soltanto ha reso in alcuni casi obsoleto il controllo diretto sul lavoro di tipo taylorista-fordista. Esso ha anche potentemente favorito l’ ‘esternalizzazione’, la ‘terziarizzazione’, l’affermarsi di una governance che tratta i singoli spezzoni del ciclo del prodotto aziendale come ‘aziende’ indipendenti. Dentro l’organizzazione si è andata dilatando la logica di mercato, così come dentro il lavoro salariato la prestazione di lavoro talora assomiglia al lavoro ‘autonomo’ e formalmente ‘indipendente’. Il controllo del capitale sul lavoro può assumere la parvenza del controllo dei lavoratori su se stessi. La valorizzazione del capitale può mascherarsi da autovalorizzazione del lavoro.

Il maggiore o minore grado di qualificazione tollerabile, o persino richiesto, dal sistema dipende sempre in effetti da vari fattori, quali il controllo dei lavoratori sulla propria prestazione, la loro possibilità
concreta  di  esercitare  un  conflitto,  la  loro  integrazione  nell’organismo  della  produzione,  la frammentazione del mercato del lavoro, le fluttuazioni del mercato dei prodotti, la volatilità dei mercati finanziari, e così via. Proprio per questo il comando sul lavoro, pur sempre essenziale, deve essere ogni volta ridefinito nelle diverse forme storiche assunte dall'accumulazione capitalistica. Il lavoro 'astratto' capitalistico non è affatto un lavoro dequalificato o deconcretizzato. L’ 'autonomia' maggiore del lavoro è in alcune congiunture un dato reale: ma, dove è stata concessa, ha dovuto essere inevitabilmente parziale e limitata. Nei decenni più recenti ciò è stato ottenuto non soltanto attraverso la ‘mercatizzazione’ dell’organizzazione e il continuo smembramento, virtuale o reale, dei processi produttivi, ma anche attraverso la pressione, vera o presunta, di vincoli dal lato della finanza pubblica o della mobilità dei capitali. Da questo angolo visuale l’appiattimento dei livelli gerarchici e la riduzione del controllo diretto sono stati una funzione inversa di un controllo 'sistemico' maggiore, favorito dalla accresciuta incertezza dei mercati.

La frammentazione del lavoro di cui si sta dicendo non è affatto indipendente dall’inclusione del lavoro dentro la finanza, perché sono gli stessi elevati rendimenti pretesi dalla finanza a costringere le imprese
a indirizzarsi sempre di più su questa strada. Sono gli stessi fondi istituzionali, e in primis i fondi pensione, a imporre dei criteri di corporate governance che favoriscono le misure di riduzione dell’occupazione e di diminuzione del salario, a condizione che ciò dia luogo all’aumento del valore delle azioni. In modo simile vanno le cose per quel che riguarda i comportamenti dei fondi, per esempio i private equity, i quali acquistano a debito e smantellano le imprese. Il risparmiatore in fase
maniacale che si fa consumatore indebitato contribuisce dunque a determinare quei processi che hanno il lavoratore traumatizzato come loro prodotto, e incidono concretamente sui modi dell'estrazione del
plusvalore. Per questo la sussunzione del mondo del lavoro alla finanza e al debito non è più solo 'formale', ma si fa anche pienamente 'reale'.

La seconda fase del neoliberismo: un paradossale keynesismo privatizzato

Risparmiatore maniacale e consumatore indebitato spiegano però pure come in un mondo di bassi salari si sia avuta una dinamica capitalistica accelerata che non ha incontrato difficoltà dal lato della
domanda effettiva. La crescita del prezzo delle azioni, tipica della new economy tra il 1995 e il 1999, determinava un 'effetto ricchezza', per cui la domanda di consumo (e allora anche la domanda di investimento) crescono significativamente, favorendo la realizzazione del plusvalore. L'indebitamento crescente è innanzi tutto privato, non pubblico: negli Stati Uniti, sotto la presidenza Clinton, il debito pubblico tende addirittura a contrarsi. Il debito privato, peraltro, tende ad essere sempre più il debito dei consumatori (e delle imprese finanziarie): non, come nella versione tradizionale di Minsky, il debito delle imprese non finanziarie. Dunque, la crescita negli Stati Uniti (ma di rimbalzo nel mondo) non è stata trainata dalla spesa pubblica, né tanto meno dalle esportazioni, e ancor meno ovviamente dal consumo salariale. Solo in parte vi hanno contribuito gli investimenti privati, nella new come nella old economy. Lo sviluppo di quegli anni lo si deve soprattutto se ci si riferisce al consumo a debito delle famiglie americane.

