Introduzione
Nell’attuale dibattito sulla crisi due sono i filoni
interpretativi principali che si richiamano a Marx e che
proclamano una sua rinnovata attualità. Il primo, proposto
da quegli autori che si vogliono marxisti “ortodossi”, è
quello che legge la finanziarizzazione come conseguenza della
caduta tendenziale del saggio del profitto, e in quest’ottica
individua una lunga tendenza alla stagnazione che comincia negli
anni Settanta del Novecento. L’altra interpretazione, prevalente
per lo più in quei marxisti influenzati dal keynesismo e
dal neoricardismo, fa riferimento alla tendenza alla crisi da
realizzazione, ovvero da insufficienza da domanda. Questo secondo
filone evidenzia come, dopo la controrivoluzione monetarista degli
anni Ottanta del Novecento, siano avvenuti profondi mutamenti
nella distribuzione del reddito con la caduta della quota dei
salari, e sostiene che in un mondo di bassi salari la ragione di
fondo della crisi sia
l'insufficienza della domanda di
consumi: una prospettiva più
o meno dichiaratemente sottoconsumista.
In entrambi i casi,
la crisi attuale coverebbe da molto tempo, e sarebbe la crisi di un capitalismo che si può ben definire
asfittico, sostanzialmente e (ormai) perennemente
stagnazionistico.
Ritengo che un’interpretazione marxiana della crisi non possa
essere sganciata dalla caduta tendenziale del saggio del profitto,
ma che questa vada interpretata come una sorta di meta-teoria
della crisi, che ingloba al suo interno le altre e diverse teorie
della crisi che si possono trovare o derivare dal Capitale.
In quel che segue, procederò in prima battuta ad una ricognizione delle diverse teorie della crisi riconducibili a Marx, e che sono di solito esposte come filoni alternativi e incompatibili. In secondo luogo, cercherò di integrare i diversi spunti che si trovano in Marx in un discorso unitario, dentro una lettura non meccanicistica della caduta del saggio di profitto.
Questo
discorso si prolunga in uno schizzo storico della dinamica lunga del capitale: dalla Grande
Depressione di fine Ottocento, alla Grande Crisi degli anni Trenta
del secolo scorso, alla Crisi Sociale nei processi immediati
della valorizzazione degli anni Sessanta-Settanta.
Infine, leggerò su questo sfondo la dinamica capitalistica
di fine Novecento e la crisi che si è materializzata in
questo ultimo decennio, sottolineando il legame tra
finanziarizzazione e frammentazione del lavoro, e cercando di
individuare le novità più significative nella
morfologia del sistema economico e sociale.
Le teorie marxiane della crisi
La teoria della crisi marxiana è da sempre un terreno
accidentato e controverso. L'accumulazione - la conversione del
plusvalore in capitale costante e variabile aggiuntivo al fine di
produrre plusvalore - è
un processo contraddittorio. Di tali contraddizioni le crisi sono
l'espressione necessaria e, ad un tempo, la soluzione temporanea.
La tendenza alla instabilità del capitalismo discende
innanzi tutto dal fatto che il capitalismo è una economia di mercato e monetaria. Sul
mercato, nella divisione sociale del lavoro, vige una anarchia che
può condurre a una realizzazione incompleta del plusvalore
prodotto in potenza nel processo immediato di valorizzazione. La
presenza della moneta dissocia le vendite dai successivi acquisti,
e il tesoreggiamento può interrompere la sequenza per cui
l'offerta trova il proprio sbocco sul mercato quando i redditi
pagati ai 'fattori' della produzione vengono spesi. Ciò non
di meno, la maggior parte della indagine marxiana nei tre libri
del Capitale è svolta sul presupposto che le merci siano
vendute sul mercato al loro valore sociale o al loro prezzo di
produzione (qualcosa di non troppo lontano dalla assunzione di
Keynes secondo cui le aspettative di breve periodo delle imprese
sono date per pienamente realizzate). Di più, sviluppando
uno spunto prezioso di Quesnay poi dimenticato dalla economia
politica classica, nel secondo libro Marx costruisce degli 'schemi
di riproduzione', sia semplice che allargata, dove si
dimostra che un sentiero di crescita in
equilibrio delle economie capitalistiche 'pure' è una
'possibilità'.
Marx divide il prodotto sociale in due settori, il primo che
produce beni capitali e il secondo che produce beni di consumo (si
potrebbe procedere ad uno schema a tre settori suddividendo questi
ultimi in beni salario e beni di lusso). Il valore prodotto da
entrambi i settori viene scomposto nelle somma delle sue tre parti
componenti, capitale costante, capitale variabile, plusvalore.
Nella riproduzione 'semplice', del tutto astratta e irrealistica,
i capitalisti consumano improduttivamente l'intero plusvalore,
sicché il sistema si riproduce sulla medesima scala, senza
crescita. Nella riproduzione 'allargata', invece, essi investono
in parte o del tutto il plusvalore in nuovo capitale costante e
variabile, il che consente l'accumulazione. L'acquisizione teorica
significativa degli schemi è quella di far vedere molto
nitidamente che ogni componente di valore della produzione, e
quindi ogni componente dell'offerta, è anche una componente
della domanda. E' per questo che vi è sempre
l'eventualità che si dia un equilibrio se si rispettano
alcuni rapporti inter-settoriali.
Contro Malthus e Sismondi, Marx afferma quindi che il
capitale può crescere nel tempo senza necessariamente
incontrare una barriera nella domanda effettiva, perché
quest'ultima in fondo è una domanda che sgorga dal proprio
seno. Al tempo stesso, contro Ricardo e Say, Marx mostra che una
accumulazione 'bilanciata' nel lungo periodo tutto è meno
che garantita, visto che l'equilibrio impone che gli scambi
abbiano luogo rispettando definite proporzioni, non soltanto in
valore, ma anche in valore d'uso e in moneta. L'equilibrio
è dunque sì una possibilità, ma anche un
'caso'. E' questo un punto che verrà ripreso molti decenni
dopo nei modelli keynesiani di crescita di Harrod e Domar.
D'altra parte, la probabilità che l'equilibrio venga
infranto a causa dell'assenza di un piano apre soltanto alla
'possibilità' della crisi, non dimostra affatto la sua
'necessità'. Marx è alla ricerca di una spiegazione
della crisi che sgorghi dall'interno del capitale. In effetti,
sostiene Marx, le crisi hanno luogo a partire da una caduta degli
investimenti, e questa deriva da una crisi della
profittabilità. La questione, dunque, si
trasforma, e diviene quella di comprendere la ricorrenza delle
crisi, riconducendola a una compressione del saggio del profitto,
e spiegandone le ragioni. Su questo, Marx propone nei suoi
manoscritti una serie di prospettive diverse, di cui è
dibattuta la possibilità di riconduzione a un quadro
unitario e coerente. Di seguito considereremo ne alcune.
La crisi ciclica da esaurimento dell'esercito industriale di
riserva
Una prima argomentazione è quella che viene descritta nella
legge generale della accumulazione esposta alla fine
del primo libro. Se si assume
una composizione del capitale
costante, una crescita
sufficientemente rapida del valore investito finirà con il
premere sull'offerta di forza-lavoro, rendendo il c.d. mercato del lavoro più favorevole all'offerta.
Crescono di conseguenza i salari, sino ad eccedere la crescita
della forza produttiva del lavoro. Tutto il resto rimanendo
eguale, cade il saggio di profitto, l'accumulazione rallenta, e con essa si riduce anche la domanda di
forza-lavoro. Una risposta a questa difficoltà sta
evidentemente nella introduzione di metodi di produzione
risparmiatori di lavoro: una risposta che finisce con l'incidere sulla distribuzione del nuovo
valore prodotto. Per un dato capitale anticipato, la
meccanizzazione riduce la quota del capitale variabile, e
perciò della domanda di forza-lavoro: i lavoratori vengono
rimpiazzati da macchine, a parità di prodotto. In teoria,
l'aumento del saggio di accumulazione può espandere o
ridurre l'occupazione effettiva a seconda della forza relativa
delle due spinte, quella derivante dall'incremento della
dimensione del capitale e quella derivante dal mutamento della sua
composizione.
Nel ciclo, il ritmo e la struttura dell'accumulazione del
capitale, che è la variabile indipendente, variano
continuamente al fine di riprodurre un 'esercito industriale di
riserva' di lavoratori che possono essere in
potenza immessi nel processo immediato di valorizzazione. Si
esercita così una pressione al ribasso sul salario, che è la variabile dipendente. Una riduzione del
salario reale darebbe vita ad un impoverimento 'assoluto': ed
è questo, senz'altro, uno dei possibili esiti. Peraltro, la
situazione 'normale' che ha in testa Marx è diversa.
L'accumulazione capitalistica si accompagna essenzialmente ad una
produzione di plusvalore relativo, fondata a sua volta su una
dinamica positiva della forza produttiva del lavoro, il che
è del tutto compatibile con una crescita del salario reale.
In queste condizioni, infatti, un incremento del salario reale non
è in contraddizione con l'espansione della quota del nuovo
valore che va alla classe capitalistica: un aumento del consumo
reale della classe dei lavoratori proveniente dal loro reddito
può ben esprimersi in un valore della forza-lavoro
declinante.
Abbiamo qui a che fare con quella che Rosa Luxemburg definì
la legge della caduta tendenziale del salario relativo, connessa
evidentemente con una contrazione del salario come quota del
reddito: un impoverimento, appunto, 'relativo', niente affatto
assoluto. E' vero però che si possono dare situazioni nelle
quali le lotte salariali possono farsi relativamente indipendenti
dal mercato del lavoro, infrangendo la tendenza alla compressione
del salario relativo. In questo caso, il conflitto salariale si
muta in antagonismo contro il modo di produzione presente, e può
divenire una causa indipendente della crisi capitalistica.
La meccanizzazione della produzione non va però vista
soltanto, e neanche prevalentemente, come una risposta alla
compressione dei profitti dovuta allo svuotamento dell'esercito
industriale di riserva, o al
limite al salario che si fa variabile indipendente. Essa è
invece, e in primo luogo, la materializzazione di una spinta
autonoma del capitale a controllare i lavoratori nel luogo di
produzione, in modo da
garantirsi l'erogazione di lavoro vivo in eccesso al lavoro
necessario. Si dà luogo così ad un aumento del
saggio di plusvalore che è logicamente coevo all'espulsione
di forza-lavoro dal luogo centrale della
valorizzazione.
Come Marx chiarisce molto bene, l'estrazione di plusvalore relativo connessa al rivoluzionamento dei mezzi di produzione e alla introduzione delle macchine non si incarna peraltro esclusivamente in una spinta verso l'alto della 'forza produttiva' del lavoro. Essa si accompagna anche ad una più elevata intensità del lavoro nell'unità di tempo, e si tira spesso dietro una contemporanea estrazione di plusvalore assoluto, con il prolungamento massimo possibile del tempo di lavoro.
Ciò avviene perché i
nuovi metodi vengono introdotti in una 'lotta di concorrenza che
garantisce temporaneamente agli innovatori un plusvalore extra a
danno degli altri produttori: questi ultimi devono dunque
sfruttare di più la propria forza-lavoro, ma gli stessi
innovatori cercano a loro volta di realizzare il massimo vantaggio
dai nuovi metodi che hanno introdotto. In forza di ciò, la
meccanizzazione è una leva potente nella regolazione del
valore di scambio e del valore d'uso della forza-lavoro da parte
del capitale ai fini della massima estrazione possibile di lavoro
vivo.
E però qui si fa avanti un'altra difficoltà. Si
è detto che una più elevata composizione tecnica del
capitale - in breve, del rapporto
'fisico' mezzi di produzione-lavoratori,
- è un fattore che contribuisce
all'espulsione di lavoratori, e dunque di forza-lavoro, dai
processi di lavoro. Ma il lavoro vivo, che è la 'sorgente'
del valore e del plusvalore, scaturisce proprio dall' 'uso' della
forza-lavoro, proviene dunque
dagli esseri umani, in quanto lavoratori in carne ed ossa e
cervello. Esso è 'attaccato' ed inseparabile dal loro
corpo, che va a sua volta 'incorporato' al capitale: va reso in
altri termini parte del corpo materiale
di quest'ultimo, di quel mostro meccanico che è la
'fabbrica' capitalistica.
