Auguste Cornu

Karl Marx - L'uomo e l'Opera

Dall'hegelismo al materialismo storico (1818-1845)
La Nuova Biblioteca, Milano 1946

Introduzione alla lettura

Nel riportare l'Antologia degli scritti politici giovanili di Marx, ho sottolineato che la trasformazione, avvenuta nel giro di pochi anni (dal 1842 al 1845) di un giovane esuberante, di tendenze illuministiche, hegeliane e liberal-democratiche (all'epoca progressiste), in un teorico militante della lotta contro il Capitalismo, interpretato come una nuova forma di opressione dell'uomo sull'uomo, è uno dei nodi più densi dell'esperienza umana e intellettuale di Marx. A questa trasformazione è dedicato il libro di Cornu, pubblicato nel 1946, e ormai introvabile.

Nonostante l'approccio di Cornu sia quello di un filosofo, si tratta di un filosofo marxista, molto attento dunque a ricostruire sia lo sfondo economico-sociale sia il fermento politico e intellettuale che attraversava l'Europa poco prima del 1848. La ricostruzione degli scambi che Marx intrattiene con i Giovani Hegeliani, con i pensatori radicali dell'epoca e con i leader del nascente comunismo è di un'accuratezza filologica senza confronti, che rischia in alcuni momenti di apparire addirittura eccessiva.

Ciò che se ne ricava è che il giovane Marx, la cui natura è oppositiva, ardimentosa e bisognosa di grandi ideali, cerca insistentemente la sua via - una via che gli consenta di dare spazio alla volontà di lottare per fare fuoriuscure l'umanità dalla sua preistoria, caratterizzata dall'oppressione dell'uomo sull'uomo - e, quando la trova, si dedica ad essa anima e corpo.

Il tragitto umano e intellettuale di Marx è un esempio straordinario di individuazione, ancora più se si considera che egli pone il suo genio al servizio dell'umanità.

E' singolare che Cornu non faccia cenno ai Manoscritti economico-filosofici del 1844, che, quando il saggio è stato scritto, erano usciti da qualche anno. Mi riesce difficile spiegare questa omissione se non tenendo conto della scarsa importanza ad essi assegnata dal Comunismo ufficiale. In realtà sono i Manoscritti l'opera più importante del Marx giovanile, quella nella quale egli concde ampio spazio alla dialettica, che rappresenterà poi lo sfondo implicito di tutte le analisi de Il Capitale.

Giustamente nelle conclusioni Cornu scrive: "Se la dialettica non è altro che una forma del pensiero umano, si criticherà l'asprezza, l'angustia, l'intransigenza della dottrina di Marx, che deforma il reale per sottoporlo al processo dialettico; se invece la dialettica è la legge dell'evoluzione economica e sociale, si riconoscerà che il suo sistema deve ad essa la sua verità, la sua nitidezza, la sua potenza di attrazione e di azione."

Che cosa si può dire oggi a riguardo? Che una dialettica deterministica, la quale porrebbe alla storia un fine, di sicuro non esiste. Al tempo stesso, è difficile negare che continua a darsi, in tutte le società occidentali, un conflitto tra libertà e uguaglianza che sembra non comportare una possibile soluzione all'interno del sistema capitalistico. Non è detto, come pensava Marx, che tale conflitto sia sormontabile. Se dovesse essere sormontato, ciò non potrà avvenire che in termini dialettici, vale a dire sulla base del fatto che l'individuo libero è anche un individuo sociale, che la parte e il tutto sono le due facce di una stessa medaglia. Se non si vuole adottare più la parola Comunismo, sarebbe pur sempre una soluzione marxista.

Il testo è integrale. Ho purtroppo dovuto omettere le note abbondantissime e talora significative perché il carattere tipografico minuscolo ne impedisce la scansione.

CAPITOLO PRIMO
L'INFANZIA
L'AMBIENTE SOCIALE ED INTELLETTUALE CONVERSIONE ALLO HEGELISMO

L'infanzia di Karl Marx, nato a Treviri in Renania il 5 maggio 1818, trascorse durante il periodo di reazione che segui alla caduta di Napoleone. Il sistema della Santa Alleanza che pretendeva mantenere, contro le nuove forme di vita, uno stato di cose superato, era incompatibile con la profonda trasformazione economica e sociale che s'andava compiendo e che doveva necessariamente portare alla sua caduta. Questo conflitto tra il regime politico ed il sistema economico scoppiò dapprima nei paesi il cui sviluppo economico era più progredito, in Francia ed in Inghilterra, dove la Rivoluzione del 1830 e la riforma elettorale del 1832 assicurarono definitivamente il potere alla borghesia. In Prussia invece, dove questa era ancora molto debole, il conflitto si manifestò inizialmente con una lotta ideologica nel campo della letteratura, della religione e della filosofia, prima di assumere forma politica.

Questa lotta fu più viva nella provincia natale di Karl Marx, in Renania. Annessa alla Francia dal 1735 al 1814, essa aveva beneficiato delle riforme amministrative, politiche e sociali della Rivoluzione e dell'impero. Spezzettata fino ad allora in 97 Stati, i principali dei quali erano gli elettorati di Colonia, di Magonza e di Treviri, era stata divisa in quattro dipartimenti nei quali erano stati proclamati ed applicati i principi rivoluzionari [Dipartimenti della Ruhr, di Mont Tonnerre, del Reno e Mosella, della Sarre. Capoluoghi : Colonia, Coblenza, Magonza, Treviri]. Sotto la direzione e l'impulso di emeriti amministratori, come Merlin de Thionville, Hoche, Jean Bon Saint-André, Ladoucette, era passata, senza grandi urti, benché anche senza transizione, da un regime medioevale ad un regime di Stato moderno.

L'antica organizzazione feudale era stata distrutta, si era stabilita l'uguaglianza politica, giuridica e fiscale, erano stati soppressi privilegi, corvées e decime. Queste riforme erano state accompagnate da una profonda trasformazione del regime economico, che aveva sconvolto la struttura sociale della provincia. Il sequestro e la vendita dei beni della nobiltà e del clero avevano liberato il contadino, divenuto proprietario della terra; e in seguito a ciò l'agricoltura, i cui progressi erano stati impediti dai diritti signorili che pesavano sui contadini, e dall'esistenza di vasti domini ecclesiastici mal coltivati e male amministrati, era divenuta prospera e fiorente.

D'altra parte, l'instaurazione del regime di libertà economica che stimolava le iniziative private, l'abolizione dei regolamenti corporativi limitanti la produzione, e la soppressione dei dazi interni, avevano favorito lo sviluppo dell'industria e del commercio renano, i quali, beneficiando contemporaneamente dei vasti mercati francesi e della protezione contro la concorrenza inglese, assumevano in pochi anni una tale ampiezza che il prefetto Ladoucette poteva affermare con fierezza, nel 1810, che il dipartimento della Ruhr, da lui amministrato, era il più industriale di tutta l'Europa. Questo sviluppo economico aumentava la potenza della borghesia, che tendeva a sostituirsi come classe dirigente alla nobiltà spossessata dei suoi privilegi e delle sue terre. Si compiva cosi un lento e profondo mutamento delle classi sociali, che favoriva il riavvicinamento dei Renani alla Francia.

Esclusi i nobili, l'alto clero e alcuni intellettuali isolati, come Arndt, Goerres e i fratelli Boisserée, che aspiravano ai ritorno della Renania alla Germania, la massa della popolazione aveva aderito al nuovo governo, che aveva dato prosperità al paese, animandolo di una vita singolarmente contrastante con l'esistenza mediocre e sonnolenta che esso aveva condotto sotto la dominazione dei suoi vescovi e dei suoi principi. Perciò, malgrado le requisizioni e la coscrizione, che pesarono sulla Renania sempre più gravemente, quanto più numerosi ed urgenti divenivano i bisogni dell'esercito imperiale, i Renani accolsero senza entusiasmo la vittoria degli Alleati, che essi, del resto (tanto era grande il prestigio di Napoleone) credevano effimera; e quando, nel 1815, la Renania fu, con la Westfalia, annessa alla Prussia, si adattarono difficilmente a questa nuova dominazione che si risolveva per loro in un regresso politico, economico e sociale.

A dire il vero, dopo la disfatta di Jena, la Prussia, per la pressione degli avvenimenti e l'impulso di Stein, era entrata nella via delle riforme; aveva soppresso la servitù della gleba, decretato !a libertà del commercio e dell'industria, e accordato alle città un'autonomia abbastanza larga. Ma all'indomani della caduta di Napoleone, il re Federico Guglielmo III, desideroso di conservare il potere assoluto, cercò di limitare il più possibile questa riforma, e invece di concedere la Costituzione, che aveva solennemente promessa il 5 aprile 1815, si accontentò di creare Diete provinciali, con attribuzioni e poteri molto limitati. Questa reazione, che cominciò dopo la festa della Wartburg (18 ottobre 1817), manifestazione degli studenti in favore dell'unità e della libertà tedesche e contro il particolarismo e l'assolutismo dei principi, s'aggravò dopo l'assassinio, compiuto da uno studente fanatico, di Kotzebue, agente della Zar, che impersonava allora la controrivoluzione (23 marzo 1819). Federico Guglielmo III si staccò completamente dal partito riformatore e s'associò alle misure prese nell'ottobre 1819 dal Congresso di Karlsbad contro i demagoghi, cioè contro tutti gli intellettuali sospetti di liberalismo: si creò a Magonza una Commissione centrale incaricata di procedere contro di loro, si sciolsero le associazioni studentesche (Burschenschaften), si misero le Università sotto il controllo dello Stato e si sottopose la stampa ad una severa censura.

La reazione si fece sentire soprattutto in Renania, dove più profonda era stata l'impronta della Rivoluzione francese. Il governo prussiano, per facilitare l'assimilazione di questa nuova provìncia, accettata a malincuore in compenso della Sassonia che gli veniva rifiutata, volle organizzarla sul modello delle antiche province economicamente e socialmente più arretrate. A questo scopo si sforzò di ristabilire la tradizionale divisione della popolazione in nobili, borghesi e contadini, che il governo francese aveva abolita. Per restituire alla nobiltà una parte dell'influenza e del potere da essa perduti, creò maggioraschi e «Rittergueter», possessori fondiari privilegiati: per separare la borghesia dai contadini e mantenere questi ultimi in condizione di servitù, cercò di sostituire al sistema comunale francese il sistema prussiano, che, pur accordando alle città una maggiore autonomia, lasciava i comuni rurali sotto la dipendenza della nobiltà. Ma questo progetto fu respinto dalla Dieta renana, la quale rifiutò pure di sostituire alla legislazione francese, che consacrava le riforme essenziali della Rivoluzione, la legislazione prussiana, fondata sull'ineguaglianza civile.

Questi tentativi di politica reazionaria indisponevano tanto più i Renani nei confronti dei Prussiani, in quanto le loro tradizioni li legavano alla casa d'Asburgo, e le loro credenze religiose li opponevano, come cattolici, alla Prussia protestante.

Tuttavia queste controversie politiche e religiose non erano il motivo più grave del malcontento dei Renani, che dipendeva soprattutto da cause economiche. Con l'annessione alla Prussia, la Renania era stata infatti unita ad un paese povero, economicamente arretrato e rovinato dalla guerra. Essa doveva sostenere da sola quasi tutto il peso delle imposte che la Prussia aveva aumentate considerevolmente per far fronte al suo debito pubblico [Dal 1808 al 1818 il debito pubblico prussiano era salito da 54 a 217 milioni di talleri. Mentre nella provincia di Prussia si pagavano 639 talleri d'imposta fondiaria per ogni lega quadrata, se ne pagavano 4469 in Renania]; e quest'ineguaglianza fiscale irritava tanto più i Renani, poiché, proprio allora, essi attraversavano una grave crisi economica, sia nell'industria che nell'agricoltura. La crisi industriale, dovuta alla perdita dei mercati francesi, per i quali la Prussia non offriva che un mediocre compenso, e alla ripresa della concorrenza inglese, che inondava la Germania delle merci accumulate durante il blocco continentale, era aggravata da una crisi agricola provocata dalla scarsità della produzione e del commercio vinicolo. L'effetto di questa doppia crisi era di riunire borghesi, operai e contadini nella loro ostilità contro la Prussia ').

Del resto questa ostilità non ebbe carattere acuto a causa della generale stanchezza che segui al lungo periodo di rivoluzione e di guerra, e l'opposizione della Renania alla Prussia si attenuò a misura che la situazione economica andò migliorando. A poco a poco la comunanza degli interessi trionfò delle divergenze che le separavano, e si mostrò più forte delle tendenze francofile e liberali della borghesia, e delle simpatie austriacanti della nobiltà, indispettita di non aver trovato presso la Prussia l'appoggio sperato per rientrare in possesso delle proprie terre. La soppressione dei dazi interni, del 1816, che apriva ai prodotti industriali ed agricoli renani, e in particolare al vino, il mercato interno prussiano, e l'istituzione, del 1818, di un calmiere protezionista, abbastanza alto per permettere di resistere alla concorrenza inglese, determinarono una rapida ripresa del commercio e dell'industria, restrinsero i legami tra le differenti province, e facilitarono l'assorbimento della Renania nel regno prussiano. Nel 1830 la Renania aveva legato definitivamente la propria sorte a quella della Prussia, e la rivoluzione liberale scoppiata allora in Francia non trovò in essa alcuna eco.

La Prussia attraversava allora un periodo di transizione: tutta penetrata ancora dalle sopravvivenze del passato, usciva appena dal regime feudale, e le nuove forme di vita non vi si affermavano se non lentamente e faticosamente.

Malgrado la libertà del commercio e dell'industria, l'iniziativa privata era ancora poco sviluppata, la povertà del paese impediva l'accumulazione dei capitali, e la concentrazione industriale esisteva solo in Renania. La creazione d'una grande industria meccanica era in ritardo d'un mezzo secolo e i lenti progressi della tecnica permettevano all'artigianato di resistere alla concorrenza delle fabbriche [Nel 1831 il 12 % dei telai erano ancora azionati a mano, l'82 % dalla forza idraulica, e soltanto il 6% dal vapore]. La situazione era la stessa per il commercio, che in seguito alle difficoltà di trasporto si effettuava soprattutto ad opera di venditori ambulanti o nelle fiere. Le classi medie s'accontentavano d'un'esistenza mediocre, e le classi inferiori, rassegnate, vivevano nella miseria.

Tuttavia il ritmo della produzione e degli scambi diveniva a poco a poco più celere: dal 1815 al 1830 il numero dei fusi sali da 100.000 a 150.000, le spedizioni di carbone a Ruhrort crebbero da 2,5 milioni a 5,5 milioni di quintali, ed il commercio raddoppiò, raggiungendo un totale di 200 milioni di talleri. Questo sviluppo era favorito dallo sviluppo delle vie di comunicazione: nello stesso periodo la lunghezza della rete stradale passò da 3200 a 4600 chilometri, ed una linea di navigazione a vapore, aperta sul Reno tra Magonza e Rotterdam, permise di ridurre di più della metà i prezzi dei trasporti.

Dopo il 1830 questo slancio economico divenne ancora più rapido grazie alla creazione, avvenuta nel 1834, dell'unione doganale, del «Zollverein» che successivamente doveva comprendere tutti gli Stati limitrofi della Prussia e creare un potente organismo economico e polìtico. Si moltiplicano allora i mezzi di trasporto; le strade, malgrado il loro sviluppo, non son più sufficienti ai bisogni, e sin dal 1835 s'intraprende la costruzione di ferrovie che fanno circolare nel paese una vita più intensa e scuotono il suo torpore. Anche il commercio e l'industria si sviluppano con una cadenza più rapida; poiché la costruzione delle ferrovie attiva lo slancio dell'industria metallurgica e delle macchine, il quale, a sua volta, alimenta il traffico. Il paese si industrializza e la popolazione si concentra nelle città dove la fabbrica si sostituisce a poco a poco agli antichi telai, che vanno scomparendo, nell'impossibilità d'adattarsi alle nuove condizioni di produzione 10).

Contemporaneamente si assiste al mutarsi dello stato d'animo della borghesia, la quale, prendendo coscienza della propria forza, a misura che aumenta la sua potenza economica, si fa più insistente nelle proprie rivendicazioni. In principio queste sono soprattutto d'ordine economico, ma assumono ben presto un carattere politico, mostrando nella borghesia la volontà di accedere al potere 1X). Nasce cosi un conflitto tra la borghesia liberale, che sempre più è alla direzione delle forze di produzione, e lo Stato conservatore, erede del dispotismo illuminato del sec. XVIII, che intende mantenere sotto tutela i propri sudditi.

Da principio questo conflitto trova un'espressione ideologica nelle teorie liberali di Rotteck, il quale, ispirandosi a Rousseau e alla Rivoluzione francese, diffonde le idee democratiche e repubblicane della libertà e della sovranità popolare, dimostrando nei suoi libri che i principi sono stati sempre la causa delle sventure delle nazioni, e che nello Stato il potere, o almeno il potere legislativo, deve essere sempre tenuto dal popolo.

Contro questo liberalismo democratico si levano i conservatori che vogliono invece rafforzare l'autorità della Chiesa e dei principi per assicurare l'unità materiale e morale dello Stato. I loro teorici sono Haller, che considera lo Stato come patrimonio del principe, la cui autorità deve poggiare sulla nobiltà e sul clero, e A. Mueller, che, riprendendo le idee di Haller, dà loro un carattere ultramontano, e tende a restaurare una teocrazia in cui gli Stati sarebbero sottoposti all'autorità del Papa e a quella della Chiesa, come nel Medioevo.

Questo conflitto tra la borghesia liberale e i governi conservatori scoppia dopo la rivoluzione del 1830, le cui ripercussioni divengono sempre più profonde a misura che sì determinano in Germania le condizioni che l'avevano provocato in Francia.

Questa rivoluzione, che scuoteva il sistema della Santa Alleanza, doveva dare un forte impulso al movimento liberale tedesco . In Prussia essa non ebbe effetti immediati, e l'opposizione, ancora impotente di fronte al governo, s'era limitata a manifestarsi in favore della Polonia, considerata, in seguito alla sua sfortunata ribellione contro la Russia, nel 1831, come il simbolo della libertà oppressa.

L'influenza della rivoluzione del 1830 s'era fatta sentire più forte in alcuni Stati della Germania settentrionale, nello Hannover, nel Brunswick e nell'Assia, i cui sovrani erano stati costretti a concedere ai loro sudditi una costituzione; ed era stata particolarmente profonda negli Stati della Germania meridionale, Baviera, Wuerttemberg, Baden, già aperti alle idee liberali francesi. Nel Palatinato essa aveva anche determinato un grande movimento rivoluzionario che giunse al colmo nella festa di Hambach (27 maggio 1832) dove più di 25.000 liberali riuniti reclamarono per tutta la Germania un regime parlamentare. Ma la borghesia non era ancora abbastanza forte in Germania perché il liberalismo trionfasse, e questa festa, che ricordava quella della Wartburg, promossa, nel 1817, da una corrente più nazionalista che liberale, non fu seguita, come la precedente, da alcuna azione, se non da parte dei governi. Con i decreti del Bundestag del luglio 1832, questi ripresero in realtà le persecuzioni contro i demagoghi, limitarono la libertà di stampa e aggravarono la censura. Ci furono alcuni tentativi di sollevazione da parte dei liberali, a Francoforte (1833) e nel granducato .d'Assia (1833), ma fallirono, e i principali agitatori dovettero rifugiarsi in Svizzera o a Parigi, che divenne il principale focolaio del liberalismo tedesco. Tutto sommato, la reazione restava vittoriosa, ma, mentre il primo movimento liberale era stato facilmente e totalmente schiacciato, dopo il 1817, questo secondo movimento, poggiato su di una borghesia più forte, doveva mostrarsi più resistente ed avere conseguenze durature.

Parallelamente a questo sviluppo e a questa ascesa della borghesia, avveniva in Germania una trasformazione nel campo delle idee, ed il nuovo sistema economico, fondato sulla libertà di produzione e di circolazione dei beni, determinava una nuova concezione della vita, dominata dalla nozione di libertà.

Al razionalismo, che considerava ancora il mondo naturale quasi staticamente, e gli opponeva, come a cosa estranea alle leggi della ragione, il progresso morale e sociale dell'umanità, era succeduto, dalla fine del sec. XVIII, il romanticismo, espressione d'una concezione dinamica del mondo. Assorbendo l'uomo nella natura, il romanticismo considerava la realtà, in tutti i suoi aspetti, come manifestazione d'una stessa vita che animava tutti gli esseri, e concepiva il mondo intero come un organismo immenso, in continua evoluzione, sotto l'azione dello Spirito, creatore e regolatore della vita. Riducendo cosi la realtà, tutta penetrata dalla vita, all'elemento spirituale, i filosofi romantici mostravano come lo Spirito, con un lento lavoro e con un lungo sforzo, eserciti progressivamente la sua azione sulla natura e si attui in essa .

Rispecchiando le nuove concezioni determinate dal regime di libertà economica, che proprio allora rompeva tutte le barriere e dava libero sfogo alle forze produttive, essi mettevano in primo piano le nozioni di vita, di moto, di evoluzione; ma, siccome ancora non concepivano come il mutamento abbia in se stesso la sua ragion d'essere, l'evoluzione assumeva in loro un carattere semi-metafisico, poiché la facevano derivare da un principio contemporaneamente esterno e inerente al mondo nel quale essa si compie.

A questa evoluzione cosi concepita assegnavano come scopo la libertà, che appariva loro come la manifestazione stessa dello Spirito Divino nel mondo. Esprimevano cosi ideologicamente le tendenze della borghesia, la quale pure si appellava a questo principio, sia dal punto di vista economico che politico. E poiché la borghesia tedesca di allora, a differenza della borghesia francese ed inglese, era ancora troppo debole per attuare la libertà nel campo politico, i filosofi romantici si proponevano di attuarla nel campo dello spirito, mostrando che la Natura è una creazione dello Spirito, e che si può agire sulle cose e trasformare il mondo con la sola virtù del pensiero.

Essi si ispiravano all'opera di Kant che, malgrado l'opposizione fondamentale istituita tra il mondo della libertà e quello della causalità — restando ciascuno di loro per cosi dire rappreso nella propria identità e impenetrabile all'altro — presentava già gli elementi di una concezione organica e spiritualistica del mondo. Il Primato della Ragion Pratica implicava effettivamente la subordinazione, la dipendenza del mondo della causalità in relazione al mondo della libertà, che costituisce per esso un fine, e Kant stesso, nella sua Critica del Giudizio e nella sua Filosofia della Storia, mostrava come la Natura s'innalzi in qualche modo alla Libertà per opera dell'Arte che ne è il simbolo, e come dal gioco delle passioni umane nasca un incessante progresso che incammina ugualmente i popoli verso la libertà.

Fitche, Schelling e Hegel riprendevano questa parte dinamica della dottrina di Kant riconducendo ad un monismo il dualismo kantiano, incompatibile con una concezione vitalista del mondo. Quel che differenzia i loro sistemi, è una tendenza sempre più spiccata verso il realismo.

Fichte, che tenta per primo di realizzare la libertà per mezzo dello spirito, lo fa nella maniera più assoluta. Partendo dal postulato della Ragion Pratica, dal Primato dell'Io sul Non-Io, sopprime la Natura in quanto tale, e riduce il Non-Io a non esser altro se non lo strumento che l'Io si crea per determinarsi ed innalzarsi, attraverso un processo dialettico, ad una sempre maggiore autonomia.

Schelling accorda alla Natura una realtà al di fuori dell'Io, e mostra come essa s'innalzi allo Spirito, che da parte sua la penetra, e come il mondo giunga cosi ad uno stato di indifferenza assoluta, dove i contrari sono aboliti, dove la Natura è Spirito, e lo Spirito Natura.

In Hegel, infine, si manifesta anche più nettamente l'evoluzione verso il realismo, o piuttosto verso il monismo dinamico che unisce intimamente l'idea alla realtà; la sua dottrina segna contemporaneamente il coronamento delle teorie romantiche ed il passaggio ad una concezione più realistica del mondo.

Hegel, facendo con Fichte dell'Assoluto un principio d'azione, ed assorbendo in esso, con Schelling, tutta la realtà, mostra come quest'Assoluto, che è lo Spirito del Mondo, si manifesti nella Natura e nella Storia. A tal fine egli pone l'identità del pensiero e dell'essere nella forma dell'idea concreta che, trascorrendo in un divenire incessante, prende coscienza di sé nella realtà che essa stessa crea e di cui è contemporaneamente la causa e il fine. Il moto di quest'idea è determinato da una logica dinamica, dalla dialettica, che, a differenza dell'antica logica, poggia non su una concezione spaziale di inclusione e di esclusione, ma sulla nozione di tempo, sola capace di spiegare il divenire e di mostrare come i differenti elementi del reale si integrino gli uni negli altri e si uniscano in sintesi, dove i contrari vengono assorbiti in una unità superiore.

Molla di questa dialettica è la contraddizione, l'antitesi, che costituisce il principio attivo senza di cui non c'è né sviluppo né vita. Lungi dall'essere un'imperfezione delle cose, la contraddizione costituisce, al contrario, la loro essenza, poiché da essa si genera ogni realtà, ed essa ha perciò una funzione primordiale nella loro evoluzione 21).

Hegel, per costruire il suo sistema che fa cosi del mondo un immenso processo dialettico nel quale si realizza l'Idea assoluta, riduce la realtà ad un insieme di concetti; e, trascurando tra gli elementi del reale tutti quelli che sfuggono ad un concatenamento razionale, l'accidentale, il contingente, accoglie dalla successione infinita dei fatti solò quelli che esprimono un momento dell'Idea e realizzano l'opera della Ragione. Sopprimendo cosi ogni differenza tra l'oggetto e il suo concetto, può affermare la loro identità e procedere, di deduzione in deduzione, a dimostrare, regolando l'ordine di successione degli avvenimenti nel tempo sul loro ordine di successione logica, che i fatti e le cose seguono nel loro sviluppo una andatura razionale e traducono i movimenti dello Spirito.

L'ordine razionale, ancora rudimentale nella Natura, elemento dell'universo refrattario allo Spirito, e sottoposto al caso o alla cieca necessità, si manifesta sempre più chiaramente nella Storia, ove lo Spirito prende coscienza di se stesso, realizzandovi la sua essenza, che è la libertà. Hegel, presentando questa idea della libertà sotto la forma di una progressiva liberazione dello Spirito, inizialmente immerso nell'incosciente della Natura, e insieme, sotto la forma dello sviluppo d'un regime politico, conforme alle leggi della ragione, poteva da una parte paragonare i diversi momenti dello sviluppo dell'umanità ai gradi successivi che lo Spirito percorre, e dall'altra portare una giustificazione filosofica e storica alle aspirazioni liberali della borghesia del suo tempo. I gradi successivi di questa evoluzione verso la libertà gli apparivano segnati dai grandi popoli storici, ciascuno dei quali creò una nuova forma statale, che rappresenta insieme una incarnazione superiore dello Spirito ed una più alta realizzazione del regime di libertà. Faceva finire questa evoluzione nella Prussia del suo tempo, il cui Stato, dove il potere era diviso tra il re e le classi possidenti, gli pareva che offrisse la miglior garanzia sia contro il dispotismo che contro gli eccessi della democrazia.

Questa dottrina era, tanto dal punto di vista filosofico che politico, un riflesso del regime economico e sociale che si andava stabilendo allora in Germania; e come questo regime, costretto per la sua debolezza a far proprie molte sopravvivenze del passato, presentava un carattere di transizione e di compromesso.

Dal punto di vista filosofico, e come espressione d'una nuova concezione del mondo, questa dottrina costituiva un compromesso tra l'idealismo trascendentale che pone il principio delle cose al di fuori di esse, ed il realismo che lo riporta in esse e ne spiega lo sviluppo con la loro stessa natura. In realtà Hegel si sforzava di comprendere il reale nella sua totalità, stabilendo un'unità dinamica del pensiero e dell'essere; ma siccome non si rendeva conto delle forze che veramente determinano l'evoluzione storica, riportava lo sviluppo della realtà concreta a quello della idea, sicché, per il fatto che la materia, la Natura, non era altro se non espressione dello Spirito, veniva a rompere quest'unità del concreto e dell'astratto che avrebbe voluto realizzare.

Cosi questa dottrina da una parte segnava il coronamento delle teorie romantiche, che ponendo in primo piano tutto ciò che esprime la vita, il movimento, l'evoluzione, non facevano più derivare questo movimento da un principio esterno alla natura, senza pertanto arrivare a comprendere che questo principio si confonde con essa; dall'altra annunciava il passaggio al realismo, poiché Hegel, pur restando idealista, pur subordinando l'essere allo spirito, non separava l'idea dalla realtà concreta, e pensava che compito del filosofo fosse di comprendere la razionalità del reale e non di cercarne al di fuori di esso la ragione. Respingeva ogni dogmatismo che oppone all'Essere un Dover-Essere e pretende sottomettere la realtà ad un ideale arbitrario e si veniva in lui precisando, per la. parte preponderante che occupa nel suo sistema la storia, la tendenza. ad abbandonare il punto di vista metafisico e trascendentale per considerare le cose sotto il loro aspetto immanente.

D'altra parte questa dottrina costituiva un compromesso tra la concezione statica e la concezione dinamica del mondo. Era in realtà tutta penetrata da un dinamismo che traduceva il continuo cambiamento, l'incessante evoluzione delle cose considerate nel loro divenire. Ma questo dinamismo non è ancora pienamente inerente alla realtà concreta, poiché l'evoluzione di questa è determinata da un principio superiore, l'Idea Assoluta, che è contemporaneamente la sua causa ed il suo fine; e siccome quest'Idea, al termine del suo sviluppo, si ritrova tale quale era in potenza, l'evoluzione è in realtà illusoria e riveste un carattere di involuzione, che riavvicina questo sistema all'antica concezione statica del mondo.

Infine, nel campo polìtico, questo carattere di compromesso era contrassegnato — per il fatto che Hegel, ostile al Dover-Essere, all'utopia, dà un valore assoluto alla realtà presente — da una contraddizione tra il sistema conservatore, che considera lo Stato prussiano come il termine dello sviluppo dell'Idea, come l'incarnazione stessa del Diritto, e l'evoluzione dialettica dell'Idea e della Storia, che implica un continuo cambiamento, un incessante divenire al quale non si può porre come limite e come scopo una determinata forma di Stato.

Questa dottrina esprimeva cosi, per il suo lato filosofico e insieme per il suo lato politico, le tendenze di questo perìodo di transizione, in cui la struttura politica e sociale della Germania veniva a poco a poco modificata dalla nuova organizzazione economica.

In questo periodo di transizione trascorse l'infanzia di Marx, il quale giunse all'adolescenza proprio mentre lo sviluppo dell'industria e del commercio cominciava a far sentire i suoi effetti in tutti i campi, e immetteva la intera Prussia nella corrente della vita moderna.

Per la prima educazione ricevuta sembrava che Karl Marx dovesse rimanere estraneo alla lotta fra le tendenze liberali e quelle conservatrici; ma siccome i suoi studi lo portavano alla filosofia che era allora il campo chiuso in cui si combattevano queste battaglie, egli vi fu naturalmente attirato, e suo primo compito fu di sviluppare l'elemento rivoluzionario della dottrina di Hegel per adattarlo alle nuove necessità e farne uno strumento di lotta.

Come la maggior parte dei teorici del socialismo, Marx apparteneva per nascita alla borghesia. Per parte di padre e di madre discendeva da antiche famiglie di rabbini. Il nonno paterno, Marx Lévy, rabbino di Treviri, aveva avuto quattro figli, il maggiore dei quali, Samuele, gli era succeduto come rabbino nella stessa città, mentre un altro, Hirschel, padre di Marx, vi era divenuto avvocato. Hirschel Marx dal suo matrimonio con Henriette Presburg, che apparteneva ad un'antica famiglia di rabbini olandesi, emigrata dall'Ungheria nel sec. XVI, ebbe otto figli, cinque femmine e tre maschi, tra i quali Karl era di gran lunga il più dotato.

Senz'essere stato, nel vero senso della parola, un genio precoce, Karl Marx mostrò fin dalla più tenera età un'intelligenza molto viva, che faceva la gioia e l'orgoglio dei suoi genitori: era il figlio prediletto, il loro «Glùkskind», e un po' delusi, a quanto pare, dalle mediocri attitudini degli altri figli, riponevano in lui tutte le loro speranze.

La madre, che non aveva, sembra, doti particolarmente notevoli, e che del resto parlava e scriveva piuttosto male il tedesco, non ebbe parte importante nello sviluppo intellettuale del figlio. Il suo senso pratico, che la portava a considerare soprattutto il lato materiale della vita e a spingere forse un po' troppo oltre il gusto per l'ordine e l'economia, la opponeva al figlio, che considerava meschine e contingenti le cose di cui ella si interessava di più. Era, del resto, un'eccellente madre di famiglia, sempre preoccupata della salute e dei benessere dei suoi figli, e soprattutto del maggiore, Karl, il quale la ricompensò molto male delle' sue premure. Infatti la sua esistenza agitata fù per lei fonte di preoccupazioni e di affanni; lo vide perseguitato di paese in paese, in preda alla miseria, divenuto oggetto di sdegni e di odii, e non aveva la consolazione di pensare che questa vita miserabile fosse il prezzo d'un'opera grandiosa. Fino alla sua morte questa vita le apparve come un doloroso fallimento; col suo senso pratico deplorava che il figlio avesse fatto cosi cattivo uso delle sue brillanti qualità, e amava dire che invece di scrivere un libro sul capitale avrebbe fatto meglio ad accumularsene uno.

Invece il padre di Marx era uomo di grande cultura, ed esercitò una profonda influenza sul figlio.

Dopo una giovinezza povera e laboriosa, era divenuto avvocato alla Corte d'Appello di Treviri e vi aveva conquistato una posizione eminente, confermata in seguito dal titolo di consigliere (Justizrat) e dall'elezione a presidente dell'ordine degli avvocati. Univa allo spirito pratico e positivo d'un uomo di affari un'anima sentimentale e tenera, e non aveva nulla del carattere combattivo, intransigente ed imperioso del figlio.

Era uno spirito illuminato, tutto penetrato dal razionalismo del secolo XVIII, che l'aveva allontanato dalla famiglia, rimasta attaccata all'ortodossia israelita. Grande ammiratore della letteratura e della filosofia del sec. XVIII, di Diderot, di Voltaire, di Rousseau, di Lessing, univa al liberalismo intellettuale un liberalismo politico, che gli faceva condannare sia il dispotismo di Napoleone che quello della Prussia. Dopo la rivoluzione del 1830, partecipò al movimento liberale che agitò la Germania meridionale ed ebbe ripercussioni in Renania.

Nel gennaio del 1834 fu tra gii organizzatori del banchetto offerto ai deputali liberali della Dieta renana, che ebbe luogo nel circolo della «Società letteraria del Casino», centro intellettuale e politico della città di Treviri. Levò il primo brindisi ai deputati, e lodò, in quella occasione, il re, per aver cominciato ad istituire una rappresentanza popolare che, come egli diceva, permetteva alla verità di giungere fino ai piedi del trono. Durante il banchetto si cantarono canti rivoluzionari, come la Marsigliese e la Parisienne, e nella relazione indirizzata a questo proposito alle autorità, il consigliere Marx è citato tra coloro che presero parte a questi canti.

Il governo inflisse un severo biasimo al prefetto che aveva tollerato questo scandalo, e il principe ereditario gli inviò una lettera in cui esprimeva la sua indignazione a proposito di questa manifestazione; la Società letteraria del Casino fu posta sotto la sorveglianza della polizia, e dovette modificare i propri statuti.

Ma pur sottolineando questa manifestazione di Hirschel Marx in favore del liberalismo, non bisogna esagerarne la portata, e vedere in lui un rivoluzionario. In realtà, alla fine del suo discorso egli affermava il suo attaccamento e la sua devozione alla monarchia prussiana; qualche anno dopo, in una lettera al figlio, ne vantava il governo, che egli opponeva al dispotismo egoista e tirannico di Napoleone, e lo invitava a celebrare con un'ode la battaglia di Waterloo con la quale la Prussia aveva liberato l'Europa dal giogo che pesava su di lei. A dire il vero questo lealismo, per quanto sincero, non era però completamente disinteressato, e il desiderio di non dispiacere al governo aveva senza dubbio la sua parte, nell'attaccamento che egli dimostrava alla monarchia prussiana.

Questo accordo tra gli interessi e le convinzioni spiega la sua conversione, avvenuta nel 1817, al protestantesimo, e seguita nel 1824 e nel 1825 da quella dei figli e della moglie "). Questa conversione non contrastava alle sue credenze, perché egli non praticava più la religione ebraica, e nel protestantesimo, allora tutto penetrato di razionalismo, trovava un ideale religioso più vicino alle sue convinzioni. D'altra parte questa conversione costituiva una vera e propria emancipazione intellettuale, poiché gli ebrei, ancora isolati dal resto della popolazione, conservavano gelosamente le loro tradizioni e avevano perciò una mentalità ristretta, piuttosto ostile alla cultura moderna. Heinrich Heine, la cui conversione data da quella stessa epoca, poteva, non senza ragione, definirla il biglietto d'entrata nella civiltà europea.

Ma il fattore essenzialmente determinante di questa conversione fu, da una parte, l'obbligo in cui Hirschel Marx si trovò di lasciare la religione ebraica per conservare le sue funzioni, e dall'altra, il desiderio di sottrarre se stesso, oltre che la sua famiglia, alle vessazioni con cui gli ebrei erano allora perseguitati. L'odio provocato dagli usurai ebrei, che sfruttavano la miseria dei contadini, e la reazione politica, di cui gli ebrei erano stati le prime vittime, avevano in realtà portato ad una recrudescenza di antisemitismo.

In numerose città renane gli ebrei erano stati malmenati, tutte le Diete provinciali reclamavano misure di protezione della proprietà fondiaria contro gli ebrei, e la Dieta renana doveva giungere a chiedere, nel 1826, che gli ebrei fossero privati dei diritti civili e politici. Il re, che provava una profonda avversione per gli ebrei, senza arrivare a sopprimere completamente i diritti che aveva loro accordati a malincuore nel 1812, procurò di limitarli sempre più. Dopo aver interdetto loro in Renania, nel 1816, l'accesso alle cariche pubbliche, che erano state sempre chiuse per loro in Prussia, nel 1822 estese questa interdizione alla maggior parte delle professioni liberali, e si comprende che in queste condizioni il padre di Marx si sia convertito con tutta la famiglia per assicurare un avvenire a sé ed ai propri figli. Perciò Karl Marx potè svilupparsi liberamente senza risentire della ristrettezza spirituale degli ebrei di allora, o delle difficoltà d'ogni specie che essi erano costretti a subire.

Cosi Marx passò lietamente la sua infanzia in un ambiente tranquillo e colto, in una famiglia che conduceva l'esistenza semplice e laboriosa della borghesia di quei tempi. In quel periodo, in cui le nuove forme di produzione e di scambio si sviluppavano faticosamente a causa della povertà del paese, ciascuno era costretto al lavoro e all'economia, i gusti erano modesti, l'orizzonte un po' limitato, i piaceri semplici.

La sua città natale, Treviri, che era residenza della Corte d'Appello, contava allora 12.000 abitanti: era una vecchia città tranquilla, tutta piena di ricordi del passato; numerosi monumenti, come la Porta Nigra, il Palazzo imperiale e la Basilica, attestavano ancora lo splendore dell'epoca romana, mentre l'abbondante fioritura di conventi e di chiese che circondavano la cattedrale, dove si conservava il Santo Sudario, attestavano quanto intensa vi fosse rimasta la vita spirituale.

Dopo essere stata con Coblenza uno dei grandi centri dell'emigrazione e della controrivoluzione francese, nel 1794 aveva accolto con entusiasmo le truppe francesi che avevan posto fine al potere dell'arcivescovo e dei nobili; ma quest'entusiasmo aveva poi ceduto all'indifferenza e all'ostilità, man mano che erano cresciute le spese militari e gli oneri fiscali. Cosi aveva accettato senza troppo imprecare la dominazione della Prussia, che all'inizio ebbe la saggezza di rispettare i sentimenti religiosi della popolazione e di non rovesciare lo stato di cose stabilito sotto la dominazione francese. D'altra parte essa offriva un largo mercato ai vini della Mosella, fino alla formazione dell'Unione doganale, che permise ai vini della Germania meridionale d'entrare in concorrenza con quelli. Centro amministrativo e vinicolo della Mosella, Treviri era una città di funzionari e di artigiani, dove l'industria era poco sviluppata, e dove si conduceva la vita tranquilla delle piccole città di allora, le quali, a causa della mancanza di mezzi di trasporto rapidi e comodi, vivevano per cosi dire raccolte in se stesse. Del resto questa vita era piacevole e gaia, come in tutti i paesi vinicoli, e Marx conservò sempre un vivo attaccamento alla sua città natale.

Era un ragazzo robusto, d'intelligenza sveglia, e i suoi compagni lo amavano per il carattere giocondo, ma anche né temevano i motteggi. Pieno di esuberanza, era portato naturalmente a dirigere i loro giochi e a imporre la sua volontà, ricorrendo già volentieri all'ironia e alla satira che più tardi dovevano segnare la sua bocca di una piega sarcastica. Ma l'ironia in lui s'accompagnava ad una gaiezza che gli attirava le simpatie di tutti.

Compi i suoi studi al Liceo di Treviri, dove restò cinque anni. In questo Liceo regnava lo spirito razionalista, introdottovi dall'arcivescovo Clemenz Wenzel e dai suoi ministri riformatori Hontheim (Febronius) e La Roche, i quali, per combattere l'ignoranza del basso clero, avevano fatto di questo istituto una specie di piccolo seminario dove si formavano i futuri sacerdoti. Sotto la dominazione francese, il livello degli studi era caduto molto in basso, ma dopo l'annessione della Renania alla Prussia, il Liceo era stato riorganizzato, e annoverò professori eccellenti, come il direttore Wyttenbach, storico e filosofo, e Steiniger, professore di matematica e fìsica. /

I suoi studi al liceo furono buoni senza essere brillanti. Nel passaggio dalla prima alla seconda fu classificato decimo tra gli alunni premiati per la loro conoscenza delle lingue antiche e moderne, e in seconda ebbe elogi per le sue dissertazioni tedesche. Promosso giovanissimo in terza, aveva solo diciassette anni quando sostenne l'esame di licenza, mentre gli altri candidati avevano dai diciannove ai ventun anni. L'insieme della classe era mediocre, e circa metà degli alunni non superarono gli esami. La differenza d'età, d'ambiente familiare e d'educazione spiega come Marx si sia fatti pochi amici tra i suoi condiscepoli, la maggioranza dei quali erano cattolici, figli di vignaioli o di artigiani, e destinati a farsi preti. Marx frequentava soprattutto Emmerich Grach, che mori nel 1879, presidente della Camera a Treviri, e il suo futuro cognato, Edgar von Westphalen, pivi giovane di lui di un anno.

Le prove degli esami da lui sostenuti nell'agosto del 1835 furono nell'insieme soddisfacenti. All'orale ebbe voti sufficienti in religione, greco matematica, abbastanza buoni in latino, francese, fìsica e storia. Le sue prove scritte, che sono state conservate, costituiscono un'interessante testimonianza della sua formazione intellettuale, delle sue cognizioni, della sua mentalità e del suo carattere, che già si affermavano.

Tra i suoi saggi letterari il meno buono è la dissertazione latina sul regno d'Augusto: «An principatus Augusti merito inter feliciores rei publicae romanae aetates numeretur». È un confronto banale di questo regno con l'epoca anteriore, meno colta, e l'epoca posteriore, in cui comincia a manifestarsi la decadenza.

La dissertazione di religione, il cui tema era «Mostrare, secondo il vangelo di San Giovanni, XV, 1-14, la ragione, la natura, la necessità e gli effetti dell'unione dei credenti col Cristo» presenta un maggiore interesse. Marx, ispirandosi alle concezioni razionalistiche del padre e dei suoi maestri, riportava la religione alla morale, e faceva un commento storico e filosofico di quel passo; mostrava che l'unione dell'uomo col Cristo, resa necessaria dalla morale impura dei pagani, ci permette di elevarci alla virtù cristiana, più umana e più dolce della virtù degli stoici, più elevata e più pura di quella degli epicurei. Dal punto di vista dogmatico questa dissertazione era piuttosto debole, perché, come notava giustamente il correttore, né la natura né la ragione dell'unione dei credenti col Cristo vi erano discusse. Sin da quest'epoca Karl Marx s'era evidentemente staccato, come il padre, da ogni credenza dogmatica, e la filosofia prevaleva in lui sulla religione.

Il saggio migliore è la dissertazione in tedesco, il cui argomento «Riflessione di un giovane sulla scelta di una carriera», si prestava meglio allo svolgimento di idee personali. Nella scelta di una carriera, dice Marx, non dobbiamo obbedire né all'ambizione né a un entusiasmo passeggero. Del resto questa scelta non dipende unicamente dalla nostra volontà; ma è in realtà determinata in gran parte dalle circostanze e dall'ambiente nel quale viviamo : «Non possiamo sempre abbracciare la professione alla quale ci crediamo destinati, poiché il corso della nostra vita sociale si svolge già prima che noi siamo in condizioni di determinarlo». In questa scelta dobbiamo tener conto delle nostre attitudini intellettuali e fisiche per non essere inferiori al nostro compito, e considerare anzitutto la possibilità maggiore o minore che una carriera ci offre di lavorare per il bene dell'umanità. Ciò deve distoglierci dalle professioni che trasformano l'uomo in istrumento passivo, o che l'allontanano dall'attività pratica, poiché — e qui già traspare come l'abbozzo di una concezione fondamentale di Marx — per fare opera utile bisogna non separare l'ideale dalla realtà, il pensiero dall'attività pratica.