Non si deve evidentemente farsi sviare da una sorta di illusione ottica e credere alla leggenda secondo cui negli Stati Uniti le famiglie sarebbero state all'improvviso investite da un particolare benessere.
Tutt'altro. Il salario reale individuale in quel paese è rimasto pressoché stazionario dalla metà degli anni Settanta, quando non è addirittura scivolato verso il basso. Il reddito familiare è sì lievemente cresciuto, ma solo perché più persone dello stesso nucleo sono state occupate, e dunque anche a causa della 'femminilizzazione' del mercato del lavoro e dell’allungamento dell’orario di lavoro. È cambiata anche la struttura della spesa: alcune voci si sono certamente ridotte, non solo per il progresso tecnico ma anche per il minor costo dei beni importati, e dunque per l'intreccio tra plusvalore relativo ed assoluto in altri paesi. Sono però aumentate le spese fisse legate alla salute, all’abitazione, all’educazione dei figli, ecc. In altri termini, l’indebitamento delle famiglie è stato in qualche misura un indebitamento obbligato.

Negli anni Novanta, e ancor più nel decennio successivo, le innovazioni finanziarie hanno consentito che questo indebitamento potesse essere acceso a costi sempre minori. Nello stesso senso spingeva la politica monetaria di Greenspan, che ha dunque dovuto divenire progressivamente nel tempo ancora più espansiva. Visto che non vi era pressione sui prezzi dal lato dei salari, la politica monetaria si sentiva peraltro sempre più libera nel sostegno alla corsa verso l’alto del prezzo delle attività, a dispetto del rischio percepito che sui mercati vigesse quella che lo stesso Greenspan definì allora una 'euforia irrazionale'.

Se ne può concludere che la terna lavoratore spaventato-rispamiatore maniacale-consumatore indebitato si è potuta dispiegare pienamente solo grazie ad un neoliberismo che non era niente affatto 'liberista', mostrandosi anzi particolarmente attivo sul terreno della politica economica. Questo peraltro si potrebbe dire anche della fase strettamente monetarista. Il neoliberismo ha però con il tempo mutato
pelle, fino all'essere caratterizzato da una tendenza alla piena occupazione e da una gestione della politica economica di sostegno politico della domanda. Solo che il primo corno, la piena occupazione, si
inverava come crescente precarietà e espansione dei working poor, mentre il secondo corno, il sostegno alla domanda, si dava grazie ad una politica monetaria che aveva trovato i canali per incidere direttamente in senso espansivo sui consumi. Un po' provocatoriamente lo potremmo definire un keynesismo finanziario 'privatizzato', dove la crescita della domanda di merci (l'economia  'reale') dipende  dalle  bolle  nei  prezzi  delle  attività  (l'economia  'finanziaria'),  e  queste  dall'atteggiamento
compiacente della Banca Centrale. Un asset bubble driven Keynesianism.

Il problema di un meccanismo del genere è che non solo è instabile, è anche insostenibile. Abbiamo visto come l'instabilità sia rimasta a lungo nascosta, e anzi si sia diffusa l'impressione opposta di una
economia non soltanto sempre più dinamica ma addirittura sempre più stabile. Non a caso si è parlato di questi decenni come del periodo della Grande Moderazione. Ciò ha però significato che quando
l'insostenibilità si è infine manifestata, ciò è avvenuto con il ritorno virulento di una nuova Grande Crisi, nella forma per ora di una Grande Recessione.

Dalla crisi delle dot.com alla crisi dei subprime: il ritorno della crisi 'sistemica'

Per la verità, a ciò ha contribuito il fatto che il 'nuovo' capitalismo, che ancora una volta proclamava baldanzoso di avere debellato il ciclo, pareva avere superato senza gravi danni lo sgonfiamento della
bolla delle dot.com, che inizia già nella primavera del 2000, ben prima dell'attacco di Al Qaeda alle Torri Gemelle.