La dilatazione del lavoro morto
corrisponde ad una progressiva penuria del lavoro vivo nel lungo
periodo, pur in un maggiore sfruttamento della forza-lavoro.
Quando la crescita della composizione 'tecnica' del capitale si
traduce nell'aumento della composizione in 'valore' - quando
cioè, secondo le definizioni di Marx, un incremento della
composizione 'organica' del capitale si concretizza davvero: il
che corrisponde, secondo l'autore del Capitale, alla
tendenza prevalente nella dinamica capitalistica - si mette in
moto una vera e propria tendenza alla caduta del saggio di
profitto. La crisi è ora dovuta ad una composizione in
valore che cresce più rapidamente del saggio di plusvalore.
La legge della caduta tendenziale del saggio di profitto
La caduta tendenziale del saggio di profitto è stata
interpretata da alcuni autori non soltanto come ragione della
crisi ciclica del capitale, ma anche come causa di una caduta
'secolare ' della profittabilità, magari all'interno di una
visione del capitalismo come caratterizzato da 'onde lunghe'. Una
tesi del genere è controversa dal punto di vista testuale:
ma difficilmente argomentazioni di tipo testuale sono dirimenti
nel discorso marxiano sulla crisi, che è rimasto sempre ad
uno stadio incompiuto, soggetto a tensioni anche contraddittorie,
nel tempo ma persino all'interno dello stesso manoscritto.
Conta di
più il fatto che una lettura di lungo periodo della caduta
tendenziale del saggio di profitto non pare essere del tutto priva
di fondamento.
Il perché è presto detto.
L'applicazione di dosi maggiori di
capitale costante, ancor più quando
quest'ultimo sia costituito da capitale fisso, è per Marx
un mezzo particolarmente efficace per accelerare l'estrazione di
pluslavoro e plusvalore nell'unità di tempo. D'altra parte
è vero che in alcune parti dell'opera di Marx il
conseguente incremento del saggio di plusvalore non è in
grado di compensare, nel lungo periodo l'effetto depressivo della composizione del capitale
sul saggio del profitto, e viene dunque degradato a mera
'controtendenza'. A questo proposito, l'argomento più forte
a favore di una conclusione del genere è la tesi che vi sarebbe un limite
assoluto al pluslavoro che può essere attivato da
una popolazione lavorativa data.
Per comprendere di cosa si tratta, è bene guardare alla
composizione del capitale come un indice del rapporto tra, da un
lato, il lavoro morto contenuto nei mezzi di produzione e,
dall'altro lato, il lavoro
vivo speso nel periodo. Questo rapporto viene approssimato dal
rapporto tra capitale costante al numeratore e la somma di
capitale variabile e plusvalore al denominatore. Se si fa
l'assunzione teorica
che il capitale variabile tenda ad annullarsi, e che dunque
l'intera giornata lavorativa si traduca in pluslavoro che si
oggettiva in plusvalore, la composizione 'in valore' del capitale
può essere vista come il
reciproco del saggio massimo di profitto. Marx potrebbe essere
letto come colui che suggerisce in sostanza che il numeratore del
saggio massimo di profitto avrebbe una sorta di limite
insuperabile e
naturale, una sorta di tetto dei movimenti del saggio effettivo
del profitto. Il denominatore, al contrario, può espandersi
illimitatamente.
Marx propone un fondamento microeconomico (nel comportamento
individuale) a questo risultato macroeconomico (di
sistema), che altrimente parrebbe
contraddittorio. Vi abbiamo già
alluso. I
capitalisti individuali introducono, o sono comunque costretti ad
introdurre, metodi a più elevata 'intensità di capitale', al fine di abbassare i costi per
unità di prodotto: guadagnano così grazie a queste
innovazioni un sovra-plusvalore (e un sovra-profitto), ed evitano
a loro volta di essere espulsi dal mercato dai competitori. Si tratta di una concezione 'dinamica'
della concorrenza, che tende a differenziare il saggio del
profitto all'interno del settore, e che verrà ripresa da
Joseph Schumpeter: una visione della concorrenza, si può
aggiungere, che rompe alla radice con la visione della concorrenza
classico-ricardiana e neoclassica-walrasiana. E' una impostazione
che, oltre ad un riferimento forte alle classi sociali, mette
moneta e squilibrio nelle fondamenta su cui si costruisce il
discorso economico.
Si deve però osservare che non è possibile dedurre
da tutto ciò una 'legge' della caduta del saggio del
profitto, secondo la quale le controtendenze verrebbero
sistematicamente battute dalla tendenza, come talora pare pensare
Marx. Una accelerazione della forza produttiva del lavoro in forza
della meccanizzazione spinge infatti alla riduzione dei valori (e
dei prezzi) di tutte le merci, e dunque anche degli elementi del
capitale costante, dei mezzi di produzione. Non è possibile
perciò escludere a priori che la svalorizzazione degli
elementi del capitale costante sia così accentuata da
aumentare lo stesso saggio massimo del profitto, rimuovendo la
presunta barriera posta da Marx. Se invece si guarda al saggio
effettivo del profitto, esso dipende positivamente dal saggio di
plusvalore e negativamente dalla composizione in valore del
capitale. La svalorizzazione degli elementi del capitale variabile
contribuisce evidentemente all'aumento del saggio di plusvalore, e
la svalorizzazione degli elementi del capitale costante può
invertire la tendenza all'aumento della composizione del capitale
in valore. La critica alla caduta del saggio di profitto
argomentata da Marx può essere in questo caso riformulata
sostenendo che non vi è alcuna ragione per negare che
l'aumento del saggio di plusvalore può più che
controbilanciare il (possibile, non necessario) aumento della
composizione in valore del capitale.
Peraltro, va anche considerato che Marx non formula la legge con
riferimento alla composizione 'in valore' del capitale (la
grandezza rilevante per la valorizzazione del capitale), ma con
riferimento a quella che definisce la composizione 'organica' del
capitale. La composizione in valore riflette pienamente la
rivoluzione di valore che continuamente sconvolge l'espressione di
valore degli elementi del capitale costante e variabile in forza
della meccanizzazione. La composizione organica misura invece
quegli input ai loro valori (o prezzi) precedenti l'innovazione.
Registra dunque in modo pieno l'incremento della composizione
'tecnica' del capitale, del rapporto tra mezzi di produzione (e
per Marx, in primis, il capitale fisso) e il lavoro, nel mondo del
valore, neutralizzando la controtendenza della svalorizzazione
tanto del costante costante quanto del capitale variabile.
Vista
l'importanza sempre più estesa del capitale fisso nell'accumulazione, lo scarto tra le due stime
della composizioni del capitale segnala anche un divario crescente
tra il saggio del profitto in termini di flusso e il saggio del
profitto in termini di fondi, un divario che può accrescersi nel tempo e che
impone prima o poi un drammatico e improvviso riaggiustamento attraverso la crisi periodica.
La crisi da realizzazione
E' di un certo interesse rilevare che più si accresce il
saggio del plusvalore, e dunque più si rafforza per questa
via una forza che reprime la tendenza alla crisi del saggio di
profitto e la trasforma anzi nel suo
contrario, più il sistema potrebbe scivolare in un terzo
tipo di crisi: la crisi da realizzazione. Alcuni marxisti hanno in
effetti sostenuto che, se il saggio del profitto cade, il
responsabile primo è la domanda
di merci, effettiva o anche solo attesa, in quanto si riveli
insufficiente a garantire a livello di sistema uno sbocco finale
in forza del quale le merci possano essere vendute a prezzi tali
da coprire i costi e il saggio
normale del profitto.
Sul terreno della crisi da realizzo, due posizioni si sono contese
il campo. Un approccio (p.es., Hilferding) ha
sottolineato le 'sproporzioni',
cioè gli squilibri settoriali
tra offerta e domanda, appellandosi alla natura anarchica e caotica delle economie di
mercato. Se un eccesso di offerta si verifica in importanti rami
di produzione, può aver luogo un diffondersi di questo tipo
di squilibrio ad altri settori, che infine degenererà in un blocco dello
smercio a livello globale. Questo tipo di difficoltà
dipende dalla velocità con cui il sistema dei prezzi e
delle quantità reagisce allo squilibrio, e (come sosteneva appunto l'ultimo Hilferding) può tendere a
scomparire in forme più 'organizzate' del capitalismo.
Alcuni dei suoi propositori (p. es., Tugan Baranovski) hanno
finito addirittura con il sostenere che il sistema capitalistico,
non essendo in fondo altro che una 'produzione per la produzione',
non troverebbe un ostacolo autentico nel declino relativo della
domanda di consumi, e potrebbe procedere in linea di principio
secondo un sentiero stabile di crescita.
La linea alternativa (la cui fautrice principale è Rosa
Luxemburg) viene spesso erroneamente qualificata come
'sottoconsumista'. Adottando la terminologia contemporanea, ed
esponendo il nocciolo razionale di questa impostazione, quello che
in realtà si sostiene è che l'investimento netto non
può controbilanciare per sempre un consumo in riduzione,
dal momento che la profittabilità dei nuovi macchinari nel
lungo periodo dipende dalle vendite future, e queste ultime
sarebbero sempre meno prevedibili quando decresce la quota dei
consumi nel nuovo valore.
Si tratta di un argomento che ha una sua forza. Pure, esso sembra
in contrasto con gli schemi di riproduzione, che mostrano come la
domanda al capitale provenga dallo stesso capitale, direttamente o
indirettamente. Non si può di qui concluderne per un
necessario bilanciamento tra offerta e domanda aggregate, nello spirito della legge di Say. Gli stessi schemi
mostrano infatti, e lo abbiamo ricordato, come le proporzioni di
scambio intersettoriali di equilibrio, per la riproduzione
semplice e ancor di più per la riproduzione allargata,
siano casuali, precari e instabili. Ciò è in
particolare vero per la riproduzione allargata, e per una ragione
molto semplice. Una estrazione di plusvalore relativo che si
approfondisce, con un sempre più elevato saggio di
plusvalore, può temporaneamente sconfiggere la tendenza
alla caduta del saggio di profitto. Ma, facendo ciò,
simultaneamente si rafforzano la tendenza alla caduta del salario
relativo (un tema, di nuovo, caro alla Luxemburg), e si modificano
i rapporti di scambio necessari allo stabilirsi e al riprodursi
dell'equilibrio, sicchè la possibilità della crisi
si tramuta sempre più in una sua probabilità.
Abbiamo qui a che fare, si badi, con l'opposto di una prospettiva
'circolazionista'. La tendenza alla sovrapproduzione di merci si
innesta su delle sproporzioni che vengono attivate dalla dinamica
dello sfruttamento nei processi immediati di valorizzazione.
Per alcuni dei suoi fautori, le crisi da realizzo per
insufficienza sistemica di domanda effettiva si farebbero
progressivamente sempre più severe, sino a condurre ad un
crollo finale. E' questa in effetti
l'opinione della stessa Luxemburg, che fa dipendere
l'accumulazione del capitale dalle 'esportazioni nette' verso le aree non-capitalistiche. Quando la globalizzazione
del capitale si compie e il mercato mondiale è
interamente sussunto alla produzione
per il (plus)valore, il meccanismo
strettamente economico si inceppa. E' però vero che altri autori che
perseguono un filo di ragionamento molto simile hanno obiettato
che l'esaurimento dei mercati 'esterni' può venire
sostituito dall'emergere di una sorta di esportazioni 'interne': così si esprime Michal
Kalecki, con riferimento a disavanzi nel bilancio dello stato
finanziati monetariamente. Qualcosa del genere, peraltro, era
stato intuito dalla stessa Luxemburg nella sua analisi del militarismo come controtendenza
all'esaurimento degli sbocchi nel corso del processo accumulativo.