La fine di questa dissertazione è una vera e propria professione di fede. Marx proclama che l'uomo eleva e nobilita la propria anima consacrando la propria vita al bene dell'umanità; e che il sentimento di compiere un'opera degna dell'ammirazione e della riconoscenza dei cuori generosi, gli dà una forza morale.che nulla può abbattere.

Questo idealismo un po' giovanile rispecchiava le idee umanitarie e liberali del padre e dei suoi maestri; testimoniava che Karl Marx aveva già preso partito nella lotta tra le tendenze liberali e quelle conservatrici che agitava allora la Germania e che aveva avuto ripercussioni abbastanza gravi nel liceo stesso dove egli compiva i suoi studi. In seguito al banchetto liberale del gennaio 1834, a cui avevano partecipato parecchi professori, il governo aveva infatti ordinato un'inchiesta sull'insegnamento che s'impartiva al liceo, e sullo stato d'animo degli insegnanti e degli alunni; e poiché l'inchiesta rivelò che gli alunni leggevano i discorsi sediziosi pronunciati nella festa di Hambach, e scrivevano poesie politiche, si presero provvedimenti disciplinari. Uno dei professori di Marx, Schneemann, era stato biasimato per aver cantato canti rivoluzionari durante il banchetto e il direttore Wyttenbach, le cui opinioni erano sospette, fu aggregato il professore di latino Loers, il cui lealismo era più sicuro. Alla luce di questi avvenimenti, la professione dì fede un po' patetica di Marx non appare più come una retorica vana e falsa, ma come la prima e ardente affermazione d'un ideale a cui egli sacrificherà tutto.

Del resto, Marx doveva dare aperta testimonianza dei sentimenti che l'animavano, rifiutando di prender commiato da Loers, beneficiario dei favori del governo, al momento della sua uscita dal liceo.

Da queste dissertazioni appare manifesto che Marx derivò gli elementi essenziali della sua prima cultura insieme dal liceo e dal padre, che gli fu maestro e guida. Hirschel Marx, infatti, si dedicava molto all'istruzione del figlio, leggendo e commentando con lui i suoi autori favoriti, gli scrittori e i filosofi del sec. XVIII. Queste discussioni col padre, che commentava con la precisione propria dei giuristi, costituivano per Marx un'eccellente disciplina, sviluppavano in lui il gusto della filosofia e contribuivano a nutrire il suo pensiero di quel razionalismo che costituiva la base dell'insegnamento che riceveva al liceo.

Questa educazione veniva completata da un amico di famiglia, il barone di Westphalen, che abitava nella casa vicina, e la cui figlia, Jenny, era compagna di classe della sorella maggiore di Marx. Questo barone, che aveva preso a benvolerlo per la vivacità della sua intelligenza, leggeva con lui Omero, Shakespeare, Cervantes, e queste letture facevano nascere in Marx una tendenza al romanticismo, che doveva sostituirsi in lui al razionalismo.

La conversione di Marx al romanticismo si compi all'università di Bonn, centro intellettuale della Renania, dove si recò nel settembre del 1835 a compiervi i suoi studi di diritto, per desiderio del padre che sognava per lui una brillante carriera giudiziaria o amministrativa. Il romanticismo regnava allora in questa università; uno dei suoi teorici, W. F. Schlegel, vi teneva dei corsi di letteratura, e l'insegnamento della filosofia e delle scienze s'ispirava alla dottrina di Schelling.

Molto portato alla poesia, e poeta egli stesso a tempo perso, Marx avrebbe senza dubbio preferito lo studio delle lettere a quello del diritto; e ciò spiega come oltre ai corsi di diritto egli seguisse anche dei corsi di letteratura e di estetica.

All'inizio il suo ardore è tale, che vorrebbe iscriversi a nove corsi; poi, per consiglio del padre, ne ridusse il numero a sei, che segui molto assiduamente, come attesta il certificato rilasciatogli dall'università. In seguito al lavoro eccessivo cade malato, e il padre deve invitarlo ad aver più cura della sua salute. Ma presto questo zelo diminuisce; e Marx non tarda a condurre, in compagnia del gruppo di studenti originari di Treviri, di cui fa parte, una vita allegra e scapestrata, fino ad esser condannato ad un giorno di carcere per ubriachezza e chiasso notturno. Una litografia dell'epoca ce lo mostra coi suoi compagni all'Albergo del Cavai Bianco. Vi si beve e vi si balla allegramente, e in un angolo Marx contempla la scena con l'aria un po' sinistra d'un genio romantico. Il viso con l'alta fronte, lo sguardo penetrante e imperioso sotto l'arco molto marcato delle sopracciglia, il naso aquilino e la piega volitiva e dura della bocca, appena attenuata dai baffi nascenti, testimoniano nel giovane, col loro carattere insieme serio e grave, duro e ardito, una personalità già decisamente matura.

In questa esistenza tumultuosa e sfrenata, la politica non aveva, a quanto pare, molta importanza, e il certificato rilasciato dall'universita specifica che egli non faceva parte di nessuna organizzazione sospetta di tendenze liberali. Nel momento in cui giungeva a Bonn, nel novembre del 1835, si erano intentati processi contro queste organizzazioni e si erano pronunciate severe condanne contro gli studenti convinti o sospetti di esserne membri.

Assecondando la sua passione per la poesia, Marx entrò in un gruppo di giovani poeti, la cui attività letteraria, sospetta e sorvegliata dalla polizia, nascondeva forse un'attività politica; si può pensare del resto che i sospetti della polizia non fossero completamente ingiustificati, se si consideri che i principali membri di questo gruppo erano con Marx, Biermann, uno dei suoi compagni del liceo di Treviri, il quale, quand'era ancora alunno in quella scuola, era stato accusato di aver scritto poesie rivoluzionarie, Fenner von Fennersleben che doveva avere una parte attiva nella rivoluzione del 1848, e K. Gruen, uno dei futuri capi dei «veri» socialisti.

Il padre, senza disapprovare la sua entrata in questo gruppo, lo mise in guardia contro la tentazione di dedicarsi interamente alla poesia, non volendo, diceva, vedergli fare nel mondo la figura del poetucolo. Del resto, non vedeva affatto di buon occhio la vita disordinata del figlio, nel quale aveva riposto tutte le sue speranze, e gli dava consigli d'ordine e d'economia, di cui quello aveva certamente un gran bisogno. Infatti Marx, dopo la sua partenza, lascia i parenti senza notizie di sé per tre settimane, e in tre mesi scrive loro soltanto due volte, in fretta, senza neanche indicare i corsi che segue.

Nelle sue lettere si parla molto di denaro, che spende con la più grande facilità, giungendo anche a contrarre alcuni debiti che il padre, brontolando, rimborsa. Malgrado le ammonizioni paterne, egli non doveva emendarsi affatto su questo punto, e per tutta la vita conservò, prima per trascuratezza e poi per necessità, l'abitudine dì far debiti.

L'esistenza agitata che Marx condusse a Bonn era un effetto della naturale esuberanza del giovane studente sottrattosi alla tutela familiare, e fors'anche d'una crisi sentimentale ch'egli allora attraversava.

In questo periodo l'amicizia per la compagna d'infanzia Jenny von Westphalen si trasformò in una. vera e propria passione amorosa. Malgrado il giovanile ottimismo, questo amore romantico per una giovane maggiore di lui dì quattro anni e molto corteggiata per la sua bellezza e per la sua posizione sociale, doveva apparirgli senza speranza e tormentarlo. Al suo ritorno a Bonn, domandò tuttavia a Jenny di concedergli la sua mano. Jenny considerò questo matrimonio non senza una certa apprensione: le sembrava un po' un'avventura: ma in lei l'amore trionfò sul timore. Il padre di Marx, a cui questi aveva comunicato il suo progetto, ebbe, da parte sua, qualche scrupolo di lasciargli prender su di sé in questo modo la responsabilità dell'avvenire d'una giovinetta, ma non rifiutò il suo consenso.

Quanto ai genitori di Jenny, dai quali ci si attendeva quasi sicuramente un rifiuto, si ritenne opportuno di mantenerli per il momento all'oscuro di tutto. Jenny von Westphalen era una giovane di rara bellezza e di una grande nobiltà di carattere. Obbedendo alla inclinazione del suo cuore, accettò deliberatamente un avvenire che, per confessione stessa del futuro suocero, s'annunciava incerto, e che doveva essere ancora più triste di quel che egli non prevedesse. Nelle lunghe e dolorose prove che il suo matrimonio le riservò, ella doveva restare la degna compagna di Karl Marx; allora, era la sua gioia e il suo orgoglio, e trent'annì dopo, durante un viaggio nella sua città natale, Marx evocava ancora con emozione l'immagine della fidanzata la cui bellezza era rimasta celebre.

Questa conquista fu la prima affermazione, in Marx, di quella forte personalità che doveva attirargli tante simpatie ma anche tanti odii: segnava per lui l'entrata in una nuova vita, vita di studio e d'azione, che si sarebbe iniziata con la sua partenza per Berlino, dove doveva proseguire ì suoi studi di diritto.

Dopo l'anno trascorso a Bonn, che in sostanza, con grave delusione del padre, s'era rivelato un anno quasi perduto, questi aveva deciso, per sottrarlo ad un ambiente che riteneva poco adatto, di fargli continuare gli studi a Berlino.

Nell'ottobre del 1836 Karl Marx lasciò Treviri per Berlino, pieno di tristezza per la separazione dalla fidanzata e per il rifiuto avuto dai genitori di lei. La capitale della Prussia, col suo cielo nebbioso ed i suoi abitanti sgarbati, non era fatta per placare la sua nostalgia e la sua tristezza. Era una città povera, la cui popolazione, composta in prevalenza di artigiani e di piccoli commercianti, sottoposti alla burocrazia ed asserviti alla corte, formava una piccola borghesia dall'orizzonte limitato, che non si appassionava tranne che per !e cose del teatro. Gli unici centri dove esistesse un po' di vita erano certi caffè e saloni, come il Caffè Steheli e il salone di Varnhagen, dove cominciavano a diffondersi le idee liberali, ma ancora sotto forma di satire locali e di critiche meschine.

Troncando la vita spensierata condotta a Bonn, Marx s'isola e si chiude in sé stesso per dedicarsi alla poesia ed agli studi. La sua anima inquieta ed il suo amore ardente gli ispirano tre quaderni di poesie, dedicate alla fidanzata, che le lesse con lagrime di dolore e di gioia.

Questi quaderni sono perduti, ma ci si può fare un'idea del loro contenuto dalla critica di Mehring e da un'altra raccolta di poesie dedicate un anno dopo al padre, che comprende una parte delle poesie di questo primo quaderno (Lucinde. Sirenengesang. Die beiden Harfensaengerinnen. Lied an die Steme. Das oleiche Màdchen) 70).

Queste poesie hanno un interesse più biografico che letterario. Marx stesso le considerava come un peccato di gioventù, e la figlia, Laura Laforgue, scriveva a Mehring, inviandogliele, che i suoi genitori si divertivano a rileggerle. In realtà, malgrado il loro titolo — Buch der Lieder esse ricordavano molto poco il celebre libro di Heine che le aveva ispirate, e il loro valore letterario era pressoché nullo.

Sono d'un romanticismo piatto, banale e convenzionale. Loro tema principale è la disperazione d'amore, che cantano derivando dalla moda del tempo i simboli abituali: il giovane che resiste al perfido canto delle sirene per restare fedele al suo ideale {Sirenengesang); il cavaliere il quale, trovando, al suo ritorno, la fidanzata infedele, si uccide davanti a lei in chiesa, nel momento in cui ella sta per sposare il suo rivale {Lucinde); le due suonatrici di arpa, dal canto pieno di pianto, che s'isolano nella natura per ritrovare la pace dell'anima {Die beiden Harfensaengerinnen); le stelle, insensibili al destino umano {Lied an die Sterne); e finalmente la giovinetta pallida, innamorata di un cavaliere, che si annega per disperazione d'amore.

D'altra parte una certa tendenza al realismo, o addirittura al naturalismo, si traduce abbastanza crudamente in poesie, d'ispirazione più che triviale, che contrastano stranamente col carattere etereo degli altri poemi.

Soltanto raramente si distingue un accento personale, come nelle poesie in cui canta il suo amore per Jenny, e in quella in cui afferma la sua volontà imperiosa di conquistarsi tutto ciò che la scienza e l'arte offrono allo spirito umano, e di liberarsi da ogni giogo con lo studio e l'azione.

La banalità degli argomenti non è compensata dalla forma, goffa e impacciata. Non che Marx fosse privo di ogni capacità poetica; aveva al contrario un sentimento delicato della bellezza lirica, che fece poi di lui il consigliere, amato e insieme temuto, di poeti come Heine e Freiligrath. Ma allora, la sua anima era troppo tormentata, la sua immaginazione troppo febbrile, i suoi pensieri troppo tumultuosi, perché anche la sua poesia non si perdesse nel vago e nell'impreciso. «Il mio cielo e la mia arte __ scriveva un anno dopo al padre — costituivano un ideale altrettanto irraggiungibile, quanto era allora il mio amore. Una realtà che sfuma e si disperde nell'infinito, accuse contro il tempo presente, sentimenti vaghi e confusi, un'assenza totale di naturalezza, castelli in aria, un'assoluta opposizione tra l'ideale e la realtà, retorica e ragionamenti che tenevano luogo dell'ispirazione poetica, pur con un certo calore di sentimento ed un certo sforzo di impeto lirico : ecco le caratteristiche delle poesie dei tre primi quaderni ricevuti da Jenny».

Questo romanticismo nebuloso esprime non soltanto il tormento del suo cuore, ma anche la confusione del suo spirito, in preda esso pure ad una crisi profonda. Siccome il mondo in cui vive non lo soddisfa, egli si esaurisce nella ricerca dolorosa e ardente d'un ideale che risponda alle sue aspirazioni senza però giungere ancora a prender coscienza né di queste aspirazioni né di questo ideale.

Preso da una vera e propria frenesia di sapere, s'immerge nello studio con un ardore febbrile, e dà prova d'una prodigiosa capacità di lavoro. La trasformazione che si compie allora in lui è cosi grande che si stenta a credere che siano passati solo pochi mesi da quando conduceva a Bonn una vita allegra e spensierata. Del resto per gli obblighi che si era assunti fidanzandosi si sentiva in dovere di rinunciare a questa vita. Il padre glielo ricordava nelle sue lettere, dove gli parlava delle apprensioni della fidanzata e gli diceva che l'unico mezzo di calmarle era di mostrare con successi brillanti e rapidi d'esser degno di lei.

Del resto Berlino offriva un ambiente molto più favorevole agli studi che Bonn. Gli studenti vi conducevano una vita meno dissipata che altrove, e l'università vi attirava i maestri più celebri. Essa era allora il centro dello hegelismo, e questa dottrina, che riconducendo lo sviluppo del reale a quello dell'idea, lusingava l'uomo permettendogli di partecipare in certo modo alla creazione del mondo, esercitava in ogni campo un'influenza anche maggiore di quella della filosofìa di Schelling a Bonn.

I discepoli di Hegel, che occupavano le principali cattedre dell'università, erano tuttavia ben lontani dal possedere il genio del maestro, e il peso enorme della sua eredità sembrava gravare su di essi. Attaccati più alla lettera che allo spirito della dottrina, e convinti d'altronde che essa avesse dato fondo per sempre al contenuto della filosofia e della scienza, si contentavano di sviluppare senza grande originalità le diverse parti del sistema.

Marx non si converti di primo acchito alla dottrina hegeliana, il cui realismo spiaceva al suo spirito tutto impregnato ancora d'idealismo romantico; e la storia del suo pensiero e dei suoi studi durante il primo anno di dimora a Berlino, è segnata dalla lotta contro l'insegna della dottrina di Hegel, che tuttavia fini per imporsi a lui e dominarlo.

Durante il primo semestre Marx segui i corsi di Savigny e di Gans che appartenevano a due scuole opposte, la scuola storica del diritto e la scuola hegeliana. Cosi, fin dal suo arrivo a Berlino, fu indotto a prender parte al conflitto che, in mancanza di una vita politica propriamente detta, costituiva uno dei principali elementi di lotta tra le tendenze che si dividevano gli animi nella Prussia di allora,

La divergenza che separava Savigny da Gans non era in realtà d'ordine puramente giuridico; ma, portata sul terreno della discussione accademica, era una lotta politica che riguardava il problema essenziale dell'epoca, il conflitto tra le tendenze liberali nate dalla Rivoluzione francese, e le tendenze conservatrici e controrivoluzionarie.

In risposta ad un libro di Thibaut, professore a Heidelberg, che sosteneva la necessità di dotare tutti gli Stati tedeschi d'una legislazione comune, d'un codice nazionale, ispirato ai principi fondamentali del diritto naturale, Savigny aveva pubblicato nel 1814 un manifesto, nel quale, contro le tendenze razionaliste di Thibaut, stabiliva i programmi ed i principi della scuola storica del diritto.

Ispirandosi alle concezioni vitalistiche ed organiche dei romantici, Savigny respingeva l'idea d'un diritto naturale derivato da principi generali ed astratti, e mostrava che, lungi dall'essere creazione arbitraria del legislatore, il diritto, creazione dell'anima popolare, nasce, si trasforma e scompare insieme alle idee d'un popolo, insieme alle sue credenze e ai suoi costumi. La legislazione, diceva, forma un tutto organico che non si può modificare meccanicamente, e la codificazione, che fissa il diritto in formule, ne segna la decadenza, perché attesta che la fonte creatrice è secca 88). Per ottenere una rifusione della legislazione esistente, bisognava, secondo lui, intraprendere in precedenza uno studio sistematico del vigente diritto, il quale soltanto poteva permettere che si distinguessero in esso, per eliminarli, gli elementi morti dagli elementi vivi; questo studio doveva risalire alla fonte stessa del diritto attuale, cioè al diritto romano.

Il grande merito di Savigny era quello di far rientrare il diritto nella vita stessa del popolo, di legarne lo studio a quello della storia e di rimettere in onore il diritto «positivo», cioè il diritto quale esiste nella realtà, che l'epoca precedente aveva disprezzato per non stimar altro che il diritto teorico. La sua non era una dottrina conservatrice, almeno nella sua essenza, poiché la storia gli appariva come una fonte di rinnovamento organico e progressivo del presente "'); ma tuttavia portava in realtà ad un'esaltazione del passato, che si spiegava col gusto di Savigny per le ricerche storiche e con le sue tendenze conservatrici.

Infatti, da una parte le ricerche storiche furono deviate dal loro scopo originario, che era di permettere un rinnovamento organico della legislazione, e furono sempre più rivolte allo studio particolareggiato del diritto romano, innalzato a dogma "); dall'altra, questa teoria dello sviluppo organico del diritto, che s'opponeva alla teoria rivoluzionaria francese, prese ben presto un carattere reazionario, come tutte le teorie romantiche che condannavano il progresso in nome del principio di continuità; e, nel momento in cui la questione della costituzione era oggetto di controversie sempre pili vive tra conservatori e liberali, il motto di Savigny : «Una costituzione non si fa ma nasce da sé», fu adottato dai conservatori che vi trovarono la giustificazione del loro atteggiamento.

Inoltre la scuola storica del diritto si attirò le critiche più vive. Cominciò col condannarla Hegel. In lui il razionalismo prevaleva sul tradizionalismo, e, se egli era disposto ad ammettere con Savigny che non si può ridurre il diritto ad un insieme di formule astratte, concepite al di fuori della realtà giuridica, negava però al fatto sociale, in quanto tale, quel valore assoluto che Savigny tendeva ad attribuirgli.

Ai suoi occhi la giustificazione storica delle forme giuridiche, come la concepivano Savigny ed il suo maestro Hugo, non aveva il valore di una giustificazione filosofica. Tra l'ima e l'altra egli trovava la stessa differenza che tra la scienza empirica e la scienza speculativa, stimando che la spiegazione del diritto per mezzo del metodo storico fosse una spiegazione precaria, che non avesse valore se non per un'epoca limitata e per determinate circostanze, e che solo ia spiegazione filosofica avesse un valore assoluto 83).

Superando Hegel, il quale con la sua apologia del presente e la sua avversione alle idee liberali tendeva in realtà a porsi dallo stesso punto di vista conservatore di Savigny, E. Gans sosteneva contro la scuola storica del diritto la necessità d'un'evoluzione continua, determinata dal progredire dialettico dell'idea. A Savigny ed ai suoi discepoli rimproverava il misconoscimento dell'attività creatrice dello Spirito, che li induceva a sostituire alla necessità razionale la necessità cieca delle cause esteriori, ad attribuire un'importanza eccessiva alla tradizione, e a condannare il presente in nome del passato, divenuto l'ideale che bisognava restaurare.

Occupandosi di mostrare il concatenamento delle grandi epoche storiche, Gans lasciava alla storia narrativa la cura di esporre il cumulo dei fatti, e nella Storia universale seguiva lo sviluppo dell'Idea del Diritto. Nel suo grande studio sul diritto ereditario attraverso i tempi, egli ricollegava lo svolgimento di questa istituzione a quello di un principio '") e riduceva al rango di scienza ausiliaria (Rechtskunde), lo studio minuzioso dei testi, al quale Savigny pretendeva di ridurre il diritto.

Del resto, la sua lotta contro la Scuola storica del Diritto si ispirava più a motivi politici che a ragioni giuridiche e filosofiche. In realtà Gans era uno spirito liberale che cercava di diffondere in Germania le idee che avevano trionfato in Francia con la Rivoluzione del 1830. Prendeva attivamente parte a tutte le manifestazioni del liberalismo politico in Prussia, era membro della società degli amici della Polonia fondata a Berlino dopo il soffocamento della rivoluzione polacca, e nel 1837 apriva una sottoscrizione in favore dei professori di Gottinga, revocati per aver protestato contro il colpo di Stato del loro re.

Le sue opinioni liberali andavano oltre il quadro del liberalismo borghese, ed egli si era sentito ingannato dal governo di Luigi Filippo, che gli sembrava troppo preoccupato di rispettare e di consolidare i privilegi delle classi possidenti.

Durante la sua dimora in Francia, prima, durante e dopo la Rivoluzione del 1830, aveva conosciuto la dottrina sansimoniana, e ne aveva adottato l'idea fondamentale, cioè la necessità di un affrancamento totale dell'uomo per mezzo di una migliore organizzazione della produzione e della distribuzione della ricchezza. La questione sociale gli appariva già come il problema fondamentale, e ancor prima che la lotta politica in Germania cominciasse davvero, prevedeva che sarebbe stata relegata in secondo piano da quella sociale. Non nascondeva la sua simpatia per la classe operaia che nessuna legge proteggeva, e le cui miserevoli condizioni ricordavano quelle degli schiavi; e considerava che fosse dovere dello Stato venirle in aiuto per consentirle di condurre una vita più umana.

Animatore oltre che erudito, più preoccupato forse di convertire i suoi allievi alle idee che gli stavano a cuore, che di farne degli eruditi, Gans considerava la cattedra un po' come una tribuna dall'alto della quale si compiaceva di commentare gli avvenimenti dell'epoca. Grande era la sua influenza sui suoi allievi, e Marx la subi tanto più profondamente in quanto esisteva tra loro due un'affinità di stirpe e una comunanza d'aspirazioni. Senza addirittura pretendere che Gans determinasse interamente l'orientamento del suo spirito sin dall'inizio della sua dimora a Berlino, si può tuttavia affermare che contribuì notevolmente a convertirlo alla dottrina hegeliana e a farlo parteggiare contro le tendenze conservatrici di Savigny, per le idee liberali e democratiche. L'influenza di Savigny, che si esercitò allora su di lui accanto a quella di Gans, non fu del resto trascurabile, e l'insegnamento di questo maestro, che si adoperava a dare una dottrina dello studio minuzioso dei fatti e dei testi, non doveva andar perduto per lui. Se all'inizio Marx fu piuttosto attirato da Gans, che, sulle orme di Hegel, riconduceva lo svolgimento dei fatti a quello delle idee, più tardi doveva correggere con una tendenza sempre più decisa al realismo quel che questa concezione dell'evoluzione aveva d'arbitrario, e istituire con un legame più stretto tra le idee e i fatti una sintesi di questi due sistemi.

Oltre ai corsi di Savigny e di Gans, Marx segui, durante il primo semestre, forse per obbedire a un desiderio del padre, un corso di Steffens sull'antropologia. Discepolo di Schelling, Steffens faceva, com'era ancora di moda a quel tempo, della speculazione filosofica su argomenti scientifici. Applicando le concezioni romantiche alle scienze naturali, paragonava la vita dell'intera natura alla vita umana e attribuiva agli esseri animati ed inanimati uno stesso spirito, istituendo tra loro una comunanza essenziale di vita. Queste ricerche, che talvolta erano illuminate da profonde intuizioni, furono di poco profitto per Marx, perché non potevano che rafforzare la sua tendenza personale a subordinare ad. un sistema preconcetto lo studio dei fatti.

Del resto la tabella dei corsi seguiti da Marx dà solo un'idea molto incompleta della sua attività intellettuale. Sin da questo primo semestre, egli comincia a trascurare il diritto per la filosofia, alla quale chiede un sistema adatto a soddisfare le sue aspirazioni.

Innalza allora costruzioni filosofiche che cadono appena architettate, e si esaurisce in questo lavoro febbrile fino al momento in cui non gli si rivela la verità attraverso la dottrina hegeliana.

Questa tendenza alla speculazione filosofica appare già in una vasta opera sulla filosofia del diritto, intrapresa all'inizio del 1837, contemporaneamente alla lettura delle opere di Heineccius e di Thibaut, e alla traduzione dei due primi libri delle Pandette.

Quest'opera, di cui traccia il piano generale nella sua lettera del io novembre 1837, testimonia insieme l'influenza di Savigny e quella di Gans. Quella di Savigny si rivela per la parte preponderante che vi occupa il diritto romano, quella di Gans per la tendenza a studiare il diritto nei suoi rapporti con la filosofia.

In una prima parte intitolata «Metafìsica del diritto», determinava a priori i primi principi del diritto, al dì fuori di ogni realtà giuridica. In una seconda parte, chiamata «Filosofia del diritto», si proponeva di mostrare come questi principi si trovassero realizzati di fatto nel diritto romano, che egli, con Savigny, considerava come il prototipo del diritto. In ciò s'ispirava al metodo dell'idealismo trascendentale, che, muovendo da un principio, ne deduceva analiticamente le conseguenze e adattava poi ad esse la realtà.

Condividendo con Savigny l'idea che il diritto moderno si confonda nella sua essenza col diritto romano, Marx credeva di poter derivare da quest'ultimo gli elementi generali costitutivi del diritto. Ma, mentre Savigny, col suo acuto senso storico, si limitava a ricercare nella legislazione del suo tempo gli elementi ancora vivi del diritto romano, Marx, procedendo oltre su questa linea, si proponeva di mostrare che le forme giuridiche teoriche si confondevano effettivamente con quelle del diritto romano, considerato come tipico.

Questa impresa urtava in una grave difficoltà. Il diritto romano, rigidamente formalistico, differisce profondamente dal diritto moderno, fondato principalmente sull'assenso, e, come dimostra il tentativo di Marx, non lo si può paragonare a questo se non deformandolo.

Infatti, nel suo schema, solo l'assenso sussiste come causa d'obbligazione. I contratti vi sono classificati in un ordine logico, apparentemente secondo i benefici che ne deriva l'una o l'altra parte, ciò che cancella tra di essi ogni differenza specifica, e permette di raccogliere sotto una. stessa rubrica contratti di natura molto diversa, come la fidei jussio (cauzione) e la negotiorum gestio (gestione d'affari senza mandato). I contratti d'assicurazione, che sembrano formare in qualche modo un mezzo termine tra i contratti a titolo oneroso e i contratti a titolo gratuito, occupano un posto del tutto sproporzionato a quello che avevano nel diritto romano. D'altra parte la distinzione istituita tra il diritto delle persone e il diritto delle cose è molto arbitraria, e non si comprende perché la locatio conducilo (nolo) sia separata dall'empito venditio (vendita), classificata a torto nel diritto delle cose. Infine a questa deformazione si aggiunge una mutilazione profonda del diritto romano, dal quale Marx elimina tutte le parti che non quadrano col suo piano.

Dopo aver portato molto avanti questo saggio, di cui, a quanto dice egli stesso, scrisse 300 fogli, Marx s'accorse del suo errore. Si trovò in presenza d'un vero mostro giuridico, costituito dal più complicato miscuglio di elementi di diritto romano e moderno, e nella sua lettera del io novembre 1837 ne fa lui stesso una viva critica, ispirata alla filosofia di Hegel, che nel frattempo aveva fatto sua. Quel che rimprovera al suo lavoro non è tanto la stranezza giuridica, quanto il falso idealismo che l'ispira e che determina un'arbitraria separazione tra l'idea e la realtà tra il diritto teorico ed il diritto positivo. Ne critica il metodo che è quello matematico, ragionante su figure astratte che può immaginare combinare e disporre a suo piacimento: questo metodo, dice, non è applicabile al diritto, materia vivente, che bisogna osservare nel suo svolgimento per dedurne i principi». Da questo errore di concezione e di metodo derivano gli errori del suo saggio. Da una parte, la «Filosofia del diritto» che tratta di forme giuridiche a priori, è un doppione della «Metafisica dei diritto», dall altra il diritto teorico, separato dal diritto reale, si riduce ad una nomenclatura vuota di contenuto.

Dopo il fallimento di questo tentativo di costruire una filosofia del diritto, Marx s'immerge nella lettura di opere d'estetica e di storia. I suoi studi di estetica rispondono senza dubbio alla sua intenzione di fondare una rivista di critica drammatica, secondo un progetto che partecipò al padre; ma fu da questi disapprovato. In realtà, in questo periodo Marx resta ancora molto legato alla letteratura; scrive delle poesie, il primo atto d'un dramma fatalista, Oulamen, ed un romanzo satirico, Skorpìon e 'Felix, che invia al padre, nell'ottobre del 1837, per il suo compleanno. Il valore letterario di queste produzioni è, come quello dei suoi primi poemi, pressoché nullo, e il solo interesse che esse offrono è quello di mostrarci lo stato d'animo di Marx nel periodo in cui si viene formando la sua personalità.

Fin dal primo atto, il dramma fa presentire i cupi orrori dei drammi fatalisti. Un mistero avvolge tutti i personaggi, l'intreccio è molto oscuro, e per quanto se ne può capire da. questo atto, si riduce a questo : due stranieri, Oulamen (anagramma di Manuelo) e Lucindo sono accolti in una città d'Italia da un borghese, Pertini, che riconosce in Oulamen il suo nemico. Tutto preso dall'idea della vendetta, Pertini rivela a Lucindo che egli è un bastardo, e gli fa conoscere una giovane, Beatrice, di cui questi s'innamora, e che, a quanto pare, è sua sorella.

Del resto nulla di tutto ciò appare chiaramente : non ci sono che discorsi confusi, intramezzati da scatti di collera. Il loro disordine traduce quello dell'animo di Marx, altrettanto disperato, a quanto sembra, di quello del suo eroe Oulamen, il quale, disgustato della vita, apostrofa la natura ostile e vuole precipitarsi nel nulla, per trascinare nella sua caduta l'universo intero.

Mentre il dramma è l'immagine delle lotte interne a cui Marx era in preda, il romanzo, Skorpion e Felix, è un quadro satirico dell'ambiente berlinese nel quale egli viveva.

Per il suo stile sconnesso ed il suo carattere insieme aspro e confuso, questo romanzo s'avvicina al dramma; si compone d'una serie di frammenti staccati tra di loro, dove compaiono, secondo l'arbitrio della fantasia dell'autore, il capo-sarto Mertens, il figlio di questi, Skorpion, un lavorante, Felix, la cuciniera Greta, il burocrate Engelbert ed il cane Bonifacio.

Nel capo-sarto Mertens e nella sua famiglia «teutonica e cristiana», Marx mette in ridicolo gli avversari del liberalismo, che amavano atteggiarsi a difensori della religione cristiana e delle tradizioni germaniche. Questa prima allusione politica che troviamo nelle opere di Marx mostra che fin dal suo primo anno di dimora a Berlino, senza dubbio sotto l'influenza di Gans, egli ha preso partito nella lotta tra conservatori e liberali. Del resto un capitolo del romanzo è dedicato ad un episodio di questa lotta, e critica l'istituzione dei maggioraschi, che il governo aveva ristabilito in Renania per rafforzare il potere della nobiltà n"). Un altro capitolo contiene un vivace attacco contro la Scuola storica del Diritto, a cui Marx rimprovera, come faceva Gans, di limitare lo studio del diritto alla filologia e alla storia, senza tener conto del suo elemento razionale.

Come il dramma e il romanzo, le poesie composte da Marx in questo periodo non hanno altro interesse se non di testimoniare la sua sensibilità e le sue tendenze intellettuali.

La maggior parte di esse assomigliano a quelle che aveva inviate qualche mese prima alla fidanzata. Vi si ritrovano gli stessi personaggi e gli stessi temi del romanticismo più banale: Il rapimento, Nostalgia, Amore notturno. I pazzi, I disperati. Ma vi si scoprono tuttavia accenti nuovi, che ricordano quelli del dramma: il mondo che si oppone al suo amore gli appare cupo ed ostile, ma sente in sé tanta vita e tanta forza da esser pronto a sfidare il destino e a provocare l'universo intero. Si paragona al marinaio che su uno scafo leggero domina nella tempesta le onde infuriate; oppure evoca l'immagine d'una marcia gloriosa e liberatrice tra lo strepito delle rovine; e queste visioni fanno già presentire in lui il profeta che vorrà edificare un mondo nuovo sulle rovine dell'antico.

In questo sfoggio di sentimenti selvaggi bisogna indubbiamente ammettere che v'è molto di convenzionale e di romantico; ma in ciò si rivela l'ardore d'un'anima che non s'accontentava né s'acquietava nella vita mediocre e piatta che gli offriva la capitale e negli studi.

In alcuni epigrammi deride lo spirito gretto della popolazione, indifferente alle grandi cose e alle idee elevate, che non aspira ad altro che alla calma ed al riposo, e non apprezza se non le opere mediocri d'un Raupach o d'un Pustkuchen. Questa critica della mentalità e dei gusti piccolo-borghesi di Berlino è la prima manifestazione in Marx di un sentimento di ribellione contro la società. Come ha osservato Rjazanoff, non si tratta qui della satira abituale dello studente contro il filisteo, ma di una prima critica della società borghese, il cui carattere piatto e volgare urtava l'idealismo di Marx.

Neanche la scienza lo soddisfa più. Come i romantici, le rimprovera di non fornir una spiegazione soddisfacente della vita : infatti la chimica la riduce a fenomeni meccanici, la matematica a formule algebriche, e infine la medicina ad un processo organico che non tien conto né del pensiero né dei sentimenti.

Questa critica della borghesia e delle scienze si ispirava ad un idealismo, che opponendo alla mediocrità del reale un ideale adatto a soddisfare le aspirazioni dell'anima, lo allontanava ancora da Hegel, la cui filosofia gli appariva volgare e grossolana.

Queste poesie avevano, nel loro insieme, più solidità e più sostanza delle prime, e il loro lirismo era più vigoroso. Intravide allora, come dice lui stesso, il regno della vera poesia come un lontano palazzo di fate, ma questa visione, lungi dall'incoraggiarlo, gli dette invece coscienza della sua imperfezione e lo distolse dalla lirica.

Alla fine di questo primo semestre di studi la sua salute era fortemente scossa dalla vita di reclusione che egli conduceva, dall'eccessivo lavoro intellettuale, e dalla tensione nervosa nella quale viveva a causa della situazione falsa in cui si trovava nei confronti della fidanzata e dei genitori di lei Nel marzo, per metter fine a una incertezza che diveniva intollerabile per tutti, scrisse ai genitori di Jenny domandando loro la mano della figlia. La domanda, grazie all'affetto che nutriva per lui il barone di Westphalen, fu accolta malgrado l'opposizione di una parte della famiglia.

Tuttavia il fidanzamento non pose termine ai tormenti di Marx; la fidanzata, infatti, per un eccesso di pudore tardò a scrivergli, e questo silenzio aggravò ancora il suo nervosismo. Allora il medico gli consigliò di lasciare il centro della città dove egli abitava, per andarsi a riposare in campagna: andò a stabilirsi a Stralau, nei sobborghi di Berlino, dove ben presto si rimise in salute.

Durante questo soggiorno in campagna, nella primavera del 1837, Marx doveva abbandonare l'idealismo di Kant e di Fichte per adottare, con la filosofia di Hegel, una concezione più realista del mondo, nella quale la riflessione e l'osservazione prevalevano sull'immaginazione.

Trovò infatti a Stralau, dove abitava il suo maestro Gans, un circolo di giovani laureati, ferventi seguaci di Hegel, che con le loro discussioni lo convertirono a poco a poco alle loro idee. All'efficacia di queste discussioni s'aggiungeva quella di una severa autocritica, tratto caratteristico dello spirito di Marx, che progredirà sempre per la via dialettica della critica, critica dei suoi avversari o autocritica. Gli sembrava che la mediocrità dei suoi saggi, sia giuridici che poetici, da lui scritti fin allora, dipendesse dal fatto che egli opponeva alla realtà un ideale arbitrario e si proponeva ora di associare, al contrario, la realtà all'idea, e di derivare questa dal reale, dalla natura concreta. In ciò condivideva la tendenza che veniva prevalendo allora in tutti i campi sotto l'impulso del movimento economico e scientifico.

In realtà i progressi della scienza non permettevano più di sottoporre, come avevano fatto i romantici, la realtà alle fantasie dell'immaginazione, e determinavano un più stretto adattamento delle idee ai fatti. Nel campo filosofico questo adattamento era precisamente segnato dalla dottrina di Hegel, che, pur mantenendo l'idea come primo principio delle cose, l'integrava nella realtà di cui esprimeva lo svolgimento.

Marx si accinge allora allo studio di questa dottrina che rispondeva alle sue aspirazioni, ma al principio ne è respinto, e la sua «melodia dialettica» gli pare strana ed arcigna. Forse per difendersi dalla capacità di persuasione che avverte fortissima in essa, ed anche per precisare le sue nuove tendenze fissandole in un sistema, scrive un dialogo, Cleante o sul punto dì partenza e sul necessario svolgimento della filosofia, nel quale mostra come Dio, che all'origine è un puro concetto, svolga dialetticamente la sua essenza e si manifesti sotto forma di religione, di natura e di storia. Questo saggio, che gli costa molta fatica, ha un risultato imprevisto; lo porta in realtà, «come una perfida sirena, tra le braccia del nemico», cioè di Hegel, poiché la conclusione a cui egli arriva, la creazione di ogni realtà nello svolgimento dell'idea, costituisce effettivamente il principio della filosofia di Hegel.

Il fallimento di questo tentativo provoca in lui una grande delusione; e, tralasciando momentaneamente la filosofia, s'immerge di nuovo nei suoi studi di diritto, che corrispondono all'incirca ai corsi da lui seguiti durante il semestre estivo del 1837. Poi la filosofia l'attira di nuovo, e, dopo aver studiato l'insieme delle opere di Hegel, di cui non conosceva ancora che frammenti, si converte del tutto alla sua dottrina. Bisogna notare il carattere affettivo e sentimentale di questa conversione, che si spiega con la profonda affinità che univa questi due spiriti, ugualmente portati a sottoporre il mondo ad uno svolgimento razionale. Dopo una breve lotta contro una dottrina che l'affascinava suo malgrado, Marx fu sedotto da quella melodia dialettica, da quella «Felsenmelodie» che metteva in moto, secondo il ritmo che gli imponeva, l'intero universo.

A poco a poco la filosofia lo distoglieva dai suoi studi di diritto. Alla fine della lunga lettera del 10 novembre 1837, in cui riassumeva al padre la sua attività intellettuale durante l'anno trascorso dal suo primo arrivo a Berlino, gli comunicava il desiderio di abbandonare la carriera giuridica per seguire la carriera universitaria che gli sembrava rispondesse medio alle sue attitudini e ai suoi gusti.

Il padre restò poco edificato da questa lunga epistola che gli portava solo disinganni. Aveva sperato che dopo l'anno perduto a Bonn suo figlio avrebbe compiuto a Berlino solidi studi e si sarebbe procurato, secondo i suoi ripetuti consigli, utili relazioni. Invece lo vedeva, immerso in nebulose speculazioni filosofiche, perdere il tempo, sperperar il denaro e rovinarsi la salute costruendo sistemi subito demoliti.

Non che egli fosse uno spirito piattamente utilitario; mostrava anzi molta comprensione per le aspirazioni del figlio, ma non poteva ammettere che perdesse anni di studio preziosi e costosi in vane ricerche, senza curarsi del proprio avvenire al quale era legato quello della fidanzata. Gli aveva già rivolto su questo argomento molti ammonimenti, restati tuttavia senza effetto, e cominciava perfino a dubitare del carattere e dei sentimenti del figlio, domandandosi con inquietudine se non fosse in preda ad un demone che avrebbe causato l'infelicità di lui e dei suoi.

«Talvolta — gli scriveva — non posso difendermi dalle idee che mi rattristano e mi inquietano come un oscuro presentimento; mi sento all'improvviso assalito dal dubbio, mi domando se il tuo cuore è pari alla tua intelligenza e alle qualità del tuo spirito, se è accessibile a quei teneri sentimenti che sono quaggiù una fonte si larga di consolazione per un'anima sensibile, e se lo strano demone a cui il tuo cuore è manifestamente in preda, è lo spirito di Dio, o invece quello di Faust. Mi domando se sarai mai capace di gustare una felicità semplice, le gioie della famiglia, e di rendere felici quelli che ti circondano».

Queste apprensioni, che non erano senza fondamento, traducevano la differenza essenziale tra la natura tenera e sentimentale del padre e il temperamento volitivo e combattivo del figlio. Non che questi, accusato spesso di aridità e di durezza di cuore, fosse privo di sensibilità e incapace di affetto; se spesso si mostrava duro, del resto altrettanto con sé quanto con gli altri, era perché il pensiero e l'azione, che lo prendevano tutto, facevano tacere in lui il sentimento.

Quel che il padre prendeva per un demone malefico, altro non erano che le tumultuose manifestazioni del genio nascente del figlio. Siccome non comprendeva né l'oggetto né il fine delle lotte interiori a cui questi era in preda, e siccome non ne vedeva altro che gli spiacevoli effetti sulla sua vita disordinata e squilibrata, non poteva sottrarsi a un senso di amarezza e di inquietudine.

Questo sentimento era tanto più vivo per il fatto che egli subiva allora i gravi attacchi di una bronchite che doveva presto condurlo alla tomba, e che nell'agosto l'obbligava ad andare a fare una cura di tre settimane a Emps. La tosse continua che gli irritava la gola gli impediva quasi del tutto l'esercizio della sua professione d'avvocato, sicché pensava di lasciare il foro per entrare nella magistratura. Tra tutte queste preoccupazioni per il proprio avvenire, per l'avvenire della famiglia e per la malferma salute del figlio minore, Eduard, che doveva morire alla fine dell'anno, ricevette da Karl la lunga epistola del io novembre, in cui gli confessava la confusione e il disordine della propria anima.

Questa lettera fece traboccare il vaso. Pieno di collera al pensiero che i gravi sacrifici che s'imponeva per il figlio erano vani, e insieme di timore al pensiero che questi era in procinto di compromettere l'avvenire proprio e quello della fidanzata, egli, nella sua risposta del 9 dicembre, gli rimproverava aspramente la sua vita sregolata, i suoi studi confusi e sterili e le spese eccessive. Tuttavia la lettera terminava con parole affettuose; gli diceva che attendeva con impazienza la sua venuta per Pasqua, e che, malgrado fosse scontento di lui, l'avrebbe accolto con la tenerezza d'un padre. Nella sua ultima lettera del io febbraio 1838, più dolce e calmo per l'avvicinarsi della morte, gli dava alcuni consigli di saggezza, e lo invitava a moderare le spese, che eccedevano le sue entrate.

I suoi ultimi pensieri furono per il figlio, e sul letto di morte stese per Karl l'abbozzo di un articolo sul conflitto di Colonia, che nelle sue intenzioni doveva procurare al figlio i favori del governo. Vi sosteneva che questo conflitto nato tra la chiesa cattolica ed il governo prussiano a proposito dei matrimoni misti, non doveva esser considerato dal punto di vista strettamente giuridico, perché in questa questione che metteva in giuoco la sovranità dello Stato, il re poteva legittimamente ricorrere a misure contrarie al diritto comune.

Karl Marx, preoccupato per il continuo aggravarsi della malattia del padre, non portò a termine l'articolo. Infatti, fin dal febbraio del 1836 il padre fu costretto al letto; il 15 febbraio riusciva appena ad aggiungere con mano tremante qualche parola di poscritto ad una lettera scritta a Karl Marx dalla madre, e tre mesi dopo, il io maggio, all'età di 56 anni, moriva.

Questa morte prematura evitò forse un tragico conflitto tra padre e figlio; questa prova, che sarebbe stata dolorosa, dato l'affetto profondo che li univa, fu loro risparmiata, e Marx potè conservare un caro ricordo del padre.

Con lui venivano meno i solidi legami che univano Marx alla famiglia. Ormai avrebbe seguito l'inclinazione del suo genio che, togliendolo da quella vita ordinata che la prudente saggezza paterna gli avrebbe augurata, doveva presto trascinarlo nelle lotte politiche e sociali. La morte del padre coincideva infatti con la fine di quel periodo d'agitazione tumultuosa, durante il quale s'era venuta a poco a poco formando la sua personalità.