Quando le cose cominciano ad andare male, quando si passa dall’euforia al panico, il risparmiatore dalla fase 'maniacale' scivola in quella 'depressiva'. E' forzato a rientrare dal debito, ad aumentare rapidamente
il risparmio. A fare ciò che la teoria economica predica come una virtù. In momenti del genere, però, le autorità di politica economica e la gran parte degli economisti, persino quelli ortodossi, cercano di convincerlo a fare il contrario, e lo invitano a continuare a spendere. Il passaggio dal risparmiatore in fase maniacale a quello in fase depressiva lo si è intravisto, ma solo come tendenza, come rischio, fra il 2000 e 2001. La crisi economica era cominciata in borsa, e ad essa aveva contribuito l’aumento del tasso di interesse deciso dalla Federal Reserve nel 1999. La bolla tecnologica si è sgonfiata, e a questo si è aggiunta, a partire dal caso Enron, quella che fu definita la crisi etica del capitalismo. Nel frattempo l’11 settembre provvidenzialmente consentiva che si potesse dare alla crisi una risposta classica da keynesismo di guerra: immettendo nel sistema liquidità a basso tasso di interesse, e insieme aumentando la spesa militare e per la sicurezza, sino alla guerra in Iraq ed oltre. Ma ciò ha fornito un pavimento alla crisi, più che essere la ragione ultima della ripresa. Infatti – certo anche grazie ai tassi di interesse mantenuti stabilmente molto bassi da Greenspan - stava in realtà ripartendo il meccanismo del 'nuovo' capitalismo per cui la crescita reale viene determinata dal dilatarsi di bolle speculative, stimolate dalla politica monetaria. Mentre sino al 2000 la speculazione era stata prevalentemente sul mercato finanziario, ora essa si spostava prevalentemente sul mercato immobiliare.

In questi primi anni del terzo millennio si è avuta la massima vivacità sul terreno delle innovazioni finanziarie. E' contemporaneamente venuta a termine una trasformazione radicale del sistema bancario, incubata nei decenni precedenti. Chi concedeva un debito era in grado di 'cartolarizzare' l'attivo corrispondente, vendendolo a qualcun altro, e così liberandosi individualmente della corrispondente passività. Progressivamente queste cartolarizzazioni hanno condotto a 'impacchettamenti', sicché si potessero vendere degli interi pacchetti di titoli cartolarizzati, caratterizzati da gradi di rischio differenziati. In questo modo si potevano spremere dei margini più elevati di guadagno in un mondo di bassi tassi di interesse. Grazie alle innovazioni finanziarie si riteneva che i diversi rischi fossero assunto volontariamente e coscientemente da soggetti in grado di valutarli correttamente. In realtà il meccanismo era diventato così complesso e opaco che ci si finiva con l'affidarsi al giudizio delle agenzie di rating, che peraltro non capivano esse stesse cosa coprissero i nuovi strumenti finanziari, quando non erano addirittura colluse con chi li emetteva. L'intero castello di carta della nuova finanza faceva capo, quali che fossero le apparenze, alle stesse banche.

La trasformazione del sistema bancario è dunque una transizione dalla banca che 'seleziona' il debitore, lo 'monitora' o controlla, e che mantiene le passività del proprio cliente nel suo bilancio per tutta la durata del rapporto, alla banca che invece 'origina' un titolo e immediatamente lo 'distribuisce' altrove, o meglio lo disperde nell’ambiente, come un rifiuto tossico. Questo processo, incentrato sui contratti 'derivati', ha accelerato a dismisura l’esplosione dei titoli, della cartolarizzazione, delle garanzie, delle assicurazioni finanziarie. Sotto l'apparenza di una maggiore resilienza del sistema andava covando una fragilità sempre più marcata del sistema bancario: non soltanto perché la leva del finanziamento era sempre più elevata, ma anche perché si veniva a dipendere da debitori ultimi che non erano più imprese reputate solide, ma famiglie costrette ad un debito crescente periodo dopo periodo. Un debito che poteva essere giustificato solo da ulteriori rialzi nei prezzi delle attività: una tipica posizione ultraspeculativa, o Ponzi, nella tassonomia di Minsky.

A consentire che la corsa continuasse dopo il 2004-5, quando i tassi di interesse riprendevano a salire, è stata l’esplosione dei mutui subprime. Ciò ha significato l'inclusione nel mercato finanziario delle famiglie più povere: l'opacità del sistema nascondeva che ormai la solvibilità nel sistema monetario e finanziario finiva con il poggiare sulla capacità di pagamento dei settori sociali che erano in condizione di massima debolezza. La fragilità delle banche e la fragilità dei debitori ultimi poteva essere controbattuta solo a condizioni che titoli e immobili si rivalutassero costantemente. Un rialzo dei tassi di interesse può essere infatti ritenuto irrilevante se la possibilità di ripagare i debiti e di speculare ancora al rialzo viene dai guadagni attesi in conto capitale. A un certo punto però il prezzo delle case è crollato, e ciò ha mandato in crisi prima il mercato dei subprime, e poi il resto del sistema finanziario, per la sfiducia reciproca che dilagava tra banche e operatori finanziari. E' così che nel giro di un anno la crisi finanziaria è diventata crisi reale, prima negli Stati Uniti, poi nel resto del pianeta. Il sostegno pubblico alla finanza e alla domanda, e in parte all'occupazione, che è stato necessario attivare è stato a questo punto di dimensioni massicce, pari a quelle necessarie a finanziare un conflitto mondiale.