Un ruolo simile, secondo altri autori, lo potrebbe svolgere il
consumo improduttivo di parte del plusvalore da parte di terze
persone (l'estensione di aree di "rendita", o lo stesso spreco
tipico del capitalismo monopolistico). Alcuni autori oggi
innestano la espansione del lavoro improduttivo dentro il discorso
sulla caduta tendenziale del saggio del profitto. Per chi
considera il ruolo del consumo improduttivo dentro la crisi da
realizzo, si tratta di deduzioni dal plusvalore che riducono il
tasso di accumulazione potenziale, ma che possono garantire un
più tranquillo decorso della riproduzione, senza scivolare
nell'instabilità, se non addirittura nella recessione e
deflazione. In ogni caso, per essere compatibili con il proseguire
indisturbato della spirale della valorizzazione capitalistica,
tutte queste soluzioni richiedono che continui e anzi si
approfondisca lo sfruttamento e la pressione sul lavoro vivo dei
lavoratori produttivi di valore. Il che conferma che la variabile
centrale del discorso marxiano è il saggio del plusvalore.
Sono i cambiamenti e gli antagonismi all'interno dei processi di
lavoro - la "lotta di classe nella produzione", dai due versanti -
a essere la determinante cruciale della dinamica capitalistica.
A
ben vedere, l'unico limite ultimo all'espansione del capitale -
alla sua pretesa di porsi come totalità in grado di porre
continuamente i propri presupposti - è l'opposizione della
classe dei lavoratori dentro i processi di valorizzazione.
Verso una lettura unitaria e diacronica della teoria marxiana
della crisi
E' possibile forse, oggi, proporre una visione unitaria delle
teorie delle crisi, all'interno di un intento non puramente
filologico e marxologico, ma ricostruttivo. Si tratta di leggere
la caduta tendenziale del
saggio di profitto come una sorta di meta-teoria delle crisi, che
include al suo interno non soltanto l'integrazione tra il c.d. sottoconsumo e le c.d. sproporzioni
lungo le linee che si sono già illustrate, ma anche una
crisi che origina direttamente dal rapporto sociale di produzione
dentro il processo immediato di valorizzazione; e di qui muovere
poi ad una analisi delle novità della dinamica
capitalistica di fine Novecento, e alla nuova forma della crisi
che stiamo sperimentando. Si vedrà come questa linea
interpretativa si prolunghi in una ricostruzione della evoluzione
del capitale per onde lunghe, che segue i movimenti
'secolari' delle forme della accumulazione e dell'antagonismo.
Partiamo dalla caduta tendenziale del saggio di profitto intesa
come lo sfondo su cui inquadrare l'intero insieme delle crisi
capitalistiche nelle loro diverse modalità. Il discorso
critico che abbiamo svolto, se nega una caduta 'meccanica' e
necessaria del saggio di profitto, non nega affatto che sia
possibile che la crescita del saggio del plusvalore sia di fatto
inferiore alla crescita della composizione in valore del capitale.
In quel caso si avrà effettivamente una caduta del saggio
di profitto. E' qualcosa che secondo molti interpreti pare essersi
dato storicamente, nella Grande Depressione di fine Ottocento. Il
capitalismo reagì, secondo quella che è poi
diventata una vulgata, un po' troppo facile con il taylorismo
prolungatosi nel fordismo.
Nella forma in cui questa lettura si è poi affermata -
quella di una sequenza storica precisa; e di una continuità
non problematica tra organizzazione scientifica del lavoro, prima,
e catena di montaggio -
dopo - vi è una discutibile semplificazione, un
appiattimento di un processo ben più articolato. Il
taylorismo fu solo una tra molte innovazioni organizzative negli
Stati Uniti nei decenni immediatamente
precedenti il primo conflitto mondiale. In quanto incremento della
intensità del lavoro su base tecnica data, esso, nella sua forma pura, fece fallimento, e venne
implementato con efficacia solo quando la guerra
consentì una sorta di
'solidarietà nazionale' repressiva.
Fu semmai il fordismo a risultare vincente, incorporando molte delle innovazioni e dei principi
organizzativi dei decenni precedenti, compresi certamente
significativi aspetti del taylorismo. Vinse però proprio
perché ritmi e modi del lavoro parevano, ed in parte effettivamente erano, dettati da una
diversa base tecnica, sconvolta in profondità
dall'innovazione.
Lo stesso fordismo ben presto si
trasformò in sloanismo, coniugando già
allora le economie della produzione massificata con la
necessità di differenziare il prodotto, anticipando molti
di quegli aspetti che vengono oggi erroneamente ritenuti una
novità assoluta portata dal c.d. post-
fordismo.
Quello che qui più mi interessa sottolineare è che
all'inizio del Novecento la composizione di classe dell'operaio di
mestiere viene attaccata e destrutturata mediante l'introduzione
della catena di montaggio e di nuove modalità di
organizzazione del lavoro. Si riesce in questo modo a spingere
verso l'alto il saggio del plusvalore, per il tramite dell'aumento
della forza produttiva del lavoro ma anche di una superiore
intensità del lavoro; mentre la caccia all'extra-plusvalore
si porta dietro una contemporanea estrazione di plusvalore
assoluto. Si controbatte così l'effetto depressivo sul
saggio del profitto della più elevata composizione in
valore del capitale. In questo modo, però, se il capitale
sfugge alla crisi da caduta tendenziale del saggio del profitto,
vede materializzarsi al suo posto la crisi da realizzazione. Si
è visto infatti che l'estrazione accelerata del plusvalore
relativo significa sia riduzione della quota dei consumi dei
lavoratori sia cambiamento continuo dei rapporti di scambio
equilibrio intersettoriali. Ciò rende sempre più
probabili quelle sproporzioni che a un certo punto raggiungeranno
una massa critica, e daranno quindi luogo ad una caduta della
produzione e dell’occupazione nei settori con eccesso di offerta,
che poi si generalizza all'intero sistema.
La sovrapproduzione di merci può essere allontanata
nel tempo dal credito e dalla finanza, che stimolano tanto
l'investimento che il consumo. In una prima fase, il capitale
produttivo di interesse e il capitale fittizio accelerano la
riproduzione capitalistica. Liberano infatti l’accumulazione dalla
sanzione immediata della validazione del valore prodotto sul
mercato finale delle merci. Possono inoltre stimolare bolle
speculative che si auto-alimentano e producono effetti reali di
sprone all'economia reale. Ma prima o poi l'insufficienza di
domanda effettiva che si diffonde in tutto il sistema si fa
valere. L'investimento non è più in grado di
compensare lo scarto tra produzione e domanda: anche se, si deve
aggiungere, la crisi si annuncia in prima battuta come crisi
finanziaria, e solo in una seconda fase si manifesta come crisi
reale. E' quanto avviene con la Grande Crisi degli anni Trenta del
Novecento. La crisi da realizzo va cioè analizzata non
soltanto connettendo strettamente sproporzioni e caduta del
salario relativo, ma anche dentro una visione da subito monetaria
e finanziaria del processo capitalistico.
Vale qui la pena di accennare soltanto al fatto che una analisi di
questo genere equivale in realtà a sostenere che tra fine
Ottocento e metà Novecento la teoria marxiana deve
confrontarsi non solo con
una metamorfosi del capitalismo ma anche della riflessione
economica. L' 'economia politica' di cui occorre fare la 'critica'
non è più a questo punto da rinvenirsi
principalmente in Ricardo, quanto piuttosto nell'eterodossia
monetaria di Schumpeter e di Keynes.
La crisi sociale nella valorizzazione
Dalla Grande Crisi se ne uscì non tanto con il New Deal -
che non fu affatto, come recita un'altra vulgata, 'keynesiano' -
ma con una nuova ancora più devastante grande guerra, il
secondo conflitto mondiale. Vi fece seguito, nel mondo diviso in
due dalla 'cortina di ferro', la gestione apertamente politica
della domanda effettiva. Si trattò di un 'keynesismo'
alquanto bastardo, caratterizzato dal traino di una forte componente di spesa militare, e per il resto da un
sostegno generico alla domanda aggregata. Esso dette luogo, nel
tempo, ad aumenti salariali, al consumo dal reddito come elemento
di amplificazione della spesa autonoma
(per l'effetto del c.d.
moltiplicatore), e ad una sostanziale espansione del welfare, in un contesto che fu definito di 'pieno
impiego'.
Una situazione dunque eccezionale nella storia del
capitalismo, caratterizzata da lavoro 'stabile' e, si disse, da
'alti salari', tanto
che talora viene definita l' 'età d'oro'. Si deve
però ricordare che la piena occupazione seguiva alle
conseguenze devastanti della disoccupazione di massa tra le due
guerre, e che essa va collocata nel contesto della competizione del capitalismo con un sistema che si
diceva alternativo e socialista: l'una e l'altra circostanza
fecero del pieno impiego un obiettivo tanto dei governi moderati
quanto di quelli progressisti. E si deve ancora sottolineare con forza che salario
e welfare crebbero i modo sostanziale solo a partire dagli anni
Sessanta, sulla spinta di un conflitto sociale sempre più
acceso, in quello che fu la fase finale di quella 'parentesi'. L'era c.d.
fordista-keynesiana - i 'trent'anni gloriosi' di cui parla Jean
Fourastié - potè in ogni caso essere
capitalisticamente sostenibile soltanto per la crescente pressione
sui lavoratori 'produttivi', e la conseguente, continua spinta verso
l'alto del saggio di plusvalore.
La crisi di questa forma del capitalismo, che matura dalla seconda
metà degli anni Sessanta ed esplode nel corso degli anni
Settanta, ebbe molte cause, tra cui il riemergere del conflitto
inter-imperialistico, la
guerra del Vietnam, l'aumento del prezzo delle materie prime (e in
particolare del petrolio), ed altro ancora. Al suo centro vi fu
però, a mio parere, innanzi tutto una ragione 'sociale',
irriducibile tanto alla
caduta del saggio del profitto in senso stretto quanto alla crisi
da realizzo. Si trattò della presenza di un antagonismo
sull'estrazione del plusvalore che originava direttamente sul
terreno del rapporto capitale-
lavoro nella produzione, e che fu in grado di dar luogo alla
compressione del salario relativo almeno per qualche anno.
Ciò avveniva non esclusivamente, e nemmeno prevalentemente,
nel senso caro al filone neo-ricardiano o a buona parte del primo
operaismo: due correnti che sostenevano allora, l'uno e l'altro,
come le lotte operaie avessero fatto del valore della forza-lavoro
una variabile 'indipendente'. Il punto cruciale fu semmai il
controllo che i lavoratori riuscirono a conquistare sulla
prestazione di lavoro - ovvero, marxianamente, sull'erogazione del
'lavoro vivo'.
Si tratta di una realtà che può essere compresa
appieno solo se si guarda alla teoria marxiana del valore da un
'punto di vista' ben diverso da quello consueto, e si è
dunque in grado di intendere in che senso la
teoria del valore è la teoria della crisi. Ma si tratta
anche, corrispettivamente, di una realtà che ha aiutato a comprendere meglio il senso più profondo della 'critica
dell'economia politica'. E' a questo tema che, prima di procedere
oltre con un discorso sulla crisi attuale, dobbiamo volgerci.
Una nuova lettura del lavoro astratto e della teoria marxiana del
valore
Il lavoro astratto - attività non immediatamente sociale,
lavoro immediatamente privato che diviene sociale nello scambio
contro il denaro, ovvero contro quello che è il prodotto
dell'unico lavoro
immediatamente sociale - ha come suo risultato il valore. Il
valore, a sua volta, è nient'altro che un cristallo di lavoro oggettivato contenuto nella merce, che deve
autonomizzarsi ed assumere necessariamente forma monetaria.
'Sostanza' e 'forma' del valore sono di conseguenza inseparabili.