Questo periodo era stato contrassegnato da una crisi intellettuale e morale: un idealismo romantico, che gli aveva fatto respingere le concezioni piattamente utilitarie dell'ambiente in cui viveva, aveva aperto questa crisi; ma questo romanticismo, opponendo alla realtà un ideale nebuloso, si condannava all'impotenza, e non soddisfaceva la sua natura attiva e volitiva. Proseguendo la febbrile ricerca di un ideale conforme alle sue profonde aspirazioni, egli aveva infine trovato nella filosofia di Hegel una dottrina che rispondeva al suo temperamento logico e pratico, e questa filosofia, che doveva divenire il campo chiuso delle lotte politiche, avrebbe determinato poi il corso del suo pensiero e della sua vita.

CAPITOLO SECONDO
KARL MARX E LA SINISTRA HEGELIANA
IL RADICALISMO FILOSOFICO (1838-1841)

L'ingresso di Marx in una nuova vita coincideva con un risveglio del liberalismo in Germania. La reazione, che aveva trionfato del movimento liberale nato dalla Rivoluzione del 1830, non aveva potuto schiacciarlo del tutto, come aveva fatto dopo il 1817. Il liberalismo, poggiato su di una borghesia in sviluppo, si mostrò infatti più resistente, e, vinto sul terreno politico, dette prova di grande vitalità nella letteratura e nella filosofia.

La prima manifestazione di questa vitalità fu il movimento della Giovane Germania, che si sviluppò principalmente tra il 1831 e il 1835. Si designavano con questo nome un gruppo di giovani scrittori: Gutzkow, Laube, Mundt, Wienbarg, i quali, rompendo con le concezioni estetiche e politiche dei romantici, non opponevano più come questi l'arte alla vita, un passato lontano e idealizzato alla realtà immediata, ma si proponevano invece di tradurre nelle loro opere le nuove aspirazioni della loro epoca, e di fare della letteratura un mezzo d'azione per trasformare le idee e i costumi ').

Questo movimento, coincidente con lo sviluppo economico che andava trasformando la vita sociale della Germania, esprimeva appunto l'evoluzione della borghesia dall'idealismo romantico al realismo. Finché era stata condannata all'impotenza, la. borghesia aveva infatti trovato nel romanticismo, che esaltava l'individuo ed affermava i diritti della personalità, un mezzo per esprimere le sue aspirazioni alla libertà; ma, divenendo consapevole della propria potenza, si distoglieva dalle chimere romantiche, e tendeva a rivendicare sempre più vigorosamente i propri diritti, per acquistare un'importanza politica e sociale adeguata alla funzione economica che esplicava.

Il movimento della Giovane Germania era una prima affermazione, ancora un po' incerta, di questa tendenza. S'ispirava alle opere di due ebrei entrati nel campo dei liberali e rifugiati a Parigi: Boeme e Heine.

Sentimentale, dalle idee un po' confuse, Boeme condivideva le concezioni umanitarie di Lamennais, di cui aveva tradotto le «Paroles d'un croyant». Tutto pieno di odio contro i tiranni, sognava una repubblica tedesca che mettesse fine al dispotismo dei principi e assicurasse per ciò stesso la felicità di tutti. Heine, spirito più penetrante di Boeme, e temperamento più aristocratico, s'interessava, più che delle questioni politiche, del problema sociale, che considerava essenziale. S'adattava ad una monarchia liberale, e aderiva alla dottrina sansimoniana che gli sembrava la sola capace di portare alla totale emancipazione dell'umanità senza pregiudizio per l'arte e per l'ingegno.

Diffondendo coi loro scritti il culto delle idee rivoluzionarie, Boeme e Heine opponevano alla Germania, paese del dispotismo, la Francia, terra della libertà, e contribuivano cosi a modificare profondamente il liberalismo tedesco, che fin allora aveva avuto un carattere tradizionalista e nazionalista.

Gli scrittori della Giovane Germania derivavano da Boeme il loro radicalismo politico e da Heine le loro idee sansimoniane. Criticavano tutto ciò che dal punto di vista sociale e politico apparisse loro contrario alle leggi di natura e al principio di libertà; si erigevano contro il dispotismo e l'oppressione in tutte le loro forme, e opponevano al nazionalismo alleato al cristianesimo, il cosmopolitismo e il panteismo.

Questa letteratura, a dire il vero più brillante che profonda, conquistò a poco a poco alle idee liberali il pubblico letterario, creando generi, come la novella o ii romanzo d'appendice, che permettevano loro di adattarsi meglio alla vita quotidiana, e utilizzando la stampa che cominciava allora a diffondersi.

I governi tedeschi, allarmati per le critiche degli scrittori della Giovane Germania, il cui crescente successo minacciava di scuotere le fondamenta della religione, dello Stato e della società, proibirono nel 1835 la vendita dei loro libri. Gli autori, citati in giudizio e condannati, si atteggiarono a martiri, ma, siccome le loro convinzioni non erano né molto ardenti né molto profonde, caddero presto nello scetticismo e nello scoraggiamento.

Del resto il partito liberale si trovava allora a dover far fronte ad una vigorosa controffensiva del partito conservatore che, ispirandosi alle dottrine di Haller e di A. Mueller, combatteva l'individualismo egualitario e i principi rivoluzionari di libertà e di sovranità popolare. Alle idee liberali opponeva una concezione organica dello Stato e della società, e voleva integrare l'individuo in solidi quadri religiosi, politici e sociali. Considerava la religione come il legame sociale spirituale, l'anima dello Stato, faceva del monarca il capo assoluto di questo, e non ammetteva altra rappresentanza popolare che l'antica, per classi sociali: nobili, borghesi e contadini, dove la nobiltà, classe privilegiata, serviva da intermediaria tra il monarca e il popolo.

Questo conservatorismo, il cui programma si riassumeva nel motto di J. de Maistre: «Non vogliamo la controrivoluzione, ma il contrario della rivoluzione», aveva allora il suo teorico nel giurista Stahl, ebreo convertito al protestantesimo, il quale, nella sua ((Filosofia del diritto (1830-1837), preconizzava la restaurazione dell'ortodossia religiosa e della monarchia assoluta, per lottare contro il liberalismo politico e la scienza atea che avevano minato le fondamenta dell'antico regime e generato la rivoluzione.

Ma questa recrudescenza della reazione non soffocò il movimento liberale, che ogni qualvolta il governo pensava di averne trionfato, rinasceva sotto nuova forma. Infatti, proprio in questo momento lo Staatslexicon di Rotteck e di Welker (1834-1836), enciclopedia polìtica ispirata ai principi della rivoluzione francese, otteneva un immenso successo.

L'eccesso stesso della repressione contribuiva del resto allo sviluppo del liberalismo. Cosi, nel 1837, il suicidio del pastore Weidig, promotore del movimento rivoluzionario dell'Assia del 1833, torturato in prigione da un giudice squilibrato, agitò l'opinione pubblica in tutta la Germania. Nello stesso anno il re dello Hannover revocava ed espelleva sette professori dell'Università di Gottinga, che avevano rifiutato di riconoscere il colpo di Stato col quale egli aveva abolito la costituzione concessa nel 1831. Questo brutale provvedimento preso nei riguardi di dotti come i fratelli Grimm, Dahlmann e Gervinus, provocò l'indignazione generale; si organizzarono dappertutto collette in loro favore, e sostenuti dalla simpatia del pubblico, i professori uscirono moralmente vincitori dalla lotta. Infine, nella stessa epoca, il conflitto scoppiato tra la Chiesa cattolica e il governo prussiano sollevò contro quest'ultimo l'opinione pubblica. Siccome l'arcivescovo di Colonia, Clemente August von Droste, non voleva ritornare sulla sua decisione, contraria all'editto reale del 17 agosto 1825, di esigere in caso dì matrimonio misto la promessa preventiva degli sposi di far educare i figli nella religione cattolica, il governo prussiano, nel novembre del 1837, lo faceva arrestare ed internare. Qualche mese dopo prendeva lo stesso provvedimento contro l'arcivescovo di Posen che ugualmente rifiutava di sottomettersi ai suoi ordini. L'arresto di questi due prelati, che apparivano come martiri, fu, negli anni che seguirono, uno dei principali fermenti dell'agitazione politica in Prussia, e contribuì al risveglio del liberalismo.

Cosi, malgrado la repressione governativa e, in una certa misura, a causa d'essa, il liberalismo restava vivo negli animi, ma doveva prendere, per manifestarsi, forme sempre più intellettuali e astratte, le uniche compatibili col regime politico d'allora. La Giovane. Germania, ridotta al silenzio, fu sostituita da un movimento filosofico d'ispirazione hegeliana, che tendeva a risolvere il problema della libertà per via speculativa.

La dottrina di Hegel, rivoluzionaria nella sua essenza, poiché tendeva a mostrare che la libertà doveva necessariamente attuarsi nel mondo, approdava nella realtà ad un sistema conservatore, che corrispondeva al periodo di formazione della borghesia, in cui questa, ancora debolissima, era costretta a venire a patti col potere. Sviluppando il lato rivoluzionario di questa dottrina, gli hegeliani liberali, che rappresentavano le nuove aspirazioni della borghesia, sottolineavano la contraddizione esistente tra il sistema conservatore di Hegel e il suo metodo dialettico, e mostravano ch'era illogico e vano pretendere d'arrestare il cammino di questa dialettica per giustificare e mantenere l'attuale stato di cose. Questa critica, inaugurata da Gans nel diritto, doveva in seguito venir applicata da D. F. Strauss e B. Bauer alla dottrina religiosa, e poi da Ruge e Marx alla dottrina politica di Hegel.

In questo suo sviluppo, il liberalismo, sotto l'effetto della repressione, s'allontanava sempre più dalle masse popolari. Il movimento letterario della Giovane Germania che, dopo la festa di Hambach, era seguito al movimento politico, aveva esteso la sua attività a tutto il campo del pensiero, ma limitato la propria influenza al pubblico letterario. Il movimento filosofico che lo sostituiva si rivolgeva ad un pubblico ancora più ristretto, e interessava solo un piccolo numero d'iniziati. Malgrado il suo carattere speculativo ed astratto, questo movimento doveva essere a sua volta perseguitato quando apparve pericoloso al governo; prendendo allora un carattere politico, si preparò a divenire il centro dell'opposizione liberale in Prussia.

Da questa critica filosofica Marx fu attratto al radicalismo politico, muovendo dal quale doveva evolvere verso il comunismo; il suo sviluppo intellettuale e politico, durante questo periodo, si confonde con quello della sinistra hegeliana.

Dopo la morte del padre, a cui doveva ben presto seguire quella di Gans, Marx abbandona quasi del tutto il diritto per dedicarsi allo studio della filosofia e della storia. Prosegue del resto i suoi studi soprattutto fuori dell'università, e, durante i due ultimi anni della sua dimora a Berlino, s'iscrive in tutto a tre corsi, dei quali uno solo di diritto.

Tra i corsi che segue durante il semestre estivo del 1838, è importante notare quello di Ritter sulla Geografia generale. Ispirandosi alla filosofia di Schelling e alla sua sintesi organica della Natura e dello Spirito, Ritter considerava la geografìa come il fondamento della storia, di cui determina il corso generale, e s'adoperava a dimostrare come gli avvenimenti storici siano condizionati dagli elementi geografici. Sebbene restasse un idealista e considerasse la storia come manifestazione della volontà divina, dalla sua dottrina scaturivano i principi essenziali del materialismo, e si può ammettere ch'essa non fosse senza influenza su Marx, quando, qualche anno dopo, questi elaborò la sua concezione del materialismo storico.

Il centro dell'attività intellettuale di Marx durante la sua dimora a Berlino non fu né l'università, che dopo la morte di Gans non l'attirò più, né la città, la quale, malgrado il suo rapido incremento, era priva d'una vera vita intellettuale e politica, ma il circolo di giovani scrittori e professori di cui aveva fatto conoscenza durante il suo soggiorno a Stra-lau, nell'estate del 1837.

I principali membri di questo circolo erano Rutenberg, professore di geografìa nella scuola dei cadetti, che Marx, in una lettera al padre, chiamava suo intimo amico; Meyen, redattore della «Gazzetta letteraria»; Koeppen, professore di storia nella Koenigstaedtische Realschule, e B. Bauer, libero docente dal 1834 nella Facoltà di teologia di Berlino. Benché molto più giovane di loro — non aveva allora che vent'anni, mentre gli altri in genere erano sulla trentina — Karl Marx s'impose subito per la sua forte personalità, e fu accolto dagli altri come un uguale.

Nell'ambiente berlinese, di spìrito gretto e servile, questo circolo costituiva un gruppo intellettuale indipendente e vivo. Tutti questi giovani laureati erano ferventi seguaci della filosofìa hegeliana, in particolare della filosofia del diritto, che sembrava loro avesse dato al problema essenziale dell'epoca, il problema della libertà, una soluzione perfetta, conforme insieme agli interessi e ai diritti degli individui e dello Stato.

Ma sotto l'influenza delle idee liberali sarebbero stati ben presto portati a notare l'opposizione, insita in questa filosofia, tra il sistema conservatore e il metodo dialettico di natura rivoluzionaria.

Infatti il metodo dialettico implica un divenire incessante, un cambiamento continuo, al quale non si può assegnare come limite e come fine una forma determinata. Col progresso dialettico ogni realtà tende a perdere il carattere di necessità logica ch'essa riveste a un dato momento, e per questo fatto stesso diventa irrazionale e deve far posto ad una nuova realtà, ugualmente destinata a sparire. Ora Hegel, inclinando verso le tendenze conservatrici, sembrava attribuire alla realtà presente un valore assoluto, e significare che l'Idea aveva trovato la sua forma definitiva, la sua perfetta realizzazione, nello Stato prussiano ch'egli esaltava come l'incarnazione stessa del diritto.

Da ciò l'ambiguità della celebre formula della sua Filosofia del Diritto : «Ciò che è razionale è reale, e ciò che è reale è razionale», che permetteva, se non la si riduca ad una semplice tautologia, una doppia interpretazione : un'interpretazione conservatrice, se s'intendeva che la realtà presente fosse l'espressione definitiva e perfetta dell'Idea assoluta, un'interpretazione liberale, e perfino rivoluzionaria, se si credeva invece che l'idea, nel suo moto dialettico, importasse necessariamente un'incessante modificazione del reale. Malgrado gli sforzi di Hegel per stabilire un compromesso tra le opposte tendenze dell'epoca, tra l'idealismo e il realismo, tra un sistema statico e conservatore ed una concezione evoluzionista e liberale, questo compromesso non poteva essere che precario e momentaneo, e le contraddizioni inerenti alla sua dottrina dovevano necessariamente scoppiare al tempo del risveglio economico e politico della Germania dopo il 1830. Da una parte il progresso delle scienze causava la rovina delle sue costruzioni speculative, dall'altra il progresso delle idee liberali tendeva a far respingere il suo sistema politico che, con la sua apologia del regime prussiano, appariva reazionario.

In seno stesso alla scuola hegeliana avvenne una scissione tra una destra conservatrice ed una sinistra liberale che si sforzò di adattare la dottrina di Hegel alle nuove condizioni economiche e politiche. In questo sforzo, essa provocò una dissociazione e una trasformazione della filosofia hegeliana, criticandone il carattere statico e idealista. Ispirandosi al metodo dialettico, ne derivò anzitutto una dottrina dell'azione, che limitò al dominio spirituale, e poi, volendo dare a questa azione un carattere concreto e pratico, produsse un capovolgimento nella dottrina di Hegel, per legare questa azione non più allo svolgimento dell'Idea, ma a quello della realtà politica e sociale, integrandola in esso.

Questa separazione tra la destra e la sinistra hegeliana, tra i Vecchi e i Giovani hegeliani, s'era già profilato durante la vita di Hegel, e abbiamo visto come Gans avesse sostenuto contro di lui che le idee liberali costituivano un progresso, una nuova espressione dell'Idea. Ma il vero conflitto, la lotta decisiva tra le due tendenze si scatenò, dopo la morte di Hegel, nel campo religioso. Come i riformatori francesi del sec. XVIII, i Giovani hegeliani, prima di cominciare la lotta politica e sociale, diressero i loro primi attacchi contro la religione, perché era meno pericoloso criticare i dogmi che lo Stato. La disputa verteva sulla questione se la filosofia e la religione fossero della stessa natura, se fossero riducibili l'una all'altra, o se invece fossero di diversa natura ed incompatibili tra di loro.

Nella sua Filosofia della religione, Hegel, per giustificare il cristianesimo dal punto di vista filosofico, aveva dato ai dogmi un senso metafisico e fatto del Cristo un dio impersonale, l'incarnazione dello Spirito del mondo.

Identificando il contenuto della religione con quello della filosofia egli mostrava che esse erano identiche nella loro essenza, e che solo una differenza di forme le separava, rivelando la religione per mezzo di simboli il contenuto razionale della filosofia.

Da ciò Hegel era condotto a trasformare i dogmi in concetti filosofici, e a trascurare il loro contenuto positivo. Ma cosi doveva scontentare contemporaneamente gli ortodossi ed i filosofi, che non potevano ammettere questa riduzione della fede al pensiero o del pensiero alla fede.

Su questo punto concentrò le sue critiche, uno dei suoi discepoli, D. F. Strauss, che, nella sua Vita di Gesù, apparsa nel 1835, si ribellò contro questa identificazione della religione colla filosofia, sostenendo che non si potevano trasformare i dogmi in concetti filosofici senza alterare il contenuto della fede. Mentre Hegel, per sostenere la sua dottrina, pretendeva che nello studio della religione cristiana si possa trascurar la realtà storica ed i racconti biblici ed evangelici, Strauss invece sosteneva che questi racconti costituiscono il fondamento del dogma e che in realtà gli Evangeli sono, non simboli filosofici, ma miti che traducono le profonde aspirazioni del popolo ebreo. Riprendendo la nozione del dio impersonale, implicitamente contenuta nella cristologia hegeliana, mostrava che il Cristo, in quanto individualità, non aveva alcuna realtà storica, e che, lungi dall'essere la totale rivelazione dello Spirito Divino, come pensava Hegel, non ne costituiva altro che un momento essenziale, perché solo l'umanità intera dà nel suo svolgersi un'immagine completa di Dio.

Negando cosi l'identità istituita da Hegel tra la religione e la filosofia, ed integrando il Divino, l'Assoluto nell'umanità stessa, Strauss liberava la filosofia dal dogma e toglieva al sistema di Hegel il suo carattere metafisico e trascendentale.

Dopo questo primo colpo inferto dal libro di Strauss alla dottrina hegeliana, i Giovani hegeliani si studiarono di separare il metodo dialettico dal sistema conservatore, per trasformare la dottrina di Hegel in una filosofia dell'azione.

Hegel, nel suo sistema, aveva limitato l'applicazione della dialettica alla spiegazione del presente per mezzo del passato. Egli interdiceva ai filosofi di speculare sull'avvenire: ((L'uccello di Minerva — diceva — s'alza solo al crepuscolo», intendendo che il filosofo deve limitarsi a comprendere ciò che è, a registrare l'opera della ragione cosi com'essa s'è manifestata nella storia 1?). I Giovani hegeliani, spostando il campo d'azione della dialettica per farne un'arma di combattimento, uno strumento d'azione, pensavano invece ch'essa dovesse servire non solo a dedurre il presente dal passato, ma anche e soprattutto a concludere dal presente l'avvenire.

Cosi nella sua critica della Filosofia della Storia di Hegel, il von Cieszkowski esponeva la necessità di sostituire alla filosofia hegeliana, puramente speculativa, la filosofia dell'azione, l'unica capace di realizzare la sintesi del pensiero e dell'essere. Egli rimproverava ad Hegel di non aver visto che questa sintesi può effettuarsi solo nell'attività cosciente, e di essersi limitato a derivare dal passato le leggi della storia, senza basarsi su di essa per determinare l'avvenire. Se finora la storia del mondo ha tradotto in modo imperfetto l'evoluzione dell'Idea, ciò dipende dal fatto ch'essa non è opera dell'attività cosciente; ma, diceva, noi siamo alle soglie d'un'era nuova, che s'apre con Hegel, in cui l'uomo dirigerà il corso dello storia secondo la sua volontà. Questa dottrina, che modificava cosi profondamente il sistema di Hegel, nel senso di quello di Fichte, proponendosi di sottoporre la realtà alla volontà razionale, e facendo della determinazione dell'avvenire, del Dover-essere, ch'essa opponeva all'Essere, il principale oggetto della filosofia, diverrà poi quella dei Giovani hegeliani.

Sotto l'effetto della violenta reazione religiosa provocata dalla Vita di Gesù contro l'hegelismo, i Giovani hegeliani si costituirono allora in gruppo per difendere il razionalismo contro l'ortodossia religiosa. Con un movimento analogo a quello che s'era prodotto nel cattolicesimo con l'ultramontanismo, gli ortodossi protestanti, tornando ad un luteranesimo intransigente e avvicinandosi al pietismo, si levarono contro la scienza e le negarono il diritto di portare le sue investigazioni nel campo religioso. Il loro capo Hengstenberg, professore di teologia a Berlino, che nel 1827 aveva fondato la Gazzetta evangelica per denunciare gli eretici e combattere le tendenze razionaliste, attaccava ora la dottrina di Hegel e, insistendo sulle conclusioni a cui era arrivato Strauss, dimostrava ch'essa trasformava il cristianesimo in un vago panteismo.

Per difendersi contro questo attacco, la destra hegeliana s'industriava a mantenere l'unione stabilita da Hegel tra la religione e la filosofia, e a mostrare che Strauss ne aveva deformato il pensiero. Cosi fece, per esempio, B. Bauer, il principale membro del «Doktorclub» frequentato da Marx. Egli pubblicava allora, col suo maestro Marheineke, La filosofia della religione di Hegel e difendeva nella Rivista di teologia speculativa il punto di vista apologetico contro il punto di vista critico di Strauss. Entrò cosi in conflitto diretto con quest'ultimo a proposito d'una recensione sulla Vita di Gesti, in cui negava alla ragione il diritto di criticare i dogmi; ciò che gli attirò del resto un'aspra risposta di Strauss.

La sinistra hegeliana, levandosi contemporaneamente contro gli ortodossi cristiani e hegeliani, che pretendevano di subordinare la filosofia alla religione, prese apertamente le difese di Strauss nella polemica sulla Vita di Gesù, e rivendicò contro di quelli i diritti della critica.

Gli Annali di Halle, fondati nel 1838 da Ruge e Echtermeyer, furono l'organo di questo gruppo. Ruge, dietro il quale Echtermeyer doveva presto scomparire, aveva partecipato al movimento della «Burschenschaft» ed era stato sei anni in prigione come demagogo nelle fortezze di Koepenik e di Kolberg. Divenuto libero docente all'Università di Halle, aveva pubblicato un libro di estetica ispirato ai principi di Hegel (Nette Vorschule der Esthetik, 1837).

Gli Annali di Halle, da lui fondati nell'anno seguente, dovevano nelle sue intenzioni servire da contropartita agli Annali di Berlino, rivista hegeliana che gli sembrava troppo legata al sistema del maestro.

Non era un pensatore molto originale, ma il suo spirito intraprendente, le sue vaste cognizioni e il suo temperamento combattivo facevano di lui un eccellente direttore di rivista. E in realtà gli Annali di Halle divennero sotto il suo impulso il punto d'incontro di tutti gli spiriti indipendenti della scuola hegeliana, dei Giovani Hegeliani, che costituirono attorno a Ruge una vera fronda letteraria.

I Giovani hegeliani, rimproverando ai discepoli ortodossi di Hegel le loro tendenze conservatrici, si proponevano, incoraggiati dalla critica di Strauss, di estendere questa critica a tutti i campi, per istituire una effettiva armonia tra lo sviluppo della realtà e quello della ragione. Non dubitando dell'onnipotenza dello Spirito, pensavano che per difendere i diritti della ragione contro gli attacchi della reazione, bastasse ricercare e determinare col metodo dialettico gli elementi irrazionali inclusi nella realtà. Pensavano di adottare questo metodo per la riforma dello Stato prussiano, che con Hegel consideravano destinato a realizzare nel grado pili alto la sintesi del reale e del razionale. La Prussia, dicevano, per compiere la sua missione non ha da far altro che restar fedele al suo passato, allo spirito della Riforma e dell'era dei lumi, dell'Aufklaerung, che avevano liberato la ragione .

Cosi, per una curiosa vicenda, la dottrina di Hegel, che sotto la Restaurazione era servita a giustificare e a rafforzare lo Stato prussiano reazionario e la religione cristiana, si apprestava a contribuire alla lotta contro di essi. Con i Giovani Hegeliani la critica filosofica diveniva effettivamente un'arma politica e, come i giornali della Giovane Germania avevano tirato fuori la letteratura dall'isolamento estetico in cui s'era chiusa fino allora per portarla nella vita politica e sociale, cosi gli Annali di Halle facevano a poco a poco della filosofia un elemento ed un fattore della vita politica prussiana.

A dire il vero, gli Annali di Halle si occupavano inizialmente soprattutto d'arte e di letteratura, e non avevano un carattere politico ben preciso. Ma siccome difendevano l'indipendenza della scienza e dello Stato di fronte alla Chiesa, e sostenevano l'opera di Strauss, furono presto attaccati dagli ortodossi e portati, per cosi dire, di forza all'opposizione.

L'attacco contro gli Annali fu sferrato a proposito de! conflitto di Colonia. In un opuscolo intitolato Athanasius, Goerres, prendendo la difesa dei cattolici renani, aveva tentato di sollevarli contro la Prussia. In risposta a questo opuscolo, H. Leo, professore a Halle e protestante ortodosso, accusò Goerres di riprendere la vecchia politica guelfa e di sostenere gli interessi del papa contro quelli della Germania. Ruge, prendendo a sua volta partito contro l'ultramontanismo di Goerres e il luteranismo di Leo, mostrò come l'uno e l'altro fossero nemici del razionalismo. Allora Leo, in un articolo del Berliner politisches Wochenblatt e in un opuscolo: Die Hegelingen, denunciò la rivista di Ruge come nemica della religione e dello Stato, accusandola di predicare l'ateismo e la rivoluzione.

Leo si attirò cosi una doppia replica : la prima, nella quale per la prima volta si nota la tendenza all'opposizione, veniva da E. Meyen, membro del «Doktorclub». Contrariamente a quel che aveva fatto B. Bauer, Meyen difendeva infatti contro l'ortodossia i diritti della critica, e accusava Leo di far causa comune coi pietisti.

Da parte sua Ruge rispose contemporaneamente agli attacchi di H. Leo e a quelli che Hengstenberg, nella Gazzetta evangelica, aveva diretto contro gli Annali di Halle, dicendo che questi attacchi miravano a colpire le fondamenta stesse del protestantesimo e dello Stato prussiano, il principio di libertà, il quale, lungi dall'essere un principio di rivolta, costituiva invece la migliore garanzia contro la rivoluzione, poiché permetteva lo sviluppo razionale e progressivo della storia.

Egli pensava allora che ci fosse concordanza tra l'idea di libertà, i principi della Riforma e quelli dello Stato prussiano, che considerava con Hegel come l'incarnazione della ragione; e non si proclamava ancora, come Strauss, ostile alla religione protestante, non ritenendola incompatibile con la filosofia.

Ma questo tentativo di conciliare cosi, in nome della ragione, la religione protestante, lo Stato prussiano e la critica filosofica, doveva presto apparire in tutta la sua vanità.

E infatti, in una risposta alle accuse di Leo contro gli Hegeliani, indirizzata agli Annali di Halle, Feuerbach mostrava che questo attacco non era che un episodio della lotta inevitabile tra il cristianesimo e la filosofia.

Riprendendo in un altro articolo l'opposizione istituita da Strauss tra il pensiero e la fede, tra la filosofia, fondata sulla ragione, e la religione, fondata sul sentimento, egli criticava il tentativo fatto dalla filosofia hegeliana per conciliarle, e mostrava che questo tentativo costituiva un attacco sia contro la religione che contro la filosofia.

Rivolgendo la sua critica contro i principi della filosofia di Hegel, Feuerbach negava a questa filosofia iì carattere assoluto che le attribuivano gli hegeliani ortodossi, i quali credevano terminata con essa l'opera della ragione. In realtà, diceva Feuerbach, questa dottrina non è se non l'ultima espressione della filosofia speculativa, che cerca di realizzare a priori l'unione di Dio e dell'uomo, del mondo intellettuale e del mondo sensibile. Malgrado la sua apparenza monista, questa filosofia resta essenzialmente dualista, poiché non trionfa della realtà concreta se non riducendola a priori all'idea. Questo procedimento, che le dà un'apparenza di unità, di coesione e di potenza, la condanna alla sterilità, allontanandola dalla Natura concreta, viva fonte dello spirito.

Feuerbach distruggeva con questa critica la metafìsica hegeliana, fondata sul postulato che di veramente reale non ci sia che l'essere spirituale, l'idea, e poneva cosi le fondamenta d'una nuova filosofia che, ritenendo invece come sola cosa reale il concreto, partiva dalla realtà immediata. Effettuando cosi un capovolgimento completo della dottrina hegeliana, col dedurre l'idea dalla realtà invece che farne il principio creatore delle cose, Feuerbach disgregava anche più radicalmente di quel che non avesse fatto Strauss la filosofia di Hegel, e preparava una solida base alla dottrina dell'azione che i Giovani Hegeliani derivarono appunto allora da questa filosofia.

Ruge non adottò subito le conclusioni di Feuerbach. Restava ancora fedele alla filosofia di Hegel che gli appariva come l'espressione della ragione, e, malgrado le continue delusioni che provava di fronte al governo prussiano, continuava a credere che la Prussia fosse destinata a difendere il principio di libertà contro le forze della reazione ch'egli comprendeva sotto il nome generico di romanticismo. Ma sotto la pressione dei fatti che testimoniavano del carattere sempre più reazionario del governo prussiano, il suo atteggiamento si venne mutando.

In un celebre articolo che segnò per la sinistra hegeliana il passaggio dalla critica filosofica alla critica politica, egli si scagliava contro le tendenze reazionarie della Prussia. Rispondendo all'apologia del governo e delle istituzioni prussiane fatta da K. Streckfuss nel suo libro Ueber die Garantien der preussischen Zustaende (Halle, 1839), Ruge rimproverava alla Prussia d'essere infedele alla sua missione e di tender al cattolicesimo, cioè ad una forma di governo autoritario ed assoluto, invece di continuare l'opera del protestantesimo e della Riforma, sviluppando le istituzioni liberali e favorendo il movimento costituzionale.

A cominciare da questo momento il «Doktorclub», di cui faceva parte Karl Marx, comincia a collaborare regolarmente agli Annali di Halle, e a sostenere una parte attiva nella vita politica tedesca.

Bruno Bauer, che ne era la personalità più spiccata ed il capo riconosciuto, e che era stato fino ad allora hegeliano ortodosso, si orientava rapidamente verso la sinistra hegeliana. Nella sua Critica della stona della rivelazione, del 1838, sottolineava l'opposizione tra il divenire storico e la religione, e mostrava le contraddizioni tra i diversi momenti della Rivelazione, ognuno dei quali ha soltanto un valore relativo, pur pretendendo di avere un valore assoluto. Nell'aprile del 1839 egli pubblicava un opuscolo contro Hengstenberg, che per fini apologetici aveva identificato il Nuovo Testamento con l'Antico, gli Evangeli con la Legge Ebraica. Contro questa tesi, egli sosteneva che l'Antico e il Nuovo Testamento rappresentavano due diversi momenti della Coscienza Divina, e che il Nuovo Testamento non aveva più in sé quella contraddizione implicita nell'Antico, di affermare l'universalità del proprio principio e di restringerne l'applicazione ad un sol popolo. Gli ortodossi si levarono contro di lui, e il ministro Altestein, che lo proteggeva, giudicò opportuno, per sottrarlo ai loro attacchi, inviarlo, nell'autunno del 1839, come libero docente all'Università di Bonn, dove sperava di farlo presto nominare professore. B. Bauer lasciò non senza rimpianto Berlino, il «Doktorclub» e in particolar modo Karl Marx, che era divenuto il suo migliore amico. A Bonn infatti si doveva trovare in un ambiente di professori di teologia ostili alla filosofia hegeliana, sospetta d'eterodossia; e la dottrina che egli elaborava allora sulla natura degli Evangeli e sui rapporti tra la religione e la filosofia, non era fatta per avvicinarlo a loro.

Bauer, infatti, stava intraprendendo una critica dei Vangeli concepita da un punto di vista diverso da quello di Strauss, e fondava su questa critica una nuova filosofia, che era destinata a dirigere il pensiero e l'azione dei Giovani Hegeliani.

Estendendo alla teoria di Strauss la critica che aveva diretto contro Hengstenberg, egli intendeva dimostrare come i Vangeli non fossero l'espressione del messianismo ebraico, ma rappresentassero un nuovo grado della coscienza umana. Nella sua critica respingeva gli ultimi resti della realtà storica che Strauss riconosceva ancora ai Vangeli e alla persona del Cristo, e sosteneva che la comunità cristiana, lungi dall'aver riferito a Gesù il dogmatismo messianico, come pensava Strauss, aveva invece creato nel corso della sua storia il proprio dogmatismo, e incarnato nella figura di Gesù i propri pensieri e le proprie aspirazioni.

Studiando cosi gli Evangeli più nei loro rapporti con la filosofia ad essi contemporanea, che nei loro rapporti col giudaismo, Bauer dimostrava che la religione cristiana era, come le dottrine filosofiche del suo tempo, una nuova espressione della coscienza universale. In ciò si ispirava ad Hegel che, avvicinando la religione cristiana al pensiero greco e romano, considerava le filosofie contemporanee dei Vangeli, l'epicureismo, lo stoicismo, lo scetticismo, ed il dogma cristiano stesso, almeno nelle sue origini, come il prodotto della Coscienza dolorosa, dello Spirito oppresso, che nella miseria spirituale e morale nata dalla decadenza della- civiltà antica, s'era ripiegato su se stesso per salvaguardare la propria libertà. Ma, mentre Hegel condannava questi sistemi, come tutte le teorie che oppongono un ideale alla realtà, B. Bauer invece vedeva in essi e nei Vangeli, e proprio a causa di questa opposizione, un momento essenziale della coscienza universale, che si sviluppa dialetticamente con la critica incessante della realtà.

B. Bauer pensava che il compito spettante attualmente alla critica, strumento essenziale del progresso dell'umanità, fosse quello di liberare l'uomo dalla religione cristiana. Secondo lui la coscienza religiosa, dopo aver trasformato il mondo antico dando un valore preminente alla personalità umana, era divenuta un ostacolo allo sviluppo della coscienza universale: infatti la religione asserviva l'uomo, facendogli adorare in Dio la sua propria essenza come una potenza che gli fosse estranea e superiore; ed egli si proponeva appunto di liberare la coscienza umana con la sua critica dei Vangeli. Del resto, non mirava che ad una liberazione spirituale, ad una rivoluzione intellettuale, la sola che avesse ai suoi occhi un valore concreto, e da principio contava perfino sull'appoggio dello Stato prussiano, che, fondato sulla ragione, non poteva mancare, secondo lui, di difendere contro la Chiesa i diritti della critica.

Questa filosofia, traducendo in forma ideologica la lotta della borghesia contro le forze conservatrici, veniva a completare la dottrina della filosofia dell'azione di Cieszkowski, mostrando come per mezzo della critica, che elimina dal reale gli elementi irrazionali, si possa determinare l'avvenire. Essa, anche più profondamente che la filosofia di Cieszkowski, modificava la dottrina di Hegel nel senso di quella di Fichte. L'idea assoluta di Hegel, divenendo la Coscienza universale, non era più legata ad una sostanza, a una realtà, che in vero per Bauer aveva solo un carattere contingente, passeggero, e la funzione, analoga a quella del Non-Io, di determinare per antitesi l'evoluzione della coscienza umana.

Lo spirito, liberato da ogni legame con la realtà, poteva progredire indefinitamente sotto l'impulso della critica, ma questa critica correva il pericolo di diventare arbitraria ed utopistica. La coscienza universale isolata dal mondo doveva infatti tendere a confondersi con la coscienza individuale, e a regolare secondo la volontà e le aspirazioni di questa il progresso dell'umanità.

Questa filosofia critica ben s'adattava ai giovani intellettuali hegeliani, i quali, altrettanto incapaci quanto avidi d'azione, erano naturalmente portati ad esagerare l'influenza delle idee sui fatti e a credere che con la sola potenza del pensiero si possa determinare una radicale trasformazione delle cose.

Per mancanza di documenti è piuttosto difficile precisare la parte che Marx ebbe allora nel movimento giovane-hegeliano e nell'elaborazione della filosofia critica. A giudicare da una lettera che gli inviava un anno dopo l'amico Koeppen, il quale gli attribuiva la qualifica di fornitore di idee del «Doktorclub», questa parte fu certamente tutt'altro che trascurabile. E del resto in quella stessa lettera Koeppen gli riconosceva la paternità di un articolo di B. Bauer sull'opposizione tra lo stato cristiano e la filosofia, opposizione su cui la sinistra hegeliana basava allora la sua critica politica.

Dopo la partenza di B. Bauer per Bonn, Marx era, in realtà, divenuto l'anima di quel «Doktorclub», e Bauer, che aveva di lui grande stima, rimpiangeva di non averlo più vicino a sé come compagno di idee e di lotta.

In quel tempo Marx aveva abbandonato del tutto il diritto, che non soddisfaceva più il sue bisogno di azione, per dedicarsi alla filosofia. Per quello che se ne può giudicare dalle frammentarie indicazioni contenute nelle lettere che B. Bauer gli scriveva da Bonn, e che costituiscono i soli documenti che si posseggano sulla sua attività intellettuale in questo periodo, egli compiva studi paralleli a quelli di Bauer.

Si proponeva di fare uno studio d'insieme sullo scetticismo, l'epicureismo e lo stoicismo, che considerava come le forme più caratteristiche del pensiero greco. Ciò che per lui, come per Bauer, costituiva l'interesse di questi sistemi, era il fatto che essi avevano spezzato il quadro ristretto dell'ellenismo, e fecondato il cristianesimo primitivo, destinalo poi a liberare il mondo; forse egli si sentiva attirato anche da una segreta affinità verso questi filosofi che avevano elaborato le loro teorie dell'autonomia dell'anima umana sotto un regime d'oppressione analogo a quello che esisteva allora in Prussia.

Tuttavia, lo studio generale di questi sistemi non lo portava alle stesse conclusioni di B. Bauer. Infatti, mentre Bauer, con un'interpretazione fichtiana della dottrina di Hegel, tendeva a confondere lo svolgimento della coscienza universale con le aspirazioni individuali, e a stabilire in nome della filosofia critica un'opposizione costante tra l'Essere e il Dover-Essere, Marx restava fedele alla dottrina di Hegel che dava all'opera della ragione un carattere collettivo e che cercava di derivare dalla realtà stessa lo sviluppo dello Spirito.

Ciò appariva già in una critica della Logica di Hegel ch'egli intraprendeva allora, forse in risposta alla critica che ne aveva fatto Trendelenburg nelle sue Ricerche di Logica (1839). Questi mostrava che il pensiero si sviluppa su dati di fatto fornitigli dal mondo reale, e non solo attraverso una dialettica interna che derivi da se stessa la propria sostanza. Contrariamente a Trendelenburg, Marx ammetteva coi Giovani Hegeliani l'attività creatrice dello Spirito, ma — e forse si può riconoscere in ciò il germe della sua opposizione a B. Bauer — egli non faceva derivare questa attività dall'Essenza, cioè da quella forma dello Spirito che secondo Hegel risulta da un atto di riflessione su se stesso, o dalla coscienza soggettiva, che in Bauer sostituiva lo Spirito oggettivo come agente del progresso.

Marx intraprese inoltre una critica dei tentativi di conciliazione tra la filosofia e il dogma. Ma invece di rivolgere questa critica contro Hegel, come aveva fatto Feuerbach, egli, per consiglio di B. Bauer, che desiderava trattare con riguardo la destra hegeliana ed il suo maestro Marheinecke, la rivolse contro il teologo cattolico Hermes, che aveva tentato di conciliare il cattolicesimo col razionalismo. Questa critica, come tutte le critiche religiose d'allora, aveva un carattere politico e colpiva indirettamente il governo, il quale, nella sua lotta contro l'ultramontanismo, cercava l'appoggio degli hermesiani.

Questi lavori di Marx si ricollegavano al suo progetto di diventare professore di filosofia all'Università di Bonn, dove già insegnava B. Bauer. per proseguire la lotta insieme con lui. Si proponeva anche di tenervi, dall'inverno del 1840, un corso sullo hermesianismo; ma bisognava che prima terminasse la sua tesi sulla filosofia greca di cui, malgrado i ripetuti incitamenti di Bauer a sostener presto il suo esame, rinviava continuamente la stesura.

Mentre Bauer e Marx, pieni d'ardore, partecipavano cosi al movimento della sinistra hegeliana, avveniva in Prussia un fatto di capitale importanza che doveva esercitare una profonda influenza su questo movimento. Nella primavera del 1840, moriva il vecchio re Federico Guglielmo HI, e i liberali salutavano con gioia l'avvento al trono del suo successore Federico Guglielmo IV, nella speranza che con lui si aprisse un'era di libertà.

In realtà questo re era più reazionario del padre. Educato dal precettore Ancillon nell'odio della Rivoluzione francese e delle idee liberali, tutto imbevuto delle idee di Haller sullo stato patrimoniale, abituato a vivere in una corte di nobili conservatori e pietisti, come il conte von Stolberg, il generale von Thile e i fratelli von Gerlach, sognava un ritorno al regime politico e sociale del medioevo, in cui l'autorità del principe sui sudditi fosse assoluta. Tutto preso dall'idea della sua missione divina, egli voleva fare del suo regno, con l'appoggio della nobiltà e del clero, uno Stato patriarcale e cristiano. Mascherava tuttavia le sue tendenze conservatrici sotto le apparenze del monarca liberale, ed il misticismo romantico di cui aureolava la sua concezione della monarchia dette, almeno al principio, una falsa aria di liberalismo alla sua politica reazionaria. Del resto i suoi primi discorsi e i suoi primi atti sembrarono confermare l'esistenza in lui di tendenze liberali. Poiché il suo spirito versatile odiava l'ordine ed il metodo, egli criticava volentieri la burocrazia e il formalismo amministrativo che gravavano sul popolo. D'altra parte, desiderando attenuare la durezza del governo precedente, reintegrò nelle loro funzioni il generale Boyen e Arndt, patrioti liberali in disgrazia sin dal 1819, e concesse l'amnistia alle vittime delle persecuzioni contro i «demagoghi». Queste misure di clemenza conservarono per un certo tempo le illusioni che il popolo si faceva sul liberalismo del re, e B. Bauer stesso esprimeva in una lettera a Marx la sua speranza di vedere con Federico Guglielmo IV cambiarsi il corso delle cose.

Ma queste illusioni dovevano essere di breve durata. Tra i liberali ed il re si giunse ad un primo conflitto a proposito della questione costituzionale. Il 7 settembre 1840, la Dieta della Prussia orientale, riunita a Koenigsberg per rendere omaggio al re, aveva chiesto la convocazione di un Parlamento nazionale, e la concessione di una costituzione, conformemente alla promessa reale fatta nel 1815 e rinnovata nel 1820. Il re rispose il 10 settembre a questa richiesta con un discorso magniloquente, in cui proclamava il suo attaccamento al popolo e prometteva ai deputati di compiere fedelmente il proprio dovere. Ma al suo ritorno a Berlino, manifestò la sua intenzione di mantenere le Diete provinciali, senza convocare il Parlamento nazionale reclamato dai liberali. Tuttavia, erano passati i tempi in cui il re di Prussia poteva governare a suo piacimento, senza tenere in alcun conto l'opinione pubblica. La borghesia, sempre più forte, reclamava la sua parte di potere, e J. Jacoby, medico di Koenigsberg, interpretando in un celebre opuscolo le aspirazioni di essa, protestava contro questo regime che pretendeva di mantenere sotto tutela il popolo, si levava contro la censura che soffocava ogni libertà di pensiero, contro le Diete provinciali che difendevano soltanto gli interessi privati dei loro membri, e reclamava la libertà di stampa e la creazione di un Parlamento nazionale, che permettesse al popolo di esprimere la sua volontà e di partecipare al potere.

Nello stesso ambiente della corte, si facevano sentire voci che consigliavano al re di fare le necessarie concessioni alla borghesia, e il prefetto della Prussia orientale, von Schoen, esponeva in un suo scritto anonimo le stesse rivendicazioni già poste dallo Jacoby. Ma il re, che voleva conservare il potere assoluto, rispose aspramente ai suggerimenti di von Schoen, e fece perseguitare Jacoby per delitto di alto tradimento e di lesa maestà.

Mentre rifiutava cosi qualsiasi estensione del regime parlamentare, Federico Guglielmo IV accentuava il carattere reazionario del suo governo favorendo il pietismo, e combattendo il liberalismo in tutte le sue forme.

I Giovani Hegeliani subirono per primi le conseguenze di questa politica. Già Federico Guglielmo III, verso la fine del suo regno, s'era staccato dagli Hegeliani, ed il suo ministro Altenstein, rimasto loro favorevole, poteva a stento difenderli dagli attacchi degli ortodossi e dei pietisti. Dopo la morte di questo ministro, sopravvenuta nella primavera del 1840 contemporaneamente a quella di Federico Guglielmo III, lo hegelismo doveva sperimentare prima il disfavore e poi la persecuzione del governo. Federico Guglielmo IV, che aveva in odio i Giovani Hegeliani a causa delle loro tendenze antireligiose, nominò successore di Altenstein l'ortodosso Eichhom, che escluse sistematicamente gli hegeliani dalle cattedre universitarie, facendo succedere a Gans il giurista reazionario Stani, teorico dell'assolutismo, e chiamando Schelling a Berlino con l'incarico di combattere lo hegelismo.