Conclusioni

La ragione di fondo della crisi non è né solo finanziaria, né solo reale. Non sta né nei bassi salari, né nella finanza perversa. Sta piuttosto in una interazione tra ristrutturazione dei processi di estrazione di plusvalore, da una parte, e inclusione subalterna delle famiglie dentro il capitale, dall'altra. Precarizzazione e finanziarizzazione, le due armi gemelle con cui si era risposto alla crisi sociale degli anni Sessanta e Settanta, hanno prodotto una 'centralizzazione senza concentrazione' e una 'sussunzione reale del lavoro alla finanza e al debito' che, prima, hanno prodotto una crescita reale drogata, poi hanno determinato il ritorno della instabilità e la fine di quel modello.

Non si può dire che si sia ancora usciti da questa crisi, e neppure disegnare i lineamenti generalissimi del nuovo modello. In realtà, la fine del neoliberismo così come lo abbiamo conosciuto è stata gestita dagli
stessi neoliberisti. Ciò è vero anche dove la frattura con la vecchia politica economica è più stata netta, dove cioè si è data una sia pure perversa socializzazione della finanza e dell'occupazione, fino ad alludere ad una socializzazione dell'investimento. Quello che è certo è che la dinamica del capitale ha segnato un salto ulteriore dell'inclusione dentro il capitale (a dominante finanziaria) delle condizioni della riproduzione sociale: non soltanto il consumo e il risparmio vitale, ma anche l'abitazione, la salute, l'educazione, le risorse naturali.

Le questioni di un diverso modo di lavorare e di un diverso modo di organizzare la riproduzione come condizioni dell'uscita da questo mulinello sempre più infernale tornano per questo più attuali che mai.

La sfida è ancora quella di riattivare un conflitto di classe che si prolunghi in un intervento di politica economica – ma in realtà politico tout court - che ponga in primo piano la questione di una ridefinizione
strutturale dell’offerta oltre che della domanda, e dello stesso modo in cui si svolge l'attività umana.

Con sorpresa di tutti, anche di una sinistra che fugge dal lavoro o si riduce alla dimensione redistributiva, una Grande Crisi, dunque una dura 'oggettività' sociale, ha rimesso sul tappeto, fuori da ogni crollismo meccanicistico, l'alternativa di Rosa Luxemburg: 'socialismo o barbarie'.



Nota Bibliografica

Visti i limiti di spazio, mi atterrò solo ad alcuni riferimenti principali, e per così dire minimali, privilegiando il filone marxista rispetto a quello keynesiano. Per una prima ricognizione sul tema Marx e
la crisi, sia nel senso della teoria della crisi in Marx, che della possibilità di impiegare Marx per l’analisi della crisi corrente, si può vedere l’ottimo Karl Marx, Il capitalismo e la crisi, a cura di Vladimiro Giacché,
DeriveApprodi, 2009. Si tratta di una lettura in parte diversa da quella qui condotta (ma meno di quanto appaia a prima vista). Ancora oggi di grande utilità è l’altra antologia a cura di Lucio Colletti e Claudio
Napoleoni, Il futuro del capitalismo. Crollo o sviluppo?, Laterza, 1970, che contiene testi, oltre che di Marx e del marxismo, anche di autori appartenenti ad altre correnti – si vedano, in particolare, le introduzioni
di Colletti ai testi di autori marxisti e la sua introduzione generale al volume, tra le sue cose migliori. Sia consentito anche il rimando a “Teoria del valore, crisi generale e capitale monopolistico. Napoleoni in dialogo con Sweezy”, Quaderni Materialisti, vol. 7-8, di chi scrive.