Il valore si costituisce all'incrocio tra produzione e circolazione
(finale) delle merci: meglio, si costituisce nel movimento che va
dalla produzione immediata allo scambio universale e monetario,
dove l'astrazione del lavoro, latente già nei processi
capitalistici di lavoro, si perfeziona. Sbaglia chi appiattisce
valore (e lavoro astratto) sulla sola produzione, come sbaglia chi
lo confina alla sola circolazione; e sbaglia ancora chi non vede
in quell'incrocio il movimento che va dall' 'interno' verso l'
'esterno'; e sbaglia infine chi separa 'analisi reale' e 'analisi
monetaria'. Quelle categorie hanno una essenziale dimensione
processuale, dentro una analisi della totalità
capitalistica che è però 'centrata' sul momento
della produzione.
Entrando, come è a questo punto inevitabile, nel
'laboratorio segreto' della produzione, si vede quanto nella circolazione non soltanto è distorto e dissimulato
(è questo ciò che Marx definisce il 'feticismo' che
fa scambiare per naturale ciò che è invece
specificamente sociale) ma è anche nascosto e opacizzato in un reificato che fa svanire del tutto le tracce del processo di
reificazione (è questo ciò che Marx
definisce il 'carattere di feticcio' per cui il processo di
oggettivazione si fa cosale ed estraneo nel risultato
oggettivato).
Si può a questo punto accedere a quel
processo di 'costituzione' dell'oggettualità astratta ed alienata del capitale in forza del quale quest'ultimo ha la sua
origine nel 'lavoro': categoria articolata quant'altre mai.
Più precisamente, l'indagine della produzione mostra che il
'lavoro vivo', la sorgente del valore, è estratto dalla 'forza-lavoro' di lavoratori
salariati, sullo sfondo di una sempre possibile
conflittualità, che assume talora il carattere
dell'antagonismo. Quella forza-lavoro deve essere acquistata da denaro sul mercato del lavoro, e gli esseri umani che ne sono
ineluttabilmente i portatori viventi devono essere portati dentro
i processi capitalistici di lavoro, dentro il corpo della fabbrica
capitalistica:
quel mostro meccanico che, scrive Marx, solo dopo avere incluso
questa alterità può iniziare a lavorare “come se
avesse amore in corpo”.
La generazione del valore non si limita a dover trovare una
validazione finale nella vendita delle merci contro il denaro
quale equivalente generale; essa deve anche partire da una
ante-validazione monetaria
nel denaro quale finanziamento alla produzione (riducibile, in una
analisi macro-sociale, al monte-salari che acquista la capacità di lavoro dei lavoratori
salariati). E' evidentemente in questa natura 'circolare' del
ciclo del capitale che si radica in ultima istanza la
valorizzazione come produzione di (plus-)denaro a mezzo di denaro; come è anche qui che trova la sua lontana
origine la stessa possibilità di una 'finanziarizzazione'
dell'economia.
Se lo sguardo non coglie il processo di costituzione del
'feticcio' capitale, quest'ultimo – che è valore, denaro,
che figlia plusvalore, e dunque plusdenaro - si presenta come una
totalità chiusa in se stessa, che pone ‘automaticamente’ i
propri presupposti, in un movimento a spirale, ciclo dopo ciclo.
E’ qui che Marx può sembrare nient’altro che l’applicazione
del circolo, epistemologico ed ontologico, hegeliano alla
realtà capitalistica. Ma dove è massima la tangenza
con il filosofo di Stoccarda, maggiore è anche la
divaricazione. Il valore e il denaro non si accrescono per
partenogenesi ideale, ma solo perché, in quanto lavoro
morto, riescono a includere ‘materialmente’ dentro di sé, e
a comandare dentro una particolare forma della messa al lavoro
degli esseri umani, quella alterità radicale al lavoro
morto e al denaro che è la forza-lavoro, ‘appicicata’ ai
lavoratori in carne ed ossa. Questi ultimi sono dunque nient'altro
che 'forza-lavoro vivente': acquistati dal monte-salari, divengono
una parte (variabile) del capitale. Messa in movimento, come
lavoro vivo, la capacità di lavoro non solo riproduce il
valore passato ma origina il neovalore, e dunque quel plusvalore
che ne è parte, e che investito dà origine a tutto
il capitale. E' in questo senso che il 'lavoro' è sia la
'parte' che il 'tutto' del capitale.
Sta qui il vero 'scandalo' del capitale - quello scandalo che
sfugge totalmente a chi ragiona in termini di 'diritto', 'etica' o
'giustizia'; e che sfugge anche alla Caritas in veritate di
Benedetto XVI. La merce non è solo inseparabile dal denaro,
e quest'ultimo dal capitale. Vi è di più: il
capitale è fondato proprio su quello 'spostamento' -
inversione e follia, insieme - per cui il lavoratore vivente
è realmente diventato appendice della propria forza-lavoro,
e conta ormai solo come prestatore di lavoro vivo.
Se le cose stanno così, la totalità del capitale
esiste nella misura in cui si costituisce uno specifico rapporto
sociale di produzione, che non può essere dato per
riprodotto meccanicamente dalla totalità stessa ma che anzi
la ‘apre’, e in una certa misura la ‘infrange’. La valorizzazione
viene spiegata da Marx ‘rompendo’ la chiusura della
totalità capitalistica, rivelando l’impossibilità
della pretesa che ha il capitale di porsi come Soggetto
autosufficiente. Lo si capisce bene se si tiene a mente la
metafora insistita, da prendere tremendamente sul serio, del
capitale come ‘vampiro’. Dal punto di vista del capitale, non vi
è ricchezza se non si fa ‘lavorare’ la forza-lavoro, unico
fattore a sé esterno oltre la natura. Per mettere al lavoro
i lavoratori occorre fornirgli i mezzi di produzione.
Vi è,
d’altra parte, una differenza sostanziale tra forza-lavoro e mezzi
di produzione. Le tecniche fissano i metodi di produzione, e
dunque la forza
produttiva del lavoro per ora lavorata. Il salario reale per la
classe operaia viene fissato dal conflitto, ed è
traducibile nel lavoro necessario a produrre i beni che lo
compongono. Non è però determinato dalla
tecnica il quanto di lavoro che si estrae, in quanto quest'ultimo
dipende dai rapporti sociali: perciò anche dalla tecnologia e dall’organizzazione del
lavoro che il capitale disegna a sua immagine e
somiglianza, secondo una volontà ed una conoscenza estranee
ai lavoratori.
Solo grazie alla propria natura di vampiro il capitale trasforma
la 'crisalide' - l’incarnazione del 'fantasma' del valore
nel corpo del denaro – in 'farfalla': valore che figlia più
valore; lavoro morto che
torna alla vita, e ammassa sempre più lavoro morto,
denaro che produce più denaro.
Il punto da intendere bene è però che dire vampiro significa
dire non soltanto inclusione nel capitale del lavoro ma anche
dipendenza del capitale dal lavoro. Che tipo di dipendenza? Il
capitale ha bisogno, dentro la produzione immediata, del ‘fluido’ vivificante del lavoro come
attività: movimento che toglie il valore/denaro dalla sua
fissità, e dà vita appunto mostruosa al capitale.
Per ottenere lavoro nella produzione il capitale deve prima, sul mercato del lavoro,
acquistare la capacità lavorativa. Ma, lo abbiamo
già ricordato, il capitale non può davvero
‘staccare’ né la forza-lavoro né il lavoro vivo dai
lavoratori. Il capitale esiste in forza di quello che i filosofi
chiamano una ‘ipostasi reale’, una sostantificazione dell’astratto
e una inversione di soggetto e predicato. La forza-lavoro,
inglobata come parte nel capitale, e il lavoro vivo, come
attività che produce tutto il capitale, sono a questo punto
il soggetto, di cui i lavoratori sono davvero nient’altro che il
predicato, una appendice. Il capitale ha acquistato la
forza-lavoro dai lavoratori, ha perciò il pieno diritto di
usarla, come Marx non si stanca di ripetere. D’altronde, in un
senso del tutto trasparente, la forza-lavoro e il suo uso sono, al
tempo stesso, dei lavoratori, come Marx altrettanto
insistentemente lascia intuire.
Non è affatto scontato che il lavoro ottenuto nella
produzione corrisponda a quello atteso dal capitale nel mercato
del lavoro. Il capitale deve vincere la 'lotta di classe nella
produzione'. Tenere a bada un
possibile antagonismo; conquistare l’egemonia, la cooperazione, il
consenso. Lo fa controllando i lavoratori, e pervertendo la natura
stessa del lavoro. Impossibile, in questo modo di vedere le cose,
separare estrazione di plusvalore assoluto e relativo, non vedere
la simultaneità dei tempi dello sfruttamento. A partire dal
lavoro vivo come sorgente del neovalore, una lettura del genere
radicalizza lo scandalo della ‘ipostasi reale' nella sussunzione
del lavoro al capitale, che da formale si fa reale, quando la
prestazione lavorativa non solo 'conta' ma 'è' ormai
propriamente 'senza qualità'. Priva non di di
qualità tout court, ma di qualità proprie: nel
senso, più precisamente, che le proprietà concrete
gli vengono dal capitale. E' questo punto di vista sulla teoria
del valore e sul lavoro astratto che ci ha consentito di formulare
un approccio alla crisi 'sistemica' fuori da un’ottica crollista,
puramente oggettivista. Ed è questo punto di vista che ci
ha consentito di andare oltre la caduta tendenziale del saggio di
profitto e la crisi da realizzo nel disegnare i contorni
generalissimi di quella vera e propria 'crisi sociale' che
segnò il termine della 'età d'oro' (ma in
realtà di ferro) del trentennio post-bellico.
Valore d'uso della forza-lavoro, crisi capitalistica e nuove
problematiche
Quella crisi sociale ebbe uno dei suoi punti alti nel lungo
'autunno caldo' italiano in cui culminano le lotte operaie degli
anni Sessanta: lotte che vennero poi contagiate dalla
contestazione studentesca del Sessantotto, e si dispiegarono
pienamente nell'arco di anni tra il 1969 e il 1973. Una esperienza
illustrata bene - proprio tenendo conto di quanto si è
appena detto sulla teoria del valore marxiana - da due citazioni
che traggo da interviste dell'epoca, la prima ad un lavoratore
della Fiat e la seconda ad un economista allora impegnato in una
ripresa (sia pur problematizzante) del discorso teorico di Marx
nella sua integralità.
Nel primo caso si tratta di un brano tratto da un'intervista del
"Corriere della sera" ad alcuni operai, registrata durante
l'autunno caldo del '69 e mai pubblicata su quel quotidiano. Fu
resa disponibile vent'anni fa da Pino Ferraris che la aveva nel
suo archivio, e comparve sul "manifesto". Un operaio,
Sergio Gaudenti, dice: "Io voglio spiegare i punti decisivi di
queste lotte: gli scioperi selvaggi, la lotta contrattuale che la
Fiat ha cercato di fermare sospendendo 30 mila operai. Il padrone
con il salario crede di comprare un operaio come si compra un chilo di mele. Tu
ti vendi e io ti pago. Poi ti consumo come voglio. La mela la tagliuzzo, la faccio cuocere, la lascio
marcire [...] la mordo. Il destino della merce è infatti
quello di lasciarsi consumare [...] Ma l'operaio è una
merce un poco speciale, non basta
vendersi ad un buon prezzo, non vuole più lasciarsi
consumare come piace ai padroni. E' una merce questa che vuole
avere il potere di controllare ogni giorno il modo del suo
consumo, per questo ora si
fanno le lotte interne sul lavoro per il controllo operaio".