D'altra parte tutte le manifestazioni liberali erano severamente represse. Gli studenti di Halle che avevano pregato il re, nella sua qualità di rettore, di nominare Strauss professore di teologia a Halle, ricevettero una severa ammonizione; il poeta Hoffmann von Fallersleben, professore a Breslavia, fu perseguitato a causa di un volume di poesie politiche, del resto piuttosto scialbe; Rutenberg, membro del «Doktorclub», professore di geografia nella Scuola dei Cadetti, fu revocato dall'insegnamento perché sospetto di collaborare a giornali d'opposizione, come il Telegrafo di Amburgo, diretto da Gutzkow, e La Gazzetta generale di Lipsia.

A causa di questa reazione, i Giovani Hegeliani, malgrado il loro culto dello Stato prussiano, erano sempre più respinti all'opposizione. Se avevano avuto poca simpatia per il regime burocratico di Federico Guglielmo III, detestavano anche più le tendenze pietiste e reazionarie di Federico Guglielmo IV, che distoglievano decisamente la Prussia dalla sua missione spirituale. Ma il contrasto che li separava dal governo, lungi dallo scoraggiarli, aumentava invece il loro ardore combattivo.

Del resto questo loro spirito aggressivo coincideva con un risveglio dello spirito pubblico. La borghesia tedesca reclamava con forza crescente l'abolizione della censura e lo sviluppo delle istituzioni parlamentari. Tutta la gioventù era infatuata per la libertà, e le Poesie di un vivente, che Herwegh pubblicava nell'aprile del 1841, traducevano le aspirazioni di una nuova generazione, che distogliendosi dalla poesia e dai sogni romantici, cercava ancora confusamente di trasportare nella realtà il suo entusiasmo per le idee rivoluzionari.

Tutta la coorte dei Giovani Hegeliani, Strauss, B. Bauer, Ruge, M. Hess, Koeppen e Marx, doveva partecipare a questa lotta decisiva per il trionfo della ragione. Rinunciando ad ogni compromesso, essi rivendicavano l'emancipazione dello spirito in ogni campo, e criticavano in nome della ragione tutto ciò che sembrava loro opporsi ai progressi dell'Idea. Inebriandosi a poco a poco nel gioco distruttore della filosofia critica, essi respingevano non soltanto il protestantesimo, che si andava sempre più orientando verso un pietismo intransigente, ma anche il principio monarchico, e dopo aver dichiarato guerra al cristianesimo, si apprestavano a entrare in lotta con l'assolutismo.

Perfino Strauss, che tra i Giovani Hegeliani era quello che più si teneva in disparte dalla lotta, vi fu trascinato. Nominato nell'autunno del 1839 professore di teologia a Zurigo, ne era stato espulso quasi subito da un movimento reazionario. Ritornando allora sulle concessioni che aveva fatto negli Zwei friedliche Blaetter (1839), in cui aveva ammesso la realtà storica della persona del Cristo, riprendeva, nella quarta edizione della sua Vita di Gesù (1840), la sua tesi primitiva, e ricollegandosi alle idee di Feuerbach e di B. Bauer, proclamava con loro che tra la dottrina cristiana e la scienza doveva necessariamente scoppiare un conflitto '%

B. Bauer, in lotta aperta contro la Facoltà di teologia di Bonn, che per istigazione del ministro Eichorn rifiutava, nell'ottobre 1840, di nominarlo professore, gioiva della lotta tra la religione e la filosofìa, che liberava contemporaneamente quest'ultima dall'autorità del dogma e dalla tutela dello Stato. Egli pensava che questo conflitto, anche più importante di quello che aveva opposto il cristianesimo al mondo antico, doveva decidere il destino dell'umanità, e non avrebbe potuto terminare altro che col trionfo della filosofia,

In un articolo degli Annali di Halle denunciava la funzione ai suoi occhi nefasta della Chiesa, e mostrava l'opposizione fondamentale tra lo stato cristiano instaurato da Federico Guglielmo IV e lo stato razionale. Lo stato cristiano, egli diceva, per il fatto stesso della sua subordinazione alla Chiesa, è proprio la negazione dello stato razionale, creazione ed espressione della coscienza universale, con la quale esso progredisce sotto l'azione della filosofia critica rappresentata dalla scienza.

Ispirandosi a quest'idea della necessità della lotta tra il progresso della coscienza universale e lo stato cristiano conservatore, Ruge mostrava, dal canto suo, che ormai la lotta stava passando dal campo teorico e filosofico a cui la sinistra hegeliana e gli Annali di Halle s'erano più o meno limitati fino allora, al terreno politico, e si sarebbe combattuta non più insieme, ma contro lo Stato prussiano.

Egli sosteneva che soltanto il principio di libertà poteva assicurare lo sviluppo della Germania contro le tendenze reazionarie che, come mostrava la politica della Prussia, divenivano un pericolo sempre maggiore per la filosofia e per il partito del progresso. Per far fronte a questo pericolo era necessario, egli diceva, che la filosofia perdesse quel carattere astratto, estraneo alla vita, che i Vecchi Hegeliani le conservavano, e divenisse una filosofia pratica, fattiva, capace di assicurare il trionfo della ragione nel mondo. Questa filosofia pratica non doveva, come la filosofia hegeliana, attribuire a forme storiche e transitorie un carattere assoluto ed eterno, ma favorire invece lo svolgimento dialettico dello Spirito e il progresso della libertà, eliminando per mezzo della critica gli elementi irrazionali dalla realtà.

A differenza di B. Bauer, da cui egli derivava questa concezione della funzione della filosofia critica, Ruge non pensava che questa dovesse limitare la sua azione alla religione, perché gli sembrava che il conflitto tra le tendenze liberali e quelle conservatrici, che fino allora aveva concepito come un conflitto tra il Protestantesimo e il Romanticismo, rivestisse ora un aspetto politico. La lotta non era più circoscritta tra partigiani e avversari della Riforma, ma tra partigiani e avversari della Costituzione, e si trattava di sapere se la Prussia, posta tra due gruppi di potenze, le une, Russia ed Austria, conservatrici, e le altre, Francia e Inghilterra, liberali, inclinerebbe verso il primo o il secondo di questi due gruppi.

Questa tendenza dei Giovani Hegeliani a passare cosi dalla critica filosofica all'azione politica, era favorita dal conflitto scoppiato allora tra la Prussia e la Francia.

La convenzione di Londra relativa alla questione d'Oriente, conclusa il 15 luglio 1840 tra l'Inghilterra, la Russia, l'Austria e la Prussia, con l'esclusione della Francia che vedeva ricostituirsi contro di sé la Santa Alleanza, aveva provocato a Parigi un'esplosione di patriottismo.

La Prussia, che temeva un attacco sul Reno, vide in questo moto patriottico una minaccia. L'immenso successo del Rheinlied di Becker, a cui De Musset rispose con la sua celebre poesia, testimoniava l'agitazione guerresca degli animi; e la guerra fu evitata soltanto grazie all'atteggiamento conciliante di Luigi Filippo.

Questo movimento patriottico, che doveva ricondurre al nazionalismo molti dei liberali, come Gervinus, rafforzò invece i Giovani Hegeliani nelle loro tendenze liberali e francofile. Oppositori di un governo che sacrificava alla reazione la libertà di pensiero, ripugnava loro di prender partito contro la Francia, che dal 1830 era il focolaio del liberalismo in Europa.

Il loro portavoce fu, con Ruge, Moses Hess, che nel suo libro La triarchia europea (1841), sosteneva la necessità per la Prussia di unirsi alla Francia e all'Inghilterra per formare un blocco di potenze liberali contro la Russia e l'Austria, potenze reazionarie.

L'Europa moderna, egli diceva, data dalla Riforma, che è stata la prima affermazione della libertà spirituale. La filosofia idealistica tedesca, di cui la dottrina di Hegel segna il punto d'arrivo, ha portato a termine l'emancipazione spirituale intrapresa dalla Riforma; ma la sua azione, limitata al pensiero, è rimasta senza effetto sulla vita. La Prussia deve seguire in questo l'esempio della Francia, che con la Rivoluzione ha realizzato la libertà nella vita civile e politica. Del resto questa rivoluzione non è se non una tappa nella via della liberazione totale, che sarà opera di una rivoluzione sociale; la quale scoppierà in Inghilterra, dove gli antagonismi sociali sono più accentuati. Essa ristabilirà l'armonia tra gli uomini sopprimendo la proprietà privata, fonte dell'egoismo e dell'ineguaglianza, e porterà cosi a termine l'emancipazione dell'umanità, già attuata nel dominio dello spirito dalla Germania e in quello dei costumi dalla Francia. Quest'opera di liberazione urta nell'opposizione dell'Austria e soprattutto della Russia, e tocca alla Prussia assicurare il trionfo della ragione e del progresso, unendosi alla Francia e all'Inghilterra per formare con esse la Triarchia europea.

In questo libro Hess, precorrendo l'evoluzione della sinistra hegeliana, già mostrava l'impotenza del liberalismo a risolvere il problema essenziale, che era ai suoi occhi quello sociale. Derivando da Cieszkowski l'idea che la filosofia dovesse passare dalla speculazione all'azione, preconizzava per questo fine, come Heine, l'unione della Germania e della Francia, l'alleanza dell'idealismo tedesco con l'attività politica francese. Assegnava come scopo a questa azione l'emancipazione totale dell'umanità, che si doveva attuare non con una rivoluzione politica, la quale non poteva costituirne altro che una tappa, ma con una rivoluzione sociale. Mentre l'idea della filosofia dell'azione veniva a rafforzare la tendenza che si faceva strada tra i Giovani Hegeliani, e particolarmente in Ruge, le altre due idee (alleanza con la Francia, necessità dell'azione sociale) non dovevano mostrarsi feconde se non dopo il fallimento dell'attività politica della sinistra hegeliana in Prussia. Tra i Giovani Hegeliani di Berlino, ferventi adepti della filosofia critica, predominava l'influenza di B. Bauer; tuttavia cominciava a farsi sentire anche quella di Ruge, e si andavano evolvendo con lui dal radicalismo filosofico al liberalismo politico.

Il «Doktorclub», che s'era allargato con l'ammissione di nuovi membri come L. Buhl e Nauwerk, prendeva a poco a poco il carattere di un gruppo politico. Dal principio del 1841 aveva una piccola rivista, l'Athenaeum, pallido riflesso degli Annali di Halle, di cui si sforzava di seguire lo sviluppo.

I principali collaboratori di questa rivista, che non contava più di centocinquanta abbonati, erano Rutenberg, Koeppen, Meyen, L. Buhl, M. Hess, Nauwerk, Fr. Engels. Marx vi pubblicò due poesie:Il Musicista e Amore notturno, estratte dalla raccolta di canti scritti nel 1837.

L'Amore notturno, ispirato dalla celebre ballata di Buerger, Leonore, di cui disgraziatamente non ha né il colore né il ritmo, esprimeva le pene d'amore che provava allora; II Musicista, in cui mostrava l'assoluto dominio dell'arte sull'artista che ne diviene la vittima, si ricollegava, col suo carattere selvaggio e tragico insieme, alle poesie in cui Marx lanciava le sue apostrofi e la sua sfida a un mondo ostile.

L'Athenaeum, che al principio aveva avuto, come gli Annali, un carattere letterario, abbandonava, come questi, le questioni estetiche per occuparsi di questioni politiche e sociali, che interessavano particolarmente i Giovani Hegeliani. Su queste questioni portava lo stesso giudizio degli Annali, e, nel conflitto provocato dalla questione d'Oriente, prese con Ruge e Hess la difesa della Francia.

I due membri principali del «Doktorclub», Koeppen e Marx, venivano completando, l'uno dal punto di vista politico, l'altro dal punto di vista filosofico, l'opera critica intrapresa da Ruge e B. Bauer.

In occasione del centenario di Federico II, Koeppen celebrava in questo re l'eroe della libertà di pensiero, il più illustre rappresentante dell'Aufklaerung, dell'illuminismo; e, risalendo da questo panegirico alle dottrine greche da cui Bauer aveva derivato la sua filosofia critica, dimostrava che la grandezza di questo re derivava dal fatto che egli si era ispirato contemporaneamente all'epicureismo, allo stoicismo e allo scetticismo. Koeppen considerava questi sistemi che affermavano l'indipendenza dell'individuo di fronte al mondo esterno, come espressione dei principi essenziali dell'illuminismo, e lodava Federico II per aver riunito in sé le qualità proprie a ciascuno di essi. Infatti questo re era epicureo per il suo amore delle lettere e delle arti, stoico per la sua dedizione al bene pubblico, e scettico infine per il suo spirito di tolleranza e per il suo distacco da ogni dogma.

In questa apologia di Federico II c'era molta esagerazione, ma in un momento in cui il ricordo di questo re era maledetto dagli spiriti reazionari, celebrare la sua memoria era un modo di affermare la propria fede nella ragione e nel progresso. In ciò Koeppen imitava il comportamento di Ruge che aveva opposto alla reazione il protestantesimo, o piuttosto lo spirito del protestantesimo, liberato da ogni dogma e ridotto all'idea di libertà. Per confessione stessa di Ruge, il protestantesimo cominciava ad essere usato come macchina di guerra contro i conservatori, e Koeppen lo sostituiva qui con l'era dei lumi, con l'Aufklaerung, il cui razionalismo era ai suoi occhi sinonimo di libertà.

Nella sua glorificazione del re filosofo, Koeppen difendeva 1'Aufklaerung non solo contro i reazionari, ma anche contro ì Vecchi Hegeliani, che, seguendo Hegel, rimproveravano ad esso di voler costruire il mondo su astrazioni. Le imperfezioni dell'Aufklaerung derivavano, egli diceva, dal fatto che essa non costituiva se non il primo grado nella liberazione della ragione, e invitava i Vecchi Hegeliani a proseguirne l'opera, invece di fare il gioco del partito reazionario con le loro critiche del razionalismo, poiché la Prussia, che doveva all''Aufklaerung la propria grandezza, poteva progredire soltanto ispirandosi ai suoi principi.

Quest'opuscolo che Koeppen aveva dedicato all'amico K. Marx, fu attaccato dai conservatori e dai Vecchi Hegeliani, e fu difeso solo da quelli che egli chiamava i trecento spartani, cioè i trecento lettori degli Annali di Halle, che costituivano allora la sinistra hegeliana.

Mentre Koeppen, ispirandosi alla dottrina di Bauer, sottolineava l'importanza della filosofia greca della coscienza nella formazione del razionalismo e del liberalismo, Marx si proponeva di individuare attraverso uno studio d'insieme dell'epicureismo, dello stoicismo e dello scetticismo, i caratteri essenziali della filosofia critica.

Vivendo con i Giovani Hegeliani un po' al di fuori della società e isolato dal mondo, su! quale era desideroso d'agire, Karl Marx era naturalmente portato ad esagerare, come loro, l'influenza delle idee e ad ammettere l'onnipotenza del pensiero sulla realtà. Abbiamo visto tuttavia che egli non condivideva completamente le concezioni di Bauer sul carattere della filosofia critica. Invece di confondere come B. Bauer lo sviluppo della coscienza universale con quello della coscienza individuale, e di istituire un'opposizione tra questa ed il mondo, tra il Dover-Essere e l'Essere, Marx, fedele alla dottrina di Hegel, voleva conservare all'opera della ragione un carattere generale e collettivo, e derivare dalla realtà stessa lo sviluppo dello spirito.

Questa divergenza essenziale, già in germe nei suoi primi studi sulla Logica di Hegel, appare chiaramente in un frammento relativo al suo studio sulla filosofia greca, nel quale dimostra che la filosofia critica, a cui resta fedele per il suo valore d'azione, ha un carattere astratto e contraddittorio. Il suo carattere astratto deriva dal fatto che essa è espressione di una volontà la quale si oppone alla realtà esistente al di fuori di essa. Il suo carattere contraddittorio deriva, considerando la cosa da un punto di vista oggettivo, dal fatto che questa filosofia, attuandosi, diviene contraria alla propria essenza, la quale consiste nell 'opporsi alla realtà; e considerandola da un punto di vista soggettivo, deriva dal fatto che la coscienza individuale, nel voler liberare il mondo da ciò che è contrario alla ragione, si distacca dalla filosofia, in quanto si oppone al sistema filosofico che fin allora determinava il cammino del mondo, senza poterlo superare dal punto di vista teorico, presa com'è nell'azione, e senza vedere che esso costituisce un momento necessario del divenire. Questa contraddizione spiega l'esistenza delle due opposte tendenze che si manifestano nella filosofia : la tendenza liberale, che vuole riformare il mondo con la critica filosofica, e la tendenza «positiva», conservatrice che, legata alla realtà, si propone invece di adattare la filosofia al reale. Queste due tendenze sono ugualmente contraddittorie in se stesse, perché il liberalismo distrugge l'idea volendole dare una realtà, e il «positivismo» abolisce la realtà volendola innalzare all'idea.

Ispirandosi alla filosofia di Hegel, Marx condannava cosi la filosofia critica, che si distacca dal reale, pur preferendola alla filosofia «positiva», troppo attaccata invece alla realtà per poter dare un contenuto nuovo all'Idea. Tutto il suo sforzo doveva tendere ormai a superare la contraddizione che opponeva tra di loro queste due dottrine, e a dare alla critica un carattere concreto e una meta positiva.

Nella sua tesi di laurea, egli mostrava, con la critica della filosofia di Epicuro, come e perché la filosofia critica, isolandosi dal mondo, si condannasse all'impotenza.

Questa tesi, che aveva come argomento la Differenza tra la filosofia della Natura di Democrito e quella di Epicuro, costituiva una parte dello studio generale sull'Epicureismo, sullo stoicismo e sullo scetticismo, che Marx si era proposto di fare. Egli pensava che questi sistemi, che esprimevano nel modo migliore il carattere soggettivo del pensiero greco, costituissero la chiave della filosofia e della storia del popolo greco.

Tuttavia non pare che egli abbia portato molto avanti questo studio che annunciava nella prefazione della sua tesi, perché quasi tutte le sue note si riferiscono alla filosofia della Natura di Democrito e a quella di Epicuro.

Ciò che interessava Marx nella filosofia della Natura di Epicuro, erano le variazioni che questo filosofo aveva portato nella fisica di Democrito, e in particolare nella sua nozione dell'atomo.

La filosofia di Democrito era una teoria materialista e deterministica del mondo. Secondo lui l'universo è formato dallo spazio vuoto e da una quantità infinita di atomi che cadono in questo spazio. In questa caduta continua, i più grandi cadono più in fretta e urtano i più piccoli, e da ciò risultano movimenti laterali, turbini, che determinano combinazioni e separazioni di atomi : i più leggeri sono respinti verso l'esterno, mentre i più pesanti si agglomerano al centro. In questo movimento niente è in balia del caso o della libertà, tutto avviene necessariamente in virtù di cause determinate. Democrito non istituisce tra gli atomi altro che differenze quantitative, differenze di grandezza, di forma e di peso, ed alle qualità che si attribuiscono agli atomi, calore, odore, sapore, colore, non assegna che un valore soggettivo, poiché esse si fondano soltanto sulle nostre sensazioni e sul nostro giudizio. Da ciò deriva il suo scetticismo riguardo ai sensi, che non ci danno se non una conoscenza incerta, e la sua fede nella ragione, che sola ci permette di conoscere veramente le cose.

Partendo da questi principi, Epicuro aveva apportato mutamenti nella filosofia della Natura di Democrito, il più importante dei quali, la declinazione degli atomi, gli aveva valso le critiche di tutti i filosofi antichi e moderni, da Cicerone a Hegel. Marx si proponeva di dimostrare che questi mutamenti non erano stati introdotti arbitrariamente da Epicuro, e che risultavano dalle differenti concezioni che i due filosofi avevano del mondo e dell'atomo.

Infatti per Democrito la grande legge del mondo è la necessità, che domina cosi la natura come l'umanità. Da ciò deriva che, pur riducendo il mondo sensibile all'apparenza soggettiva, e togliendo cosi alla realtà ogni criterio oggettivo, egli crede tuttavia alla realtà del mondo esterno, che studia dal punto di vista della necessità, e di cui cerca di comprendere e di spiegare l'esistenza.

Invece Epicuro, desideroso anzitutto di garantire la libertà umana, respinge la credenza nel determinismo, e pensa che la natura sia sottoposta al caso. Perciò, sebbene creda alla realtà oggettiva del mondo fenomenico, che stima realmente tale quale ci appare, egli disprezza l'empirismo e si disinteressa della scienza, che non è di nessuna utilità per farci raggiungere quella calma dello spirito e quell'indipendenza dell'anima che solo la filosofia può darci.

Questo diverso atteggiamento dei due filosofi di fronte alla realtà ed alla scienza, che traduce la loro divergenza sulla concezione dei rapporti tra il pensiero e l'essere, tra la coscienza individuale e il mondo esterno, spiega la loro maniera ugualmente diversa di concepire l'atomo, elemento essenziale delle loro dottrine.

Mentre Democrito, limitandosi allo studio del mondo fisico, s'interessa soltanto alla natura materiale dell'atomo, Epicuro ne considera anche la natura spirituale, e vede in esso non soltanto il sostrato del mondo sensibile, ma anche il simbolo della coscienza individuale astratta. Perciò la sua fisica non costituisce un fine in sé, come per Democrito, ma il fondamento di un'etica che essa serve a corroborare; e Marx ne deduce tutte le variazioni che egli apporta alla concezione dell'atomo di Democrito.

Cosi si spiega anzitutto la più caratteristica di esse, la declinazione degli atomi.

Ai due movimenti che Democrito attribuisce agli atomi, la caduta in linea retta e la repulsione, Epicuro ne aggiunge un terzo, la declinazione dalla linea retta, e considera la caduta in linea retta come espressione della natura materiale dell'atomo, che in questo movimento non è altro che un punto che si muove senza autonomia e si confonde con la linea che necessariamente descrive. La declinazione dalla linea retta esprime invece la sua natura immateriale, la sua forma pura, la sua essenza. In questo movimento l'atomo afferma la sua individualità, la sua autonomia, negando quel modo d'essere nel quale esso è determinato da altra cosa che se stesso, cioè dalla linea retta.

Per realizzare la negazione di ogni rapporto con altre cose che con se stesso, l'atomo non può riferirsi che ad un essere il quale gli sia identico, cioè ad un altro atomo o a una pluralità d'atomi. Da ciò nasce la repulsione, nella quale l'atomo si riferisce a se stesso come a qualche cosa d'altro. La repulsione esprime sinteticamente l'essenza dell'atomo, la sua forma pura realizzata nella declinazione, ed insieme anche la sua materialità, perché l'atomo, riferendosi a se stesso come a qualche cosa d'altro, giunge al più alto grado di esteriorità che si possa concepire.

La differente maniera in cui Democrito ed Epicuro concepiscono le qualità dell'atomo, deriva ugualmente dalla distinzione che Epicuro stabilisce tra la materia e l'essenza dell'atomo. Le qualità sono per principio incompatibili con la natura dell'atomo, perché quelle variano mentre questo resta immutabile. Ma tuttavia è necessario attribuire agli atomi delle qualità, perché se essi fossero indifferenziati non avrebbero repulsione. Ne risulta questa contraddizione, che l'atomo acquisisce per le sue qualità un'esistenza contraria al suo concetto. Epicuro esprime questa contraddizione opponendo a ciascuna delle qualità che Democrito riconosce all'atomo e che rispondono alla sua natura materiale, delle determinazioni che l'aboliscono.

Dopo avere del pari spiegato con la contraddizione tra la natura materiale dell'atomo e la sua essenza, la diversità con cui Democrito ed Epicuro determinano la nozione di tempo, Marx studia, nell'ultimo capitolo della sua tesi, la teoria di Epicuro sulle meteore, che gli sembra costituire la chiave di tutto il sistema.

Considerando le meteore, cioè i corpi celesti, come elementi eterni ed immutabili, noi, dice Epicuro, ci creiamo degli dei che diventano per noi una causa di turbamento e di inquietudine. Ed allora si sforza di togliere ad esse il loro carattere d'unità, e con ciò stesso d'eternità e di immutabilità, mostrando che in esse tutto si produce in modo irregolare, in virtù di cause molteplici. Ma ciò solleva una grave obbiezione. Le meteore costituiscono infatti la realizzazione perfetta dell'atomo, considerato insieme come elemento materiale e come principio. Esse sono, oltre che materia, forma pura, perché, esterne ed immutabili, si muovono declinando dalla linea retta, secondo un sistema di repulsione e di attrazione in cui conservano la loro autonomia. Nelle meteore, la contraddizione tra la forma e la materia è abolita, e sembra che Epicuro avrebbe dovuto considerarle come la perfetta realizzazione della sua concezione dell'atomo, il culmine del suo sistema; ma non c'è niente di tutto questo, dato che egli si adopera a negare l'eternità dei corpi celesti.

Questa concezione in apparenza strana e contraddittoria, risulta, dice Marx, dall'opposizione tra l'individualità astratta, costituita dall'atomo e dall'individuo, secondo Epicuro, e la personalità concreta, realizzata dai corpi celesti. In essi la materia acquista personalità ed autonomia, e con questa sintesi assume un carattere d'universalità che la oppone all'individualità astratta. Questa dunque deve considerare un corpo celeste, sintesi della natura materiale e della natura spirituale, come un nemico irriducibile, la cui esistenza è incompatibile con la sua; da ciò deriva il rigore con cui Epicuro, che fa dell'individualità astratta, della coscienza che s'isola dal mondo, il principio della sua filosofia, critica i corpi celesti, confutazione vivente del suo principio.

La teoria delle meteore segna il punto d'arrivo della filosofia della Natura di Epicuro. La natura, che poggia sulla nozione dell'atomo, considerato insieme come elemento e come principio., costituisce la scienza naturale della coscienza individuale astratta, sviluppata fino al punto in cui questa coscienza è annullata nel contatto con l'universale concreto. Questa filosofia si oppone a quella di Democrito, la quale non considera altro che l'elemento materiale dell'atomo, e si limita allo studio della sua natura empirica.

Tale è nelle sue grandi linee la tesi di Marx, che si può considerare come un tentativo di riabilitazione dell'idealismo di Epicuro contro il materialismo di Democrito. Marx era naturalmente portato a difendere il sistema di Epicuro, che presentava ai suoi occhi grandi analogie con la filosofia della natura di Schelling e con quella di Hegel. Egli ritrovava in Epicuro i tratti essenziali di quelle filosofie, che consideravano l'atomo come una fonte di energia e non come materia inerte, e attribuivano alla Natura un'essenza spirituale.

Hegel, in particolare, aveva combattuto la teoria meccanicistica dell'universo, e mostrato che il movimento, l'evoluzione delle cose, non sono costituiti dal passaggio automatico di una forma della natura a un grado superiore ma sono invece determinati dallo svolgimento dialettico dello Spirito. Ispirandosi alla Filosofia della Natura dì Hegel, di cui, in occasione di questa tesi, aveva fatto successivamente tre riassunti, Marx lodava Epicuro per aver analizzato, come aveva fatto Hegel, i fenomeni fisici nelle loro relazioni con l'elemento spirituale; e la filosofia idealista gli appariva ancora talmente come la vera scienza, che le faceva merito di aver dato la vera teoria dell'atomo, distinguendo in esso l'essenza dalla materia, e di aver superato cosi il materialismo di Democrito. A quest'ultimo, che la scienza moderna celebra invece come il padre dell'atomismo, rimproverava di aver trascurato nell'atomo l'elemento spirituale, e faceva alla sua filosofia la stessa critica che doveva fare più tardi a quella di Feuerbach, accusandola di non contenere un principio d'azione. Ciò che attirava Marx verso Epicuro, e lo rendeva indulgente per le sue dimostrazioni un po' fantastiche dei fenomeni fisici — che non erano del resto più strane di quelle di Hegel — era appunto il principio d'azione incluso nella sua filosofia.

Del resto, lo studio della filosofia greca non era fine a se stesso per Marx più che per Bauer o Koeppen, ed egli non aveva intrapreso la critica della dottrina epicurea se non per chiarire la natura della filosofia critica della sinistra hegeliana, che derivava dai medesimi principi, e da cui egli, come abbiamo veduto, si distaccava su un punto essenziale.

Infatti egli pensava con Hegel che l'azione, per esser feconda, dovesse risultare dall'unione del pensiero con la realtà e non da un isolamento, da un'astrazione, che doveva necessariamente condannarla all'impotenza e alla sterilità. A tre differenti riprese egli notava che se Epicuro non aveva saputo realizzare nella sua concezione dell'atomo la sintesi della natura materiale e della natura spirituale, ciò derivava dal fatto che la coscienza individuale astratta, di cui secondo Epicuro l'atomo era il simbolo, può garantire la propria autonomia solo opponendosi al mondo e facendo astrazione dalla realtà. Questa coscienza, ridotta cosi ad isolarsi dal reale, assomiglia all'atomo che, in quanto principio, non può esistere se non nella Natura annullata, nel Vuoto. Marx condannava già questo atteggiamento passivo come una confessione dell'impotenza dello spirito a dominare il mondo, a dare una realtà all'idea, e al di là di Epicuro veniva cosi implicitamente a criticare B. Bauer e i Giovani Hegeliani, che avevano distrutto la sintesi istituita da Hegel tra il pensiero e l'essere. In una nota su Plutarco, relativa alle prove dell'esistenza di Dio, egli precisava questa critica e, con una confutazione dell'argomento ontologico che identifica una pura rappresentazione dello spirito con un essere reale, dimostrava l'inferiorità della possibilità formale su cui Bauer, seguendo Epicuro, fondava la sua dottrina, in relazione alla possibilità reale che implica l'esistenza dell'oggetto. Egli toccava cosi il punto più delicato della filosofia critica, quello attraverso il quale essa si ricollegava al romanticismo, che per stabilire la superiorità dell'io, del soggetto sulla natura concreta, aveva affermato la superiorità della possibilità formale, la quale suppone semplicemente che l'oggetto possa essere concepito sulla possibilità reale determinata dalla natura stessa delle cose.

Ma questa differenza fondamentale nella concezione del reale e della possibilità di agire su di esso, che doveva portare ad una separazione tra Marx e Bauer, restava ancora allo stato latente e non alterava la cordialità dei loro rapporti.

Marx stava attraversando un periodo critico; dopo la morte del padre le relazioni tra la sua famiglia e quella della sua fidanzata erano divenute meno cordiali, ed'egli sentiva sempre più vivamente la necessità di crearsi una posizione che gli permettesse di sposare Jenny e di sottrarla all'influenza del suo ambiente. Aveva contato sull'appoggio di Bauer per esser nominato professore all'Università di Bonn, ma la situazione dell'amico diventava sempre più precaria, e Marx si rendeva conto che l'amicizia che lo legava a Bauer gli rendeva quasi impossibile anche solo sperar di ottenere una cattedra di filosofia in quella università. Bauer, che aveva ancora un po' di fiducia nel governo, gli consigliava di fare dei passi e di sollecitare l'appoggio del rettore Ladenberg e del ministro Eichhorn, ma a Marx ripugnava abbassarsi a sollecitazioni che del resto sarebbero state perfettamente inutili.

In ognuna delle sue lettere B. Bauer sollecitava Marx di portare a termine la sua tesi; era impaziente di averlo presso di sé a Bonn, perché pensava che l'ora decisiva si avvicinasse.

Siccome gli sembrava che Ruge conducesse troppo fiaccamente la battaglia, si proponeva di pubblicare con Marx una rivista più radicale degli Annali di Halle. Questa rivista, come usa nei piccoli cenacoli letterari, doveva dirigere i suoi primi attacchi contro i rivali immediati; Bauer intendeva regolare il conto di Strauss, e lasciare a Marx la cura di regolare quello di Feuerbach.

Tuttavia in Bauer l'entusiasmo non escludeva la prudenza: mentre invitava Marx a sollecitare l'appoggio del ministro, gli consigliava di non fare nella sua tesi nessuna allusione suscettibile di indisporre contro di lui i professori e il governo, dicendogli che non era opportuno ingolfarsi nelle polemiche prima di essersi insediato nella cattedra.

Del resto questi consigli di prudenza arrivavano un po' in ritardo, perché Marx, nel momento in cui li riceveva, era nominato dottore all'Università di Jena (15 aprile 1841). Dato lo stato d'animo che regnava in Prussia, aveva preferito sostenere la sua laurea in una Università straniera, ciò che del resto gli avrebbe permesso di diventare, caso mai, anche professore in una Università prussiana, con l'adempimento di qualche formalità Non si presentò a sostenere la sua tesi davanti alla Facoltà, la quale tuttavia lo nominò dottore in seguito al parere elogiativo del relatore.

Come per un presentimento delle lotte che lo attendevano, Marx celebrava, nella sua prefazione, Prometeo, l'eroe e il martire della libertà, e faceva sua la fiera risposta di Prometeo a Hermes, servitore degli dei: «Mai, t'assicuro, cambierei la mia sorte miserevole con la servitù, perché preferisco restare incatenato a questa pietra piuttosto che diventare il mìsero servo di Giove».

Questa tesi, nella quale si affermava cosi la sua volontà di lotta, doveva segnare per Marx la fine dei suoi lavori puramente speculativi. Era la prima opera critica che gli servisse a mettere a punto la teoria a cui doveva ispirarsi la sua attività pratica. Marx chiamava Selbstverstaendigung questo lavoro di chiarificazione, e a ogni tappa della sua vita egli doveva intraprendere un'analoga messa a punto delle proprie idee con la critica di un'opera o di una tendenza, prima di cominciare una nuova attività.

Dopo la sua adesione alla filosofia di Hegel, Marx era entrato nel movimento della sinistra hegeliana, che tendeva ad adattare questa filosofia alle nuove aspirazioni della borghesia, e a trasformarla in una dottrina d'azione.

La borghesia, quand'era ancora politicamente impotente, aveva trovato nel romanticismo una dottrina che, affermando preminentemente il valore dell'individuo, le permetteva di esprimere, seppur in modo imperfetto e indiretto, le sue aspirazioni alla libertà. Divenuta più forte dopo la formazione dell'unione doganale del 1834, che aveva accelerato lo sviluppo economico della Prussia, la borghesia s'era staccata dal romanticismo, che con la sua. esaltazione del passato, da esso opposto alla realtà presente, aveva preso un carattere reazionario. Essa non poteva più accontentarsi neanche della dottrina di Hegel, perché, sebbene segnasse il passaggio dall'idealismo romantico al realismo, giungeva ugualmente, in realtà, ad una giustificazione del sistema della Santa Alleanza, e sembrava legittimare un arresto dell'evoluzione storica.

Dopo la rivoluzione del 1830, la quale, spezzando la Santa Alleanza, poneva non soltanto la possibilità, ma la necessità di una futura evoluzione della storia, un primo colpo contro la dottrina di Hegel era stato portato da D. F. Strauss. Il quale, negando l'identità posta da Hegel tra la religione e la filosofia, dimostrava che l'evoluzione storica non poteva esser ricondotta allo sviluppo razionale dello Spirito, e che i dogmi non erano riducibili alla filosofia. Sostenendo che la rivelazione divina non si fermava a Gesù, ma che era costituita dallo sviluppo complessivo di tutta l'umanità, e respingendo ogni verità assoluta ed eterna, Strauss toglieva al sistema di Hegel il suo carattere metafisico, e di nuovo introduceva completamente l'Idea hegeliana nella storia.

I Giovani Hegeliani, desiderosi non soltanto di comprendere, ma anche di trasformare la realtà, si ispiravano a lui per criticare la dottrina storica e politica di Hegel. Cieszkowski poneva il principio che la filosofia non dovesse limitarsi a studiare il passato, a fare il bilancio dello svolgimento della storia, come faceva Hegel, ma che avesse il compito di determinare a priori questo svolgimento, per fargli prendere un carattere razionale.

Dopo di lui, B. Bauer mostrava come si potesse determinare per mezzo della critica lo svolgimento della Coscienza universale, in cui si esprime il progresso dell'umanità : modificando più profondamente che non avesse fatto Cieszkowski la dottrina di Hegel, distaccando, come Fichte, l'idea dall'essere, dal reale, ridotto alla parte dì strumento dello Spirito, B. Bauer tendeva a trasferire lo svolgimento storico in seno alla coscienza, e segnava cosi il ritorno all'idealismo romantico. Questa filosofia critica fu allora adottata con entusiasmo dai Giovani Hegeliani, i quali, nella loro impotenza, trovavano in essa una comoda arma per la lotta contro le tendenze reazionarie. Ruge, negli Annali di Halle ne faceva una prima applicazione alla politica, mentre M. Hess le assegnava già come fine la trasformazione sociale.

Accanto a questa corrente, che dava alla filosofia di Hegel un carattere rivoluzionario, facendo della dialettica, che era in lui la forma che riveste ogni svolgimento della realtà vivente, uno strumento destinato a permettere allo spirito di regolare a suo piacimento l'evoluzione del mondo, appariva con Feuerbach un'altra tendenza, che si proponeva, con un capovolgimento della dottrina di Hegel, di unire invece più intimamente l'idea all'essere, facendo rientrare non più la natura nello spirito, ma lo spirito nella natura. Questa tendenza, già cominciata da Hegel, che portava a termine l'evoluzione dal romanticismo al realismo, doveva dare una base più solida all'azione politica e sociale dei Giovani Hegeliani.

Adottando il principio rivoluzionario della filosofia critica, pur conservando l'idea di Hegel dell'unione necessaria tra il pensiero e la realtà concreta, Marx si pose inizialmente tra queste due tendenze, di cui doveva realizzare nella sua dottrina la sintesi.

Infatti, dopo aver elaborato con B. Bauer la teoria della filosofia critica, che era servita come arma ai Giovani Hegeliani durante il periodo in cui essi avevano potuto credere che fosse capace di trasformare lo stato, Marx comprendeva che, per l'accentuarsi della reazione, la teoria astratta, contrariamente a quel che pensava Bauer, era in sé stessa un'arma insufficiente.

Mentre in Ruge e in Hess s'andava precisando l'idea che la filosofia, dovesse avvicinarsi alla realtà, Marx indicava nella sua tesi il difetto capitale dell'idealismo astratto, che, isolandosi dal reale, è incapace di agire sul mondo. Egli sentiva la necessità di dare a questo idealismo un contenuto concreto, di rafforzare la critica teorica con un'attività pratica; e questo desiderio di azione, che allontanandolo da Bauer lo avvicinava a Ruge, doveva presto portarlo decisamente nella lotta politica.

CAPITOLO TERZO
IL RADICALISMO POLITICO (1841-1843)
LA GAZZETTA RENANA

Il problema fondamentale che i Giovani Hegeliani s'eran posti dopo il fallimento del tentativo di guadagnare alle loro idee il governo prussiano, era stato il passaggio dalla speculazione all'azione.

Finché la filosofia di Hegel aveva goduto il favore del governo, la loro opposizione, tutta ideologica, era stata tollerata; ma dopo l'avvento al trono di Federico Guglielmo IV, la loro critica, divenuta più vigorosa e più precisa, aveva urtato in una reazione più forte, sicché, respinti all'opposizione, avevano abbandonato ogni speranza di unire a sé il governo, ed erano passati dalla critica religiosa alla critica politica.

Del resto quest'evoluzione si verificava progressivamente, poiché essi conservavano quel culto dello Stato prussiano che avevano derivato da Hegel, e continuavano perciò a dirigere la loro lotta principalmente contro la religione, che facevano responsabile delle colpe dello Stato. Tuttavia, accentuandosi la reazione, i Giovani Hegeliani, dopo aver dichiarato guerra al cristianesimo, dovevano ben presto portare i loro colpi contro il principio monarchico, e poi contro l'idea stessa dello Stato che non potevano più considerare come l'incarnazione del progresso e della ragione, sicché infine non doveva restar loro altro che la fede nell'umanità, la religione dell'umanesimo, predicata allora da Feuerbach.

Nell'Essenza del Cristianesimo, apparsa nel novembre del 1841, Feuerbach, ispirandosi alla propria critica su Hegel, capovolgeva il rapporto che questi aveva istituito tra il concetto e l'essere, e poneva il principio che l'idea, lungi dal determinare la realtà, ne è generata. Applicando questo principio ad una critica della religione cristiana, che non verteva più, come quella di Strauss o di B. Bauer, sulla sua origine o sul suo carattere storico, ma sulla sua stessa essenza, egli mostrava che la religione è un prodotto dell'uomo il quale crea Dio a sua propria immagine, incarnando in lui la propria natura, le proprie aspirazioni e i propri bisogni, e dandogli come attributi le qualità più nobili della specie umana. Il difetto della religione, egli diceva, è di spogliare l'uomo della sua vera natura, esteriorizzando in Dio ciò che costituisce l'essenza della comunità umana; e siccome a questa non resta cosi se non una esistenza illusoria, l'uomo diventa un individuo egoista, estraneo alla vita della specie. Per restituirgli la sua vera essenza, che è quella di un essere collettivo, bisogna dissipare l'illusione religiosa, reintegrare l'al di là nella realtà presente, e nell'umanità le qualità alienate in Dio; bisogna ridurre la teologia all'antropologia e sostituire all' amore dì Dio l'amore dell'umanità. Questa critica di Feuerbach doveva portare con sé la rovina dell'ideologia hegeliana: infatti, respingendo oltre che la religione anche ogni metafisica, egli sostituiva all'idealismo hegeliano un positivismo che riduceva tutto all'uomo e alla natura concreta.

Benché questo dottrina restasse piuttosto vaga nelle sue conclusioni — l'uomo, considerato nella sua essenza, costituiva un'astrazione — ciò non di meno portava un contributo essenziale al movimento della sinistra hegeliana. Dopo la filosofia critica, che aveva messo in rilievo la contraddizione tra il sistema conservatore e la dialettica rivoluzionaria della filosofia hegeliana, essa segnava infatti la seconda fase dell'adattamento di questa filosofia al movimento liberale, e col capovolgimento dell'idealismo hegeliano permetteva di fondare la dottrina dell'azione, che la filosofia critica aveva derivato dalla filosofia di Hegel, sulla realtà immediata e concreta, e di porre in questa stessa realtà, a determinarne lo svolgimento, il movimento dialettico.

Malgrado l'affermazione di F. Engels, la dottrina di Feuerbach non conquistò di primo acchito tutti i Giovani Hegeliani. In realtà, la sua influenza da principio si aggiunse, prima di sovrapporsi, a quella della filosofia critica, di cui essi avevano fatto la loro arma di combattimento.

Uno dei primi a subirne l'influenza fu Ruge, che cercò di accordare tra loro le due dottrine. Ruge era allora in lotta aperta contro il governo : la parola d'ordine dell'opposizione, che egli aveva lanciato in un articolo del 13 febbraio 1841, non era restata in lui lettera morta, e sempre più andava accentuando il carattere politico della sua rivista. Ma la repressione non si fece attendere : in giugno, Ruge ricevette l'ordine di far stampare in Prussia gli Annali di Halle, pubblicati fino ad allora a Lipsia, da Wigand, e di sottoporli alla censura prussiana. Rifiutandosi di obbedire a questa ingiunzione, egli lasciò Halle per stabilirsi a Dresda, e a cominciare dal 2 luglio 1841, pubblicò la rivista col titolo di Annali tedeschi.

Cambiando il titolo della rivista, Ruge ne modificava anche il carattere, e in una prefazione ne indicava i nuovi orientamenti. Respingendo ogni ortodossia filosofica, religiosa e politica, Ruge faceva sua la tesi di B. Bauer sulla necessità della lotta tra lo Stato cristiano conservatore e la filosofia critica. Scendendo in lizza contro tutte le potenze ostili alla ragione - dogmatismo filosofico e religioso, conservatorismo politico - metteva capo con la sua critica all'ateismo e al repubblicanesimo, di cui gli sembrava che l'umanesimo di Feuerbach realizzasse le sintesi.

Da questo momento la lotta contro il governo divenne più violenta e più aspra, pur conservando la forma di critica filosofica, che rispondeva alla fede dei Giovani Hegeliani nell'onnipotenza dello Spirito, e che era anche l'unica forma di critica suscettibile di essere tollerata dalla censura; ma questa critica si rivolse sempre più contro il regime politico.

Anche il circolo dei Giovani Hegeliani di Berlino era entrato in azione, ed il suo ardore battagliero per la. libertà di pensiero era alimentato dalle persecuzioni del governo contro B. Bauer. Il 20 agosto 1841, nel giorno stesso in cui Bauer pubblicava la prima parte della sua critica dei Vangeli sinottici, il ministro Eichhorn domandava alle facoltà di teologia se le opinioni da lui professate non fossero incompatibili con le sue funzioni e non dovessero render necessario il ritiro della sua «licentia docendi». Le facoltà si pronunciarono contro la revoca, con quindici voti contro undici, ma con osservazioni e restrizioni che equivalevano ad un biasimo per B. Bauer. Nell'ottobre, un decreto ministeriale che sanzionava questo voto, gli interdiceva di tenere corsi nella facoltà di Bonn. Questa interdizione portò al colmo l'irritazione dei Giovani Hegeliani, e presto iniziarono le prime scaramucce, preludio di lotte più serie. Il 28 settembre 1841 essi organizzarono, in segno di protesta contro il governo, una serenata e un banchetto in onore del deputato liberale badese Welker, di passaggio a Berlino. Questa manifestazione attirò su di loro l'attenzione e la collera del re, che ordinò un'inchiesta. Si presero severi provvedimenti: Rutenberg, che ne era stato l'organizzatore, fu posto sotto la sorveglianza della polizia, e B. Bauer fu invitato a dare spiegazioni a proposito d'una allocuzione pronunciata durante il banchetto, nella quale aveva opposto al liberalismo un po' vago della Germania meridionale la concezione hegeliana dello stato razionale.