Buone rassegne in inglese sulla teoria della crisi marxiana sono l’articolo di Anwar Shaikh, An Introduction to the History of Crisis Theories (1978), un autore simpatetico alla caduta tendenziale del saggio del profitto, e il libro di Simon Clarke, Marx’s Theory of Crisis, Macmillan (1994), disponibili entrambi sul sito www.countdownnet.info curato da Antonio Pagliarone. Sulla Luxemburg si veda il volume da me curato Rosa Luxemburg and the Critique of Political Economy, Routledge, 2009, e il saggio di Joan Robinson nell’antologia di Colletti-Napoleoni già citata. Importanti, di Paul Mattick, Marx e Keynes De Donato, 1972 e Crisi e teorie della crisi, Dedalo, 1979; come anche, di Henryk Grossmann, Il crollo del capitalismo. La legge dell'accumulazione e del crollo del sistema capitalista, prefazione di Rocco Buttiglione, Jaca Book, 1976, e ancora di più Marx, l’economia politica classica e il problema della dinamica, Laterza, 1971.

Riprende per gli anni Sessanta e Settanta del Novecento la sua lettura in termini di esercito industriale di riserva e compressione dei profitti per la lotta sul salario Andrew Glyn nel suo bel Capitalismo scatenato.
Globalizzazione, competitività e welfare, Francesco Brioschi Editore, Milano 2007 (ma il sottotitolo dell’edizione originale non parla di competività ma di finanza, prima della globalizzazione!), che è una ottima introduzione al capitalismo contemporaneo. Per una lettura incentrata sulla crisi nella valorizzazione immediata si veda invece il mio “I lunghi anni Settanta. Crisi sociale e integrazione economica internazionale”, in Le radici della crisi. L’Italia tra gli anni Sessanta e gli anni Settanta a cura di Luca Baldissara, Carocci, 2001. Per il periodo successivo si vedano i miei articoli sulla rivista del manifesto, e successivamente i miei successivi saggi con Joseph Halevi.

Sulla crisi attuale, la migliore lettura ‘sottoconsumista’ è quella di Emiliano Brancaccio, di cui vedi La crisi del pensiero unico, Franco Angeli, 2° edizione, 2010. Ha provato una lettura in termini di caduta del saggio del profitto Stefano Perri al convegno The Global Crisis, tenutosi a Siena a gennaio del 2010, in Ritorno al futuro? La caduta tendenziale del saggio di profitto, tra teoria e evidenza empirica.

Alla caduta del saggio di profitto si rifanno Andrew Kliman, Alan Freeman e Guglielmo Carchedi. Numerosi i materiali che possono essere reperiti on-line. Diversi, e a mio parere più condivisibili, gli interventi di altri marxisti, che qualificano fortemente la ‘caduta’ per i decenni più recenti. Cfr. p. es. gli scritti di Gerard Duménil e Dominique Lévy, Fred Moseley, Simon Mohun, Michel Husson, Alain Bihr,

Costas Lapavitsas, lo stesso Anwar Shaikh; ma si vedano anche le visioni contrastanti di Chris Harman François Chesnais; e si potrebbe continuare l’elenco. Di un certo interesse i recenti e meno recenti
lavori di Ben Fine sulla finanziarizzazione, e quelli di Robert Brenner sul long downturn. Giustamente,
Paul Mattick jr, un autore favorevole alla caduta del saggio del profitto, contesta radicalmente il mito che essa, come in genere la teoria marxiana, possa mai essere ‘confermata’ dall’evidenza empirica così
come si dà alla superficie della realtà economica. Per tutti questi autori si rimanda il lettore alla ricerca sui siti web.

Per quel  che  riguarda  una interpretazione almeno in parte  minskyana della crisi,  si  rimanda  alla introduzione di chi scrive a Hyman P. Minsky, Keynes e l’instabilità del capitalismo, Bollati Boringhieri, 2010.
Per una lettura che incrocia la lettura marxiana con quella minskyana, e dà pari peso agli aspetti
monetario-finanziari e a quelli relativi alla produzione e al lavoro, si vedano di nuovo i miei lavori con Halevi dal 2005 in poi. Per tutti, e da ultimo, la nostra relazione al convegno di Siena su The Global
Crisis, che viene pubblicata in versione ampliata su Critica Marxista, n. 2-3, 2010: “La Grande Recessione e la Terza Crisi della teoria economica”.

Per una introduzione alla crisi 2007-9 consiglio il libro di Paul Mason, economics editor di BBC newsnight,
Meltdown. The end of the age of greed (reso anonimamente con La fine dell’età dell’ingordigia. Notizie sul crollo finanziario mondiale, Bruno Mondadori 2009). Mason è un non marxista, simpatetico alle idee di Minsky,
e con un talento per la divulgazione. E conosce il linguaggio della lotta di classe. Basta vedere il suo altro libro, naturalmente non tradotto, e che lo meriterebbe: Live Working or Die Fighting. How the Working Class Went Global, Vintage 2008.