La seconda citazione è parte delle risposte che dette nel
1973 Claudio Napoleoni, che insegnava allora a Torino, ad un
questionario ancora del manifesto: "la lotta operaia è
venuta assumendo caratteri tali per cui
essa non è stata più né semplicemente
redistributiva né semplicemente normativa, ma è
diventata politica in un senso
più stretto, in quanto
cioè ha indebolito spesso
profondamente, una delle condizioni necessarie alla realizzazione del rapporto
capitalistico, ossia la subordinazione, la mancanza di autonomia,
della classe operaia all'interno del processo produttivo . . . la
crisi economica, e sociale, è dovuta essenzialmente a
questa spinta operaia, nel senso che il processo accumulativo,
già colpito dai successi ottenuti, al principio degli anni
Sessanta, sul terreno della distribuzione, è stato poi
ancor più duramente colpito da quella conquista di
autonomia operaia che ha fortemente limitato la possibilità
di risposta del capitale in termini tradizionali, in termini
cioè di aumento del grado di sfruttamento".
Vi è nell'una e nell'altra citazione l'idea che l'autonomia
(possibile, mai garantita) del valore d'uso della forza-lavoro dai
movimenti del capitale rimanda alla caratteristica peculiare di
questa merce così diversa
dalle altre, cioè al fatto che in questo caso non è
possibile separazione tra merce venduta (capacità lavorativa, acquistata per estrarre lavoro in quanto
attività) e individuo concreto.(che ne è il
portatore, e dunque è colui che effettivamente deve erogare
quella attività). Quella autonomia è possibile, e
mai garantita, perché fa riferimento all'essere umano come
soggetto storicamente determinato, dentro il lavoratore collettivo
soggetto alla socializzazione capitalistica nella produzione
immediata. Ha come sua condizione - avrebbe detto giustamente Napoleoni - una 'mediazione
politica e sindacale': ma quella mediazione non può mai
essere pensata, almeno nel discorso marxiano, come separata ed
esterna alla soggettività sociale. Il capitale è per
questo una 'contraddizione in movimento': perché nel luogo
principe della valorizzazione è simultaneamente vero che il
'lavoro' è del capitale come è dei lavoratori.
Riscoperta delle ragioni degli operai in carne ed ossa contro un
sistema produttivo che pretendeva di ridurli a rotelle di un
meccanismo - questo fu allora la 'centralità operaia'.
Al tempo stesso, le lotte degli anni Sessanta e Settanta aprono a
tre problematiche nuove. La prima è questa: poter dire
(grazie a quelle lotte e a quella soggettività sociale) che
l'origine della ricchezza capitalistica sta nella differenza tra il lavoro vivo erogato dai
lavoratori salariati e il lavoro oggettivato nei mezzi di sussistenza che tornano loro, cioè nella
differenza tra valore d'uso e valore di scambio della forza-lavoro
come parte della forza-lavoro vivente, equivale ad affermare la
dipendenza del capitale da un elemento 'naturale', che ha un
'corpo'. La produzione capitalistica è in primo luogo uso
della forza- lavoro, e consuma innanzi tutto i lavoratori che ne
sono i portatori. La questione ambientale ed ecologica, meglio la
'questione della natura', ha qui una sua fondazione del tutto
materialistica e sociale: sfruttamento dell’essere umano
sull’essere umano e distruzione della natura sono caratteristiche
distintive, e che si tengono insieme, del modo di produzione
capitalistico. Lo aveva visto bene quel Marx che scriveva nel
primo libro del Capitale che “la produzione capitalistica sviluppa
la tecnica e la combinazione del processo di produzione sociale
solo minando al tempo stesso le fonti primigenie di ogni
ricchezza: la terra e il lavoratore”. E in effetti le lotte sulla
salute e sulla nocività degli anni Sessanta e Settanta
ebbero qualità nuova anche perché aprivano ad una
possibilità di rapporto tra antagonismo sociale e
problematiche che oggi definiremmo 'verdi', una possibilità
che però andò presto dispersa.
La seconda e la terza problematica sono in qualche misura connesse
a quanto si è appena detto. Le lotte dentro il lavoro, sul valore d'uso della forza-lavoro, rompevano
nella loro natura più profonda con quell'industrialismo e
quel produttivismo che avevano tradizionalmente inquinato il
movimento operaio, e che erano d'altra parte largamente presenti anche nelle frange
meno tradizionali. Le lotte nella
produzione che esprimevano la 'centralità operaia' erano al
tempo stesso lotte contro la 'centralità della produzione'.
Ne veniva colpito anche quel 'marxismo delle forze produttive' che
riduce il materialismo
storico a una prospettiva nella sostanza tecnologica. Erano certo,
in questo senso, lotte per la liberazione 'dal'
lavoro: liberazione dal lavoro
salariato, liberazione da una
visione totalizzante e
oppressiva del lavoro. Esse erano però anche e
simultaneamente e inseparabilmente lotte per la
liberazione 'del' lavoro. Ponevano dal basso la questione del
'cosa' e del 'come' produrre. Contestavano
contemporaneamente la forma e la natura della attività,
così come la forma e la natura assunte dalla scienza e
dalla tecnica, andando ben oltre la mera denuncia dell' 'uso
capitalistico' delle macchine.
La messa in questione della valorizzazione nel luogo 'centrale'
della produzione capitalistica - tanto più nella misura in
cui la critica dell'economia politica diveniva, oltre che critica
della società, anche critica del dominio sulla natura e
critica del produttivismo - esigeva un prolungamento in uno
'sbocco politico' che non vi fu. L'epoca keynesiana cadde ‘da
sinistra’. Ai nuovi caratteri della crisi rispose un lungo
processo di 'decostruzione' del mondo del lavoro che si tratta
adesso di passare ad indagare, sia pure sommariamente.
Le molte facce del neoliberismo
La crisi attuale è comprensibile solo se si legge in modo
meno approssimativo di come non si faccia di solito l'ultimo
trentennio, che viene spesso catalogato con l'etichetta un po'
vaga di 'neoliberismo'. All'innovazione tecnica e organizzativa si
affiancarono l'innovazione finanziaria e l'innovazione nella
politica economica, secondo modalità altrettanto originali.
Si è così costituito negli anni Novanta un 'nuovo'
capitalismo di cui si tratta di intendere l'ascesa se si vuole
capirne il crollo.
Vediamo meglio. Le due gambe su cui si mosse la reazione del
capitale alle lotte operaie e alla crisi degli anni Settanta
furono la frantumazione del lavoro e la finanziarizzazione. L'una
e l'altra ebbero caratteri nuovi. La frantumazione del lavoro
infatti, fu in modo significativo l'altra faccia di una inedita
'centralizzazione senza concentrazione'. La finanziarizzazione, a
sua volta, si incarnava questa volta in una autentica 'sussunzione
reale del lavoro alla finanza e al debito': una inclusione delle
famiglie e dei consumatori - in sostanza, dunque, del mondo del
lavoro - all’interno dell’universo finanziario. La sussunzione
reale del lavoro alla finanza finiva con l'approfondire la
centralizzazione senza concentrazione, e più in generale un
ulteriore giro di vite nello sfruttamento del lavoro.
Sweezy, Minsky, e il ruolo dell'indebitamento privato
La sussunzione formale del lavoro alla finanza muove i primi passi
alla fine dell'Ottocento, e l'esplosione del debito delle famiglie
è in parte già responsabile dello scoppio della
Grande Crisi. Parte dei lavoratori cominciavano a poter
risparmiare, e il loro risparmio fluiva sui mercati finanziari.
Negli anni Ottanta del Novecento inizia a venire a maturazione una
nuova forma del primato della finanza, che aveva cominciato a
mettere radici nel ventennio precedente.
Per capire lo svolgersi di questo processo sono utili sia il
contributo di un economista keynesiano, Hyman Philip Minsky, che
quello di un economista marxista Paul Marlor Sweezy: entrambi, si
deve dire,
alquanto eretici nei rispettivi campi. L’idea di Sweezy è
che il capitalismo monopolistico nutrisse una tendenza strutturale
alla stagnazione, e che questa però non si potesse inverare
mai compiutamente perché sconfitta di volta in volta da
controtendenze, in senso lato, politiche. Sweezy si rende conto
sin dai primi anni Settanta che quando il saggio di profitto e il
saggio di investimento si abbassano, la controtendenza principale
alla tendenza alla stagnazione non è più solamente
lo stato interventista
keynesiano, incentrato sulla spesa militare, bensì
l’indebitamento. Coglie, in particolare, il crescente ruolo
dell'indebitamento privato, e in questo dell'indebitamento delle
famiglie. Quasi nessuno oggidì
cita Sweezy.
Minsky, invece è un autore divenuto di moda.
La sua ipotesi secondo cui il capitalismo tenderebbe a far degenerare la stabilità in
instabilità finanziaria è parsa a molti una
riflessione importante per poter spiegare la crisi attuale. Nel
caso di Minsky, l'indebitamento privato si impenna
come conseguenza non tanto della tendenza alla stagnazione quanto
piuttosto della spinta alla accumulazione reale del capitale. I
protagonisti del suo modello di base sono le imprese non
finanziarie, e gli investimenti in beni capitali.
In breve, ciò che sostiene Minsky è questo. Un
capitalismo finanziariamente sofisticato come quello del Novecento
è soggetto necessariamente all'alternanza di euforia e
panico. Quando si esce da una grande crisi le unità 'produttive' intrattengono posizioni sane e
'coperte', nel senso che le loro entrate nette monetarie di cassa
sono sufficienti a restituire ai finanziatori e alle banche quanto
avevano ottenuto in
prestito caricato dell’interesse. Le cose procedono talmente bene
che a un certo punto sia i banchieri che gli imprenditori
diventano più ottimisti: non è però una pura
e semplice illusione, è la realtà stessa dei
risultati economici nel corso ascendente del ciclo che li induce a
scelte espansive. Le loro posizioni si fanno dunque più
coraggiose, e da 'coperte' diventano 'speculative'. E' proprio
questa attitudine speculativa che in Minsky (come in
Marx, peraltro) accelera l’investimento di lungo
termine. La posizione speculativa è caratterizzata da
entrate nette monetarie di cassa sufficienti a pagare gli
interessi, ma non a restituire la quota annuale del capitale preso
a prestito. In alcuni periodi le unità economiche devono
rifinanziarsi. In questo caso, però, al rischio economico
si aggiunge ora il rischio finanziario. L’economia è
cioè più fragile, perché le imprese
potrebbero doversi rifinanziare a tassi di interesse crescenti. Ma
in realtà le cose potrebbero continuare ad andare talmente
bene che, se pure vi fosse una tendenza del sistema bancario ad
aumentare il costo del denaro, gli intermediari finanziari
potrebbero intervenire inventando 'quasi-monete' altrettanto
liquide.
E' facile che a questo punto l'euforia dia luogo a bolle
nei prezzi delle attività, e le posizioni di un numero
crescente di operatori diventino 'ultraspeculative'. Una posizione
ultraspeculativa è quella in cui le entrate nette monetarie
di cassa non consentono neppure di pagare gli interessi, e la sua
razionalità sta soltanto nella speranza di guadagni di
conto capitale. Gli agenti si indebitano cioè nella
speranza di una rivalutazione del valore delle attività in
cui investono, quali azioni, immobili, e così via. A un
certo punto, sostiene Minsky, si dovrà determinare un
crollo di questo castello di indebitamento, crollo per lo
più originato da un repentino, drastico e inatteso aumento
dei tassi di interesse deciso dalla Banca Centrale.
Minsky formulò questa interpretazione negli anni Sessanta,
per spiegare la Grande Crisi. La risposta 'keynesiana', utile per
impedire la deflazione da debiti e l'avvitamento verso il basso
dell'economia reale, è quella dove la Banca Centrale svolge
il ruolo di prestatore di ultima istanza (immettendo nel sistema
liquidità senza limiti e ad un basso tasso di interesse), e
dove il governo spende in disavanzo (finanziando l'eccesso sulle
imposte con nuova moneta). Non si tratta solo di una spesa per
incrementare direttamente la domanda effettiva, come nella lettura
del keynesismo più tradizionale. Il punto di vista di
Minsky è che il governo in questo modo fornisce anche
'contante', entrate di cassa che migliorano la posizione
finanziaria delle imprese e delle banche.