Marx, la cui azione era stata fin allora poco appariscente, doveva avere una parte di primo piano nella lotta che si stava aprendo contro il governo. Egli aveva rinunciato a pubblicare la sua tesi, e abbandonato lo studio generale della filosofia epicurea, stoica, e scettica, che si era proposto di fare. La piega che gli avvenimenti andavan prendendo lo portava, infatti a pensare che la filosofia pura dovesse cedere il passo alla critica politica, e come tutti gli intellettuali respinti all'opposizione, si volse al giornalismo. Da prima aveva pensato di fondare con B. Bauer una rivista più radicale di quella di Ruge, nella quale avrebbero dichiarato guerra aperta alla religione e predicato l'ateismo. Ma poiché Ruge accentuava la sua opposizione nella sua nuova rivista e si accostava alle loro idee, abbandonarono questo progetto.

Cominciarono allora a stendere un'esposizione critica dell'opera di Hegel, per mostrare che questo sistema, malgrado il suo aspetto conservatore, era, per merito della dialettica che lo animava, profondamente rivoluzionario. B. Bauer cominciò con la critica della Filosofia della Religione di Hegel, .che gli sembrava fondamentale, poiché ai suoi occhi la religione era la nemica irriducibile della ragione, e perciò stesso del progresso.

Nel novembre 1841, un mese dopo che gli era stata comunicata l'interdizione di tenere corsi a Bonn, Bauer pubblicò presso Wigand a Lipsia un opuscolo intitolato La tromba del giudizio universale contro Hegel ateo e anticristo - Ultimatum. Fingendosi credente, per evitare la censura B. Bauer lanciava l'anatema contro Hegel, di cui denunciava l'ateismo con una scelta altrettanto accorta quanto abbondante di citazioni. Egli dimostrava che il Dio di Hegel era in realtà l'Idea assoluta; con una eliminazione del contenuto concreto della filosofia hegeliana, trasformava quest'Idea in Coscienza universale, e utilizzava quest'interpretazione antireligiosa della dottrina di Hegel per fare un'esposizione del proprio sistema.

Il solo principio, egli diceva, la sola realtà è la Coscienza universale, e la storia del mondo si confonde con la sua evoluzione. Questa Coscienza universale non è, come l'idea hegeliana, legata ad una realtà concreta, ad una sostanza che è per principio finita e limitata; essa si confonde con la coscienza individuale, con l'Io, che ne traduce lo svolgimento.

Questo svolgimento si compie dialetticamente con la critica della realtà presente, la cui funzione, analoga a quella de! Non-Io di Fichte, è di servire d'antitesi alla coscienza universale.

La dottrina di Bauer, invece di istituire, come la filosofia di Hegel, una sintesi tra la realtà e l'idea, le dissociava, ed implicava per lo Spirito la necessità di opporsi incessantemente al reale: faceva rinascere cosi l'antagonismo fichtiano tra l'Essere e il Dover-Essere, che Hegel aveva combattuto cosi aspramente, ed all'antitesi, alla critica, che in Hegel aveva un carattere positivo, assegnava una funzione puramente negativa, considerandola come fine a se stessa. Si veniva cosi a modificare profondamente la dialettica hegeliana, il cui svolgimento non avveniva più in virtù di una necessità puramente formale, conforme al carattere di negazione assoluta che il pensiero assumeva . D'altra parte, questa dialettica, trasferita allo Spirito, invece di confondersi col movimento dell'Essere, doveva tendere necessariamente, assumendo un carattere astratto, a trasformare le opposizioni del reale in contraddizioni logiche, e a risolverle con un semplice gioco dello spirito, con una critica che solo l'eterno mutamento poteva soddisfare.

Questo opuscolo ebbe notevole successo. Ruge, particolarmente, salutava in esso la definitiva rottura della filosofia con la religione, e la sua trasformazione in umanesimo. E questo successo fu tanto maggiore perché inizialmente tutti furono tratti in errore dalla maschera di ortodossia dietro la quale B. Bauer s'era nascosto: ma ben presto si venne a sapere che egli ne era l'autore, e che vi aveva collaborato Marx, col quale Bauer era allora in stretta relazione. Del resto, non sembra che la collaborazione di Marx a questo opuscolo,. che egli doveva considerare un po' come una farsa scherzosa, sia stata considerevole. Infatti, come abbiamo visto nell'esaminare la sua tesi, egli non condivideva le concezioni di Bauer sulla filosofia critica e sulla funzione della coscienza individuale, senza che, tuttavia, questa deformazione della dottrina hegeliana fosse fino da allora, come lo sarà poi, un motivo dì dissenso tra loro. Marx, pieno di salute e di vigore, era allora nel fiore della sua giovinezza. Se non conosceva stanchezza nel lavoro, non disprezzava però divertimenti rumorosi ed esuberanti, come appare da una galoppata a dorso d'asino che egli fece insieme a B. Bauer nei dintorni di Bonn, con grande scandalo dei borghesi della città. Engels, nel terzo canto di un'epopea eroicomica in cui descriveva i Giovani Hegeliani, ci ha lasciato un ritratto vivo dì Marx, che con la barba e i capelli neri ci appare come un demone, una forza elementare scatenata. Sebbene non avesse che ventiquattr'anni, Marx si imponeva già come un capo; sappiamo in che stima lo avessero B. Bauer e F. Koeppen; quanto a M. Hess, fin dal primo momento provò per lui una vera e propria ammirazione. Difatti, ancora sotto l'impressione del suo primo incontro con Marx, Hess scriveva il 2 settembre 1841 a Auerbach : «Preparati a fare la conoscenza del più grande, anzi dell'unico vero filosofo vivente. Si farà presto conoscere dal pubblico con i suoi scritti e con i suoi discorsi, e attirerà su di sé gli sguardi di tutta la Germania. Per la qualità e il vigore della sua intelligenza supera Strauss e anche Feuerbach, che non è dir poco. Il dottor Marx, posi si chiama il mio idolo, è un giovane di ventiquattr'anni al massimo, che darà il colpo di grazia alla religione e alla politica medioevale. Ad una intelligenza filosofica seria e profonda unisce la ironia più mordace : immaginati Rousseau, Voltaire, Holbach, Lessing, Heine e Hegel, non riuniti, ma mescolati in una sola persona, e avrai il dottor Marx»

Marx era, insieme a Bauer, all'avanguardia della lotta, e Ruge li considerava come la «Montagna» del partito rivoluzionario.

Incoraggiati dal successo della Tromba del giudizio universale, B. Bauer e Marx si proponevano di proseguire la critica del sistema di Hegel, e di dimostrare che la sua Filosofia dell'Arte e la sua Filosofia del Diritto avevano in fondo lo stesso carattere rivoluzionario della sua Filosofia della Religione. Questa volta toccava a Marx assumersi il compito principale. Egli si mise risolutamente al lavoro, ma siccome era proprio della sua natura approfondire le questioni, la seconda parte della loro critica non fu compiuta con la stessa celerità della prima, stesa da Bauer in dieci giorni. Tuttavia nel gennaio del 1842 essa doveva essere press'a poco terminata, poiché Bauer scriveva a Ruge di essere occupato a dare l'ultima mano alla parte a lui assegnata, e che Marx stava terminando la sua. Ma a questo punto, poiché la Tromba del giudizio universale era stata vietata e sequestrata in Prussia, l'editore Wigand esitò a pubblicarne il seguito. Nel frattempo Marx si ammalò e dovette rinunciare per il momento a continuare il lavoro. B. Bauer terminò da solo il libro, il quale, ridotto press'a poco alla critica della religione, usci il 1° giugno 1842 per i tipi di Wigand, sotto il titolo di Hegel Lehre voti der Religion und Kunst vom Standpunkt des Glaubens aus beurteilt (La dottrina hegeliana della religione e dell'arte giudicata dal punto di vista della fede).

Non pare che Marx abbia collaborato a questo libro, che, come il primo, trattava quasi esclusivamente di questioni religiose.

In realtà il suo interesse si distoglieva dai problemi estetici; egli era sempre più attratto dalla lotta politica, allontanandosi in ciò da B. Bauer e dai Giovani Hegeliani di Berlino, che invece eran portati a limitarsi alla critica religiosa.

Due avvenimenti furono il centro della loro agitazione: da una parte il corso tenuto da Schelling durante l'inverno 1841-1842 sulla Filosofia della Rivelazione, e dall'altra la revoca di B. Bauer dall'insegnamento, avvenuta il 29 marzo 1842.

Schelling, che era stato espressamente chiamato a Berlino nel febbraio del 1841 per confutarvi il razionalismo hegeliano, nel suo primo corso sulla Filosofia della Rivelazione aveva fatto un tentativo di sintesi della ragione e della fede, e aveva cercato di dimostrare il carattere razionale della rivelazione. Questa filosofìa, che si perdeva in un misticismo confuso e in una oscura teosofia, deluse i suoi seguaci che avevano riposto in lui le più grandi speranze, e gli attirò gli attacchi e i sarcasmi dei Giovani Hegeliani.

L'ultimo venuto tra loro, Fr. Engels, il futuro compagno di Marx, che compiva allora il suo anno di servizio militare a Berlino, pubblicò tre critiche su Schelling, nelle quali esponeva i termini del conflitto tra la sinistra hegeliana e le tendenza reazionarie, e metteva in ridicolo il vecchio filosofo che aveva perduto il suo genio.

La revoca di B. Bauer dall'insegnamento provocò tra i Giovani Hegeliani un'agitazione anche più violenta. Egli era allora, insieme a Ruge, il loro capo riconosciuto, ed in tutta la stampa liberale ci fu un vero diluvio di articoli per difendere nella causa di lui la causa della libertà di pensiero e di insegnamento.

B. Bauer, col fratello E. Bauer, scrissero anch'essi due difese pro domo, in cui facevano di questa revoca l'avvenimento centrale, l'atto più simbolico della politica prussiana.

B. Bauer, che fino allora aveva tenuto in assai poco conto i suoi amici di Berlino raggruppati intorno all'Athenaeum, si riavvicinò ad essi, al suo ritorno a Berlino, e nel giugno del 1842, per rispondere alla reazione religiosa che si faceva sempre più forte, fondò una società di liberi pensatori, i «Liberi», i «Freien», che facevano professione di ateismo.

All'inizio i «Liberi», dei quali facevano parte gli antichi membri del «Doktorclub», B. Bauer, Meyen e Koeppen, ai quali s'erano uniti i due fratelli di B. Bauer, Edgard e Egbert, K. Schmidt (Stirner), L. Buhl, Nauwerk e Fr. Engels, condussero una vigorosa propaganda in favore del radicalismo religioso.

Ma in quell'ambiente deprimente che era Berlino, l'azione dei «Liberi» fece presto a degenerare. Vivendo in disparte dal movimento politico e un po' ai margini della società, essi conducevano, sotto il pretesto della libertà spirituale, una vita di boheme, compiacendosi di sbigottire i borghesi, manifestando clamorosamente il loro ateismo.

Spingendo agli estremi la filosofia critica, si divertivano ad abolire in teoria lo stato di cose presente, e trasformavano cosi la critica in un gioco vano e sterile, al quale si abbandonavano tanto più volentieri, quanto più, in realtà, si sentivano impotenti. Siccome questa critica, distaccata cosi da ogni realtà, non poteva soddisfarsi se non in una perpetua negazione, consideravano segno d'indipendenza il mutamento in sé e per sé e la frivolezza dello spirito; portati d'altra parte al soggettivismo e all'individualismo, che spunta in tutti i cenacoli letterari, arrivavano, come tutti gli intellettuali isolati dalla loro classe, a persuadersi che le loro geniali personalità incarnassero lo Spirito assoluto, la Coscienza universale, e che le loro critiche determinassero il progresso.

Mentre B. Bauer e i «Liberi» si chiudevano in un isolamento intellettuale, Marx seguiva un'evoluzione inversa. Condannando l'individualismo e il soggettivismo che, come aveva dimostrato nella sua critica della filosofia epicurea, erano impotenti a trasformare la realtà, egli tendeva invece a dare alla sua critica un carattere concreto e a ricollegarla sempre più strettamente alla politica, come faceva Ruge negli Annali tedeschi.

Invece di portare a termine la stesura della sua critica dell'Estetica di Hegel, scrisse un articolo sulla censura, che mandò a Ruge il io febbraio 1842, promettendogli di collaborare attivamente d'allora in poi agli Annali.

Questo articolo, che segnava l'entrata di Marx nella vita politica, era una critica delle istruzioni date da Federico Guglielmo IV ai censori il 24 dicembre 1841. L'editto del 18 ottobre 1819 che regolava la censura in Prussia, si ispirava alle decisioni del congresso di Karlsbad contro i demagoghi, e sopprimeva praticamente ogni libertà di stampa. Di fronte a questa, l'atteggiamento di Federico Guglielmo IV era altrettanto esitante e contraddittorio che di fronte alle Diete. Da una parte, infatti, egli pensava che il regime assolutista potesse adattarsi ad una certa libertà di stampa, la quale doveva permettere alle opinioni dei suoi sudditi di giungere fino a lui; però non voleva, dall'altra, che questa libertà servisse a diffondere teorie erronee e sovversive. Dopo aver proibito nel giugno del 1841 gli Annali di Halle, dopo aver prorogato nella stessa estate, su richiesta dell'Austria, l'editto dell'anno 1819, e soppresso al principio di dicembre l'Athenaeum, egli indirizzava in quello stesso mese un'istruzione ai censori, nella quale, riconoscendo il valore e la necessità di una buona stampa, ordinava loro di applicare l'editto con giudizio e con liberalità, non censurando se non le critiche menzognere e sleali. Questa istruzione, che conteneva soltanto prescrizioni generiche, suscitò un vero e proprio entusiasmo tra gli intellettuali- liberali imbavagliati fino ad allora, dalla censura, i quali scorgevano in essa le premesse della libertà di stampa, condizione necessaria di ogni critica, e speravano che essa avrebbe condotto a un più ampio sviluppo della libertà spirituale. Marx, che non condivideva il loro entusiasmo, mostrava nel suo articolo come le disposizioni apparentemente liberali di questa istruzione non servissero ad altro che a mascherare la sostanziale incompatibilità tra la libertà di stampa e la censura.

Il difetto fondamentale di questa istruzione era che non intaccava la radice stessa del male, cioè la censura; da ciò derivava il carattere ambiguo, che appariva in ciascuno dei suoi articoli. La censura autorizzava la ricerca della verità, ma la voleva modesta, il che equivaleva a proibirla, poiché è essenziale a questa, ricerca di non conoscere termini e di non ammettere limiti.

Quest'istruzione, lungi dall'attenuare la censura, in realtà l'aggravava, aggiungendo nuove restrizioni alle antiche. Giacché mentre l'antico editto, di ispirazione razionalista, si contentava di interdire la critica dei principi generali della religione, la nuova istruzione, di ispirazione pietista, precisando questa interdizione, impediva la critica frivola od ostile della religione cristiana. Ciò equivaleva alla soppressione di ogni critica, poiché questa, diceva Marx, non poteva essere se non frivola, cioè superficiale, od ostile, vale a dire diretta contro il principio stesso, contro l'essenza della religione.

D'altra parte la nuova istruzione, conservando alcune prescrizioni dell'antico editto, portava a vere e proprie contraddizioni. Difatti, la proibizione di mescolare la religione alla politica, giustificata nell'antico editto di ispirazione razionalista, costituiva un attentato al principio dello Stato cristiano sottoposto all'autorità della Chiesa, poiché limitava la liberta d'azione di questa. Lo stesso avveniva colla prescrizione fatta al censore di sopprimere tutto ciò che fosse contrario alla morale; si trattava anche qui di un'offesa verso la religione, lasciandosi supporre che la morale fosse indipendente da essa e che i loro principi fossero differenti.

Quest'istruzione infine, oltre alle nuove restrizioni che apportava e alle contraddizioni che racchiudeva in sé, presentava il grave pericolo di sopprimere ogni rigidità di norme, ogni criterio oggettivo, e di sostituirlo con un criterio soggettivo, col giudizio arbitrario del censore, che non offriva più allo scrittore alcuna garanzia. Infatti, essa prescriveva al censore di tener conto soprattutto delle tendenze dell'autore, e questa censura delle tendenze diveniva un comodo strumento per sopprimere ogni libertà di stampa. Il censore diventava cosi onnipotente, cosa tanto più pericolosa perché non si esigeva da lui nessuna garanzia e gli si attribuiva invece a priori ogni capacità. In questa critica della censura Marx si ispirava per la prima volta a Feuerbach: identificando la nozione feuerbachiana di specie all'idea hegeliana, per opporla all'individuo, egli rimproverava al governo di attribuire al censore in quanto individualità una perfezione che appartiene soltanto alla collettività, e di diffidare invece della stampa, che rappresenta l'idea nella sua forma generale, di specie. Se del resto i censori fossero veramente dotati di tante capacità, ci si potrebbe domandare, diceva Marx con un tono scherzoso ed amaro insieme, perché mai il governo, invece di impiegarli alla revisione di cattivi giornali, non li utilizzava come redattori di una stampa ufficiale che non avrebbe potuto non esser perfetta.

Insomma, quest'istruzione, lungi dal migliorare le condizioni esistenti, le aggravava, e poiché la censura si mostrava cosa cattiva in se stessa, Marx ne concludeva che bisognasse non attenuarla e trasformarla, ma sopprimerla. Contrariamente alla maggior parte dei Giovani Hegeliani, nei quali era rinata la fiducia nel re, egli, col suo spirito logico ed intransigente, nemico dei compromessi e delle mezze misure, sottolineava il pericolo del suo pseudo-liberalismo.

In quest'articolo apparivano già le sue brillanti qualità di polemista, in particolar modo la sua arte di mettere in contraddizione, con ragionamenti talvolta un po' sottili e speciosi, la tesi avversa, e di riassumere la sua critica in una formula convincente, a carattere antitetico.

Nella lettera d'accompagnamento indirizzata a Ruge il 10 febbraio 1842, Marx lo pregava di sollecitare la stampa di quest'articolo per paura, diceva, che la censura non censurasse la sua censura. Il suo presentimento non lo ingannava; infatti Ruge, rispondendogli il 25 febbraio, gli scriveva che la censura, la quale infieriva contro gli Annali, rendeva impossibile la pubblicazione del suo articolo.

Qualche giorno dopo, Ruge riceveva da Wigand l'annuncio che gli Annali erano minacciati di sospensione, e Wigand, scoraggiato, si domandava se, davanti alla reazione crescente, valesse la pena di continuare la lotta. Tuttavia Ruge non si perdeva d'animo ed annunciava a Marx la sua intenzione di pubblicare in Svizzera, sotto il titolo di Anecdota philosophica, gli articoli censurati degli Annali, Marx ricevette questa lettera a Treviri, dove era stato chiamato per la malattia del padre della sua fidanzata, il barone von Westphalen, che qualche giorno dopo, il 2 marzo, moriva. Approvando il progetto di Ruge, gli prometteva di inviargli per gli Anecdota due critiche su Hegel, composte, almeno in parte, per il libro che egli contava di pubblicare insieme a B. Bauer: una critica dell'Arte cristiana e una critica della Filosofia del Diritto di Hegel, in cui si proponeva di dimostrare che la sua chiave di volta, la monarchia costituzionale, era un'istituzione viziata da una contraddizione interna. Nella sua risposta del 26 marzo Ruge lo invitava, forse un po' imprudentemente, a non affrettarsi a terminare gli articoli promessi, perché gli Anecdota non sarebbero potuti uscire prima della fine di aprile. Ma a questa data Marx gli inviava, in fatto di articoli, una lettera di scuse in cui diceva che liti di famiglia gli avevano reso impossibile ogni lavoro durante un mese intero. Per riprendere il tempo perduto, gli prometteva ora quattro articoli: sull'arte religiosa, sul romanticismo, sul manifesto della scuola storica del Diritto, e sulla filosofia «positiva», che egli opponeva alla filosofia critica.

Ma in realtà Marx non gli mandò che un articoletto di due pagine : Lutero arbitro fra Strauss e Feuerbach, a proposito della natura del miracolo, che Feuerbach considerava come la realizzazione soprannaturale di un desiderio umano per mezzo dell'immaginazione, mentre Strauss vi vedeva una manifestazione della libertà e dell'onnipotenza dello spirito. Marx, con numerose citazioni da Lutero, spiegava che questi dava implicitamente ragione a Feuerbach, mostrando che la religione era nata dal timore e dal desiderio degli uomini; e terminava l'articolo con un elogio ditirambico del positivismo di Feuerbach, al quale invitava ad accostarsi, come aveva fatto egli stesso, teologi e metafisici. «E voi teologi e filosofi speculativi, lasciate che io vi dia questo consiglio : liberatevi dalle concezioni e dai pregiudizi della metafisica, se volete giungere alle cose quali esse sono, cioè alla verità. E per arrivare alla verità e alla libertà non c'è altro cammino all'infuori di quello che passa per Feuerbach. Questo "torrente di fuoco" è il purgatorio del presente».

Allegando dei contrasti con la famiglia che gli rifiutava ogni sussidio, Marx si limitò nei riguardi di Ruge a semplici promesse, e fino al momento della stampa degli Anecdota, ci fu tra Ruge e lui uno scambio di lettere, nelle quali egli rispondeva agli inviti sempre più insistenti dell'amico con nuove scuse e nuove promesse. La vera ragione di questi ritardi successivi era che verso quest'epoca Marx s'andava staccando dagli Annali tedeschi che, a suo parere, restavano ancora troppo estranei alla vita e all'azione, e cominciava a partecipare alla lotta politica intrapresa nella Gazzetta renana.

L'attenuazione della censura che fino allora aveva esercitato sui giornali un'influenza deprimente e demoralizzante, aveva favorito all'inizio del 1842 lo sviluppo della stampa liberale, specialmente a Koenigsberg e a Colonia.

I grandi giornali di Berlino, la Gazzetta di Voss e la Gazzetta di Speer, continuavano a rifiutare ogni collaborazione degli scrittori liberali, che erano ridotti a fondare piccole riviste indipendenti e del resto piuttosto insignificanti, come l'Athenaeum e il Patriot di L. Buhl, che gli era succeduto, o a collaborare a giornali stranieri come il Giornale di Mannheim, il Nuovo giornale di Amburgo, il Telegrafo, la Gazzetta Generale di Lipsia e gli Annali di Ruge.

Essi non ebbero una parte considerevole nella stampa prussiana se non quando il Giornale di Koenigsberg e soprattutto la Gazzetta renana fecero appello alla loro collaborazione.

II Giornale di Koenigsberg esprimeva le tendenze del liberalismo della Prussia orientale che, a differenza de! liberalismo della Germania del Sud, s'ispirava, più che ai concetti della Rivoluzione francese, al razionalismo kantiano e alle idee di Stein. Questo liberalismo, che aveva il suo centro a Koenigsberg, aveva proclamato i suoi principi nelle Quattro questioni di Jacoby, che, in nome dell'autonomia della persona morale, rivendicava l'emancipazione del popolo tedesco tenuto sotto tutela dalla burocrazia, e reclamava l'istituzione della monarchia costituzionale che gli sembrava la forma migliore di governo. Nella servilità fino allora generale della stampa, il Giornale di Koenigsberg osò per primo sostenere apertamente le idee liberali, mentre gli altri giornali, e specialmente quelli di Berlino, affettavano nelle questioni politiche un'indifferenza disincantata, che era soltanto la maschera della loro impotenza e della loro paura.

A differenza del Giornale dì Koenigsberg, giornale di intellettuali, la Gazzetta renana era, almeno da principio, un organo incaricato di difendere gli interessi dell'industria e del commercio renani. Usciva a Colonia, che era divenuta, dopo l'occupazione francese, il centro della vita economica renana. Lo sviluppo di questa città, favorito dalla camera di commercio creata nel 1803, s'era accentuato soprattutto dopo il 1830 per opera di grandi industriali e commercianti, come L. Camphausen, presidente della camera di commercio, e Hansemann, autore di una memoria nella quale fin dal 1830 aveva esposto al re le rivendicazioni della borghesia renana. In quest'epoca la città era in pieno sviluppo: nel 1841 si era inaugurata la ferrovia da Colonia a Aix-la-Chapelle, e si era fondata una società di rimorchiatori a vapore per i trasporti sul Reno.

In origine la Gazzetta renana non si presentava come un organo di opposizione, anzi, la sua creazione era stata favorita dal governo che sperava di trovare in essa un sostegno per la sua politica contro gli ultramontani, sostenuti dalla Gazzetta di Colonia. Essa succedeva alla Gazzetta generale renana (Rheinische allgemeine Zeitung). che, fondata nel 1840, era rapidamente decaduta a causa della concorrenza della Gazzetta di Colonia, la quale con i suoi 8000 abbonati esercitava nella città un monopolio di fatto. Alla fine dell'estate del 1841, alcuni ricchi borghesi di Colonia, Camphausen, D. Oppenheim, fratello di un banchiere, l'industriale Mevissen, e l'avvocato Fay, si riunirono su proposta di G. Jung, avvocato della Corte d'appello, e di M. Hess, per dare nuovo vigore al giornale e farne l'organo della borghesia liberale. A questo scopo essi fondarono, il 28 settembre, una società in accomandita con un capitale di 30.000 talleri; ed il 1° gennaio 1842 la Gazzetta generale renana, che aveva sospeso la pubblicazione l'8 dicembre, riappariva con il nuovo titolo di Gazzetta renana.

Il presidente della provincia, von Bodelschwingh, aveva accettato questa trasformazione ed accordato un'autorizzazione provvisoria perché i nuovi dirigenti del giornale, stimati commercianti e industriali, gli sembrava che offrissero tutte le garanzie desiderabili: e infatti le rivendicazioni della borghesia renana avevano un carattere piuttosto economico che politico. Unita definitivamente alla Prussia, a cui la legavano forti vincoli economici, essa domandava dal punto di vista politico un regime costituzionale, il controllo delle finanze e la libertà di stampa; dal punto di vista economico, reclamava una serie di riforme che dovevano facilitare lo sviluppo dell'industria e del commercio: riduzione delle spese giudiziarie e delle tariffe postali, costruzione di ferrovie, rafforzamento ed estensione dell'unione doganale.

Quest'importanza essenziale attribuita alle questioni economiche fece scartare dalla direzione del giornale M. Hess, al quale era stata promessa, ma di cui si temevano le tendenze socialiste. La scelta degli accomandatari cadde sull'economista F. List, padre spirituale dello Zollvsrein, la cui dottrina corrispondeva di più al loro punto di vista. Infatti List aveva pubblicato da poco il primo volume del suo Sistema nazionale d'economia politica, nel quale interpretava la volontà di potenza della borghesia tedesca in lotta contro la concorrenza inglese, e proclamava la necessità per ogni nazione di sfruttare le proprie ricchezze e di proteggere la propria industria per assicurarsi l'indipendenza e la potenza economica. Malgrado il suo desiderio, List non potè accettare l'offerta, perché in quel momento era immobilizzato da una frattura alla gamba; cosi, propose come direttore del giornale uno dei suoi discepoli, il dottor Hoefken, redattore della Gazzetta d'Augusta, che fu effettivamente scelto al suo posto.

Ma ben presto scoppiarono gravi dissensi tra Hoefken, che voleva difendere soprattutto gli interessi della borghesia, e i due redattori del giornale, Jung e Oppenheim, convertiti da M. Hess al radicalismo politico della sinistra hegeliana. La rottura fu determinata dal rifiuto di Hoefkea d'inserire, com'era loro desiderio, alcuni articoli di B. Bauer; vedendo che non avrebbe potuto far prevalere nel giornale il suo punto di vista, Hoefken il 18 gennaio 1842 si ritirò.

Su consiglio di Marx, il quale, a quanto pare, sostenne fin da principio la parte di spiritus rector che più tardi il censore gli doveva attribuire, Hoefken fu sostituito dal cognato di B. Bauer, Rutenberg. Questi entrò in servizio il 3 febbraio, e naturalmente fece appello alla collaborazione dei Giovani Hegeliani, e in particolar modo dei suoi amici berlinesi, che divennero i principali redattori dei giornale.

Così la Gazzetta renana assunse un nuovo carattere. Le questioni politiche ed economiche furono trattate dal punto di vista della filosofia critica, e B. Bauer, che in seguito all'incapacità di Rutenberg aveva preso di fatto, insieme ad Hess, la direzione del giornale, vi condusse una lotta vigorosa contro la religione e l'assolutismo, in favore della libertà di stampa e di insegnamento. La Gazzetta renana passò cosi all'opposizione contro il governo, superando in ardimento tutti gli altri giornali prussiani. Il tono arguto e vivace che le dettero i nuovi redattori fece crescere rapidamente il numero degli abbonati che in poco tempo sali da 400 a 800. Soddisfatti di vedere che il giornale prosperava e sosteneva energicamente le loro rivendicazioni, i borghesi di Colonia che lo acco-mandatavano si guardarono dal protestare contro la sua nuova tendenza.

Del resto essi se ne disinteressavano un po' e indubbiamente consideravano come un capriccio inoffensivo ciò che invece cominciava a sembrare molto sospetto e pericoloso al governo.

All'annuncio della nomina di Kutenberg a direttore del giornale, il governo, che dal banchetto organizzato in onore di Welker lo riteneva un rivoluzionario pericoloso, rifiutò di trasformare la. concessione provvisoria accordata alla Gazzetta renana in concessione definitiva. Sin dal 31 gennaio uno dei ministri incaricati della censura, von Rochow, metteva in guardia il prefetto di Colonia, Von Gerlach, contro Rutenberg; e il 13 febbraio, in un consiglio dei ministri, domandava che per la fine del trimestre fosse soppresso il giornale, il quale, diceva, s'era assunto il compito di diffondere in Renania le idee sovversive e di provocarvi un'agitazione ostile allo Stato e alla Chiesa. L'11 marzo, il consiglio dei ministri invitava il prefetto della provincia, von Bodelschwing, a sospendere il giornale per il 1° aprile; ma per il momento il giornale fu salvo grazie all'intervento del prefetto, il quale, temendo l'effetto spiacevole che la sua brutale soppressione avrebbe provocato, chiese una proroga.

In quest'atmosfera di ostilità, di minaccia e di lotta, Marx esordi nella Gazzetta renana; durante i primi tre mesi, impedito com'era da discordie familiari e occupato dagli articoli promessi a Ruge, non prese parte alcuna alla redazione del giornale, alla cui fondazione aveva tuttavia contribuito.

Per collaborare con più agio alla Gazzetta renana, venne a stabilirsi a Colonia; ma siccome la vita vi era troppo chiassosa e agitata, in agosto, dopo tre mesi di permanenza a Treviri, si trasferi a Bonn. Ma qui non doveva più trovare l'amico B. Bauer che, revocato nel marzo, aveva lasciato questa città il 5 maggio per tornare a Berlino.

Marx esordi nel giornale con una critica delle discussioni della Dieta renana. Questa Dieta, che l'anno prima aveva tenuto le sue sedute a Dusseldorf, dal 23 maggio al 25 luglio 1841, era, come le altre Diete provinciali, un piccolo parlamento reazionario in cui dominavano i grandi proprietari fondiari. Era formata dai rappresentanti di ognuna delle tre antiche classi sociali: nobili, borghesi e contadini; ma siccome la maggioranza richiesta era dei due terzi, e siccome la nobiltà disponeva di più di un terzo dei voti, di fatto era lei che vi dominava, poiché nessuna disposizione vi poteva esser presa senza di essa o contro di essa. La Dieta renana non corrispose più delle altre Diete alle speranze che i liberali avevano riposto in essa; si poteva applicarle il giudizio che B. Bauer aveva dato il 12 aprile del 1841 in una lettera a Marx, sulla Dieta di Westfalia : «Le discussioni della Dieta sono stupide e la loro pubblicazione nei giornali è fatta per disgustacene».

La censura, allora sovrana, esercitava i suoi spiacevoli effetti anche sulle discussioni delle Diete, nelle quali, come nella stampa, si evitava di affrontare pericolose questioni politiche e ci si compiaceva di atteggiamenti equivoci, di mezze misure che offrissero minori pretesti alla critica. E infatti l'opposizione della Dieta renana, che pure il governo aveva ragione di temere a causa del conflitto religioso, fu delle più tiepide. Escluse ogni discussione sulla questione costituzionale sollevata dalla Dieta di Koenìgsberg e dall'opuscolo di Jacoby nel 1840, s'accontentò di chiedere un'attenuazione della censura invece di rivendicare la libertà di stampa, reclamata tuttavia da una petizione recante più di mille firme, e non ardì nemmeno levarsi contro la politica religiosa del governo. Non dette prova d'energia se non nel difendere gli interessi dei proprietari fondiari che rappresentava; non contenta di votare le proposte del governo tendenti a reprimere gli. attentati alla proprietà (furti di legname, violazioni di riserve di caccia, ecc.) essa le aggravò.

Marx si proponeva di mostrare con una critica delle discussioni della Dieta renana quanto poco queste assemblee provinciali, vere caricature del regime parlamentare, corrispondessero alle aspirazioni e ai bisogni del paese, e di sottolineare cosi il contrasto tra l'elevato livello intellettuale e la mediocrità delle istituzioni politiche della Prussia.

Per stendere i suoi articoli, raccolse minuziosamente tutta la documentazione con l'aiuto del verbale ufficiale delle sedute della Dieta renana, allora pubblicato. Il suo piano di lavoro era di cominciare con la critica delle discussioni sulla libertà di stampa e sulla questione episcopale, per esaminare poi l'opera legislativa propriamente detta della Dieta: leggi sui furti di legname, sulla violazione di riserve di caccia e sul frazionamento delle terre. Ma di questi cinque articoli furono pubblicati soltanto il primo ed il terzo, mentre il secondo, che riguardava la questione episcopale, fu soppresso dalla censura, e gli ultimi due non furono più scritti. La critica delle discussioni sulla libertà di stampa e sulla pubblicazione dei verbali delle sedute della Dieta, autorizzata dal re, fu oggetto di un lungo studio che apparve nel mese di maggio. Questa critica non era una pura e semplice ripetizione di quella che egli aveva inviato agli Annali tedeschi, nella quale, studiando la censura da un punto di vista generale, aveva dimostrato l'incompatibilità esistente tra questa e la libertà di stampa.

Qui egli criticava la posizione che i vari partiti della Dieta avevano preso di fronte alla censura, nel senso che non s'era trovato alcun vero difensore di quella libertà che pure era essenziale ed indispensabile per assicurare lo sviluppo razionale dello Stato prussiano.

Il rappresentante dei principi faceva l'apologia della censura, l'esistenza stessa della quale provava, secondo lui, la necessità di tenere la stampa in catene. A questo argomento classico dei conservatori contro ogni specie di libertà, Marx rispondeva mostrando la misera condizione del pensiero tedesco durante la Santa Alleanza, sotto il regno della, censura : «Questo periodo di quaresima spirituale, durante il quale la censura fu rigorosamente applicata, dimostrerà ai posteri che se pochi santi furono capaci di sopportare un digiuno di quaranta giorni, la Germania intera, sebbene profana, potè vivere per più di vent'anni nella totale privazione di ogni nutrimento e di ogni produzione intellettuale. La stampa s'era avvilita a tal punto, che è difficile dire se mancasse più di ragione o di carattere, se le facesse più difetto la forma o la sostanza. Nell'unico dominio della letteratura nel quale lo spirito restasse ancora vivo, quello della filosofia, si smise di parlare tedesco, perché il tedesco aveva cessato di essere la lingua del pensiero. Lo spirito si esprimeva in parole oscure e misteriose, perché le parole comprensibili non dovevano più essere ragionevoli».

A differenza del rappresentante dei principi, quello della nobiltà non sosteneva che la libertà di stampa fosse un male in sé e per sé, ma pretendeva di giustificare la censura adducendo il pretesto che il popolo non era maturo per la libertà, ed usava lo stesso argomento per difendere la segretezza delle discussioni e per opporsi alla loro pubblicazione.

Prendendo spiritosamente in giro questa sciocca pretesa da parlamentare, di volersi sottrarre al controllo e alla critica dei propri lettori, e riprendendo la tesi che già aveva sostenuto negli Annali tedeschi, Marx mostrava che dal punto di vista razionale soltanto la libertà di stampa è giustificata, perché essa sola permette all'Idea di esprimersi, allo Spirito di manifestarsi.

Gli eccessi che la stampa può commettere, egli diceva, non devono essere repressi con la censura, espressione dell'arbitrio governativo, ma con una legge sulla stampa che, fondata come ogni legge sul principio di libertà, segni i limiti che la stampa impone a sé stessa. «Le leggi non sono misure di repressione contro la libertà... ma al contrario sono disposizioni generali... che danno alla libertà un'esistenza impersonale e teorica, indipendente dalla volontà arbitraria degli individui. Un codice è la Carta delle libertà di un popolo». All'opposto della stampa censurata, necessariamente ipocrita e fiacca, strumento d'oppressione che avvilisce contemporaneamente il governo ed il popolo S2), la stampa libera, espressione della ragione e del progresso, dà libertà al popolo facendogli prendere coscienza di se stesso, e portandolo ad una concezione superiore dei suoi doveri di fronte allo Stato. «La stampa libera è lo spirito del popolo sempre all'erta, è la fiducia che egli ha in se stesso, il legame che unisce l'individuo allo Stato e alla società. Essa incarna la civiltà che trasforma i conflitti politici in lotte spirituali, idealizzandone la natura grossolana. È la confessione che un popolo fa schiettamente a se stesso, e la confessione, si sa, ha un potere di liberazione. È lo specchio spirituale in cui il popolo si contempla e che gli permette di arrivare alla saggezza, è l'anima dello stato che si può divulgare fin nella più umile capanna. Essa è universale, onnipotente e onnisciente».

Di fronte ai fautori della censura s'erano trovati alla Dieta anche dei fautori della libertà di stampa, tra i rappresentanti della borghesia e dei contadini; ma quanto chiaro e deciso era stato l'atteggiamento dei loro avversari, tanto timoroso, esitante ed incerto era stato il loro.

Il rappresentante della borghesia aveva invocato la libertà del commercio in favore della libertà di stampa. Quest'argomento, diceva Marx, aveva il vantaggio di porre la questione su di un terreno concreto, ciò che cambiava la maniera nebulosa e sentimentale di affrontare i problemi politici, che fin allora era stata propria dei tedeschi, e che li aveva resi incapaci di giungere ad una soluzione. Marx tuttavia lo respingeva, perché esso costituiva un pericolo per l'attività spirituale che, egli diceva, non poteva essere identificata con l'attività materiale. Infatti, reclamando la libertà di stampa in nome della libertà di commercio, si correva il rischio di rendere la stampa venale e servile, e Marx stigmatizzava con parole infiammate il giornalismo mercenario. Egli invece riteneva giusto un altro argomento del rappresentante della borghesia, argomento ripreso del resto dal deputato dei contadini, che giustificava la libertà di stampa con i nuovi bisogni di un popolo divenuto maggiorenne, al quale la censura doveva necessariamente parere intollerabile. «Nella vita dei popoli come in quella degli individui arriva un momento in cui le catene di una tutela troppo lunga divengono insopportabili, in cui ciascuno si vuole assumere la responsabilità delle proprie azioni. Allora vuol dire che la censura ha compiuto il suo tempo, e dove ancora sussiste appare come un'odiosa costrizione che impedisce di scrivere quello che pure si dice pubblicamente!». Ma né il rappresentante delle città, né il deputato dei contadini, avevano saputo trarre da questo argomento le conclusioni necessarie o avevano osato rivendicare per la stampa un'assoluta libertà; e Marx terminava la sua critica con una requisitoria contro lo spirito di casta che animava la Dieta e contro l'egoismo dei deputati, i quali, mettendo i loro interessi particolari al di sopra dell'interesse generale, si curavano unicamente di difendere i loro privilegi. Dalla critica di queste discussioni Marx giungeva a conclusioni idealiste, considerando ancora lo Stato e le leggi come l'espressione necessaria della ragione nel mondo. Ma quest'idealismo era già meno nebuloso e meno vago di quello degli altri Giovani Hegeliani poiché egli, ponendosi risolutamente sul terreno dei fatti, condannava la fraseologia e il sentimentalismo che paralizzano l'azione. Del resto alcune osservazioni della sua critica testimoniavano la sua evoluzione verso il realismo feuerbachiano, che faceva derivare il pensiero dall'essere. Così egli sottolineava come particolarmente giusta dal punto di vista storico la tesi del relatore della legge, il quale opinava che l'evoluzione del Diritto fosse determinata dai bisogni : «Ogni volta che lo sviluppo della storia, che procede incessantemente, fa nascere interessi importanti o bisogni nuovi, per i quali la legislazione esistente non contenga sufficienti disposizioni, bisogna creare nuove leggi per regolare questo nuovo stato di cose». Respingeva cosi il concetto d'uno Spirito assoluto o d'una Coscienza universale che regoli il corso delle cose, ma, poiché cionondimeno egli conservava la fede nella potenza del pensiero, non cadeva nel materialismo, e sviluppava dalla sua critica l'idea di un'influenza reciproca dello spirito sulla materia e della materia sullo spirito, che sarebbe divenuta una delle sue tesi fondamentali. «La stampa libera, egli diceva, è il mondo ideale che sgorga incessantemente dal mondo reale e che, dopo essersi nutrito della sua sostanza, ritorna in lui per rianimarlo».

Questo suo brillante esordio nel giornalismo rispondeva all'attesa ed alle speranze dei suoi amici. Uno dei redattori del giornale, G. Jung, gli scriveva il 14 maggio 1842 : «Il suo articolo sulla libertà di stampa è magnifico... Meyen mi scriveva recentemente che la Gazzetta renana eclissava già a Berlino gli Annali tedeschi, suscitandovi un notevole entusiasmo; e mi domandava se lei non fosse disposto a pubblicare presto un articolo, per mostrare quello di cui è capace». Qualche giorno dopo, in giugno, Ruge gli rivolgeva da parte sua un elogio anche più vivo: «I suoi commentari sulla libertà di stampa sono meravigliosi, e sono certamente ciò che di meglio si è scritto finora sull'argomento».

L'articolo seguente trattava le discussioni della Dieta renana sul conflitto tra l'arcivescovo di Colonia e il governo. Quest'articolo, che doveva uscire in luglio, fu soppresso dalla censura. Marx non lo mandò a Ruge che glielo aveva richiesto per gli Anecdota; tuttavia se ne conosce a grandi linee il contenuto da una sua lettera del 9 luglio.

In questo conflitto la Dieta non aveva preso partito contro il governo, e il 4 giugno, con una maggioranza di due terzi, aveva respinto la proposta di un rappresentante delle città, di far giudicare l'arcivescovo dai tribunali, o rimetterlo in libertà. Del resto tre mesi dopo, il 21 settembre 1841, Federico Guglielmo IV dava soddisfazione agli ultramontani e graziava l'arcivescovo. Marx conosceva bene questa questione che da circa dieci anni agitava la Renania. Ci si ricorderà che suo padre, poco tempo prima di morire, gli aveva mandato il progetto d'una memoria destinata a difendere in nome della ragion di stato l'atteggiamento del governo prussiano. Marx, che forse allora condivideva questo parere, era ora di diversa opinione, e non pensava affatto a sostenere il governo reazionario in quest'episodio della sua lotta contro la Chiesa cattolica, che considerava come il principale sostegno dei conservatori ed il più temibile avversario del razionalismo.

Così, criticando contemporaneamente l'atteggiamento dello Stato e quello della Chiesa, egli si proponeva di dimostrare che avevano torto tutti e due, e che l'uno e l'altra per opportunità di difesa avevano presa la posizione che spettava all'avversario. Infatti, lo Stato, ricorrendo all'autorità per imprigionare l'arcivescovo, si era servito di un procedimento proprio alla Chiesa, mentre la Chiesa, facendo appello alla legalità, riconosceva implicitamente la supremazia dello Stato, ciò che era contrario ai suoi principi. Questo giudizio, che non dava del tutto torto alla Chiesa cattolica, della quale sembrava anzi prender le difese contro gli arbitrii dello Stato, era dettato da ragioni d'opportunità. Bisogna considerare che la Renania era un paese profondamente cattolico, e la Gazzetta renana, che lottava già con difficoltà contro la repressione governativa, non poteva per soprappiù alienarsi i lettori cattolici condannando recisamente la politica ultramontana. Era, per essa, una questione molto delicata ed insieme molto importante prender partito in questa controversia; occorreva separare il proprio atteggiamento da quello degli ultramontani senza provocare troppo la loro ostilità, e mostrare, cosa nuova in Renania, che si poteva combattere il governo senza schierarsi dalla parte della Chiesa.

Marx, il quale s'era lusingato di aver risolto abilmente questo problema con la posizione che aveva presa, deplorava la soppressione di quest'articolo che secondo lui avrebbe procurato al giornale nuovi lettori tra i cattolici. Indubbiamente questo' calcolo non era sbagliato, poiché la Gazzetta renana era allora violentemente attaccata dalla Gazzetta di Colonia, favorevole agli ultramontani, la quale non vedeva di buon occhio che essa divenisse per lei una temibile concorrente.

Il 28 giugno il suo redattore capo, Hermes, l'accusava di attaccare il cristianesimo, fondamento dello Stato, e invitava il governo a proibire la discussione nella stampa di questioni filosofiche o religiose.

Marx s'incaricò della risposta. Dopo aver stigmatizzato l'articolo di Hermes come una vile delazione, Marx rivendicava alla stampa, che ha la funzione di illuminare e di formare gli spiriti, il diritto di trattare dal punto di vista filosofico le questioni religiose e politiche. L'atteggiamento di Hermes, diceva, deriva dalla sua concezione dello Stato cristiano, il quale deve effettivamente proibire ogni critica filosofica ed anche ogni ricerca scientifica suscettibile di attentare alla religione. Ma lo Stato cristiano non è lo Stato vero, il quale, fondato sulla ragione, si sviluppa, come la storia ci mostra, con la critica filosofica che deve servirgli di guida. A dire il vero la filosofia non ha avuto sempre coscienza di questa sua alta missione, e specialmente in questi ultimi anni ha adempiuto ad essa molto imperfettamente : invece di condurre la lotta contro la reazione politica e religiosa, s'è rifugiata nella speculazione astratta e non ha esercitato, come avrebbe dovuto fare, una diretta ed efficace influenza sul corso degli avvenimenti.