Gli anni Sessanta erano ancora anni di relativa stabilità,
le crisi finanziarie sembravano storia del passato. Minsky
intuisce però che l’instabilità finanziaria in
realtà non è affatto scomparsa, e che si
riproporrà, ma sotto altre vesti. Ciò che è
avvenuto negli anni Settanta ha per molti versi confermato le
previsioni dell'economista statunitense. La risposta iniziale alla
'crisi sociale' accoppia l'inflazione (per erodere le conquiste
salariali, ma anche l'aumento nominale del prezzo delle materie
prime) e la deflazione (per attaccare l'occupazione, ma anche per
tenere sotto controllo l'inflazione). Agli scivolamenti nella
crisi si risponde, in una prima fase, ancora con espansione della
spesa e aumento dell'offerta di moneta. Il risultato è
stato la 'stagflazione'. Ancora in coerenza con Minsky, la Grande
Crisi 'non si ripete' grazie ad un Grande Stato
e una Grande Banca Centrale
(ma anche, aggiungeva, un Grande
Sindacato).
L'intervento attivo della politica economica, ma anche gli
stabilizzatori automatici, determinano un 'pavimento' più
elevato alla crisi. Questo però ha significato, sempre
secondo le linee del ragionamento
di Minsky, non soltanto un aumento dei prezzi dei beni legato
all'aumento dei salari: ha significato pure una crescita più lenta rispetto al trentennio postbellico,.
Questo stato di cose ha comportato, a partire dagli anni Ottanta,
una vera e propria svolta ad U nella politica economica, che si
pone l'obiettivo di comprimere violentemente l’aumento dei prezzi
e dei
salari, e accetta di imporre altrettanto violentemente una
riduzione dell’attività produttiva. Il centro di queste
politiche c.d. 'monetariste' erano la pretesa di controllare
rigidamente l'offerta di moneta,
l'attacco alla spesa pubblica (in primo luogo sociale), l'attacco
al lavoro. Da questo punto in poi, a me pare, la dinamica
capitalistica e la stessa instabilità finanziaria non
possono essere più comprese
pienamente se ci si attiene strettamente al modello originario di
Minsky - anche se, va aggiunto, l'ultimo Minsky ha fornito alcuni
suggerimenti interpretativi di grande interesse per comprendere il
nuovo
scenario. Si tratta della transizione a ciò che egli chiama
il money manager capitalism, che corrisponde a quello che autori
francofoni definiscono come le capitalisme patrimoniale, e che qui
viene ribattezzato come 'sussunzione reale del lavoro alla finanza
e al debito'.
La prima fase del neoliberismo: la svolta neo-conservatrice del
monetarismo e la crisi mancata
Prima di entrare nel dettaglio della sussunzione reale del lavoro
alla finanza e al debito è bene rilevare che il 'colpo di
stato' nella politica economica promosso da Volcker, Reagan e
Thatcher avrebbe dovuto
inverare, ben al di là di un capitalismo stagnazionistico,
il ritorno di una Grande Crisi per insufficienza di domanda
effettiva. La riduzione dell’offerta di moneta ha fatto in effetti
schizzare verso l’alto i tassi di interesse (nominali e reali) e
dunque cadere gli investimenti privati. L’attacco al lavoro ha
compresso il salario come quota, e talora lo stesso salario reale,
facendo declinare la quota dei consumi derivanti dal reddito. I
tagli al welfare avrebbero dovuto accompagnarsi ad una drastica
flessione della spesa dello stato. Visto che gli imprenditori non
producono per il magazzino ma per vendere sul mercato a prezzi
adeguati a garantire la valorizzazione del capitale, il quesito
è come questo primo capitalismo 'neoliberista' si sia
procurato gli sbocchi. La risposta da dare qui è non
è molto lontana da una risposta alla Sweezy: v’è
stata una controtendenza politica. Si è evitata la crisi
con una 'svolta nella svolta', con il doppio disavanzo di Reagan a
metà degli anni ‘80: il disavanzo nei conti dello Stato
(che fu trainato anche, se non soprattutto, dalla nuova spesa
militare) e il disavanzo nei conti con l'estero (che fece degli
Stati Uniti, e più in generale del capitalismo
anglosassone, la locomotiva dell'area capitalistica, e fu
così anche in grado di fornire domanda ai capitalismi
'neoliberisti' di altre aree del pianeta).
Questa lettura qualifica però il capitalismo neoliberista
come un capitalismo segnato prevalentemente dalla tendenza
stagnazionistica. E' questa idea di un capitalismo 'asfittico' ad
essere dominante anche
nelle narrazioni tanto marxiste ortodosse (da caduta tendenziale
del saggio del profitto di tipo tradizionale) quanto keynesiane o
neoricardiane (nella versione sottoconsumista cara ad altri
marxisti). Dalla metà degli anni Novanta essa con tutta
evidenza non regge più. Non spiega l'emergere di un
capitalismo dinamico e vivace in molte aree del pianeta, se si
escludono il Giappone, in preda ad una lunga deflazione, e
l'Europa, nelle doglie del parto della moneta unica e sotto il
giogo di politiche restrittive. Il periodo 1995-2007, in
particolare, è dapprima segnato dalla new economy, e poi
dall'esplosione della Cina, in un quadro che sfugge alle
interpretazioni correnti. La sfida è dunque quella di
formulare, come è tipico della lezione di Marx, una visione
di questo 'nuovo' capitalismo che dia conto, ad un tempo, della
sua ascesa e della sua crisi. A questo fine è utile tornare
allo spirito dell'ipotesi della instabilità finanziaria di
Minsky, se non alla sua lettera.
La sussunzione reale del lavoro alla finanza e al debito, il
risparmiatore maniacale e il consumatore indebitato
Una caratteristica centrale e paradossale dell’ultimo capitalismo
è il primato dei piccoli risparmiatori.
Organizzati in fondi istituzionali, tra cui i fondi pensione, i
loro soldi e il loro risparmio vitale viene gestito da money
manager in una ottica di 'valorizzazione' (qui nel senso di
valorizzazione del capitale
fittizio) che ha un orizzonte di breve termine. E’ una situazione
storicamente nuova, una situazione nella quale sono sì gli azionisti a dominare sui manager,
ma all’interno degli azionisti sono i piccoli azionisti a contare
più dei grandi azionisti, beninteso in forma alienata, per
il tramite appunto dei money manager. Ciò che altrove ho definito il 'capitalismo dei
fondi pensione' ha significato un enorme afflusso di denaro sui
mercati finanziari, e azionari in particolari.
Allo stesso
fenomeno hanno contribuito le privatizzazioni dei beni pubblici, e poi dei beni comuni (le c.d.
nuove enclosures). Ciò ha comportato a sua volta una
accentuata crescita dei prezzi delle azioni, e ha fatto sì
che le imprese non finanziarie potessero finanziarsi con l’equity, cioè con titoli di
proprietà, senza ricorrere all’indebitamento. Le imprese
sono riuscite a collocare facilmente le loro azioni ad alti
prezzi, quindi si potevano finanziare a basso costo. Questo nella logica del modello di Minsky sarebbe in
verità un elemento stabilizzante, non destabilizzante: e
così è in effetti stato nella sostanza per molti
anni, una volta che si tenga conto di mutamenti istituzionali e della politica economica. Vediamo in che
senso.
Su scala internazionale si erano andate determinando due
condizioni istituzionali che facilitavano l'esplosione della
finanziarizzazione nella sua nuova forma: il doppio disavanzo
degli Stati Uniti sotto la
presidenza Reagan, negli anni Ottanta, e la lunga deflazione
giapponese, negli anni Novanta. A questo si aggiungeva la risposta
della Federal Reserve alla grave crisi borsistica del 1987, che
chiariva che il nuovo
governatore di quella banca centrale era disposto a renderla una
prestatrice di prima istanza ogni qual volta i mercati fossero
messi a rischio nei loro guadagni speculativi. I mercati erano
periodicamente
inondati di liquidità, l'offerta di moneta si faceva sempre
più espansiva anche grazie al Greenspan put, e dal Giappone
iniziava un sistematico carry trade (un arbitraggio consistente
nell'indebitarsi in yen, a bassissimi tassi di interesse, per
investire altrove, con rendimenti più elevati). Non solo lo
squilibrio sui mercati finanziari, ma anche quello nelle bilance
correnti, tendeva a riprodursi invece di essere eliminato dalle
reazioni supposte spontanee del puro meccanismo economico.
La corsa verso l'alto dei prezzi dei titoli sui mercati azionari
in un contesto di globalizzazione finanziaria e di libertà
pressoché illimitata dei movimenti dei capitali ha dato
origine a quella che può ben essere descritta come una fase
'maniacale' dei risparmiatori. Si origina di qui un paradosso. Se
le attività rendono sempre più, il risparmio sul
reddito da lavoro tende a svanire, e fa emergere la figura del
consumatore 'indebitato'. E' quest'ultimo, in effetti, ad aver
trainato la crescita degli Stati Uniti, e come abbiamo detto sono
stati gli Stati Uniti e gli altri paesi del capitalismo
anglosassone (eccetto il Canada) a divenire gli acquirenti finali
dei modelli neomercantilisti in giro per il modo (ai vecchi
protagonisti come il Giappone, la Germania, l'Est asiatico, si
sono aggiunti nell'ultimo decennio alcuni altri paesi emergenti,
ma soprattutto la Cina).
Il lavoratore traumatizzato e la centralizzazione senza
concentrazione
Il risparmiatore in fase maniacale come il suo alter ego, il
consumatore indebitato, sono due figure per niente sganciate dalle
trasformazioni delle condizioni del lavoro. Sono anzi a ben vedere
l'inevitabile contrappasso del 'lavoratore traumatizzato'. L’espressione fu
impiegata da Greenspan alla metà degli anni Novanta, almeno
secondo il racconto di chi ha riportato la giustificazione che il
governatore della Banca Centrale statunitense dette allora a chi,
nel 1995, era fronte di una caduta del tasso di disoccupazione al
di sotto del 6% (il preteso tasso 'naturale' di disoccupazione)
premeva per un aumento del tasso sui federal funds. Greenspan non
soltanto registrava un cambiamento strutturale dovuto
all'innovazione tecnologica, ma faceva riferimento anche alla
trasformazione nel mercato e nel processo di lavoro, a quel
drammatico cambiamento sociale dovuto al primo neoliberismo, ma
anche al crollo del socialismo reale. Non soltanto la
produttività stava aumentando più di quanto
potessero registrare i dati che guardavano al passato, ma la
stessa frammentazione del lavoro dovuta alle politiche di
ristrutturazione e al raddoppio dell'esercito industriale di
riserva su scala planetaria indebolivano quel legame inverso fra tasso di disoccupazione e tasso di aumento dei
salari, che va sotto il nome di 'curva di Phillips'. Quest'ultima
si era molto appiattita: ad una diminuzione del tasso di
disoccupazione non corrispondeva cioè più
un’accelerazione dei salari. Era
dunque possibile spingere verso
l'alto la produzione senza che i salari aumentassero. In questo contesto
giocava anche la possibilità sempre maggiore per i
consumatori americani di acquistare beni a basso costo, visto che
il dollaro si rivalutava, ma soprattutto che arrivavano beni a basso costo non solo dai
paesi dell’Est asiatico ma anche dalla Cina. Poteva tornare la
piena occupazione: meglio, la piena sotto-occupazione di lavori
precari; un lavoro precario nel quale cresceva il peso del lavoro migrante.
La trasformazione delle condizioni del lavoro era anche il
prodotto di una vera e propria ‘centralizzazione’
senza ‘concentrazione’: un fenomeno
inedito rispetto al mondo immaginato dall'autore del Capitale. L’unità tecnica di produzione si
è spesso ridotta. Anche senza ‘concentrazione’, il comando
tecnico, finanziario e produttivo ha continuato comunque a
‘centralizzarsi’, con fusioni e acquisizioni. Le unità produttive sono state connesse ‘in
rete’, lungo filiere transnazionali, stratificate secondo una
gerarchia interna dei diversi moduli. Nel frattempo si determinava
in alcuni settori un eccesso di offerta strutturale, esito di una
concorrenza sempre più aggressiva tra i global player.
Tutto ciò contribuiva evidentemente a tenere il mondo del
lavoro nella morsa dell’insicurezza e della precarizzazione.
Questi mutamenti hanno accompagnato una metamorfosi nella natura
stessa del lavoro. La volatilità dei mercati, la domanda
sempre più di sostituzione che si rivolge ai beni di
consumo di massa, i nuovi
bisogni, hanno fatto della 'qualità' del prodotto – ma
dunque anche della prestazione lavorativa – un asset competitivo.
Il capitale pretende più 'qualità' dal lavoro. Si
devono creare valori d’uso 'sociali', che si possano vendere sul
mercato, e ciò non può non incidere sul lavoro
'concreto' prestato dal lavoratore collettivo. Si vuole un lavoro
sempre più attivo, con un contenuto intenzionale maggiore.
Si è passati da procedure e norme di rendimento definite ‘a
priori’ in un contesto organizzativo e tecnologico stabile – la
produzione come un ‘piano’ da eseguire
secondo sequenze rigide - alla produzione
come un ‘compito’ da realizzare con flessibilità .
Questo non soltanto ha reso in alcuni casi obsoleto il controllo
diretto sul lavoro di tipo taylorista-fordista. Esso ha anche
potentemente favorito l’ ‘esternalizzazione’, la
‘terziarizzazione’, l’affermarsi di una governance che tratta i
singoli spezzoni del ciclo del prodotto aziendale come ‘aziende’
indipendenti. Dentro l’organizzazione si è andata dilatando
la logica di mercato, così come dentro il lavoro salariato
la prestazione di lavoro talora assomiglia al lavoro ‘autonomo’ e
formalmente ‘indipendente’. Il controllo del capitale sul lavoro
può assumere la parvenza del controllo dei lavoratori su se
stessi. La valorizzazione del capitale può mascherarsi da
autovalorizzazione del lavoro.
Il maggiore o minore grado di qualificazione tollerabile, o
persino richiesto, dal sistema dipende sempre in effetti da vari
fattori, quali il controllo dei lavoratori sulla propria
prestazione, la loro possibilità
concreta di esercitare un conflitto,
la loro integrazione nell’organismo
della produzione, la frammentazione del mercato del lavoro, le fluttuazioni del mercato
dei prodotti, la volatilità dei mercati finanziari, e
così via. Proprio per questo il comando sul lavoro, pur
sempre essenziale, deve essere ogni volta ridefinito nelle diverse forme storiche assunte
dall'accumulazione capitalistica. Il lavoro 'astratto'
capitalistico non è affatto un lavoro dequalificato o
deconcretizzato. L’ 'autonomia' maggiore del lavoro è in
alcune congiunture un dato reale: ma, dove è stata
concessa, ha dovuto essere inevitabilmente parziale e limitata.
Nei decenni più recenti ciò è stato ottenuto
non soltanto attraverso la ‘mercatizzazione’ dell’organizzazione e
il continuo smembramento, virtuale o reale, dei processi
produttivi, ma anche attraverso la pressione, vera o presunta, di
vincoli dal lato della finanza pubblica o della mobilità
dei capitali. Da questo angolo visuale l’appiattimento dei livelli
gerarchici e la riduzione del controllo diretto sono stati una
funzione inversa di un controllo 'sistemico' maggiore, favorito
dalla accresciuta incertezza dei mercati.
La frammentazione del lavoro di cui si sta dicendo non è
affatto indipendente dall’inclusione del lavoro dentro la finanza,
perché sono gli stessi elevati rendimenti pretesi dalla
finanza a costringere le imprese
a indirizzarsi sempre di più su questa strada. Sono gli
stessi fondi istituzionali, e in primis i fondi pensione, a imporre dei criteri di corporate governance che
favoriscono le misure di riduzione dell’occupazione e di
diminuzione del salario, a condizione che ciò dia luogo
all’aumento del valore delle azioni. In modo simile vanno le cose per quel che riguarda i
comportamenti dei fondi, per esempio i private equity, i quali
acquistano a debito e smantellano le imprese. Il risparmiatore in
fase
maniacale che si fa consumatore indebitato contribuisce dunque a
determinare quei processi che hanno il lavoratore traumatizzato
come loro prodotto, e incidono concretamente sui modi
dell'estrazione del
plusvalore. Per questo la sussunzione del mondo del lavoro alla
finanza e al debito non è più solo 'formale', ma si
fa anche pienamente 'reale'.
La seconda fase del neoliberismo: un paradossale keynesismo
privatizzato
Risparmiatore maniacale e consumatore indebitato spiegano
però pure come in un mondo di bassi salari si sia avuta una
dinamica capitalistica accelerata che non ha incontrato
difficoltà dal lato della
domanda effettiva. La crescita del prezzo delle azioni, tipica
della new economy tra il 1995 e il 1999, determinava un 'effetto
ricchezza', per cui la domanda di consumo (e allora anche la
domanda di investimento) crescono significativamente, favorendo la
realizzazione del plusvalore. L'indebitamento crescente è
innanzi tutto privato, non pubblico: negli Stati Uniti, sotto la
presidenza Clinton, il debito pubblico tende addirittura a
contrarsi. Il debito privato, peraltro, tende ad essere sempre
più il debito dei consumatori (e delle imprese
finanziarie): non, come nella versione tradizionale di Minsky, il
debito delle imprese non finanziarie. Dunque, la crescita negli
Stati Uniti (ma di rimbalzo nel mondo) non è stata trainata
dalla spesa pubblica, né tanto meno dalle esportazioni, e
ancor meno ovviamente dal consumo salariale. Solo in parte vi
hanno contribuito gli investimenti privati, nella new come nella
old economy. Lo sviluppo di quegli anni lo si deve soprattutto se
ci si riferisce al consumo a debito delle famiglie americane.
Non si deve evidentemente farsi sviare da una sorta di illusione
ottica e credere alla leggenda secondo cui negli Stati Uniti le
famiglie sarebbero state all'improvviso investite da un
particolare benessere.
Tutt'altro. Il salario reale individuale in quel paese è
rimasto pressoché stazionario dalla metà degli anni
Settanta, quando non è addirittura scivolato verso il
basso. Il reddito familiare è sì lievemente
cresciuto, ma solo perché più persone dello stesso
nucleo sono state occupate, e dunque anche a causa della
'femminilizzazione' del mercato del lavoro e dell’allungamento
dell’orario di lavoro. È cambiata anche la struttura della
spesa: alcune voci si sono certamente ridotte, non solo per il
progresso tecnico ma anche per il minor costo dei beni importati,
e dunque per l'intreccio tra plusvalore relativo ed assoluto in
altri paesi. Sono però aumentate le spese fisse legate alla
salute, all’abitazione, all’educazione dei figli, ecc. In altri
termini, l’indebitamento delle famiglie è stato in qualche
misura un indebitamento obbligato.
Negli anni Novanta, e ancor più nel decennio successivo, le
innovazioni finanziarie hanno consentito che questo indebitamento
potesse essere acceso a costi sempre minori. Nello stesso senso
spingeva la politica monetaria di Greenspan, che ha dunque dovuto
divenire progressivamente nel tempo ancora più espansiva.
Visto che non vi era pressione sui prezzi dal lato dei salari, la
politica monetaria si sentiva peraltro sempre più libera
nel sostegno alla corsa verso l’alto del prezzo delle
attività, a dispetto del rischio percepito che sui mercati
vigesse quella che lo stesso Greenspan definì allora una
'euforia irrazionale'.
Se ne può concludere che la terna lavoratore
spaventato-rispamiatore maniacale-consumatore indebitato si
è potuta dispiegare pienamente solo grazie ad un
neoliberismo che non era niente affatto 'liberista', mostrandosi
anzi particolarmente attivo sul terreno della politica economica.
Questo peraltro si potrebbe dire anche della fase strettamente
monetarista. Il neoliberismo ha però con il tempo mutato
pelle, fino all'essere caratterizzato da una tendenza alla piena
occupazione e da una gestione della politica economica di sostegno
politico della domanda. Solo che il primo corno, la piena
occupazione, si
inverava come crescente precarietà e espansione dei working
poor, mentre il secondo corno, il sostegno alla domanda, si dava grazie ad una politica monetaria che aveva
trovato i canali per incidere direttamente in senso espansivo sui
consumi. Un po' provocatoriamente lo potremmo definire un keynesismo finanziario 'privatizzato', dove la crescita della
domanda di merci (l'economia 'reale') dipende
dalle bolle nei prezzi delle
attività (l'economia 'finanziaria'),
e queste dall'atteggiamento
compiacente della Banca Centrale. Un asset bubble driven
Keynesianism.
Il problema di un meccanismo del genere è che non solo
è instabile, è anche insostenibile. Abbiamo visto
come l'instabilità sia rimasta a lungo nascosta, e anzi si
sia diffusa l'impressione opposta di una
economia non soltanto sempre più dinamica ma addirittura
sempre più stabile. Non a caso si è parlato di
questi decenni come del periodo della Grande Moderazione.
Ciò ha però significato che quando
l'insostenibilità si è infine manifestata,
ciò è avvenuto con il ritorno virulento di una nuova
Grande Crisi, nella forma per ora di una Grande Recessione.
Dalla crisi delle dot.com alla crisi dei subprime: il ritorno
della crisi 'sistemica'
Per la verità, a ciò ha contribuito il fatto che il
'nuovo' capitalismo, che ancora una volta proclamava baldanzoso di
avere debellato il ciclo, pareva avere superato senza gravi danni
lo sgonfiamento della
bolla delle dot.com, che inizia già nella primavera del
2000, ben prima dell'attacco di Al Qaeda alle Torri Gemelle.
Quando le cose cominciano ad andare male, quando si passa
dall’euforia al panico, il risparmiatore dalla fase 'maniacale'
scivola in quella 'depressiva'. E' forzato a rientrare dal debito,
ad aumentare rapidamente
il risparmio. A fare ciò che la teoria economica predica
come una virtù. In momenti del genere, però, le
autorità di politica economica e la gran parte degli
economisti, persino quelli ortodossi, cercano di convincerlo a fare il contrario, e lo invitano a continuare a
spendere. Il passaggio dal risparmiatore in fase maniacale a
quello in fase depressiva lo si è intravisto, ma solo come
tendenza, come rischio, fra il 2000 e 2001. La crisi economica era
cominciata in borsa, e ad essa aveva contribuito l’aumento del
tasso di interesse deciso dalla Federal Reserve nel 1999. La bolla
tecnologica si è sgonfiata, e a questo si è
aggiunta, a partire dal caso Enron, quella che fu definita la
crisi etica del capitalismo. Nel frattempo l’11 settembre
provvidenzialmente consentiva che si potesse dare alla crisi una
risposta classica da keynesismo di guerra: immettendo nel sistema
liquidità a basso tasso di interesse, e insieme aumentando
la spesa militare e per la sicurezza, sino alla guerra in Iraq ed
oltre. Ma ciò ha fornito un pavimento alla crisi,
più che essere la ragione ultima della ripresa. Infatti –
certo anche grazie ai tassi di interesse mantenuti stabilmente
molto bassi da Greenspan - stava in realtà ripartendo il
meccanismo del 'nuovo' capitalismo per cui la crescita reale viene
determinata dal dilatarsi di bolle speculative, stimolate dalla
politica monetaria. Mentre sino al 2000 la speculazione era stata
prevalentemente sul mercato finanziario, ora essa si spostava
prevalentemente sul mercato immobiliare.
In questi primi anni del terzo millennio si è avuta la
massima vivacità sul terreno delle innovazioni finanziarie.
E' contemporaneamente venuta a termine una trasformazione radicale
del sistema bancario, incubata nei decenni precedenti. Chi
concedeva un debito era in grado di 'cartolarizzare' l'attivo
corrispondente, vendendolo a qualcun altro, e così
liberandosi individualmente della corrispondente passività.