Dopo Ruge ed Hess, Marx sottolineava cosi la necessità per la filosofia di passare dalla teoria all'azione, e di agire per mezzo della critica sulla pubblica opinione. Come aveva già fatto nel suo articolo a proposito delle leggi sulla libertà di stampa, Marx mostrava in questo come la filosofia sia espressione dell'evoluzione sociale, e come ogni filosofia, secondo un processo di azione e di reazione della materia sullo spirito e dello spirito sulla materia, sia generata dai bisogni e dalle tendenze della sua epoca, sulla quale essa agisce a sua volta : «I filosofi non nascono dalla terra come funghi, ma sono il prodotto del loro tempo, del loro popolo, la cui essenza più sottile, più tenue e più preziosa passa nelle idee filosofiche. Lo stesso spirito che fa costruire le ferrovie dalle industrie, genera le idee nella mente dei filosofi... Il fatto che ogni vera filosofia sia la quintessenza spirituale del proprio tempo, implica la necessità che giunga il momento in cui la filosofia entri in contatto, in azione ed in reazione, col mondo, e non soltanto in modo esteriore, col suo contenuto spirituale, ma in un modo esteriore, con la forma stessa ch'essa riveste. Allora, non è più un sistema che si oppone ad un altro sistema, ma diventa la filosofia che si oppone al mondo, la filosofia del mondo presente». Quando la filosofia prende contatto con la realtà, la sua influenza e la sua azione si cominciano a notare indirettamente per gli attacchi dei suoi nemici, particolarmente della Chiesa, a cui essa risponde, prima con la critica della religione, poi con quella delle istituzioni politiche. Questa critica, giustificata dagli attacchi a cui vien fatta segno, è, del resto, qualunque cosa ne pensi Hermes, legittima in sé; non si potrebbe rifiutare alla filosofia il diritto, che si accorda alla religione, di esercitare un'azione sulla politica, perché la filosofia, espressione della ragione, è più qualificata della religione per dirigere lo Stato. Solo lo Stato teocratico avrebbe il diritto di sopprimere ogni critica filosofica; lo Stato cristiano non può farlo, trovandosi di fronte a questo dilemma: o esso si identifica con lo Stato razionale, e allora per essere cristiano gli basta di seguire i principi della filosofia; o lo Stato razionale è incompatibile con la religione, e allora lo Stato deve svilupparsi al di fuori di essa, perché la religione non può volere che questo sviluppo sia contrario alla ragione. Cosi bisogna che lo Stato si fondi sulla ragione, ed è giunta, per la filosofia, l'ora di agire, affinché il partito de! pensiero divenga il partito del progresso.

Dopo questa critica della funzione della religione nello Stato, Marx, riprendendo l'articolo sulla Scuola storica del Diritto, che aveva offerto a Ruge per gli Anecdota, diresse il suo attacco contro i principi di questa scuola, i quali, insieme ai principi cristiani, ispiravano la politica del governo prussiano.

A proposito del manifesto che questa scuola aveva pubblicato in onore del suo fondatore Hugo, Marx dimostrava che la filosofia di quest'ultimo non era altro che una deformazione della dottrina kantiana, alla quale pretendeva di ispirarsi. Infatti Hugo, muovendo dal postulato kantiano secondo il quale il vero non è conoscibile in sé, ne concludeva che invece di ricercare un diritto teorico, come facevano i sostenitori del Diritto naturale, bisognasse attenersi al diritto esistente, al diritto «positivo», senza preoccuparsi di modificarlo dal punto di vista razionale. Il suo scetticismo nei riguardi della ragione lo portava cosi, con un capovolgimento dei principi del sec. XVIII, a negare non più la razionalità del reale, ma la realtà del razionale, e ad ammettere, giustificandolo per il solo fatto della sua esistenza, l'elemento irrazionale nel diritto.

Da ciò, diceva Marx, deriva la sostanziale immoralità della dottrina di Hugo, che fa l'apologia del dispotismo e della violenza. I suoi discepoli, che si raggruppano nella Scuola storica del Diritto, hanno velato di sentimentalismo e di romanticismo questa teoria brutale, ma conservandone il fondo irrazionale e immorale.

Come il suo maestro Gans, Marx sottolineava, a scopo polemico, le tendenze conservatrici della Scuola storica del Diritto, passando sotto silenzio il suo merito, che era stato quello di dedicarsi allo studio del diritto concreto invece di abbandonarsi, come si era fatto prima di essa, a speculazioni sul diritto teorico. In questo egli si mostrava discepolo ingrato di Savigny, del quale adottava ora il metodo, se non i principi, nel cercar di derivare la propria dottrina politica dalla critica della realtà.

Questa critica, tagliente e penetrante, diveniva particolarmente temibile per il governo, che doveva necessariamente rispondere con un inasprimento della censura. Il 4 luglio, uno dei redattori del giornale, D. Oppenheim, scriveva a Marx : «L'articolo in risposta alla Gazzetta di Colonia è eccellente, ma temo che il maledetto censore faccia anche qui uso delle sue forbici. Lei non ha idea della severità, implacabile quanto ingiusta, con la quale questo briccone censura il nostro giornale» 113).

In mezzo alle difficoltà sempre maggiori sollevate dal governo, Marx fu chiamato, il 18 ottobre 1842, a sostituire Rutenberg nella direzione del giornale. Del resto, già lo dirigeva di fatto fin dall'agosto, ed in una lettera a D. Oppenheim, nella quale criticava un articolo di E. Bauer sulla monarchia costituzionale, già ne fissava le direttive politiche.

Nelle sue nuove funzioni Marx si mostrò altrettanto energico quanto abile, e sotto la sua direzione il giornale, che fino ad allora era rimasto presso a poco stazionario, si sviluppò rapidamente. Sin dal 10 novembre il nuovo presidente della provincia, von Schaper, che in agosto ne aveva annunciato prossima la fine ai ministri incaricati della censura riferiva loro che il numero degli abbonati aumentava rapidamente, e che le sue tendenze andavano peggiorando sempre più. Il primo articolo che Marx scrisse in qualità di redattore capo fu una risposta alla Gazzetta di Augusta, che aveva accusato la Gazzetta renana di tendenze comuniste. Nel corso dell'estate 1842 una certa tendenza al comunismo si era realmente manifestata in questo giornale. Gli amministratori e i redattori avevano fondato un circolo, «Giovane Germania», in cui si riunivano settimanalmente per discutere questioni politiche e sociali: c'erano Jung, Hess, Mevissen, Schramm, Brueggemann, Buergers, d'Este, e, dall'ottobre, K. Marx.

Uno di essi, Mevissen, durante una permanenza in Francia, aveva annodato relazioni con i Sansimoniani, e aveva assimilato le loro vedute sulla funzione dell'industria e delle banche nella vita moderna. Al ritorno da un viaggio fatto durante l'agosto in Inghilterra, scrisse nella Gazzetta renana tre articoli nei quali esponeva le conseguenze del movimento industriale inglese. La concorrenza, egli diceva, determina una crescente diminuzione dei salari e provoca conflitti sociali: finora si è potuta evitare la rivoluzione soltanto grazie alla resistenza della classe media contro il proletariato, ma essa scoppierà se il governo non prende le misure necessarie per alleviare là crisi e la disoccupazione.

M. Hess, che aveva aderito al comunismo, approfittava dell'incarico ricevuto dalla redazione di scrivere degli articoli riguardanti la Francia, per esporre indirettamente le sue idee criticando il liberalismo e la monarchia costituzionale. Egli sosteneva che la questione essenziale era la questione sociale non risolta dalla Rivoluzione francese, e che la monarchia costituzionale, magnificata dai liberali come una panacea, era anch'essa incapace a risolvere. Il conflitto tra il pauperismo e l'aristocrazia finanziaria era, egli diceva, lo scoglio del liberalismo. Questo conflitto, che nessun governo, per quanto radicale, poteva far cessare, doveva necessariamente provocare una rivoluzione sociale. Soltanto il comunismo, a suo parere, poteva dare la soluzione di questo problema, ed in Francia e in Inghilterra si guardava già ad esso come alla futura organizzazione della società. Questi articoli servirono di pretesto alla Gazzetta di Augusta, che tuttavia aveva pubblicato sullo stesso argomento corrispondenze altrettanto tendenziose di H. Heine, per accusare la Gazzetta renana di comunismo. Il suo attacco, provocato dal dispetto di vedere questo giornale contestarle il primo posto nella stampa liberale, era abile quanto perfido: si faceva allusione ai figli dei ricchi commercianti e industriali, accomandatari del giornale, che giocavano con le idee socialiste senza pensare per nulla a far parte delle loro ricchezze cogli operai, e si giudicava semplicemente sciocco minacciare alla borghesia tedesca, che era appena sul nascere, la stessa sorte della nobiltà francese. A quest'accusa Marx rispose con un articolo piuttosto scialbo, che tradiva il suo imbarazzo davanti ad un problema che egli poco conosceva. A suo parere, il comunismo si poneva in Germania soltanto come questione teorica, pur costituendo tuttavia un problema serio che non si poteva sbrigare con quattro parole, come faceva la Gazzetta d'Augusta. Egli aggiungeva che si proponeva di studiare questa grave questione, alla cui soluzione lavoravano due grandi popoli; il tono appassionato con cui faceva questa dichiarazione annunciava che egli stesso non avrebbe tardato a divenire un adepto della dottrina comunista. Concludeva infatti con queste parole : «Noi siamo convinti che il pericolo risiede non tanto nella realizzazione pratica del comunismo, quanto nella elaborazione stessa della teoria comunista, perché ai tentativi di realizzare il comunismo, anche quando siano appoggiati da un movimento di massa, si può sempre rispondere col cannone non appena appaiano pericolosi, mentre le idee che si impongono alla nostra intelligenza, alla nostra anima e alla nostra coscienza, sono catene alle quali non ci si può strappare senza dilaniarci il cuore, sono demoni che non si possono vincere se non sottomettendosi ad essi».

Benché cosi portato da una simpatia sentimentale verso il comunismo, K. Marx tuttavia non vi aderì finché rimase alla direzione del giornale. Non si rendeva ancora conto dell'origine e della ragione dei mali sociali, che attribuiva, d'accordo del resto con tutti i Giovani Hegeliani, ad eccezione di M. Hess, ad una cattiva organizzazione dello Stato. Restando fedele alla dottrina hegeliana, gli pareva che la questione sociale dovesse trovare la sua soluzione in una riforma dello Stato, al quale spettava di regolare, nella sua alta saggezza, l'organizzazione e l'evoluzione della società.

La sua ancora imperfetta conoscenza delle questione sociali e la sua incapacità a risolverle apparivano nel suo terzo articolo sulle discussioni della Dieta renana, che trattava della legge tendente a reprimere i furti di legname.

Questa legge segnava una delle fasi della lotta condotta dal capitalismo contro le ultime vestigia della proprietà comune del suolo. I furti di legname, come le violazioni dei diritti di caccia e_ di pascolo, divenuti frequentissimi a causa della crescente miseria dei contadini, erano repressi sempre più severamente, e nel 1836 erano stati oggetto di tre quarti dei processi dibattuti in Prussia (150.000 su 200.000).

La severità del governo nella repressione di questi reati non era sembrata sufficiente ai deputati della Dieta, i quali come proprietari fondiari erano direttamente interessati a reprimerli duramente. Essi avevano aggravato il progetto di legge del governo, trasformando il furto di legname, considerato fino ad allora come un semplice reato, in furto qualificato, cioè in delitto passibile di lavori, forzati.

Nella sua critica su questa legge, tutti i particolari della quale mettevano in luce i sentimenti egoistici e interessati dei membri della Dieta, Marx trovava accenti eloquenti ed indignati nella difesa dei poveri, in favore dei quali rivendicava il diritto consuetudinario.

Sopprimendo questo diritto, impedendo ai poveri di raccogliere la legna dei boschi, si giungeva ad infliggere ai colpevoli una pena iniqua, la cui gravità era assolutamente sproporzionata alla colpa commessa. Per arrivare a queste decisioni, altrettanto ingiuste quanto incresciose, poiché si finiva con l'escludere dallo Stato persone che non avevano commesso alcun delitto, i deputati avevano violato tutti i principi a cui le leggi debbono sottostare. Per esempio, il guardiacaccia che avesse sorpreso il colpevole, era incaricato di fissare l'ammontare dei danni, sicché, divenendo contro ogni giustizia contemporaneamente giudice e parte in causa, era naturalmente indotto, nella sua qualità di perito, a servire gli interessi del padrone a danno di quelli del colpevole. D'altra parte la pena a cui questi veniva condannato, doveva essere scontata a vantaggio del proprietario, il quale, con queste disposizioni che riconducevano di fatto al servaggio, non soltanto percepiva il rimborso dei danni, ma si sostituiva allo Stato nel beneficiare dell'ammenda inflitta.

Lo studio di questa legge dimostrava ancora una volta a Marx che la Dieta metteva il potere legislativo al servizio dei suoi interessi privati. «Questo resoconto, diceva concludendo, ci mostra come la Dieta riduca il potere legislativo, le autorità amministrative, la persona dell'accusato, l'idea di Stato, ed anche la colpa e la sua pena, a vili strumenti dell'interesse privato... La Dieta ha votato sulla questione se si dovessero o no sacrificare i principi giuridici agli interessi dei proprietari, e l'interesse ha trionfato sul diritto... Cosi essa ha assolto pienamente il proprio ufficio, considerando, conformemente alla sua funzione, come fine a se stessa la difesa di interessi privati».

In quest'articolo, nel quale si sentiva vibrare tutta l'indignazione di Marx contro i proprietari che, senza riguardo alla giustizia, alla legge e agli interessi dello Stato, volevano assicurarsi la persona e i beni del colpevole, era già chiara la sua evoluzione verso il comunismo. Ma egli non vi aderiva ancora, e se prendeva a cuore la difesa dei poveri oppressi, li difendeva con argomenti giuridici e morali, non economici e sociali.

Avendo scoperto in un caso particolare che la legge era espressione di interessi privati, non pensava ad estendere questa constatazione a tutte le leggi e a criticare da questo punto di vista l'insieme delle istituzioni politiche. Imbevuto di idealismo hegeliano, opponeva invece a questo caso particolare la legge in generale, che ai suoi occhi restava l'espressione della giustizia e della ragione, e considerava questa iniquità giuridica come un attentato dei «vile materialismo» allo spirito stesso dello Stato.

Questa concezione ancora puramente giuridica e morale dello Stato e delle leggi, gli avrebbe permesso di fare sulla legge per i reati di caccia una critica analoga a quella che aveva fatto sulla legge per i furti di legname. Ma con essa non avrebbe potuto risolvere la questione dello spezzettamento delle terre, che doveva essere argomento del suo ultimo articolo sulle discussioni della Dieta.

Questi due articoli non furono pubblicati, anzi, certamente neppure composti, e soltanto sull'ultimo si hanno alcune informazioni. Il governo aveva presentato alla Dieta un progetto di legge tendente a limitare lo spezzettamento delle terre che rovinava la classe dei contadini. Si contavano allora in Renania più di undici milioni di appezzamenti di terreno su un'estensione di dieci milioni di iugeri; nel solo distretto di Colonia si suddividevano ogni anno seimila appezzamenti, molti dei quali cosi piccoli, che pagavano soltanto un centesimo di tasse. Questo spezzettamento diveniva cosi uno sbriciolamento che pregiudicava la coltura del suolo e rovinava i contadini; tuttavia la Dieta, attaccata al principio della libertà economica, e che già s'era levata contro la formazione di maggioraschi, respinse con 49 voti contro 8 il progetto del governo.

In un articolo sulle condizioni dei contadini della Mosella, nel quale riprendeva la tesi che avrebbe poi sostenuta nella critica al progetto di legge sullo spezzettamento delle terre, Marx approvava la decisione della Dieta, e diceva che impedire ai contadini di spezzettare le terre a loro piacere significava aggiungere alla loro miseria materiale una restrizione dei loro diritti.

Ma questa questione non poteva venir risolta cosi, da un punto di vista strettamente giuridico. Come avevano già dimostrato i socialisti francesi, lo spezzettamento delle terre poneva anzitutto un problema sociale, poiché portava, come primo effetto, alla creazione di un proletariato rurale altrettanto impotente e miserabile quanto i piccoli artigiani rovinati dalla concorrenza delle fabbriche.

Dall'esame delle questioni politiche Marx arrivava così allo studio delle questioni economiche e sociali, e per questa via alla revisione delle sue concezioni giuridiche della società e dello Stato. Il suo pensiero era allora in pieno fermento: il fondo delle sue concezioni restava hegeliano, ancora considerava lo spirito come l'elemento regolatore della vita politica e sociale, e lo Stato come la sua più alta manifestazione. Ma doveva apparirgli sempre più chiaramente che il Diritto in sé era incapace di regolare e dirigere l'organizzazione sociale, e si poteva notare in lui una tendenza a derivare dalla realtà stessa le leggi che la governano. Dedicandosi sempre più allo studio dei fatti concreti, si separava cosi a poco a poco da B. Bauer e dai Giovani Hegeliani di Berlino, per avvicinarsi a Feuerbach e a Ruge.

In un articolo degli Annali tedeschi, apparso nel febbraio del 1842, Feuerbach aveva messo in rilievo l'importanza pratica della sua critica della filosofia di Hegel, sottolineando il fatto che questa critica, in quanto distoglieva lo spirito dalle speculazioni metafisiche per ricondurlo all'osservazione della realtà concreta, fondava su quest'ultima la filosofia.

A questa critica si ispirava Ruge nella sua analisi della Filosofia del Diritto di Hegel, a cui rimproverava di considerare lo Stato e le istituzioni politiche da un punto di vista teorico ed astratto. «Il difetto generale della dottrina hegeliana, che è quello di porsi da un punto di vista assoluto, al di fuori della storia vivente, appare anche nella sua Filosofia del Diritto. È impossibile considerare lo Stato in sé separandolo dalla storia, perché ogni concezione dello Stato, come del resto ogni filosofia, è un prodotto della storia. Per questa stessa ragione non si può considerare una costituzione, cioè h forma particolare di uno Stato, come una forma eterna ed assoluta, perché uno stato determinato non rappresenta altro che un momento dello Spirito che si realizza nel mondo.

Studiando cosi il diritto da un punto di vista assoluto, Hegel è stato indotto a confondere la storia con la logica, a trasformare i suoi dati in categorie logiche, e ad attribuire un carattere di necessità a forme storiche transitorie, come per esempio il maggiorasco.

L'evoluzione del mondo non è determinata dal movimento dialettico dell'Idea, come pensava Hegel, ma da quello della Storia, la cui molla è la critica. Quest'ultima, secondo il parere di Ruge, aveva in Germania un carattere troppo astratto, e per darle un contenuto concreto egli preconizzava, seguendo Heine ed Hess, un'alleanza dello spirito teorico dei tedeschi e dello spirito pratico dei francesi, che doveva tradursi nell'unione della filosofia e della politica.

Mentre una parte dei Giovani Hegeliani, con Feuerbach, Ruge, Hess e Marx cercava di sostituire alla critica filosofica una critica realistica di carattere politico e sociale, i Giovani Hegeliani di Berlino raggruppati intorno a B. Bauer compivano un'evoluzione inversa.

Fino al principio del 1842, costoro avevano conservato una fede assoluta nella missione dello Stato prussiano ed avevano preso parte attiva al movimento costituzionale. Ma la revoca di Bauer, che essi consideravano come il colpo più grave inferto alla libertà, aveva dato un carattere assoluto alla loro opposizione.

Essi, non riconoscendo più se non due partiti estremi che lottavano pro o contro la libertà, erano portati a mostrare nell'agone politico la stessa intransigenza di cui avevano dato prova nella lotta contro la religione, e condannavano i fautori del Giusto Mezzo e della monarchia costituzionale. Questa critica, nella quale del resto si limitavano a vaghe generalità, doveva portarli alla rottura con i liberali e causare un primo contrasto con Marx.

Marx, in linea di principio, era d'accordo con loro nella critica della monarchia costituzionale, ma per ragioni di opportunità disapprovava il loro atteggiamento intransigente. Egli infatti pensava che per portare a buon fine la lotta contro la reazione sul terreno politico fosse necessario non provocare conflitti con la borghesia liberale.

Siccome conosceva per esperienza le difficoltà dell'azione pratica, non poteva accontentarsi del vano gioco di questa critica teorica priva di effetti pratici, e alle belle ma inefficaci affermazioni e declamazioni rivoluzionarie preferiva la lotta politica sul terreno della realtà concreta, lotta per la quale i «liberi» non avevano che disprezzo.

Quest'ideologia frivola e vacua provocò la loro rottura prima con Ruge e Herwegh, e poi con Marx.

Herwegh, che aveva lanciato nella sinistra hegeliana la parola d'ordine di «partito» indicando, con ciò, che la critica filosofica era destinata a restare impotente se non avesse trovato eco nella massa e appoggio in un partito politico, stava facendo allora un viaggio trionfale in Germania. Scopo di questo viaggio era di trovar dei collaboratori per un giornale radicale, il Messaggero Tedesco della Svizzera, che egli aveva intenzione di pubblicare a Zurigo. Dopo essere passato da Colonia e da Dresda, al principio di novembre del 1842 si recò in compagnia di Ruge a Berlino, dove si incontrarono con i «liberi», ma si urtarono presto per le loro maniere licenziose e per la loro frivolezza. Ruge, per di più, si adirò contro B. Bauer, quando Bauer gli disse che bastava sopprimere in teoria, con la dialettica, la religione e la reazione politica, senza preoccuparsi altrimenti della loro esistenza reale. Siccome Herwegh approvava Ruge, i «liberi» si vendicarono rimproverandogli un'udienza che egli aveva ottenuta dal re il 19 novembre. Le due parti, da un lato Meyer, dall'altro Herwegh, si rivolsero a Marx per definire la loro controversia. Herwegh gli chiese di pubblicare un suo articolo in cui diceva che il genere di vita che i «liberi» conducevano li screditava, compromettendo la causa da essi difesa. Il 29 novembre, la Gazzetta renana pubblicava questo articolo, ma, subito dopo, Marx riceveva una lettera di Meyer, che doveva provocare la sua rottura coi «liberi».

Già da molto tempo i suoi rapporti con essi avevano cessato d'esser cordiali: siccome egli faceva poco conto della loro agitazione e disapprovava il gioco sterile e vano della loro critica, aggiungeva alla censura del censore anche la propria e scartava molti dei loro articoli.

Nella sua risposta, Marx chiedeva ai «liberi» di trattare con più serietà le questioni politiche e sociali, di non parlare per esempio di comunismo a proposito di critica teatrale, e di esaminare la questione religiosa dal punto di vista politico, invece di ridurre tutta la politica alla questione religiosa. Ma prima che questa risposta giungesse a Berlino, Marx riceveva una lettera insolente da Meyer, che gli intimava di prendere le parti dei «liberi» e di adottare senza riserve il loro atteggiamento nella Gazzetta renana : questo avrebbe portato con sé la immediata soppressione del giornale. Marx allora si adirò e rispose con una lettera di rottura, perché non era sua intenzione compromettere l'esistenza del giornale, per soddisfare le esigenze dei suoi antichi amici.

Bauer gli scrisse una lettera imbarazzata, rimproverandogli di essersi mostrato ingiusto. Fino a quel momento Marx aveva avuto fiducia in lui; aveva sperato che egli potesse allontanare i «liberi» dalla strada in cui s'erano messi, e ancora nel settembre aveva preso le sue difese contro uno dei suoi avversari.

Ma ormai non si sentiva più in comunione d'idee con lui, e non rispose a questa lettera che segnò la fine delle loro relazioni.

La sua divergenza con Bauer s'era accentuata dopo la sua tesi; questa, come abbiamo visto, insisteva essenzialmente sulla funzione del pensiero, che egli voleva far rientrare nella realtà, da cui invece Bauer lo distaccava.

Già nella lettera del 10 novembre 1837 al padre, Marx aveva sottolineato la natura del concetto, necessario intermediario tra la forma e il contenuto, tra la realtà spirituale e la realtà materiale. Alla fine dell'articolo in cui criticava la legge sul furto di legname, egli precisava questo concetto, dimostrando che il vero pensiero non può e non deve esprimere altro che il reale. «La forma, egli diceva, non ha valore se non è l'espressione del contenuto» 1GS), criticando e condannando cosi la teoria di Bauer e dei «liberi» che, al contrario, pretendevano di imporre alla realtà una forma arbitraria e di modificarla a piacer loro.

A questa divergenza di principi si aggiungeva una diversità di temperamento forse anche più grave. Infatti quello che caratterizzava Marx, distinguendolo dalla maggior parte dei Giovani Hegeliani, i quali scherzavano, anzi giocavano con le idee senza far esprimere ad esse il loro più intimo pensiero, era che in lui, come del resto nel suo maestro Hegel, il pensiero, confondendosi con la volontà e col sentimento, aveva la realtà viva e potente d'una convinzione.

Ciò che Marx diceva dei fautori della libertà di stampa nel suo articolo sulla Censura, si riferiva implicitamente ai «liberi» e mostrava chiaramente che cosa lo separasse da essi.

Egli spiegava la loro debolezza nella difesa della libertà col fatto che questo problema interessava soltanto la loro intelligenza, mentre il loro cuore restava estraneo e indifferente.

Separando cosi il proprio pensiero e la propria azione da quella dei «liberi» Marx era meno che mai disposto a cedere alle loro ingiunzioni di dare al giornale un tono più radicale, per il fatto che la censura si inaspriva di giorno in giorno. Fino allora il re aveva esitato tra il desiderio di accordare alla stampa una certa libertà, e quello di reprimerne gli eccessi. Il 28 maggio aveva soppresso la censura per le caricature, e il 4 ottobre per i libri superiori ai 20 fogli; ma il 17 settembre sospendeva il dottor Witt, redattore del Giornale di Koenigsberg, il 5 ottobre faceva espellere Karl Gruen, direttore della Mannheimer Abendzeitung, e il 14 ottobre ordinava ai prefetti di rettificare le menzogne pubblicate da certa cattiva stampa, per attenuarne gli effetti. La Gazzetta renana pubblicò quest'ordine che la riguardava in maniera particolare, accompagnandolo con un commento ironico di Marx.

Egli, diceva, vedeva in esso una prova dell'interesse del governo per la stampa. Quest'interesse, che fino allora s'era manifestato sotto un aspetto negativo con la censura, cominciava adesso ad affermarsi in un aspetto positivo, sotto forma di collaborazione, e ciò permetteva di sperare che il re avrebbe ben presto accordato alla stampa la libertà necessaria perché essa potesse, conformemente ai desideri di lui, esercitare una critica sincera e leale.

Quest'ordine, che indicava le cattive intenzioni del re nei riguardi della stampa liberale, preannunciava l'avvicinarsi della tempesta, la quale scoppiò in occasione della pubblicazione da parte della Gazzetta renana di un progetto di legge sul divorzio, comunicatole segretamente. La legislazione prussiana aveva moltiplicato le cause legali del divorzio, e ciò dispiaceva al re il quale considerava il divorzio contrario alla religione cristiana ed aveva perciò invitato il suo confidente von Gerlach a redigere un progetto di legge per proibirlo. La Gazzetta renana accompagnò la pubblicazione di questo progetto con tre articoli, l'ultimo dei quali era di Marx. Ponendosi dal punto di vista della filosofia del diritto per stabilire ciò che costituisce il carattere essenziale del matrimonio e dedurne la legislazione necessaria, Marx criticava contemporaneamente la legge in vigore e il progetto del governo.

La legislazione esistente gli sembrava immorale perché, non mirando ad altro che alla felicità dell'individuo, non proteggeva sufficientemente la famiglia, e ammetteva come causa di divorzio i motivi più futili. Il progetto governativo, d'altra parte, non era accettabile perché disconosceva il carattere umano del matrimonio, prendendone in considerazione solo l'aspetto religioso. Il matrimonio, diceva Marx, in ragione della sua funzione sociale, non doveva essere sciolto se non quando fosse già rotto di fatto, e solo lo Stato, e non certo la Chiesa, aveva il diritto di regolare il divorzio. In seguito a numerose proteste sollevate nella stampa liberale dalla pubblicazione di questo progetto di legge, il re rinunciò a sottoporlo alle Diete, e si limitò a deliberare che da allora in avanti il divorzio venisse pronunciato dalla suprema giurisdizione. Ma il suo odio contro la Gazzetta renana giunse al colmo, ed egli voleva che il redattore rivelasse, sotto pena di soppressione del giornale, il nome della persona che gli aveva comunicato il progetto. I ministri si contentarono di esigere che il direttore responsabile, l'editore Renard, fosse sostituito da un redattore di loro gradimento, e che Rutenberg, giudicato da essi particolarmente pericoloso, fosse dimesso; minacciavano inoltre di sopprimere il. giornale se non avessero ottenuto immediata soddisfazione e se la sua tendenza non fosse cambiata.

In risposta a questa intimazione, Marx mandò una protesta firmata dal direttore Renard, nella quale prendeva con ironia e con fierezza la difesa del giornale. La critica leale, diceva, gli sembrava rispondere al desiderio espresso dal re nella sua istruzione sulla censura; del resto la Gazzetta renana non meritava che elogi per l'opera patriottica che svolgeva in Renania. Non era essa infatti il portavoce della Prussia in questa provincia soggetta fino a poco tempo prima all'influenza francese, e non sosteneva essa contro gli ultramontani, partigiani dell'Austria, la necessità dell'egemonia prussiana in Germania?. Rispondendo poi all'imputazione fatta al giornale di attaccare la religione, Marx faceva osservare che la Gazzetta renana aveva criticato la religione solo in quanto se ne era fatta un'arma politica, e s'impegnava ad astenersi per il futuro da ogni critica della religione, se i suoi avversari avessero rinunciato da parte loro ad adoperarla come arma. Accettava di allontanare Rutenberg, che del resto vedeva partire senza rimpianto, consentiva a proporre come direttore un redattore responsabile che avesse l'approvazione del governo, e prometteva di modificare, se non la sostanza, almeno la forma delle polemiche del giornale.

Il redattore proposto, il dottor Rave, antico direttore della Gazzetta Generale del Reno, che aveva sostenuto il governo nella sua lotta contro gli ultramontani, fu approvato il 5 dicembre, ma Marx restò di fatto a capo del giornale.

Malgrado queste concessioni il conflitto si aggravò in seguito alla pubblicazione di tre corrispondenze da Berncastel, che descrivevano le miserabili condizioni dei contadini della Mosella. Il prefetto von Schaper lasciò passare senza protestare la prima, che attribuiva la miseria dei contadini della Mosella alla bassezza dei prezzi, alla mancanza di mercati e alla serie dei cattivi raccolti che s'erano susseguiti dal 1825 al 1834. Ma siccome le altre due corrispondenze tiravano in causa il governo, al quale rimproveravano di fidarsi delle relazioni ottimistiche ma menzognere delle autorità locali, e di sopprimere con la censura le giuste lamentele, von Schaper mandò alla Gazzetta renana due rettifiche nelle quali negava che si fosse mai impedito ai contadini di esporre le loro lagnanze, ed accusava il giornale di voler sollevare i vignaioli contro il governo, col pretesto di difendere i loro interessi.

Il 18 dicembre la Gazzetta renana pubblicò queste rettifiche, e, facendo buon viso a cattivo gioco, il 23 dicembre le fece seguire da un commento nel quale si dichiarava soddisfatta di questa collaborazione tra il governo e la stampa. Marx, che era andato a passare le vacanze di Natale a Kreuznach, dove la sua fidanzata abitava con la madre dalla morte del barone di Westphalen, fu senza dubbio meno soddisfatto. Sostituendosi allo scrupoloso corrispondente che non voleva proseguire la sua critica, egli raccolse su questo problema, che del resto, come originario della Mosella, ben conosceva, un'abbondante documentazione, e a cominciare dal 15 gennaio pubblicò una serie di articoli nei quali dimostrava che il governo, invece di venire in aiuto ai vignaioli, aveva aggravato la loro miseria e soffocato le loro lagnanze. Basandosi su relazioni amministrative, egli dichiarava che il governo era, sì, a conoscenza della miseria dei vignaioli e delle cause di essa — prezzo elevato del terreno, cattivi raccolti, debiti — ma non aveva proposto altro che rimedi di cui potevano approfittare solo i grandi proprietari: abbandono delle vigne scadenti e concentrazione delle culture. Per alleviare gli effetti di una crisi che non aveva saputo né prevedere né attenuare, il governo sacrificava cosi deliberatamente gli interessi dei piccoli viticultari, consigliato da un'amministrazione incapace, e sempre disposta, per discolparsi, a far ricadere la responsabilità di una crisi sulle vittime e sulle circostanze. I rimedi che questa proponeva erano inefficaci o cattivi: infatti l'esonero dalle imposte in caso di mancata vendita non era che un palliativo insufficiente, il consiglio di cambiare le culture non era applicabile, ed infine la limitazione della facoltà di suddividere le terre ledeva il principio della libertà economica e i diritti dei contadini. Per risolvere questa crisi, diceva Marx, bisognava fare appello alla libera stampa, arbitra disinteressata, che avrebbe saputo indicare i rimedi utili. Ora, invece di ricorrere ad essa, il governo la strozzava con la censura, impedendole di adempiere al suo ufficio. Non soltanto non aveva voluto ascoltare le lagnanze dei vignaioli, ma aveva anzi processato quelli che, come il deputato Valdenaire, le avevano presentate.

Quest'articolo, nel quale Marx affrontava solo incidentalmente questioni generali, ricordava, per il modo come era trattato il problema economico e sociale, l'articolo sui furti di legname. Marx, attribuendo ancora alle idee un'influenza preponderante, pensava che il migliore rimedio contro i mali economici e sociali fosse la libertà di stampa. Tuttavia si rendeva conto sempre più dell'importanza dei fatti, della realtà concreta, e cominciava ad attribuire alla realtà la parte predominante nell'azione e nella reazione del pensiero sulla realtà, e della realtà sul pensiero. Già nell'articolo sui furti di legname egli aveva dimostrato che in una società fondata sull'ineguaglianza, la legislazione si ispirava a questa; per conseguenza il diritto, lungi dal regolare l'organizzazione sociale, ne era l'espressione. Questo pensiero, che in questo articolo rivestiva ancora una forma vaga, appariva più chiaramente nell'articolo sui vignaioli della Mosella, nel quale egli dimostrava che bisognava cercare nella realtà stessa, nelle circostanze materiali, le ragioni che determinano la struttura e l'organizzazione dello Stato.

Marx non aveva mai attaccato cosi direttamente e cosi aspramente il regime prussiano e il suo governo. Questo mutato atteggiamento, contrastante con la tattica di prudenza da lui fin allora adottata, derivava dal fatto che egli sentiva che i giorni della Gazzetta renana erano contati.

Infatti un seguito di avvenimenti aveva esasperato il re contro i liberali e la loro stampa, che egli era ormai deciso a sopprimere. Il 24 dicembre, la Gazzetta Generale di Lipsia aveva pubblicato una lettera di Herwegh al re, nella quale Herwegh, protestando per l'interdizione pronunciata il 28 novembre contro il suo giornale, il Messaggero tedesco della Svizzera, che doveva uscire il !° gennaio 1843, affermava i suoi sentimenti repubblicani e rivoluzionari. Il 27 dicembre Herwegh veniva espulso e il 28 la Gazzetta di Lipsia veniva proibita in Prussia. Questo provvedimento faceva seguito, a dieci giorni di distanza, alla soppressione del Patriota di Buhl, organo dei Giovani Hegeliani di Berlino, e precedeva di tre giorni quella degli Annali tedeschi, che Federico Guglielmo IV otteneva il 1° gennaio dal governo sassone, a causa del carattere radicale e democratico che Ruge veniva dando alla sua rivista, sull'esempio di Marx.

La Gazzetta renana prese coraggiosamente le difese degli organi liberali cosi attaccati, e Marx specialmente dimostrò, in una serie di articoli, che la causa della Gazzetta Generale di Lipsia era quella della libertà di stampa.

Questi articoli che uscivano contemporaneamente allo studio sulla situazione dei vignaioli della Mosella, decisero il governo a sopprimere il giornale, che per il rapido aumento della sua tiratura era divenuto una forza ed un pericolo. Partito con 400 abbonati, sotto la direzione di Rutenberg non aveva superato la cifra di 800, ma per impulso di Marx il 10 novembre aveva raggiunto la cifra di 1800 abbonati, e alla fine di dicembre ne contava più di 3000.

La soppressione della Gazzetta renana e l'editto del 31 gennaio 1843 che, annullando le concessioni fatte l'anno precedente, inaspriva la censura, coronarono l'insieme delle misure prese contro la stampa liberale.

Questa soppressione fu decisa il 21 gennaio 1843, in un consiglio dei ministri presieduto dal re, al colmo dell'ira per l'assoluzione di Jacoby, pronunciata la vigilia dal tribunale supremo.

Durante la proroga concessa per grazia al giornale fino al 31 marzo, il governo lo sottopose ad una censura severissima. Già dal 1° dicembre il censore Dolleschall, che per la sua indulgenza, o piuttosto incapacità, era lo zimbello dei redattori, era stato sostituito con l'assessore Wiethaus. Quando questi, il 2 febbraio del 1843, cioè in capo a due mesi, dette le dimissioni, fu sostituito da un giovane funzionario berlinese, Saint-Paul il quale avendo frequentato l'ambiente bohémien e in particolare i «liberi» era molto al corrente sull'ideologia hegeliana. Saint-Paul era perciò un censore temibile, e adempì a meraviglia al suo compito. Egli aveva subito riconosciuto in Marx, il cui carattere e la cui intelligenza destavano la sua ammirazione, lo spiritus rector, l'anima del giornale, e in capo ad un mese la sua spietata censura lo ridusse all'impotenza.

Per salvare il giornale, gli azionisti vollero dargli un tono più moderato; ma Marx, che giudicava disperata la situazione e che non pensava che la' salvezza potesse venire da un atteggiamento equivoco, si rifiutò di seguirli.

Già il 2 marzo Saint-Paul annunciava che Marx era deciso a lasciare la direzione del giornale, ed infatti sedici giorni dopo, il 18 marzo, Marx si ritirava. Allora Saint-Paul propose al governo di lasciar vivere la Gazzetta renana, sbarazzatasi ormai del suo cattivo genio, ma il governo si tenne fermo nelle sue decisioni e rifiutò perfino di ricevere una delegazione di azionisti, latori di una petizione sostenuta da migliaia di firme.

La fine della Gazzetta renana non fu indegna del suo breve ma glorioso passato; essa scomparve affermando fieramente nell'ultimo numero la sua speranza e la sua fede nell'ideale di libertà per il quale aveva combattuto e aveva dovuto soccombere 200).

Marx lasciò il giornale senza rimpianti, stanco com'era d'una lotta senza uscita. Il 25 gennaio 1843, apprendendo la decisione del governo, scrisse a Ruge : «Niente m'ha sorpreso. Lei sa. quale fosse sin dal principio la mia opinione sulle istruzioni alla censura. Nella soppressione della Gazzetta renana non vedo che una conseguenza della reazione ed un progresso della coscienza pubblica: ciò spiega la mia rassegnazione. D'altra parte l'atmosfera cominciava a pesarmi. È duro attendere ad un compito servile, sia pure al servizio della libertà, e lottare a colpi di spillo invece che combattere a colpi di bastone. Ero stanco dell'ipocrisia, della stupidità, della brutalità poliziesca, ed anche della nostra servilità e delle nostre riverenze. Il governo m'ha reso la mia libertà. In Germania non posso più intraprendere nulla; si finisce col corrompersi».

La fine della Gazzetta renana segnava per Marx l'inizio d'un nuovo periodo della sua vita.

Dopo la tesi, s'era posto per lui il problema essenziale della sinistra hegeliana il problema dell'azione. Da principio aveva creduto di risolverlo partecipando con B. Bauer alla critica dell'opera di Hegel. Questa critica, mostrando il carattere rivoluzionario della dottrina hegeliana, doveva fornirgli le armi necessarie per combattere il partito conservatore.

Ma siccome non rispondeva al desiderio d'azione di Marx, e si mostrava inoperante, s'era rivolto agli Annali tedeschi di Ruge, che prendevano allora un più deciso carattere politico, e con l'articolo sulla censura faceva il suo ingresso nella vita politica.

E poiché gli Annali restavano, per i suoi gusti, ancora troppo estranei alla vita e all'azione, Marx li aveva lasciati, per collaborare alla Gazzetta renana, nella quale la critica filosofica, rivolgendosi direttamente alla politica, poteva dare la piena misura della sua efficacia. Questa collaborazione era stata per lui il noviziato della sua vita politica. Imbevuto della ideologia hegeliana, egli aveva creduto che il progresso dell'Idea dovesse necessariamente portare con sé quello della realtà, e che la critica filosofica e politica fosse sufficiente a trasformare lo stato di cose presente; ma la realtà nella quale aveva urtato gli aveva mostrato che in fin dei conti i fatti erano più forti delle teorie, e che bisognava riadattare l'idea alla realtà, con una revisione della dottrina hegeliana che ne rovesciasse la tavola dei valori.

Nel corso di questa lotta, durante la quale era venuto in contatto immediato con la vita politica, economica e sociale, egli si era allontanato da B. Bauer e dai Giovani Hegeliani di Berlino, i quali, trasferendo la dialettica alla coscienza ed elevandone cosi la sostanza all'Idea, tendevano a fare della dialettica un puro gioco dello Spirito che, isolato dal mondo, diveniva onnipotente in sé, ma perdeva ogni influenza sul reale.

Distogliendosi dal gioco sterile della loro critica, Marx si avvicinava a Feuerbach, la cui dottrina doveva servirgli da intermediaria tra l'idealismo hegeliano e il materialismo. Lo studio minuzioso della realtà, al quale egli si dedicava sempre più, gli mostrava la connessione e la stretta interdipendenza tra i fatti e le idee, distaccandolo cosi a poco a poco dall'idealismo hegeliano. Dopo aver attribuito, con Hegel, l'evoluzione storica allo svolgimento dello Spirito, egli aveva ammesso che l'evoluzione della filosofia e delle leggi fosse inseparabile da quella dei fatti, per giungere infine alla convinzione che i fatti determinino l'evoluzione storica indipendentemente dalla volontà degli individui: che era la tesi fondamentale di Feuerbach.

D'altra parte, l'esame delle questioni politiche, che egli considerava ancora dal punto di vista hegeliano, lo portava allo studio delle questioni economiche e sociali; e siccome le soluzioni giuridiche che aveva dato a queste questioni erano insufficienti e inconcludenti, era portato a dar loro delle soluzioni sociali, avvicinandosi al comunismo, verso il quale si sentiva attirato. Anche in questo egli doveva prendere per guida Feuerbach, e la dottrina dell'umanesimo doveva servirgli da intermediaria tra la dottrina hegeliana della filosofia del diritto e il comunismo.

CAPITOLO QUARTO
DAL RADICALISMO POLITICO AL COMUNISMO (MARZO 1843 - MARZO 1844)
GLI «ANNALI FRANCO-TEDESCHI»

Due problemi s'erano posti allo spirito di Marx durante la sua attività come redattore della Gazzetta renana: il problema dello Stato e il problema sociale. Da una parte, davanti alla reazione trionfante che sopprimeva ogni libertà, diveniva evidente che la critica filosofica e politica era incapace a trasformare le istituzioni esistenti, e che lo Stato non aveva quel carattere razionale e morale attribuitogli dalla dottrina di Hegel. Dall'altra, appariva chiaro che il problema essenziale non era un problema d'ordine religioso o politico, ma piuttosto d'ordine sociale, e che non poteva esser risolto muovendo, conformemente alla dottrina hegeliana, da presupposti puramente giuridici. Marx si rendeva conto infatti che questo problema non dipendeva da una semplice interpretazione o deformazione del diritto, ma, come gli avevano mostrato le discussioni della Dieta renana, derivava direttamente dai conflitti di interesse tra le diverse classi sociali. Cosi egli era naturalmente portato a rivedere la sua dottrina filosofica e giuridica dello Stato e a studiare i rapporti tra questo e. la società: ed appunto allo studio di questi due problemi Marx si applicò dopo la sua uscita dalla Gazzetta renana.

La soppressione di questo giornale, accompagnata dall'inasprimento della censura, non aveva fatto perdere d'animo questa pleiade di intellettuali che lottavano per il trionfo della ragione e della giustizia, e dopo la soppressione della stampa liberale la lotta doveva ricominciare con nuove armi e sotto nuovi aspetti.

Al principio di marzo del 1843, nel momento stesso in cui risuonavano i rintocchi di morte per la Gazzetta, renana, Ruge pubblicava in Svizzera i due volumi degli Anecdota zur neuesten Philosopkie una Publìzistik (Aneddoti di filosofia e di pubblicistica contemporanee), dove, per rispondere alla censura e schernirla, aveva raccolto tutti gli articoli che essa aveva soppressi nella sua rivista.

Il primo volume si riferiva alle questioni politiche e comprendeva, oltre all'articolo di Marx sulla censura, articoli di Ruge sulla libertà di stampa e sulla libertà d'insegnamento, di Koeppen su «Fichte e la Rivoluzione» e di K. Nauwerk sulla reazione politica in Prussia; il secondo volume conteneva articoli di critica filosofica e religiosa di Ruge, Feuerbach e B. Bauer.

Gli Anecdota riunivano per un'ultima volta tutta la schiera dei Giovani Hegeliani scesi in lizza contro il governo prussiano: ancora uniti nell'opposizione, le loro vie divergevano ormai nell'azione.

Bruno Bauer e i «liberi», isolati a Berlino, dovevano limitarsi a proseguire la loro critica della religione, opponendo a questa non più lo stato razionale, che aveva cessato di essere il loro idolo, ma la coscienza individuale, orientandosi cosi sempre più nettamente verso l'individualismo anarchico.