Progressivamente queste cartolarizzazioni hanno condotto a
'impacchettamenti', sicché si potessero vendere degli
interi pacchetti di titoli cartolarizzati, caratterizzati da gradi
di rischio differenziati. In questo modo si potevano spremere dei
margini più elevati di guadagno in un mondo di bassi tassi
di interesse. Grazie alle innovazioni finanziarie si riteneva che
i diversi rischi fossero assunto volontariamente e coscientemente
da soggetti in grado di valutarli correttamente. In realtà
il meccanismo era diventato così complesso e opaco che ci
si finiva con l'affidarsi al giudizio delle agenzie di rating, che peraltro non capivano esse stesse cosa coprissero i
nuovi strumenti finanziari, quando non erano addirittura colluse
con chi li emetteva. L'intero castello di carta della nuova
finanza faceva capo, quali che fossero le apparenze, alle stesse banche.
La trasformazione del sistema bancario è dunque una
transizione dalla banca che 'seleziona' il debitore, lo 'monitora'
o controlla, e che mantiene le passività del proprio
cliente nel suo bilancio per tutta la durata del rapporto, alla
banca che invece 'origina' un titolo e immediatamente lo
'distribuisce' altrove, o meglio lo disperde nell’ambiente, come
un rifiuto tossico. Questo processo, incentrato sui contratti
'derivati', ha accelerato a dismisura l’esplosione dei titoli,
della cartolarizzazione, delle garanzie, delle assicurazioni
finanziarie. Sotto l'apparenza di una maggiore resilienza del
sistema andava covando una fragilità sempre più
marcata del sistema bancario: non soltanto perché la leva
del finanziamento era sempre più elevata, ma anche
perché si veniva a dipendere da debitori ultimi che non
erano più imprese reputate solide, ma famiglie costrette ad
un debito crescente periodo dopo periodo. Un debito che poteva
essere giustificato solo da ulteriori rialzi nei prezzi delle
attività: una tipica posizione ultraspeculativa, o Ponzi,
nella tassonomia di Minsky.
A consentire che la corsa continuasse dopo il 2004-5, quando i
tassi di interesse riprendevano a salire, è stata
l’esplosione dei mutui subprime. Ciò ha significato
l'inclusione nel mercato finanziario delle famiglie più
povere: l'opacità del sistema nascondeva che ormai la
solvibilità nel sistema monetario e finanziario finiva con
il poggiare sulla capacità di pagamento dei settori sociali
che erano in condizione di massima debolezza. La fragilità
delle banche e la fragilità dei debitori ultimi poteva
essere controbattuta solo a condizioni che titoli e immobili si
rivalutassero costantemente. Un rialzo dei tassi di interesse
può essere infatti ritenuto irrilevante se la
possibilità di ripagare i debiti e di speculare ancora al
rialzo viene dai guadagni attesi in conto capitale. A un certo
punto però il prezzo delle case è crollato, e
ciò ha mandato in crisi prima il mercato dei subprime, e
poi il resto del sistema finanziario, per la sfiducia reciproca
che dilagava tra banche e operatori finanziari. E' così che
nel giro di un anno la crisi finanziaria è diventata crisi
reale, prima negli Stati Uniti, poi nel resto del pianeta. Il
sostegno pubblico alla finanza e alla domanda, e in parte
all'occupazione, che è stato necessario attivare è
stato a questo punto di dimensioni massicce, pari a quelle
necessarie a finanziare un conflitto mondiale.
Conclusioni
La ragione di fondo della crisi non è né solo
finanziaria, né solo reale. Non sta né nei bassi
salari, né nella finanza perversa. Sta piuttosto in una
interazione tra ristrutturazione dei processi di estrazione di
plusvalore, da una parte, e inclusione subalterna delle famiglie
dentro il capitale, dall'altra. Precarizzazione e
finanziarizzazione, le due armi gemelle con cui si era risposto
alla crisi sociale degli anni Sessanta e Settanta, hanno prodotto
una 'centralizzazione senza concentrazione' e una 'sussunzione
reale del lavoro alla finanza e al debito' che, prima, hanno
prodotto una crescita reale drogata, poi hanno determinato il
ritorno della instabilità e la fine di quel modello.
Non si può dire che si sia ancora usciti da questa crisi, e
neppure disegnare i lineamenti generalissimi del nuovo modello. In
realtà, la fine del neoliberismo così come lo
abbiamo conosciuto è stata gestita dagli
stessi neoliberisti. Ciò è vero anche dove la
frattura con la vecchia politica economica è più
stata netta, dove cioè si è data una sia pure perversa
socializzazione della finanza e dell'occupazione, fino ad alludere
ad una socializzazione dell'investimento. Quello che è
certo è che la dinamica del capitale ha segnato un salto ulteriore dell'inclusione dentro il capitale (a
dominante finanziaria) delle condizioni della riproduzione
sociale: non soltanto il consumo e il risparmio vitale, ma anche
l'abitazione, la salute, l'educazione, le risorse naturali.
Le questioni di un diverso modo di lavorare e di un diverso modo
di organizzare la riproduzione come condizioni dell'uscita da
questo mulinello sempre più infernale tornano per questo
più attuali che mai.
La sfida è ancora quella di riattivare un conflitto di
classe che si prolunghi in un intervento di politica economica –
ma in realtà politico tout court - che ponga in primo piano
la questione di una ridefinizione
strutturale dell’offerta oltre che della domanda, e dello stesso
modo in cui si svolge l'attività umana.
Con sorpresa di tutti, anche di una sinistra che fugge dal lavoro
o si riduce alla dimensione redistributiva, una Grande Crisi,
dunque una dura 'oggettività' sociale, ha rimesso sul
tappeto, fuori da ogni crollismo meccanicistico, l'alternativa di Rosa Luxemburg:
'socialismo o barbarie'.
Nota Bibliografica
Visti i limiti di spazio, mi atterrò solo ad alcuni
riferimenti principali, e per così dire minimali,
privilegiando il filone marxista rispetto a quello keynesiano. Per
una prima ricognizione sul tema Marx e
la crisi, sia nel senso della teoria della crisi in Marx, che
della possibilità di impiegare Marx per l’analisi della
crisi corrente, si può vedere l’ottimo Karl Marx, Il
capitalismo e la crisi, a cura di Vladimiro Giacché,
DeriveApprodi, 2009. Si tratta di una lettura in parte diversa da
quella qui condotta (ma meno di quanto appaia a prima vista).
Ancora oggi di grande utilità è l’altra antologia a
cura di Lucio Colletti e Claudio
Napoleoni, Il futuro del capitalismo. Crollo o sviluppo?, Laterza,
1970, che contiene testi, oltre che di Marx e del marxismo, anche
di autori appartenenti ad altre correnti – si vedano, in
particolare, le introduzioni
di Colletti ai testi di autori marxisti e la sua introduzione
generale al volume, tra le sue cose migliori. Sia consentito anche
il rimando a “Teoria del valore, crisi generale e capitale
monopolistico. Napoleoni in dialogo con Sweezy”, Quaderni
Materialisti, vol. 7-8, di chi scrive.
Buone rassegne in inglese sulla teoria della crisi marxiana sono
l’articolo di Anwar Shaikh, An Introduction to the History of
Crisis Theories (1978), un autore simpatetico alla caduta
tendenziale del saggio del profitto, e il libro di Simon Clarke,
Marx’s Theory of Crisis, Macmillan (1994), disponibili entrambi
sul sito www.countdownnet.info curato da Antonio Pagliarone. Sulla
Luxemburg si veda il volume da me curato Rosa Luxemburg and the
Critique of Political Economy, Routledge, 2009, e il saggio di
Joan Robinson nell’antologia di Colletti-Napoleoni già
citata. Importanti, di Paul Mattick, Marx e Keynes De Donato, 1972
e Crisi e teorie della crisi, Dedalo, 1979; come anche, di Henryk
Grossmann, Il crollo del capitalismo. La legge dell'accumulazione
e del crollo del sistema capitalista, prefazione di Rocco
Buttiglione, Jaca Book, 1976, e ancora di più Marx,
l’economia politica classica e il problema della dinamica,
Laterza, 1971.
Riprende per gli anni Sessanta e Settanta del Novecento la sua
lettura in termini di esercito industriale di riserva e
compressione dei profitti per la lotta sul salario Andrew Glyn nel
suo bel Capitalismo scatenato.
Globalizzazione, competitività e welfare, Francesco
Brioschi Editore, Milano 2007 (ma il sottotitolo dell’edizione
originale non parla di competività ma di finanza, prima
della globalizzazione!), che è una ottima introduzione al
capitalismo contemporaneo. Per una lettura incentrata sulla crisi
nella valorizzazione immediata si veda invece il mio “I lunghi
anni Settanta. Crisi sociale e integrazione economica
internazionale”, in Le radici della crisi. L’Italia tra gli anni
Sessanta e gli anni Settanta a cura di Luca Baldissara, Carocci,
2001. Per il periodo successivo si vedano i miei articoli sulla
rivista del manifesto, e successivamente i miei successivi saggi
con Joseph Halevi.
Sulla crisi attuale, la migliore lettura ‘sottoconsumista’
è quella di Emiliano Brancaccio, di cui vedi La crisi del
pensiero unico, Franco Angeli, 2° edizione, 2010. Ha provato
una lettura in termini di caduta del saggio del profitto Stefano
Perri al convegno The Global Crisis, tenutosi a Siena a gennaio
del 2010, in Ritorno al futuro? La caduta tendenziale del saggio
di profitto, tra teoria e evidenza empirica.
Alla caduta del saggio di profitto si rifanno Andrew Kliman, Alan
Freeman e Guglielmo Carchedi. Numerosi i materiali che possono
essere reperiti on-line. Diversi, e a mio parere più
condivisibili, gli interventi di altri marxisti, che qualificano
fortemente la ‘caduta’ per i decenni più recenti. Cfr. p.
es. gli scritti di Gerard Duménil e Dominique Lévy,
Fred Moseley, Simon Mohun, Michel Husson, Alain Bihr,
Costas Lapavitsas, lo stesso Anwar Shaikh; ma si vedano anche le
visioni contrastanti di Chris Harman François Chesnais; e
si potrebbe continuare l’elenco. Di un certo interesse i recenti e
meno recenti
lavori di Ben Fine sulla finanziarizzazione, e quelli di Robert
Brenner sul long downturn. Giustamente,
Paul Mattick jr, un autore favorevole alla caduta del saggio del
profitto, contesta radicalmente il mito che essa, come in genere
la teoria marxiana, possa mai essere ‘confermata’ dall’evidenza
empirica così
come si dà alla superficie della realtà economica.
Per tutti questi autori si rimanda il lettore alla ricerca sui
siti web.
Per quel che riguarda una interpretazione almeno
in parte minskyana della crisi, si rimanda
alla introduzione di chi scrive a Hyman P. Minsky, Keynes e
l’instabilità del capitalismo, Bollati Boringhieri, 2010.
Per una lettura che incrocia la lettura marxiana con quella
minskyana, e dà pari peso agli aspetti
monetario-finanziari e a quelli relativi alla produzione e al
lavoro, si vedano di nuovo i miei lavori con Halevi dal 2005 in
poi. Per tutti, e da ultimo, la nostra relazione al convegno di
Siena su The Global
Crisis, che viene pubblicata in versione ampliata su Critica
Marxista, n. 2-3, 2010: “La Grande Recessione e la Terza Crisi
della teoria economica”.
Per una introduzione alla crisi 2007-9 consiglio il libro di Paul
Mason, economics editor di BBC newsnight,
Meltdown. The end of the age of greed (reso anonimamente con La
fine dell’età dell’ingordigia. Notizie sul crollo
finanziario mondiale, Bruno Mondadori 2009). Mason è un non
marxista, simpatetico alle idee di Minsky,
e con un talento per la divulgazione. E conosce il linguaggio
della lotta di classe. Basta vedere il suo altro libro,
naturalmente non tradotto, e che lo meriterebbe: Live Working or
Die Fighting. How the Working Class Went Global, Vintage 2008.