L'editto del 31 gennaio 1843, il quale, aggravando la censura, li privava dell'unico mezzo d'azione di cui potevano disporre, cioè della stampa e dei libri, segnò più o meno la fine della loro attività politica. Siccome-questo inasprimento della censura, accompagnato dalla soppressione della libera stampa, non aveva in genere provocato tra gli elementi liberali e tra il popolo nessuna seria reazione, essi li accusavano di indifferenza e di apatia. Ripiegati su se stessi, dovevano, per una loro naturale tendenza all'individualismo e all'egocentrismo, considerare il popolo, la massa, come un ostacolo allo svolgimento dello Spirito, che erano sempre più inclini a confondere con quello di singole individualità eminenti, cioè le loro.

Invece di aderire al movimento liberale o comunista, essi dovevano allontanarsene sempre più e giungere, con la loro dottrina dell'opposizione tra la massa e lo spirito, all'anarchismo, nel quale si traduceva l'esasperazione della loro filosofia critica, isolata dal reale e incapace di, agire su di esso. Questo anarchismo consistente nella semplice negazione e nella pura critica di tutte le correnti politiche e sociali, si confaceva perfettamente allo stato d'animo che Engels aveva osservato in essi un anno prima, e che li faceva altrettanto arditi nella teoria quanto pusillanimi nell'azione.

Il liberalismo, dottrina del Giusto Mezzo, non riscuoteva più il loro favore: la sua mancanza di un saldo principio, che lo condannava all'inerzia, veniva criticata, nel giugno del 1843, da E. Bauer nel suo opuscolo: Le tendenze liberali in Germania. Dal canto suo B. Bauer, dopo aver ripreso e riassunto i suoi attacchi contro la religione cristiana nel libro: Il cristianesimo rivelato, scritto durante l'inverno 1842-1843, rivolse anch'egli la sua critica contro il liberalismo politico e la Rivoluzione francese.

Il difetto di questa Rivoluzione, egli diceva, era di aver voluto associare due principi contraddittori, quello d'umanità e quello di nazionalità, e di aver tentato di fare del progresso dell'umanità il privilegio egoistico di una nazione. Ciò spiega insieme lo scacco della Francia nella sua lotta con l'Inghilterra, la quale rappresentava il principio di nazionalità nella sua forma pura, e la sua inferiorità di fronte alla Germania, la quale, non costituendo una vera e propria nazione, era il paese della teoria pura, della critica assoluta.

Riducendo cosi l'evoluzione dello spirito allo sviluppo della coscienza individuale, ed assicurando l'autonomia di questa con la critica di ogni principio superiore: religione, stato, patria, E. e B. Bauer preparavano la via a Stirner, teorico dell'individualismo anarchico.

Sin dal 1842 Stirner, superando nella sua critica distruttiva gli altri Giovani Hegeliani di Berlino, con i quali egli formava il gruppo dei «liberi», aveva respinto non soltanto il principio monarchico, ma anche la sovranità dello Stato e l'autorità delle leggi, come cose contrarie all'autonomia dell'individuo. Nell'aprile del 1842 aveva pubblicato nella Gazzetta renana un articolo intitolato «Il principio fittizio della nostra educazione, o umanesimo e realismo», nel quale sosteneva che bisognava spingere la libertà di pensiero finché questa divenisse autonomia della volontà, e che il fine ultimo dell'educazione era di rendere l'uomo effettivamente libero da ogni autorità, sviluppandone la personalità, l'Io. In un altro articolo, «Osservazioni provvisorie sullo Stato fondato sull'amore», pubblicato nel luglio 1843 nella rivista di L. Buhl, Berliner Monatsschrift (Rivista mensile berlinese), criticava il principio dell'amore, fondamento dello Stato cristiano, nefasto ai suoi occhi perché aboliva la volontà e l'autonomia dell'individuo. Cosi, dopo la critica della religione, dello Stato e della legge, per Stirner, più ancora che per Bauer, restava una sola realtà: l'Io, e un solo principio - l'individualismo.

Mentre Bauer, Stirner e i «liberi» si allontanavano sempre più dal movimento politico e sociale, gli altri Giovani Hegeliani, Hess, Engels, Marx e Ruge, orientavano la loro attività in un senso diametralmente opposto, sforzandosi di unire sempre più strettamente lo spirito alla massa, il pensiero filosofico al movimento politico e sociale, la teoria all'azione. Siccome non c'erano ancora partiti politici organizzati, e siccome essi non avevano, per agire, altro mezzo che la stampa, loro prima cura fu di cercare un organo capace di sostituire gli Annali tedeschi e la Gazzetta renana. Si offri loro II Banco Letterario di Zurigo, fondato da Froebel, che durante gli anni 1843-1844 doveva succedere a Wigand come editore della letteratura rivoluzionaria.

Professore di mineralogia a Zurigo, Froebel era stato indotto a partecipare al movimento liberale in seguito alla rivolta provocata in questa città nel 1839 dalla nomina di Strauss. Nel 1840 aveva fatto la conoscenza di Herwegh il quale, abbandonando il Wuerttemberg, s'era rifugiato a Zurigo dove veniva componendo le sue Poesie di un, vivente, ed appunto per pubblicare queste poesie e i libri censurati in Germania, Froebel aveva fondato nel 1841 II Banco Letterario. Nel 1842 pubblicava un giornale bisettimanale liberale, Der deutsche Bote aus der Schweiz, diretto da suo fratello; nell'ottobre del 1842 aveva deciso di trasformare questo giornale in rivista mensile per sostituire gli Annali tedeschi già minacciati di soppressione, affidandone la direzione a Herwegh. Questa era stata l'occasione del viaggio trionfale di Herwegh attraverso la Germania nell'ottobre e nel novembre del 1842. La sua lettera a Federico Guglielmo IV, nella quale protestava contro la proibizione che colpiva la sua rivista prima ancora che fosse pubblicata, aveva provocato nel dicembre la sua espulsione e fatto terminare cosi il suo viaggio, durante il quale s'era legato con Hess, Marx e Ruge, e aveva reso più strette le relazioni tra i radicali tedeschi e quelli svizzeri. Sebbene l'esistenza della sua rivista fosse fortemente compromessa fin dagli inizi, pur tuttavia egli s'era assicurata la collaborazione dei radicali tedeschi, ed aveva già riunito un discreto numero di articoli; ma poco dopo il suo ritorno a Zurigo venne espulso da questa città (3 marzo 1843), e questa espulsione dette il colpo di grazia alla sua rivista.

Froebel, senza lasciarsi scoraggiare dalle vicissitudini del Messaggero tedesco, nel dicembre del 1842 dava le sue dimissioni da professore per dedicarsi interamente alla politica e prendere la direzione di un giornale bisettimanale, lo Schweizerischer Republikansr, al quale imprimeva una tendenza nettamente democratica, anzi comunista.

I Giovani Hegeliani, dopo che la censura ebbe soppresso i loro giornali e le loro riviste, si raggrupparono appunto intorno a Froebel e al Banco Letterario.

Tra loro regnava allora la più grande confusione dottrinale. La filosofia critica aveva fatto fallimento, il culto dello Stato che prendeva un carattere sempre più reazionario, appariva loro come un pericoloso allettamento, il liberalismo si mostrava incerto nella dottrina e nell'azione, e finalmente il socialismo si presentava piuttosto come un problema nuovo che come una soluzione alle questioni che i Giovani Hegeliani si ponevano.

In questa confusione, un unico punto luminoso, una unica certezza: la teoria di Feuerbach, che poneva sul piano sociale, sul piano dell'umanità concreta, il problema della sintesi del pensiero filosofico e dell'azione pratica, fornendo gli elementi essenziali per la sua soluzione.

Mentre B. Bauer, esasperato per l'incapacità di unire l'idea al fatto, concludeva giungendo ad un'opposizione irriducibile tra l'idea e la massa, Feuerbach invece, nelle sue «Tesi provvisorie sulla riforma della filosofia», che si venivano pubblicando negli Anecdota, e nei suoi «Principi della filosofia del futuro», pubblicati poco dopo, tendeva a istituire questa sintesi dell'idea e del fatto, della filosofia e dell'attività umana, con una critica radicale della filosofia speculativa.

Egli dimostrava come questa filosofia, ed in particolare la filosofia hegeliana, non fosse che l'ultima forma della teologia, trasferendo, non diversamente da questa, l'essenza della natura al di fuori della natura, l'essenza dell'uomo al di fuori dell'uomo. L'unica differenza consisteva in questo: che la filosofia hegeliana realizzava delle idee, mentre la teologia dava realtà alla creazione dell'immaginazione. Hegel, a dire il vero, aveva tentato di effettuare una sintesi del reale e del razionale nell'idea concreta, nella quale inseriva tutta l'evoluzione della natura e della storia, ma questa sintesi era illusoria, perché per lui lo svolgimento restava moto interno dell'idea, a cui egli riduceva ogni realtà.

Reagendo ad Hegel, che dava alla materia, alla realtà concreta soltanto un'esistenza illusoria, ed anche a B. Bauer, il quale, separando l'idea da ogni sostanza per ridurla alla coscienza, non aveva fatto altro che aggravare l'idealismo hegeliano, Feuerbach si proponeva di realizzare l'unità dinamica del pensiero e dell'essere, dello spirito e della materia, del soggetto e dell'oggetto, muovendo non dall'idea ma dalla realtà, assumendo lo spirito nella materia e non la materia nello spirito, e facendo dell'uomo concreto, con la sua sensibilità e i suoi bisogni, l'espressione organica di questa sintesi.

Applicando alla filosofia speculativa la critica che aveva fatto della religione, Feuerbach otteneva così un completo capovolgimento della dottrina hegeliana. Non l'idea, egli diceva, deve costituire il fondamento della filosofìa, ma la natura e l'uomo, perché ogni speculazione fatta al di fuori della realtà immediata e dell'uomo concreto non è altro che una speculazione vana. La filosofia deve poggiare sulle scienze della natura, le quali da parte loro debbono unirsi ad essa; quest'unione sarà più feconda dell'alleanza conclusa finora tra la filosofìa e la teologia.

Non che, tuttavia, egli volesse sostituire l'idealismo col materialismo, e far derivare la vita non più dal pensiero ma dalla materia considerata, come un'entità, come un essere metafisico; per lui la vera realtà, che comprendeva insieme l'idea e l'essere, era l'uomo concreto.

Così Feuerbach opponeva la realtà umana, la realtà sociale, sia all'idealismo oggettivo di Hegel che all'idealismo individuale di B. Bauer. Non era più lo svolgimento dell'idea, o un fatto soggettivo di coscienza, quello che determinava il progresso, ma bensì le condizioni generali della vita umana; e l'umanità nel suo insieme, il popolo, la massa, diveniva l'elemento essenziale dell'evoluzione sociale.

Con questa critica di ogni metafisica, di ogni fede nel soprannaturale, Feuerbach giungeva ad una apoteosi dell'uomo, concepito nelle sue relazioni col reale, il quale, non avendo più altra patria che la terra, era tenuto a realizzarvi tutto se stesso; e su questo umanesimo fondava una dottrina sociale che si ispirava alla sua critica della religione.

Avendo scoperto che la religione non era se non un'alienazione dell'essenza umana, egli si proponeva di risolvere la questione sociale liberando l'uomo dall'illusione religiosa per dargli coscienza della sua vera natura realizzata nella specie. L'uomo, diceva, non può concepirsi come un essere isolato, al di fuori dell'umanità; è un essere sociale, un membro della specie umana, che soltanto nella vita collettiva trova la realizzazione della propria essenza. Perciò egli ha il dovere di liberarsi dall'egoismo, e dall'individualismo che si oppongono alla vita collettiva, accettando come legge suprema l'amore dell'umanità. Questa liberazione, concludeva Feuerbach, deve risultare dall'unione della filosofia e del movimento sociale, dall'alleanza tra i tedeschi, puri teorici, e i francesi, che hanno il gusto e il senso dell'azione.

La dottrina di Feuerbach aveva il difetto di restare ancora vaga ed astratta. La sua tesi fondamentale, l'alienarsi dell'essenza umana nella religione, non era né esposta né spiegata come un fatto sociologico, ma presentata come un atto in certo modo metafisico dell'uomo, considerato in quanto tale al di fuori della società. Come Hegel riconduceva l'evoluzione storica, della quale non aveva saputo riconoscere le vere ragioni, allo svolgimento di un immaginario Spirito del Mondo, Feuerbach identificava la società, di cui non aveva una nozione chiara, con un essere ugualmente immaginario, con la specie umana considerata come essenza dell'umanità (Gattungswesen), la quale, come lo Spirito del Mondo, diveniva un'entità superiore agli uomini. Perciò egli non arrivava a superare la concezione astratta dell'uomo, e il capovolgimento della dottrina di Hegel si produceva in lui sempre nel quadro della filosofia speculativa, piuttosto che in quello della realtà concreta. Siccome concepiva l'uomo da un punto di vista assoluto, al di fuori della storia, era portato a respingere, oltre che l'ideologia di Hegel, anche la sua concezione storica e dialettica del divenire, privando in tal modo la sua dottrina del dinamismo che animava la filosofia hegeliana.

Così, abbandonando la concezione hegeliana della storia, che comprendeva in uno stesso processo lo svolgimento dell'uomo e quello della natura, Feuerbach ritornava al materialismo del sec. XVIII, che considerava l'uomo come un essere, se non astratto, almeno passivo e docilmente disposto a subire gli impulsi della natura. D'altra parte, ponendo, come egli faceva, l'attività umana al di fuori dell'evoluzione storica, doveva, come i filosofi del sec. XVIII, attribuirle un carattere ed un fine essenzialmente morali, e la sua filosofia sentimentale culminava in un'etica, in una vaga religione della felicità e dell'amore universali.

Per lui la società restava un tutto indistinto, una vaga solidarietà collettiva, nella quale sparivano le forze concrete contrastanti l'una con l'altra, che egli riduceva ad un antagonismo mal definito tra l'egoismo e l'altruismo. Non ritenendo essenziale se non la questione religiosa, la cui soluzione doveva liberare l'uomo dall'egoismo, egli attribuiva più importanza all'educazione del popolo che alle questioni politiche e sociali, che si limitava a sfiorare nelle sue tesi; dedicava per esempio soltanto una breve osservazione allo Stato, il quale invece costituiva la parte centrale del sistema di Hegel ed era il problema fondamentale per i Giovani Hegeliani, considerandolo come la realizzazione totale dell'essenza dell'uomo, come l'incarnazione della specie, senza indicare del resto né come né in quale misura le qualità essenziali dell'umanità si trovassero realizzate in esso.

Se Feuerbach non aveva trovato la soluzione definitiva del problema essenziale che la sinistra hegeliana si poneva, del problema dell'adattamento della filosofìa all'azione politica e sociale, aveva tuttavia il merito di indicare in quale direzione si dovesse cercarla. Rendendo possibile con la sua critica decisiva della filosofia hegeliana l'unione feconda del pensiero e dell'essere, della filosofia e della realtà sociale, egli mostrava la via su cui bisognava incamminarsi. Restava ora da studiare l'uomo e la società nella loro realtà concreta, e da collegare la liberazione dell'uomo non soltanto alla sua emancipazione religiosa, ma anche e soprattutto alla sua emancipazione politica e sociale. A questo compito si dedicarono Ruge, Hess, Engels e Marx, i quali dovevano derivare dalla sintesi feuerbachiana del razionale e del reale, della filosofia e dell'attività pratica, modificandola diversamente secondo le loro aspirazioni e il loro diverso temperamento, una dottrina democratica o comunista.

Poiché, dopo il fallimento del moto liberale del 1842, la borghesia s'era ritirata dalla lotta, imitata in ciò da B. Bauer e dai «liberi , gli altri membri della sinistra hegeliana dovevano necessariamente tendere a realizzare al di fuori del liberalismo l'unione della filosofia e dell'azione, e arrivare così da una parte ad associarsi alla democrazia francese, che sembrava loro offrisse una base più solida che non il liberalismo tedesco, e dall'altra, ad aderire al movimento socialista e comunista, che cominciava a diffondersi dalla Francia e dalla Svizzera in Germania.

Marx, seguito al principio da Ruge, doveva essere l'ispiratore dell'alleanza democratica franco-tedesca, mentre Hess, già passato al comunismo, doveva allontanarsi da questa nuova forma di liberalismo per preconizzare l'unione della filosofia tedesca col movimento comunista. Derivando dalla filosofia di Feuerbach una dottrina che costituiva una prima sintesi del radicalismo filosofico tedesco e dei sistemi socialisti e comunisti francesi, Hess, che fin allora aveva avuto soltanto una parte di secondo piano, doveva esercitare una grande influenza sulla sinistra hegeliana.

Dichiarando ormai apertamente le sue opinioni comuniste, egli espose la sua dottrina in tre articoli, destinati originariamente al Messaggero tedesco, e che uscirono nei Venturi fogli dalla Svizzera {Einundzwanzig Bogen aus der Schweiz), pubblicati da Herwegh nel maggio del 1843.

Questi articoli, «La filosofia dell'azione», «Il socialismo e il comunismo», «La libertà nella sua unità e nella sua totalità», attestano lo sforzo di Hess per realizzare la sintesi della filosofia di Feuerbach e del comunismo, del principio di libertà, che era quello della sinistra hegeliana, e del principio comunista di uguaglianza.

Hess chiamò questa sintesi, del resto piuttosto confusa, col nome di anarchia, dando all'anarchia un carattere comunista.

Non si può, egli dice, separare la libertà spirituale dalla libertà politica, perché l'una è condizione dell'altra; perciò bisogna combattere contemporaneamente i dogmi religiosi e i dogmi politici, ed instaurare l'anarchia, la quale soltanto può assicurare l'assoluta indipendenza dell'individuo.

A Babeuf e a Fichte spetta il merito di aver proclamato per primi l'autonomia della persona umana; dopo di loro Saint-Simon, Fourier e Hegel hanno sviluppato le loro dottrine senza riuscire, tuttavia a fondare il vero anarchismo; infatti Saint-Simon ha lasciato sussistere la proprietà privata, Fourier l'ineguaglianza sociale, e Hegel la religione e la monarchia. I Giovani Hegeliani stessi subordinano l'individuo ad uno stato ideale, che non è se non una nuova forma della Divinità.

L'anarchia può essere stabilita solo quando si sopprima ogni tirannia; a questo scopo bisogna realizzare insieme alla libertà individuale anche l'eguaglianza sociale, con l'abolizione della proprietà e dello Stato, ambedue strumenti di oppressione, che creano e mantengono la divisione tra padroni e schiavi. L'anarchia assicurerà la felicità dell'uomo mediante una nuova organizzazione sociale in cui il lavoro si identificherà col piacere, perché, invece di essere eseguito nella costrizione che oggi lo rende penoso e odioso, sarà liberamente accettato.

Quest'anarchismo, per mezzo del quale Hess si sforzava di salvare il principio della libertà, dell'autonomia dell'individuo, pur associandolo al principio d'uguaglianza insito nel comunismo, lo portava a cercare la soluzione del problema sociale al di fuori della realtà, e dava cosi alla sua dottrina un carattere utopistico.

Ispirandosi a Feuerbach, di cui adottava la filosofia senza sottoporla, come doveva fare Marx, ad una critica preventiva, egli attribuiva infatti all'antagonismo tra ricchi e poveri, tra capitalismo e proletariato, un carattere morale, identificandolo con la lotta tra le tendenze egoistiche e le tendenze altruiste dell'umanità. La lotta contro l'egoismo diveniva cosi il fondamento dell'azione sociale, e perciò sia il capitalismo che il comunismo perdevano i caratteri loro propri, confondendosi il primo con l'egoismo, nome col quale Hess comprendeva tutto ciò che si oppone al comunismo, e attribuendosi al secondo non più le aspirazioni particolari del proletariato, ma le tendenze altruiste dell'umanità.

Invece di considerare lo sviluppo economico come la causa principale dell'evoluzione sociale, egli ne attribuiva il motivo essenziale alla evoluzione spirituale e morale, e, come Feuerbach, riduceva la questione sociale ad un problema d'educazione.

Questa dottrina costituiva una specie di mezzo termine tra l'anarchismo individualista di B. Bauer e di Stirner da una parte, e il comunismo dall'altra. Difatti per Hess, come per B. Bauer e Stirner, il fine ultimo era l'attività libera, l'autonomia dell'individuo; ma, invece di fondarla sull'individualismo e l'egoismo, egli la inquadrava nella società organizzata secondo il principio dell'altruismo, cioè nel comunismo.

Malgrado il suo carattere impreciso, la dottrina di Hess realizzava una prima sintesi tra il radicalismo filosofico tedesco e le teorie socialiste e comuniste francesi.

Engels e Marx dovevano sforzarsi di precisare questa dottrina spogliandola dei suoi elementi utopistici ed anarchici, per adattarla più pienamente al movimento comunista che cominciava allora a diffondersi in Germania. Infatti all'influenza delle idee sansimoniane si andava ormai sostituendo quella delle idee comuniste, che si diffondevano tra gli operai e gli intellettuali; il comunismo, che diveniva oggetto di sempre più frequenti discussioni nella stampa, era per cosi dire all'ordiine del giorno.

Da Parigi, che dal 1830 era il grande centro dell'agitazione rivoluzionaria europea, provenivano la maggior parte delle dottrine sulla riorganizzazione e il rinnovamento sociale. Queste dottrine avevano due diverse tendenze: le une, quelle socialiste, contavano sull'intelligenza e la buona volontà delle classi possidenti per realizzare una trasformazione completa o almeno una riforma progressiva della società. Queste dottrine erano particolarmente notevoli per le loro critiche sociali. Pecqueur e Considérant riprendendo ed allargando le teorie di Saint-Simon e di Fourier, dimostravano che lo sviluppo del capitalismo portava alla concentrazione delle ricchezze, all'eliminazione delle classi medie, alla divisione della società in proletariato — o popolo, come allora si diceva — e borghesia, e che la conseguenza di questo sviluppo doveva essere la socializzazione dei mezzi di produzione. Nel 1843 queste critiche erano cosi frequenti e cosi vive (Proudhon, Cabet, L. Blanc), che L. Reybaud poteva scrivere che non passava giorno che non si proclamasse una nuova condanna della società capitalista.

A fianco di questo movimento socialista, si delineava un'altra corrente di dottrine, che si ispiravano alle concezioni di Babeuf, divulgate allora da Buonarroti. Invece di ripone le loro speranze nella buona volontà della borghesia, Buonarroti e le società segrete che subivano la sua influenza, in particolare la Società delle Stagioni presieduta da Blanqui, avevano fiducia soltanto nello spirito rivoluzionario del popolo, e predicavano l'idea della dittatura proletaria che avrebbe instaurato con la forza il socialismo.

Queste dottrine cominciavano a trovare un terreno favorevole in Germania dove, in seguito al rapido sviluppo dell'industria, accompagnato da quello della meccanizzazione e della concorrenza, si veniva formando un proletariato sempre più numeroso e miserabile. Fino allora non c'erano stati grandi centri industriali che si prestassero alla propaganda rivoluzionaria, ed i lavoratori, vivendo dispersi, non potevano organizzarsi per la difesa dei loro interessi. Il fiorire dell'industria, provocando la concentrazione del proletariato nelle città, creava le condizioni necessarie allo sviluppo del comunismo, che sin dal 1840 cominciava ad inquietare il governo prussiano.

Dopo il proletariato inglese e francese, il proletariato tedesco prendeva a poco a poco coscienza di se stesso come classe, e doveva a sua volta trovare dei teorici che esprimessero le sue rivendicazioni e le sue aspirazioni..

Il primo fu un giovane sarto, W. Weitling, rifugiato a Parigi ed affiliato alla «Lega dei Giusti», società segreta formata dai proscritti tedeschi. Per invito di questa società a tendenza comunista e rivoluzionaria, egli aveva scritto nel 1838 il suo primo libro: L'umanità com'è e come dovrebbe essere, nel quale sosteneva che la liberazione del popolo sarebbe stata opera della classe operaia, e non avrebbe potuto attuarsi se non con la soppressione della proprietà privata, col comunismo.

Nel 1841, mentre era rifugiato in Svizzera, egli vi fondava una «Lega dei Giusti» sul modello di quella di Parigi, e nel dicembre del 1842 vi pubblicava la sua opera fondamentale, Le garanzie dell'armonia e della libertà.

Era la prima volta che un operaio, esprimendo i bisogni e le aspirazioni della sua classe, tracciava il piano di un sistema comunista destinato a liberare il proletariato. Weitling con questo sistema si ispirava alle concezioni dei grandi dottrinari socialisti, in particolare di Fourier, ma invece di fare appello, come costoro, alla buona volontà delle classi dirigenti, invitava direttamente la classe operaia a lottare per la propria liberazione, realizzando cosi la sintesi delle teorie socialiste e comuniste e dell'azione rivoluzionaria.

Egli denunciava vigorosamente i mali della società capitalista, ma non ne discerneva bene le origini e le cause, e come rimedio non sapeva offrire altro che una concezione utopistica della società futura. Ciò derivava prima di tutto dal fatto che egli, artigiano divenuto proletario, era l'interprete di una classe, il proletariato artigiano, che andava scomparendo, e non concepiva né la possibiltà di una rivoluzione sociale generata dalla grande industria, né la funzione storica che il proletariato industriale era chiamato a sostenere in questa rivoluzione.

D'altra parte gli mancava il senso della storia: egli ignorava lo svolgimento storico del passato; le cattive istituzioni a causa delle quali la società soffriva gli apparivano come invenzioni malefiche, e la storia del mondo non era ai suoi occhi altro che un'enorme impresa di brigantaggio, di cui le persone oneste pagavano le spese; perciò non poteva immaginare lo svolgimento del futuro se non in forma d'utopia.

Poiché non vedeva transizione organica e necessaria dalla società capitalista alla società comunista, esitava nella scelta dei mezzi per realizzare la sua utopia. Contava sulla miseria crescente delle masse, che doveva generare la rivolta e provocare la rivoluzione, ma non escludeva la possibilità che la comunanza dei beni venisse stabilita per opera dei re e dei principi, o meglio ancora da un nuovo Messia, più potente dell'antico.

E proprio quest'ultima concezione doveva ben presto finire per prevalere in lui. Infatti la sua propaganda urtava, in Svizzera, contro quella della «Giovane Germania»,che ispirandosi alla filosofia di Feuerbach, aveva un carattere prevalentemente ateo. Ciò lo rese diffidente ed ostile nei riguardi della filosofia, e lo respinse verso concezioni mistiche e religiose. Scrisse allora II Vangelo d'un povero peccatore (1843), che segnava un regresso in confronto ai suoi libri precedenti. Ritornando a Lamennais, egli offriva un'interpretazione, o per meglio dire, un travestimento comunista della religione, e atteggiandosi a profeta, si considerava un po' come il nuovo Messia destinato a liberare l'umanità.

L'influenza di Weitling, nonostante i difetti e le insufficienze della sua dottrina, doveva però essere considerevole. Egli realizzava per primo l'unione del socialismo e del movimento operaio, precedendo gli analoghi tentativi che dovevano fare in Francia L. Blanc, Proudhon e Cabet.

La sua concezione comunista rivoluzionaria era più radicale che non quella di questi teorici, perché, mentre L. Blanc non mirava che a reprimere gli abusi del sistema capitalista con una regolamentazione amministrativa, e mentre Proudhon criticava la proprietà privata senza ammettere la comunanza dei beni, e anche Cabet, che pure l'auspicava, non prevedeva altri mezzi d'azione che la propaganda e l'educazione, Weitling univa già la dottrina comunista all'azione rivoluzionaria, ed era perciò il precursore immediato dei due grandi socialisti rivoluzionari che dovevano sorgere dalla Sinistra hegeliana : Engels e Marx.

Nel momento in cui il comunismo utopistico, e sentimentale di Weitling e di Hess cominciava ad interessare e a conquistare gli animi in Germania, il libro di L. von Stein, Il socialismo ed il comunismo nella Francia contemporanea, pubblicato dal Wigand nel settembre del 1842, offriva una veduta d'insieme ed una prima analisi precisa del movimento socialista e comunista francese. Stein metteva in piena luce ciò che Weitling e Hess avevano esposto ancora incompletamente ed oscuramente, cioè che il problema fondamentale dell'epoca non era un problema politico ma un problema sociale, che non si trattava di riformare lo Stato, ma la società, e che se lo Stato non prendeva l'iniziativa di questa riforma, essa sarebbe stata compiuta dalla classe che vi era più direttamente interessata, il proletariato. Tuttavia il suo libro non aveva un carattere rivoluzionario: infatti Stein, che aspirava alla carriera universitaria, riceveva a Parigi sussidi dal governo prussiano, e mentre scriveva la sua opera inviava al ministro prussiano della polizia relazioni sui maneggi dei comunisti tedeschi a Parigi. Lungi dal proclamare, come Hess, che il comunismo era l'erede della filosofia tedesca, Stein considerava suo dovere di illuminare i governi e l'opinione pubblica sui pericoli che il socialismo e il comunismo facevano correre allo Stato e alla società.

Il socialismo e il comunismo, egli diceva, sono nati col proletariato, il quale ha preso coscienza di se stesso come classe dopo la Rivoluzione francese, da cui ha tratto profitto solo la borghesia 52). Questo proletariato è una nuova classe di individui che si distinguono dai poveri in quanto sono esclusi, per il fatto stesso dell'organizzazione sociale, dalla proprietà, la quale, per Stein come per Hegel, è la condizione dell'indipendenza e della personalità. Questa esclusione dalla proprietà fa sorgere tra i proletari l'idea e il desiderio dell'uguaglianza, che porta necessariamente con sé la guerra civile. Quest'idea di uguaglianza è cattiva in sé perché è inconciliabile con la nozione di Stato, legata a sua volta a quella di proprietà, e perché soltanto con lo Stato si può arrivare ad una soluzione del problema sociale, subordinando le volontà particolari all'interesse generale.

Pur restando hegeliano, Stein, sotto l'influenza di Saint-Simon, vedeva tuttavia i limiti e gli errori dell'hegelismo, che riferiva tutto allo Stato, considerato da un punto di vista assoluto. Egli mostrava come in Francia, diversamente che in Germania, si attribuisse allo Stato un'importanza meno grande, e l'interesse si concentrasse soprattutto sulla società; ciò spiegava l'esistenza di numerose teorie socialiste, le quali si proponevano di trasformare la società con una nuova organizzazione del lavoro accanto alla dottrina comunista, a cui Stein attribuiva soltanto un carattere negativo. Il socialismo, egli diceva, ha in Francia la stessa funzione che ha in Germania la Filosofia del Diritto, ma subordina alla società l'organizzazione dello Stato, invece che far dipendere da questo l'organizzazione della società.

Per concludere, Stein metteva in guardia i governi tedeschi contro i pericoli del socialismo e del comunismo per prevenire i quali li invitava a studiare più attentamente e regolare meglio le relazioni tra la società e lo Stato. Tuttavia, quanto vigorosa e precisa era la sua esposizione del socialismo e del comunismo, altrettanto era debole e confusa la sua critica di queste dottrine. Infatti egli respingeva il socialismo ed il comunismo come incompatibili con lo sviluppo della personalità umana, legata alla proprietà privata, pur riconoscendo nello stesso tempo che il sistema capitalista dava necessariamente origine al proletariato, e con esso al comunismo. D'altra parte egli faceva appello allo Stato per organizzare la società, ma mostrava, con l'esempio della Rivoluzione francese, che la forma ed il carattere dello Stato sono determinati dall'evoluzione economica e sociale, e che lo Stato non costituisce, come pensava Hegel, un'entità superiore alla società ed indipendente da essa.

Nonostante la sua tendenza ostile, questo libro costituiva una luminosa esposizione dell'origine economica della lotta di classe e dell'importanza di questa lotta nel movimento politico e nella formazione dello Stato: mostrava l'insufficienza dell'azione politica a risolvere il problema sociale, e contribuiva a rafforzare il movimento comunista facendolo conoscere al pubblico. Cosi Hess poteva in una sua recensione farne un vivo elogio, pur condannandone le conclusioni. E invero questo libro lo aiutava validamente nel compito che s'era prefisso, di convertire al comunismo i Giovani Hegeliani.

Il primo ad aderire a questa dottrina era stato F. Engels, il quale, tornando alla fine dell'ottobre del 1842 da Berlino in Inghilterra, s'era fermato per qualche giorno a Colonia. Accolto freddamente da Marx, che proprio allora aveva rotto i suoi rapporti coi «liberi», era stato invece bene accolto da M. Hess del quale condivideva le idee sul liberalismo e l'insufficienza delle riforme politiche. Hess non dovette faticare per convertirlo al comunismo, mostrandoglielo come la necessaria conseguenza dell'umanesimo di Feuerbach.

Durante le loro conversazioni, Hess aveva senza dubbio attirato l'attenzione di Engels sulla parte principale che l'Inghilterra doveva avere nella futura rivoluzione sociale, a causa dell'antagonismo tra poveri e ricchi, tra proletari e capitalisti, che si faceva sempre più acuto in questo paese. Difatti, negli articoli inviati nel novembre e nel dicembre del 1842 alla Gazzetta renana, e poi, nel maggio e nel giugno del 1843, al Repubblicano Svizzero, Engels riprendeva e sviluppava proprio questo argomento, che Hess aveva già esposto nel 1841 nella sua Triarchia

Europea.

L'Inghilterra gli si rivelava sotto un aspetto diametralmente opposto a quello della Germania. Giacché in questo paese non trionfavano le teorie, i, principi, di cui si faceva poco conto, ma la pratica, l'empirismo, e il corso degli avvenimenti vi era manifestamente determinato non dalle lotte dottrinali, come in Germania, ma dai conflitti d'interesse. A prima vista poteva sembrare che, contrariamente all'opinione di Hess, la rivoluzione non vi fosse né verosimile né possibile: infatti il grande sciopero del 1842 era stato un fallimento, il movimento cartista sembrava in piena decadenza, e le persone che Engels interrogava negavano l'eventualità di una rivoluzione, a cui nessuno, per quanto si poteva giudicare, era interessato. Ma questa risposta non poteva soddisfare un dottrinario come Engels, il quale mostrava che, malgrado le apparenze, lo sviluppo dell'industria, determinando quello di un proletariato miserabile, doveva necessariamente provocare una rivoluzione quando questo proletariato avesse preso coscienza della sua forza. Questa coscienza, diceva Engels, gli sarebbe stata data dalla crisi che, aumentando la miseria e aggravando il pauperismo, doveva ineluttabilmente provocare un conflitto violento tra le classi sociali antagoniste.

Lo studio della situazione politica, economica e sociale dell'Inghilterra mostrava a Engels, da una parte, che l'evoluzione di un paese è determinata essenzialmente dal suo sviluppo economico, dall'altra, che i partiti sono soltanto il riflesso politico degli opposti interessi economici: i torys, rappresentanti l'aristocrazia agraria protezionista, i whigs, rappresentanti la borghesia industriale libero-scambista, e i cartisti rappresentanti la classe operaia. Questa classe operaia era appunto quella che costituiva ai suoi occhi il movente del progresso sociale in Inghilterra, l'elemento rivoluzionario, che in Germania era rappresentato dalla classe colta, dagli intellettuali.

Sempre sotto l'influenza della dottrina di Hegel, Engels teneva fede all'opinione che l'idea, la filosofia in quanto tale, costituisse un elemento essenziale del progresso sociale. Tuttavia lo studio della situazione inglese lo portava, primo tra i Giovani Hegeliani, a fondare il comunismo non più su postulati intellettuali o morali, ma sull'evoluzione economica e sociale. Egli si univa cosi a Stein nel sottolineare l'importanza primordiale della lotta di classe del proletariato nel movimento politico e sociale, ma per giustificare il comunismo e non per criticarlo.

All'incirca verso la stessa epoca, Bakunin, il secondo seguace che Hess doveva conquistare al comunismo, realizzava con una geniale intuizione la sintesi della dialettica hegeliana e del movimento sociale, ponendo il proletariato come l'antitesi che determina il progresso.

Egli esponeva questa concezione in una critica del partito del Giusto-mezzo, pubblicata nell'ottobre del 1842 negli Annali tedeschi. Diceva che l'esistenza di questo partito era incompatibile con la dialettica storica che tende ad accentuare le opposizioni e a sopprimere cosi i partiti intermedi, e dimostrava che questa dialettica era determinata dalla lotta di classe nella quale il popolo, come antitesi, aveva la funzione negativa ed attiva.

In un altro articolo pubblicato nel giugno del 1843 nel Repubblicana Svizzero, definiva il comunismo, sull'esempio di Hess, come l'applicazione pratica, l'espressione sociale dell'umanesimo di Feuerbach.

Sotto l'influsso di queste diverse dottrine, anche Marx compiva la sua evoluzione verso il comunismo, al quale però non doveva aderire prima di avere, per cosi dire, messo a punto con una specie di autocritica le proprie concezioni; la teoria di Feuerbach, che lo guidava allora nella sua evoluzione, lo doveva condurre dapprima verso la democrazia sociale, stadio intermedio tra la democrazia politica e il comunismo.

Dopo la soppressione degli Annali tedeschi e della Gazzetta renana, Marx, convinto che fosse ormai inutile lottare contro la censura, e deciso a non scrivere più sotto il controllo di essa, cercò da principio di collaborare al Messaggero Tedesco di Herwegh. Il 25 gennaio del 1843, comunicava questa sua intenzione a Ruge, il quale, avendo anche lui pensato in un primo tempo ad una collaborazione con Herwegh, rispondendo a questa lettera gli offri un posto di condirettore degli Annali, che Wigand si proponeva di pubblicare in Svizzera, con un compenso di 50 talleri all'anno.

Poiché Herwegh, espulso da Zurigo, aveva dovuto nel frattempo rinunciare alla pubblicazione della sua rivista, Marx accettò volentieri l'offerta fattagli da Ruge, al quale propose intanto di modificare il carattere a suo parere troppo astratto degli Annali, e di realizzare in essi il principio franco-tedesco proclamato allora da Feuerbach. All'alleanza tra la filosofia e il liberalismo, dimostratasi sterile, egli voleva sostituire l'alleanza tra il radicalismo filosofico tedesco e la democrazia francese, che avrebbe unito la potenza del pensiero a quella dell'azione. Come luogo di pubblicazione dei nuovi Annali, degli Annali franco-tedeschi, suggeriva Strasburgo, che aveva il valore di un simbolo. Avendo poi Wigand abbandonato il suo progetto, si misero in relazione con Froebel, che accettò di pubblicare la rivista. In maggio l'affare era sulla buona via, e Ruge invitava Marx a recarsi a Dresda per regolare insieme a lui l'organizzazione degli Annali, quando uno spiacevole contrattempo venne a ritardarne di nuovo la pubblicazione.

La tendenza comunista che Froebel imprimeva allora al suo giornale, il Repubblicano Svizzero, aveva sollevato contro di lui il partito conservatore diretto da Bluntschli, il quale, quattro anni prima, aveva fatto espellere Strauss da Zurigo, e più recentemente ne aveva fatto espellere Herwegh. L'8 giugno veniva sequestrato per sua istigazione, come contrario alla religione e all'ordine costituito, il libro di Weitling, il Vangelo di un povero peccatore, stampato in una succursale del «Banco Letterario» di Froebel; il 18 luglio venivano pure ritirati, per lo stesso motivo, Il Cristianesimo rivelato di B. Bauer e i Ventun fogli dalla Svizzera di Herwegh editi dal «Banco Letterario». Froebel, sconfessato da una parte dei radicali, aveva dovuto abbandonare la direzione del suo giornale proprio il giorno prima, il 17 luglio, ed era stato citato davanti ai tribunali per rispondere dell'accusa di ateismo.

Marx non era andato nel maggio a Dresda, dove Ruge lo aveva invitato a raggiungerlo, perché trattenuto dai preparativi del matrimonio, che gli premeva più degli Annali. Profondamente innamorato di Jenny von Westphalen, con la quale era fidanzato ormai da oltre sette anni, era tanto più impaziente di sposarla essendo essa, in quel tempo, esposta all'ostilità dei suoi. Egli stesso attraversava un periodo difficile, poiché seri contrasti con la famiglia lo avevano privato di ogni risorsa. Siccome il suo avvenire, almeno il suo avvenire immediato, gli sembrava ormai assicurato dalla fondazione degli Annali franco-tedeschi, il 19 giugno 1843 sposò la sua fidanzata, a Kreuznach, dove essa allora abitava, e dove restarono fino al novembre, quando partirono per Parigi.

Marx dedicò tutto questo tempo alla soluzione del problema essenziale che gli si era affacciato sul finire del 1842, il problema dello Stato. La sua critica dei dibattiti della Dieta Renana aveva scosso la sua fede, mostrandogli che lo Stato non era, come aveva pensato fino ad allora, il creatore e il regolatore di un ordine razionale nel campo politico e sociale, e che il suo potere, invece di essere messo al servizio della ragione e del diritto, serviva in realtà alla difesa di interessi privati.

Nel momento in cui il sistema di Hegel si dimostrava definitivamente incapace di guidare più oltre il suo pensiero e la sua azione, uscivano le tesi di Feuerbach sulla riforma della filosofia.

Marx accolse con entusiasmo queste tesi, ma non per questo le accettò senza riserve, poiché esse si limitavano a sfiorare la questione dello Stato e il problema sociale. Sin dal 13 marzo del 1843, subito dopo averle lette negli Anecdota inviatigli da Ruge, scriveva infatti a quest'ultimo: «L'unico punto sul quale mi allontano da Feuerbach, nei suoi Aforismi, è a proposito della troppa importanza che, a mio parere, egli dà alla natura, in confronto alla troppo poca che dà alla politica. Ora, la filosofia attuale può realizzarsi soltanto alleandosi alla politica. Ma succederà certamente quel che è successo nel sec. XVI, quando il culto dello Stato ebbe adepti altrettanto entusiasti che il culto della Natura».

Nella sua tesi, egli aveva già respinto la concezione meccanicistica di principio d'azione; ora, poi, che si proponeva di unire la filosofia al movimento politico e sociale, perché gli potesse servire da guida, doveva accontentarsi ancora meno di una dottrina contemplativa e sentimentale, come quella di Feuerbach.

Se non credeva che lo spirito potesse regolare a suo piacimento l'ordine delle cose, se ammetteva con Feuerbach che l'idea derivasse dalla realtà, e che volendo costruire a priori un mondo intelligibile si creano soltanto delle astrazioni, d'altra parte però egli pensava che l'idea è inseparabile dall'azione, e che l'uomo, invece di limitarsi a subire l'influenza dell'ambiente, deve reagire su di esso per modificarlo. Conservando l'essenziale della filosofia di Hegel, cioè il suo principio attivo, la sua dialettica rivoluzionaria, egli doveva trasformare la dottrina di Feuerbach in una dottrina dell'azione, dandole un carattere ed un contenuto politico e sociale, facendo dell'umanesimo l'espressione dell'ideale democratico.

Marx fece una prima applicazione della dottrina di Feuerbach, modificata in questo senso, nella Critica della Filosofia del Diritto di Hegel, scritta tra il marzo ed il settembre del 1843. Egli stesso indicò il fine e la portata di questo lavoro nella prefazione alla sua Critica dell'Economia polìtica. «La prima opera che intrapresi per dissipare i dubbi che mi assalivano, fu un esame critico della Filosofia del Diritto di Hegel, la cui introduzione usci negli Annali Franco-Tedeschi pubblicati a Parigi nel 1844. La conclusione di questa critica era che le istituzioni giuridiche e le diverse forme di Stato non possono spiegarsi di per se stesse, o con un cosiddetto svolgimento dello Spirito umano, ma risultano dalle condizioni materiali della vita, che Hegel, sull'esempio degli inglesi e dei francesi del sec. XVIII, riassume sotto il nome di «società civile», la cui anatomia è data dall'economia politica».

L'anno precedente già aveva scritto una critica di questa Filosofia del Diritto nella quale metteva in luce l'opposizione tra il sistema conservatore e la dialettica rivoluzionaria di Hegel, opposizione soprattutto evidente nel carattere contraddittorio della monarchia costituzionale, chiave di volta dello Stato hegeliano. Ma ora, giunto alle soglie di un nuovo periodo della sua attività, Marx intraprendeva questa critica da un punto di vista diverso, proponendosi di dimostrare che il difetto fondamentale della dottrina di Hegel consisteva nel trasformare il diritto in logica, nello spogliare il primo della sua sostanza reale e nel fare della seconda un attributo di concetti astratti.

Invece di muovere dai fatti, dalla realtà concreta, per costruire il suo sistema giuridico, Hegel si sforzava di giustificare le istituzioni politiche, giuridiche e sociali dal punto di vista razionale, facendo coincidere l'esistenza empirica, l'evoluzione storica del diritto, con il suo svolgimento logico. Cosi nella sua Filosofia del Diritto, egli mostrava come lo Stato sorga sulla famiglia e sulla società per costituire il termine della moralità obbiettiva, l'espressione più alta della volontà razionale e della libertà. In questa evoluzione di carattere spirituale, determinata dallo svolgimento del concetto, l'idea, che nella famiglia e nella società s'era da principio abbassata ad un modo d'essere imperfetto, diventa consapevole della sua vera essenza realizzandosi nello Stato. Perciò lo Stato, lungi dall'essere il prodotto della società, ne è la condizione a priori alla stessa maniera che l'idea in sé determina a priori tutto lo svolgimento dell'essere.

Marx, dopo essersi per cosi dire nutrito di questa concezione, doveva ora criticarla e respingerla perché si opponeva alla sua evoluzione intellettuale.

Già al principio di quello stesso 1843, studiando da un punto di vista concreto lo Stato e le sue istituzioni, aveva scoperto che bisognava cercare nella realtà stessa, nelle circostanze materiali, le ragioni e le cause che ne determinano la struttura e l'organizzazione. Precisando nella sua Critica della Filosofia del Diritto quali fossero queste circostanze materiali, egli, ispirandosi a Feuerbach, a Stein e a Hess, dimostrava che la concezione di Hegel è il risultato di un rovesciamento dei veri rapporti esistenti tra lo Stato e la società, la quale, lungi dall'essere una creazione dello Stato, come pensa Hegel, ne determina la natura.

Questo rovesciamento dei veri rapporti spiega il carattere e svela il mistero della Filosofia del Diritto. Hegel, con un procedimento consistente nel togliere alle cose la loro realtà per conferirla ad astrazioni, ciò che Marx chiama «mistificazione», trasforma le nozioni reali e concrete di famiglia, di società, di Stato, in attributi di concetti astratti, e fa derivare cosi la formazione e lo svolgimento del diritto non dalla realtà giuridica, dalla natura stessa delle cose, ma dal concatenamento dei concetti, dal movimento dell'idea, dalla logica.

Egli ha trasformato il soggetto dell'idea in un suo prodotto, in un suo attributo. Non determina il pensiero secondo l'oggetto, ma al contrario determina l'oggetto secondo un concetto prefisso, che sussiste nella sfera astratta della logica. Per lui non si tratta di esporre l'idea concreta della costituzione politica; si tratta, al contrario, di ricollegare la costituzione politica all'idea astratta, di farne un anello nella catena dello svolgimento dell'Idea in sé; la qual cosa è, evidentissimamente, una «mistificazione». D'altra parte i diversi poteri sono determinati «dalla natura del concetto» e «quindi creati necessariamente dall'Universale astratto»; il loro carattere deriva non dalla loro natura particolare, ma da una natura che è loro estranea, e la loro necessità non è dimostrata dall'analisi di ciò che costituisce la loro essenza particolare. Il loro destino è preventivamente fissato dalla natura del concetto, prestabilita essa stessa nei sacri registri della Logica. L'anima dell'oggetto — in questo caso dello Stato — è determinata anche prima che esista il suo corpo, la sua realtà materiale, che, a dire il vero, non è altro che apparenza.

Analizzando il concetto di Stato, Marx mostra come Hegel compia questa «mistificazione».

Hegel, a differenza dei teorici del sec. XVIII, e particolarmente di Montesquieu, considera lo Stato come un organismo. Ma invece di dire che lo Stato con i suoi vari poteri si sviluppa organicamente, egli fa dell'idea di organizzazione il soggetto che li crea, e dell'insieme dei poteri, della Costituzione, il risultato, l'attributo. Per passare dall'idea di organizzazione promossa cosi al rango di soggetto, di sostanza dello Stato, al suo attributo, al concetto concreto di costituzione, che non vi è incluso, Hegel si limita ad un giuoco di parole.

«L'organismo dello Stato è costituito dallo svolgimento dell'idea che si differenzia e che realizza le proprie differenziazioni. Questi diversi aspetti dell'idea sono, così, i diversi poteri con le loro attribuzioni e i loro particolari modi d'agire, che permettono allo spirito universale di realizzarsi senza soste... Questo organismo dello Stato è la costituzione politica».

Dall'idea in sé, dal concetto astratto d'organismo, Hegel passa, grazie alla parola «così», alla nozione di costituzione politica, che non è affatto racchiusa in questo concetto. Ciò gli permette di identificare lo svolgimerito dello Stato a. quello dell'idea, di trasformare la sua vera sostanza in categorie astratte, come l'idea di necessità e di realtà di cui essa diviene attributo, facendo dello studio dello Stato un capitolo della Logica.

Questa analisi offre a Marx lo schema secondo il quale studiare i diversi poteri dello Stato.

A capo dello Stato Hegel pone il monarca che incarna la sovranità. Per giustificare l'esistenza del monarca, comincia col fare della sovranità un'entità, e poi, data cosi realtà ad un attributo che egli separa dal soggetto reale, dallo Stato, trasforma questo attributo in soggetto.

Dopo aver fatto del monarca l'incarnazione della soggettività dello Stato, Hegel dà a questa soggettività un carattere d'individualità, ciò che gli permette d'attribuire al monarca un potere assoluto. Marx oppone alla sovranità del monarca quella del popolo, e all'apologia hegeliana della monarchia risponde con un'apologia della democrazia, che realizza nello Stato l'essenza dell'uomo e del popolo intero.

Del resto non bisogna ridurre, come fa Hegel, la realtà sostanziale dello Stato alla costituzione politica, che ne è soltanto una forma esteriore. Infatti, come mostra l'esempio della Prussia monarchica e degli Stati Uniti repubblicani, due costituzioni politiche differenti possono nascondere una stessa realtà sociale. La costituzione politica, simile in ciò alla religione, è stata finora sempre e soltanto un'alienazione dei diritti del popolo.

Hegel attribuisce il potere esecutivo al monarca e alla burocrazia, agente esecutivo del sovrano, che serve da intermediaria tra questo e il popolo. Marx, riprendendo una parte degli argomenti già svolti nell'articolo sui contadini della Mosella, risponde a questo elogio della burocrazia con una critica in cui le rimprovera di costituire una corporazione privilegiata che impone allo Stato il suo formalismo, e che in nome dell'interesse generale persegue fini egoistici.

Per consolidare l'autorità del sovrano, Hegel stabilisce la supremazia del potere esecutivo sul potere legislativo, e rende indipendente da quest'ultimo la Costituzione. Ecco una concezione erronea, dice Marx; poiché le costituzioni non sono, come pensa Hegel, delle creazioni spontanee, indipendenti dall'evoluzione storica, bensì frutto di rivoluzioni e, secondo che queste siano fatte dal potere esecutivo o dal potere legislativo, hanno un carattere reazionario oppure democratico.

Dopo aver subordinato il potere legislativo a quello esecutivo, Hegel lo divide tra il monarca, l'amministrazione e gli «Stati» che, secondo lui, rappresentano l'insieme del popolo e perciò stesso l'interesse generale. Marx, rifacendosi alla tesi già sostenuta nella sua critica sui dibattiti della Dieta renana, obbietta a Hegel che gli «Stati» rappresentano soltanto formalmente l'interesse generale, mentre in realtà difendono gli interessi particolari ed opposti di diverse classi sociali. E Hegel, aggiunge, lo riconosce implicitamente: ma tuttavia, invece di opporre la società, sfera degli interessi privati, allo Stato, egli vuole conciliarli, proprio per mezzo di questi «Stati» che, in quanto organi legislativi, difendono insieme gli interessi privati delle diverse classi sociali e l'interesse generale. Ma in virtù della stessa dialettica questo tentativo d'accomodamento è inevitabilmente destinato a fallire, e non fa che sottolineare la contraddizione inerente alla società tra l'interesse generale e l'interesse particolare.

Ciò che per Hegel costituisce l'essenza della società è la proprietà privata, di cui il maggiorasco, inalienabile ed ereditario, rappresenta la forma assoluta. Perciò la difesa della proprietà privata è la ragion d'essere dello Stato, espressione della società; e ciò che Hegel celebra sotto il nome di idea morale non è altro che la religione, il dogma della proprietà privata. Questa proprietà è la vera realtà, la sostanza dello Stato, e lo prova il fatto che essa sola ha il potere di conferire la personalità e l'indipendenza, che in certo modo formano i suoi attributi.

Marx, partito dalla critica dello Stato e della monarchia, arrivava, alla fine del suo studio, alla critica della società e del suo fondamento, la proprietà, arrestandosi cosi sul limite tra la democrazia e il comunismo.

Con la sua critica della Filosofia del Diritto, Marx spezzava l'armatura stessa del pensiero hegeliano, rovesciando la dottrina dello Stato. Portando il problema dell'umanesimo sul piano politico e sociale, egli sosteneva che l'umanità, per reintegrare la propria essenza, doveva abolire non soltanto la religione, ma anche lo Stato monarchico, nel quale la società alienava la propria sostanza, e il popolo il suo potere e i suoi diritti; e che bisognava fare del popolo, della società, il soggetto, e dello Stato l'attributo, l'oggetto, invertendo l'ordine dei termini posto da Hegel. Mentre Feuerbach s'era limitato ad esporre il modo in cui l'essenza umana viene alienata nella religione, Marx ricercava le ragioni di questa alienazione nella vita stessa, nella realtà sociale. Giungeva cosi a respingere la concezione generica e vaga che Feuerbach aveva dell'uomo, per considerarlo come essere sociale, sostituendo la nozione di società a quella di specie, e determinando la natura dell'uomo non attraverso l'analisi delle sue tendenze religiose o morali, ma attraverso la critica dell'ambiente sociale, della società. E in realtà la sua analisi della Filosofia del Diritto si trasformava, nella seconda parte, in uno studio approfondito delle ragioni economiche e sociali che determinavano il carattere dello stato prussiano. Hegel stesso, del resto, gli aveva aperto la via di questa critica col suo studio particolareggiato della società moderna: senza attribuire un'importanza fondamentale all'economia politica, che considerava soltanto come scienza ausiliaria della filosofia, egli tuttavia aveva già mostrato che il fondamento di questa società dominata dalla borghesia era la proprietà privata, ed aveva studiato alcuni aspetti ed alcune conseguenze di questo regime di proprietà, ad esempio lo sviluppo delle industrie meccaniche.

Ma mentre l'ineguaglianza politica e sociale sembrava naturale e necessaria a Hegel, Marx insorgeva contro di essa e ne considerava la fonte, cioè la proprietà privata, come la tara più grave della società e dello Stato moderni. Da questa critica Marx non giungeva ancora a conclusioni comuniste; si limitava a porre il problema senza darne la soluzione, e le riforme che proponeva, abolizione della monarchia e delle Diete, trasformazione della burocrazia, istituzione del suffragio universale, non oltrepassavano il quadro della democrazia. La sua concezione dello Stato, che egli non distingueva chiaramente dalla società, era ancora ondeggiante. Pur condannando apertamente la forma monarchica a causa del carattere arbitrario ed assoluto dell'autorità, non la criticava in sé e per sé come strumento d'oppressione e di dominazione della classe dirigente, ma la considerava ancora, come l'organismo destinato a realizzare la vera essenza dell'umanità, allo stesso modo dell'essere collettivo, del Galtungswesen, di Feuerbach. Tuttavia questa critica doveva fargli compiere un passo decisivo sulla via del materialismo storico e del comunismo.

Infatti, dopo Stein, egli sottolineava la fondamentale importanza e la funzione essenziale della società nella formazione dello Stato, e dopo Hess, mostrava il carattere superficiale e limitato della democrazia formale, cioè puramente politica, la quale, non tenendo conto della realtà sociale, era incapace di produrre una vera e propria trasformazione della società e dello Stato. Dopo aver fatto dell'ideale democratico lo scopo dell'umanesimo, Marx doveva giungere, attraverso la critica della proprietà privata, di cui non condannava più soltanto gli eccessi, come nella Gazzetta renana, ma il principio stesso, ad adottare la dottrina comunista come soluzione del problema sociale, ed a vedere in essa la logica conclusione del radicalismo filosofico. Negli Annali franco-tedeschi egli doveva compiere questa tappa dalla democrazia al comunismo.

CAPITOLO QUARTO (ointinuazione)
DAL RADICALISMO POLITICO AL COMUNISMO (MARZO 1843 - MARZO 1844)
GLI «ANNALI FRANCO-TEDESCHI»

Malgrado la loro attività ed energia, Froebel e Ruge incontravano gravissime difficoltà nel fondare gli Annali. Nel maggio 1843 Froebel s'era recato a Dresda per accordarsi con Ruge, e poi a Berlino con la speranza di trovarvi dei collaboratori. Ma nell'insieme i «liberi» gli avevano fatto una triste impressione, ed egli non accettò regolarmente se non la collaborazione di B. Bauer, che del resto non doveva divenire effettiva.

Bauer entrava allora in lotta coi radicali, che accusava di apatia e di mollezza, e ai quali rimproverava di adottare l'umanesimo di Feuerbach e il comunismo, sostituendo al culto dello Stato, di cui erano stati gli umili servi, quello dell'«essere collettivo», della «comunità», da cui ora si aspettavano la salvezza '"). A questo atteggiamento passivo e rassegnato egli opponeva il proprio e quello dei suoi amici, che invece di riporre la loro speranza nel popolo, nella folla, affermavano i diritti dell'individuo contro tutte le tirannie, sia delle masse che della religione o dello Stato. Per difendere questi principi, Bauer aveva ideato di fondare un giornale di tendenza diametralmente opposta a quella degli Annali francotedeschi: la Gazzetta generale letteraria.

Venendo a mancare il gruppo di Berlino, non restavano come possibili collaboratori degli Annali franco-tedeschi, oltre a Ruge e a Marx, altro che i redattori del Repubblicano svizzero, Hess, Engels, Bakunin e Herwegh, e poi Feuerbach, che conduceva vita ritirata in campagna.

Froebel voleva fare uscire la rivista in ottobre. Siccome, scartata ormai la scelta di Strasburgo, esitava ancora sul luogo di pubblicazione, propose a Ruge di fare con lui un viaggio a Bruxelles e a Parigi, per vedere quale di queste due città si prestasse meglio per la loro impresa. Prima ancora di recarsi a Bruxelles, Ruge, il 22 luglio, andò a Grueckberg, dove abitava Feuerbach, ed il 25 a Kreuznach, dove abitava Marx, per discutere con loro della rivista. Qualche giorno dopo si incontrò con Froebel a Colonia, e dopo una breve sosta a Bruxelles, partì per Parigi con Hess che doveva metterlo in relazione con gli scrittori democratici e socialisti di cui contava di ottenere la collaborazione. L'11 agosto, tre giorni dopo il suo arrivo a Parigi, esponeva a Marx i vantaggi e gli inconvenienti delle due capitali. A Bruxelles la libertà di stampa era maggiore, e non si esigeva il versamento d'una cauzione per pubblicare un giornale, mentre Parigi, coi suoi 85.000 tedeschi, offriva un ambiente molto più favorevole alla creazione d'una stampa franco-tedesca e di una biblioteca destinata, nelle intenzioni di Froebel e di Ruge, a sostituire il Banco letterario di Zurigo. Froebel, che verso la metà di settembre venne a raggiungere Ruge a Parigi, si dichiarò favorevole a questa decisione, e la sede della nuova rivista fu fissata in questa città.

Restava ora da regolare l'organizzazione finanziaria degli Annali. Volendo Froebel dare al Banco letterario che doveva pubblicarsi, una maggiore estensione, Ruge gli propose di creare una società per azioni. Egli prevedeva l'emissione di 1000 azioni di 50 talleri con un interesse del 4 per cento, e sperava di trovare un numero sufficiente di sottoscrittori nei principali centri liberali della Germania: Colonia, Berlino, Dresda, Koenigsberg, Breslavia. Questo piano falli perché non si ottennero sufficienti sottoscrizioni, ma Ruge, che era ricco, acconsenti a versare al Banco letterario 6000 talleri, come accomandatario.

Assicurata così l'esistenza materiale della rivista, bisognava, prima di cercare la collaborazione dei Francesi, fissare preventivamente un'unità di vedute e di dottrine tra i principali collaboratori tedeschi. Ciò formò l'argomento di uno scambio di corrispondenza tra Marx, Ruge, Feuerbach e Bakunin. Questa corrispondenza, che fu pubblicata da Ruge a mo' d'introduzione nel primo numero degli Annali franco-tedeschi, comprende otto lettere di cui tre di Marx, tre di Ruge, una di Bakunin e una di Feuerbach. Il contenuto di queste lettere non permette di dubitare che esse non siano state realmente scritte dai loro firmatari; debbono essere state semplicemente un po' rimaneggiate da Ruge, per formare un insieme destinato ad indicare l'origine ed il carattere della rivista.

In questa corrispondenza Marx appare l'animatore e il direttore spirituale dell'impresa. Comincia con una lettera del marzo 1843, data della soppressione della Gazzetta renana, in cui dice come la reazione romantica abbia ormai mostrato il suo vero volto e si sia spogliata dello pseudo-liberalismo con cui velava il proprio despotismo, e come questa commedia del despotismo che si recita in Germania possa presto trasformarsi in tragedia e scatenare la rivoluzione.

Nella sua risposta Ruge, sempre sotto l'impressione dell'apatia e dell'indifferenza dei liberali che non avevano protestato contro la soppressione della stampa d'opposizione, obbietta a Marx che egli ha il torto di illudersi sulla possibilità di una rivoluzione in Germania, paese nel quale tutti i sudditi sono rassegnati e sottomessi.

«La sua lettera, risponde Marx in maggio, è una buona elegia, ma è tutto fuorché politica». Invece di lamentarsi del passato e invece di disperare dell'avvenire, bisogna conservare la fede nella vita e nell'azione, e preparare la venuta di un mondo nuovo.

Certo non si può rigenerare il vecchio mondo, il mondo dei filistei, dove l'uomo è spogliato della sua vera natura, poiché il suo fondamento ed i suoi principi sono cattivi. Ma questo, invece di farci disperare, deve essere motivo di fiducia, perché, secondo la legge della dialettica, è appunto necessario che il vecchio mondo abbia sviluppato tutte le proprie conseguenze e generato le opposizioni e gli antagonismi inevitabili affinché possa nascere la rivoluzione che l'abolirà ed istituirà un nuovo ordine di cose. Dopo Hess e Bakunin, Marx dimostra che le due classi che più soffrono dell'attuale regime politico e sociale, la classe dei pensatori e quella dei proletari, sono in procinto di unirsi, e dalla loro alleanza nascerà un moto di rivolta che distruggerà questo regime. Come Hess, ma in modo anche più impreciso, Marx sottolinea che questa rivoluzione sarà generata non tanto dall'aumento troppo rapido della popolazione, (teoria di Malthus), quanto dal sistema di proprietà e di produzione che porta con sé lo sfruttamento tra gli uomini.

Dopo Marx, Bakunin, in una lettera del maggio 1843 a Ruge, esponeva l'idea che in Germania la salvezza sarebbe venuta dalla filosofia, destinata ad avere qui la stessa funzione che in Francia, dove aveva preparato la Rivoluzione. Ma, a tale scopo, la filosofia doveva distaccarsi dalle speculazioni metafisiche e sostenere, come in Francia, la causa del popolo.

Allora Ruge, aderendo alle sue idee, gli annuncia l'intenzione di fondare una rivista franco-tedesca, il cui principio sarà appunto l'unione del pensiero e dell'azione, della filosofia e della politica.

Feuerbach, a cui egli comunica questo progetto, lo approva in linea di principio, ma si mostra scettico quanto ai risultati, perché, per rigenerare la Germania, dove tutto è marcio fino al midollo, bisogna trasformarla da capo a piedi. Questa però sarà un'opera immensa, per la quale bisognerà dedicarsi anzitutto all'educazione del popolo. Egli precisava il suo pensiero in una lettera inviata effettivamente a Ruge il 20 giugno 1843: «In Germania non siamo ancora al punto di poter passare dalla teoria alla pratica, perché la teoria ci difetta ancora o almeno non si è ancora sviluppata e precisata in tutti i sensi». Se un'alleanza intellettuale franco-tedesca era in sé desiderabile, non gli sembrava però che la nuova rivista, a causa dell'opposizione che avrebbe suscitato, potesse vivere; e data l'atmosfera soffocante che pesava sulla Germania, gli sembrava più opportuno accontentarsi, al principio, di un po' d'aria, invece di cominciare col sollevare una tempesta. Ma Ruge, senza lasciarsi distogliere dal suo progetto per le parole di Feuerbach, comunica a Marx il piano della nuova rivista, che avrà per scopo fondamentale di combattere il nazionalismo e la reazione, invitandolo ad esprimere il suo parere sul piano stesso.

È difficile determinare a priori il piano ed il carattere della nuova rivista, perché, se si è d'accordo sulla critica, lo si è di meno o non lo si è affatto quando si tratti di precisare quali siano le riforme da intraprendere.

Questa incertezza dottrinale presenta tuttavia il vantaggio di evitare che si proceda dogmaticamente. Invece di cercar di regolare a priori il corso degli eventi e d'imporre al mondo idee preconcette, bisognerà sforzarsi di accedere alla verità per mezzo di una critica approfondita e spietata della realtà presente, senza tuttavia cadere negli errori delle dottrine comuniste o socialiste, ciascuna delle quali contiene soltanto una parte di verità. Il comunismo e il socialismo, infatti, colgono soltanto un aspetto del vero umanesimo. Oltre che dell'esistenza materiale, bisogna occuparsi dell'esistenza spirituale dell'uomo, la quale si manifesta nella religione, nella scienza e nella politica. Questa esistenza spirituale deve ugualmente costituire l'oggetto della critica filosofica, la quale è tanto più necessaria in quanto in Germania si può agire sugli spiriti unicamente per suo mezzo. Questa critica deve vertere anzitutto sulla forma politica dello Stato; poiché, come la critica della religione permette di determinare la vera natura dell'uomo, così la critica dello Stato permette di attingere la verità sociale mostrando l'opposizione esistente tra la sua forma ideale razionale, e la sua natura reale. Questa critica offre il vantaggio di portare il partito del progresso, il partito delle riforme, a difendere non più soltanto la democrazia formale, ma anche la democrazia sociale, e d'altra parte permette di legare l'azione alla realtà immediata invece che assumere un atteggiamento dottrinario di fronte al mondo, presentandogli un sistema davanti al quale non gli resta che inchinarsi. Il problema politico è in fondo lo stesso che il problema religioso: bisogna dare al mondo la coscienza della sua vera natura, mostrandogli il contenuto reale, l'essenza umana sia dei dogmi religiosi che delle istituzioni politiche, sicché il mondo, prendendo coscienza della propria essenza ipostatizzata in Dio e nello Stato, rientri in possesso della sua vera natura e la realizzi.

Tra i quattro corrispondenti, Ruge, Marx, Feuerbach e Bakunin, solo Marx aveva un'idea press'a poco chiara di ciò che voleva realizzare.

Bakunin era pieno d'entusiasmo, ma aveva cognizioni molto imprecise di filosofia e di socialismo. Espulso da Zurigo nel giugno 1843 in seguito ad una denuncia di Bluntschli, era destinato ad errare di città in città durante il periodo in cui si veniva organizzando la pubblicazione degli Annali, recandosi prima a Losanna, poi a Berna, di li a Bruxelles, e finalmente a Parigi, dove giunse nel giugno del 1844. Queste peregrinazioni gli impedirono senza dubbio di collaborare alla rivista, come s'era proposto di fare.

Feuerbach, malgrado gli insistenti inviti di Ruge e di Marx, che sollecitavano da lui un articolo su Schelling, avendo già rifiutato di collaborare al Messaggero tedesco di Herwegh, perché non attribuiva importanza al problema religioso, si chiuse nel suo isolamento e s'allontanò definitivamente dal movimento politico.

Quanto a Ruge, era allora tutto infiammato di quell'antinazionalismo, che in pochi anni doveva divenire per lui una specie di idea fissa. Irritato per le cattive riuscite e per gli scacchi subiti contemporaneamente sin dal 1838, esacerbato contro la Germania e spinto dal suo rancore, egli era ormai in guerra aperta contro il nazionalismo, che costituiva ai suoi occhi il principale ostacolo alla realizzazione dell'umanesimo.

Tra loro, soltanto Marx stabiliva un piano d'azione capace di collegare effettivamente la filosofia critica col movimento politico e sociale. Respingendo ogni dogmatismo egli, come Hegel, si rifiutava di condannare la realtà in nome d'un ideale arbitrario, con questa differenza tuttavia, che Marx affermava non già la necessità dell'attuale stato di cose, bensì il carattere necessario dell'evoluzione storica. L'influenza di Hegel era manifesta anche nella grande importanza che egli attribuiva alla filosofia del progresso umano. Infatti egli rimproverava ai socialisti ed ai comunisti di non occuparsi d'altro che della realtà materiale dell'esistenza umana, trascurandone la realtà spirituale. Ora, egli diceva, proprio dando alla società la coscienza di questa realtà con la critica della religione e dello Stato nei quali essa aliena la propria essenza, le si restituirà la sua vera natura. Non si trattava più, come pretendeva B. Bauer, di opporre al mondo una coscienza, un ideale esterno ad esso, ma di mostrargli la sua vera natura, di cui bastava che prendesse coscienza perché potesse anche realizzarla. Marx poneva come fine della trasformazione sociale l'umanesimo, ma dandogli un contenuto molto più preciso e concreto di Feuerbach. Egli, facendone l'espressione della democrazia sociale e sorpassando così anche il punto di vista politico di Ruge, trasformava l'Alleanza franco-tedesca, originariamente concepita come alleanza tra la filosofia e il liberalismo, in un'unione tra la filosofia e il socialismo.

Per giustificare il titolo della rivista e realizzare almeno fino a un certo punto il suo programma, bisognava aggiungere ai collaboratori tedeschi dei redattori francesi. Nell'agosto, Ruge era partito pieno d'entusiasmo per Parigi, pensando che la Francia avrebbe accolto con gioia la filosofia tedesca, la quale doveva liberarla definitivamente dalla religione.

Ma ahimè, la sua illusione fu di breve durata. Introdotto da Hess negli ambienti socialisti e democratici di Parigi, nei quali sperava di trovare dei collaboratori per gli Annali, trovò dappertutto indifferenza o addirittura ostilità e non ebbe in definitiva altro che risposte dilatorie o cortesi rifiuti.

Lamennais, dal quale si recò appena arrivato, lo gratificò di un lungo discorso sulla metafisica. Non fu più fortunato con Louis Blanc il quale, dopo un sermone sui pericoli dell'ateismo e dell'anticlericalismo che in Francia non avevano fatto altro che consolidare la potenza della borghesia, lo invitava, per concludere, ad abbracciare direttamente il socialismo senza passare attraverso il liberalismo. Lamartine, a quanto pare, cominciò col promettergli la collaborazione, ma poi quando gli Annali furono denunciati come una pericolosa rivista rivoluzionaria, se ne schermi.

Uguale insuccesso con gli altri socialisti e comunisti: Proudhon era allora assente da Parigi; Leroux, disgustato dello scrivere, era tutto occupato ad inventare una macchina tipografica; Cabet gli rimproverò di non aderire al comunismo; e infine Considérant lo accolse freddamente, sospettandolo di voler ricorrere alla violenza per la realizzazione delle sue idee.

Venendo a mancare i francesi, bisognò tornare ai tedeschi, e siccome anche Feuerbach e Bakunin si ritirarono, Ruge si assicurò la collaborazione di Engels, Hess, Herwegh e Heine.

Heine, nei primi tempi della sua dimora a Parigi, s'era tenuto in disparte dal movimento democratico e rivoluzionario che ripugnava alla sua natura d'artista; ma l'interdizione dei suoi libri in Germania, nel dicembre del 1841, lo aveva fatto riavvicinare ai radicali. Nelle corrispondenze che egli mandava allora alla Gazzetta d'Augusta, veniva studiando con sempre maggior interesse le questioni economiche e sociali. Il comunismo lo attirava; vi vedeva la forza dell'avvenire, la forza destinata a mettere fine allo sfruttamento dei poveri da parte dei ricchi, e nel momento in cui si accingeva a collaborare agli Annali franco-tedeschi, non nascondeva la sua intima simpatia per esso, e ne prediceva il trionfo.

Tuttavia Ruge non faceva gran conto di Heine, e in una lettera alla moglie ripeteva a proposito di lui quei rimproveri d'immoralità e di leggerezza di spirito che gli aveva già rivolti negli Annali di Halle. Da parte sua Heine provava poca simpatia per Ruge che gli sembrava il tipo perfetto del piccolo borghese limitato, del filisteo. La sua collaborazione agli Annali franco-tedeschi fu senza dubbio assicurata da Herwegh, e forse anche da Marx, che durante la sua dimora a Parigi fu con lui in ottimi rapporti.

In ottobre l'organizzazione della rivista era presso a poco ultimata, ed i redattori dovevano riunirsi a Parigi. Froebel vi era arrivato alla fine di settembre, seguito poco dopo da Herwegh, che aveva passato un mese a Ostenda, dove aveva incontrato F. Engels, e poi da Marx, il quale l'11 novembre si stabiliva al n. 38 di via Vanneau con la sua giovine sposa. Infine, al principio di dicembre arrivò anche Ruge, che era andato a prendere la famiglia a Dresda e aveva tentato invano di trovare qualche altro collaboratore in Germania: egli si stabili con la moglie nella stessa casa di Marx..

Ruge redasse il programma della rivista, nel quale esponeva la necessità di un'alleanza intellettuale franco-tedesca, che, liberando la Francia dall'oppressione religiosa e la Germania dall'oppressione politica, doveva portare alla realizzazione dell'umanesimo, all'emancipazione totale dell'uomo. Ma ammalatosi alla fine di dicembre, dovette lasciare a Marx la direzione degli Annali, dei quali usci soltanto un numero doppio al principio di marzo del 1844.

Marx pubblicò negli Annali due articoli: «Introduzione alla Critica della Filosofia del Diritto di Hegel» e «Critica di due saggi di B. Bauer sul problema ebraico», i soli che insieme a quelli di Engels presentino un vero interesse.

Nel primo articolo, egli si propone di dimostrare come e perché la critica della religione si trasformi in critica della politica e metta capo al comunismo. Feuerbach ha portato a termine la critica della religione, premessa d'ogni altra critica in quanto rivela all'uomo la sua vera natura; ma non basta togliere il velo, come ha fatto lui, all'illusione religiosa, bisogna risalire alle condizioni sociali che ne sono la causa, e adoperarsi a cambiarle. Feuerbach ha, sì mostrato che l'uomo crea la religione, ma l'uomo non è un essere astratto, isolato dal mondo: è un essere sociale, un essere collettivo, è lo Stato, la società. Se la società crea nella religione un mondo alla rovescia, in cui la realtà diviene illusione e l'illusione realtà, ciò avviene perché essa stessa è un mondo alla rovescia; la religione non è altro che il riflesso spirituale della società, e se non conferisce all'essenza umana altro che un'esistenza illusoria, gli è perché la società stessa ha alienato la propria essenza. Sicché la lotta contro la religione per essere veramente efficace deve trasformarsi in lotta contro il mondo da cui è generata. Combattere la religione e le sue promesse di una felicità irreale che fanno di essa «l'oppio del popolo», significa rivendicare per il popolo la felicità reale, per mezzo della critica della società di cui quella è un'emanazione. Il compito della storia dev'essere di stabilire la verità in questo mondo dopo avere distrutto l'illusione dell'altro mondo, svelando come l'essenza umana si alieni quaggiù nella società e nello Stato. La critica del cielo si trasforma così in critica della terra, la critica della religione in critica del diritto, e la critica della teologia in critica della politica.

In Germania la critica della società e dello Stato può esser fatta soltanto per mezzo della critica della filosofia, in particolare della Filosofia del Diritto di Hegel. Essa è un paese tanto arretrato, che tutta la sua storia costituisce un anacronismo; tutta la sua attività politica e sociale non è se non la ripetizione di ciò che è già avvenuto presso altri popoli più progrediti. Le relazioni tra l'industria e la politica ne offrono un esempio lampante; infatti, mentre gli altri paesi hanno adottato la soluzione libero-scambista, la Germania resta fedele al sistema dei vecchi regimi, al sistema protezionista teorizzato da List. Sicché le sue istituzioni rimangono, per così dire, al disotto del livello della storia, al di sotto di ogni politica; e per scuotere l'inerzia del popolo tedesco e stimolarlo alla ribellione non si può far altro che dichiarar loro guerra.

Ma se dal punto di vista politico e sociale la Germania è rimasta indietro, ha raggiunto però, con la filosofia, il livello dei paesi più progrediti, l'Inghilterra e la Francia, anticipando con essa l'avvenire; per cui, criticare la sua filosofia, equivale a fare la critica della società moderna nella sua forma più evoluta.

Nella critica di questa filosofia, che viene così a costituire agli occhi di Marx un'anticipazione spirituale della realtà, sono stati commessi due errori. Gli uni, opponendo la realtà alla filosofìa, si contentano di negare quest'ultima puramente e semplicemente, e non vedono che non la si potrebbe sopprimere senza realizzarla; gli altri invece oppongono la filosofia alla realtà, e non vedono che non si può realizzare la filosofia senza sopprimerla in quanto tale.

La critica della filosofia consiste nel dare vita reale a ciò che essa contiene in sé potenzialmente, inserendolo per così dire nell'evoluzione stessa delle cose, ciò che porta necessariamente all'eliminazione di essa in quanto astrazione.

A dire il vero questa critica pone problemi che soltanto l'attività pratica, l'azione politica, è capace di risolvere, perché la critica non può sostituire la forza materiale; ma diviene una forza reale solo quando si impadronisce degli spiriti e assume un carattere radicale. Perché si possa compiere una rivoluzione, una trasformazione profonda, ci vuole da una parte una critica radicale dell'attuale stato di cose, dall'altra, una massa popolare che faccia sua questa critica. Non basta che il pensiero, la teoria, voglia realizzarsi, è necessario che essa risponda ai bisogni della massa e trovi in essa l'elemento materiale che compia concretamente la rivoluzione.

Poiché la Germania è rimasta in ritardo sugli altri paesi, e riunisce in sé tutte le tare dei regimi vecchi e nuovi, non potrà emanciparsi con una rivoluzione parziale, con una rivoluzione politica. Essa difatti non ha, come la Francia ai tempi della rivoluzione, una borghesia di temperamento rivoluzionario, che rappresenti agli occhi del popolo l'elemento liberatore, di fronte ad una nobiltà che concentri in sé tutti i difetti e sia colpevole di tutti i misfatti.

A causa di questa carenza della borghesia, l'emancipazione, che in Francia si è potuta effettuare progressivamente e parzialmente, in Germania non potrà essere che un'emancipazione totale, dovuta ad una rivoluzione sociale. Questa rivoluzione sarà opera della classe priva di tutti i beni e di tutti i diritti, la quale, liberandosi, emanciperà la società. Questa classe è il proletariato. Il proletariato, che comincia a formarsi in Germania in seguito allo sviluppo industriale che distrugge la classe media,

innalza a principio generale la soppressione della proprietà privata, che gli è stata imposta di fatto, e tende così con l'abolizione totale dell'egoismo e dell'ingiustizia sociale ad emancipare tutta la società. La filosofia dell'umanesimo, la quale non può realizzarsi in altro modo che con la liberazione del proletariato, si unirà a lui per fornirgli le sue armi spirituali, e questa unione, che segnerà la risurrezione tedesca, sarà annunziata dal canto squillante del gallo francese.

In questo articolo Marx orientava deliberatamente il proprio pensiero verso il comunismo. Egli indicava come il motivo dell'illusione religiosa denunciata da Feuerbach risiedesse nella cattiva organizzazione sociale, e come per abolire la religione, per restituire all'uomo la sua vera essenza, per fare veramente di lui un essere umano, fosse necessario trasformare la società. Questa trasformazione doveva essere opera della classe sociale più oppressa, del proletariato, che, liberandosi dalle sue catene, salendo alla dignità umana, avrebbe con ciò stesso liberato la società. Modellando nella forma della dialettica il quadro dello sviluppo sociale, egli poneva il proletariato come l'antitesi, l'elemento attivo, a cui spettava di realizzare il progresso. Il proletariato, che egli non studiava e non analizzava ancora in sé stesso, aveva qui soltanto il valore d'un'idea-forza, d'uno strumento messo al servizio della filosofia.

Secondo Marx l'emancipazione dell'umanità doveva attuarsi per mezzo d'una rivoluzione violenta, con l'accentuazione della lotta di classe, come esige il movimento dialettico, nel quale il progresso risulta dall'opposizione dei contrari.

Questo articolo non costituisce quella critica obbiettiva della realtà economica e sociale, che Marx nella sua corrispondenza con Ruge pretendeva di voler incominciare. È una mescolanza di morale, di politica e di economia, in cui la filosofia ha ancora un posto essenziale. Infatti, come per Hegel l'evoluzione della Natura e della Storia è destinata a realizzare l'Idea, così per Marx lo scopo del movimento politico e sociale è di dare una realtà alle anticipazioni della filosofia. Ma, (ed è questo che lo distingue da Hegel), la realizzazione della filosofia, che tende a confondersi con l'azione sociale, comporta la sua soppressione, ed ormai altro non resta a Marx che rendersi conto dell'organizzazione sociale ed economica, per sottrarre alla filosofia quel valore assoluto che ancora le attribuiva. Questa nuova tappa è compiuta nel secondo articolo degli Annali franco-tedeschi, «Il problema ebraico».

Malgrado la loro differenza di contenuto, questi due articoli sono strettamente collegati tra loro, e segnano, l'uno rispetto all'altro, una progressione logica. Mentre il primo è come uno schizzo filosofico dell'avvento del comunismo attraverso la lotta di classe tra il proletariato e la borghesia, il secondo è uno studio del carattere e delle ragioni dell'opposizione e della lotta tra la società borghese e la società comunista.

In quest'articolo Marx prendeva partito contro B. Bauer che aveva negato agli ebrei il diritto di essere considerati alla pari dei cristiani, diritto che costituiva allora una delle principali rivendicazioni dei liberali. Da quando l'editto del 4 maggio 1816, promulgato dal ministro prussiano degli Interni von Schuckmann, li aveva esclusi da tutte le funzioni pubbliche pretendendo mantenerli in una condizione d'inferiorità di fronte ai cristiani, gli Ebrei, sostenuti dalla stampa liberale, non avevano cessato di reclamare l'eguaglianza dei diritti. Contro ogni aspettativa, il governo prussiano trovò un sostenitore in B. Bauer, che ne difese le tesi in due grandi articoli, il primo dei quali, «Il problema ebraico», usci negli Annali tedeschi dal 17 al 29 novembre 1842, ed il secondo, «Sulla capacità degli ebrei e dei cristiani d'oggi di accedere alla libertà», fu pubblicato nei «Ventun fogli» di Herwegh nel maggio del 1843.

Riprendendo una tesi che già aveva sostenuta nel 1839 in un suo opuscolo contro Hengstenberg, B. Bauer dichiarava nel «Problema ebraico» che la dottrina cristiana rappresenta, in relazione alla dottrina ebraica, un grado superiore nell'evoluzione dello spirito, e che lo stato cristiano avrà motivo di rifiutare agli ebrei l'eguaglianza dei diritti finché essi resteranno attaccati alla loro religione. Se gli ebrei sono stati oppressi, gli è perché essi non hanno mai voluto adattarsi alla società nella quale vivevano e sono rimasti refrattari al progresso. Alla loro emancipazione si oppone non tanto l'odio religioso quanto il loro egoismo e il loro orgoglio che li portano a credersi privilegiati tra gli uomini; siccome essi stessi tendono ad escludere da sé gli altri popoli, non possono lamentarsi dell'esclusione di cui sono fatti oggetto da parte dei cristiani. Nel secondo articolo su «La capacità degli ebrei e dei cristiani di oggi di accedere alla libertà», Bauer dimostrava che il problema dell'emancipazione degli ebrei si ricollegava col problema più generale dell'emancipazione umana.

A differenza del cristianesimo, e specialmente del protestantesimo, che favorendo la critica religiosa ha lavorato per questa emancipazione, il giudaismo, ostinatamente e ciecamente fedele alla legge mosaica, è rimasto sterile e non ha contribuito in nulla al progresso umano. Sicché il cristiano è più dell'ebreo vicino all'emancipazione totale. Non che si voglia dire, con questo, che l'ebreo debba convertirsi al Cristianesimo, perché ebrei e cristiani restano gli uni e gli altri schiavi della loro fede. Tutti e due debbono liberarsi dalla religione per emanciparsi, ma ciò è più facile al cristiano, la cui religione è più universale, sicché egli non deve fare che un passo per trasformarla in religione dell'umanità, che non all'ebreo, il quale deve cominciare col liberarsi della sua religione egoistica, per elevarsi ad una religione universale e trasformare poi questa in religione umana. Questa critica della religione ebraica, la quale veniva ad appoggiare le tendenze antisemite del governo, non poteva certo piacere a Marx. Già nell'agosto del 1842 egli aveva progettato di scrivere per la Gazzetta renana, in risposta ad attacchi di Hermes contro il giudaismo, un'articolo sul problema ebraico che, a quanto pare, si proponeva fin d'allora di studiare dal punto di vista sociale; Il 13 marzo del 1843 egli comunicava a Ruge la sua intenzione di rispondere a Bauer, al quale rimproverava di non approfittare del problema ebraico per attaccare il governo e di trattare questo stesso problema astrattamente. Il suo articolo sul problema ebraico risponde appunto a questa doppia preoccupazione di servirsi del problema ebraico per criticare la cattiva organizzazione politica e sociale, trasformando così la critica della religione in una critica dello Stato e della società.

Quando si studia la questione dell'emancipazione politica degli Ebrei, dice Marx nella sua critica al primo articolo di Bauer, bisogna anzitutto domandarsi quale ne sia la natura. Solo quando sia stato chiarito questo primo punto ci si può porre la questione delle condizioni di questa emancipazione e vedere se l'emancipazione religiosa è, come pensa Bauer, la condizione necessaria dell'emancipazione politica, e se l'ebreo, per essere liberato politicamente, deve cominciare col liberarsi dal Giudaismo.

In uno Stato puramente politico la religione è un affare privato; perciò il problema ebraico riveste un diverso aspetto secondo che lo Stato abbia un carattere politico più o meno pronunciato, secondo che sia più o meno libero da influenze religiose. In quello Stato cristiano che è la Germania, il problema ebraico ha un carattere teologico. In Francia, dove lo Stato è a metà libero da influenze religiose, il problema ebraico si confonde con la questione costituzionale e conserva solo l'apparenza d'un problema religioso. Negli Stati Uniti infine, dove lo Stato è separato dalle Chiese, questo problema perde ogni carattere teologico, perché la costituzione non impone la pratica d'un culto, come condizione d'eguaglianza civile.

Poiché gli Stati Uniti sono un paese molto religioso, dove si ritiene che un uomo ateo non possa essere onesto, bisogna concluderne che l'emancipazione politica non implica necessariamente l'emancipazione religiosa, e che l'esistenza della religione non è incompatibile con quella di uno Stato politicamente emancipato. Perciò si è indotti a ricercare nello Stato stesso, considerato in quanto tale, la fonte, la ragione profonda dell'esistenza della religione. Invece di opporre lo Stato alla religione, bisogna anzi mostrare che essi sono della stessa natura, spiegare il carattere della religione con quello dello Stato, e trasformare così la critica della teologia in critica della politica.

Lo Stato, non riconoscendo nessuna religione ufficiale, può essere religiosamente emancipato, senza che lo sia la maggioranza dei cittadini. Tale emancipazione non tocca la religione più di quanto non tocchi la proprietà, la professione, la nascita, essendo elementi che non contano più nella vita politica e non conferiscono più diritti particolari. Abolendo il censo che si richiedeva per l'elettorato o l'eleggibilità, si annulla politicamente la proprietà, senza sopprimerla civilmente; separando la Chiesa dallo Stato, si rinuncia collettivamente alla religione senza liberarsene individualmente. così ogni uomo conduce una vita doppia, una vita politica in quanto membro dello Stato, ed una vita privata in quanto membro della società. Lo Stato costituisce in relazione alla società come una sfera ideale, analogamente a quello che è il cielo in relazione alla terra. L'uomo, in quanto persona privata, in quanto individuo egoista, conduce nella società un'esistenza che non corrisponde alla sua essenza, ma vive in esso d'una vita immaginaria, poiché lo Stato, a causa dell'imperfezione della società, non può avere, come la religione, altro che un'esistenza illusoria.

L'emancipazione politica che si traduce in questo sdoppiamento, in questa dissociazione dell'uomo in cittadino da una parte ed in «borghese» dall'altra, non è se non l'emancipazione nel quadro, della società attuale, di cui segna l'imperfezione. Essa trova la sua espressione nello Stato, il quale, come la religione, incarna l'essenza dell'uomo, ma quell'essenza illusoria che risulta dalla vita presente, dall'organizzazione sociale fondata sull'egoismo e l'individualismo. A sostegno di questa tesi, Marx analizza la dichiarazione dei diritti dell'uomo e del cittadino della Costituzione

del 1793.

I diritti dell'uomo: libertà, proprietà, eguaglianza, sicurezza, sono i diritti dei membri d'una società in cui regna l'egoismo. La libertà, infatti, è l'autorizzazione data ad ogni individuo di agire nel modo migliore per i suoi interessi, senza tuttavia portare pregiudizio a quelli altrui; il diritto di proprietà è la conseguenza pratica della libertà così definita; l'eguaglianza è la facoltà data a tutti di godere di questa libertà e di questa proprietà; la sicurezza, infine, è la garanzia accordata al godimento di questi diritti. La Rivoluzione, che ha avuto l'effetto di separare lo Stato dalla società, ha innalzato, «idealizzato» lo Stato, facendone l'organismo superiore della collettività, spezzando i legami corporativi che impedivano lo sviluppo dell'egoismo. Perciò l'egoismo è divenuto il fondamento della società, e la dichiarazione dei diritti dell'uomo non ha fatto altro che sanzionarlo e giustificarlo legalmente. Agli occhi della legge, l'uomo, in quanto membro della società, l'uomo egoista, il «borghese», è infatti l'uomo normale i cui diritti sono qualificati come diritti naturali, mentre ai suoi occhi l'uomo considerato come membro dello Stato, il «cittadino», ha il carattere artificiale ed astratto di un personaggio allegorico.

La tesi di Bauer, che subordina l'emancipazione politica degli Ebrei alla loro liberazione dal giudaismo, appare dunque assolutamente falsa, perché l'emancipazione politica, lungi dall'avere come necessario corollario l'emancipazione religiosa, conserva invece intatta l'essenza della religione e mantiene nell'uomo il dualismo che è proprio di questa.

Questo dualismo, il quale oppone nell'uomo il borghese, che solo ha un'esistenza reale, al cittadino, che non ha se non un'esistenza ideale, spiega l'insufficienza dell'emancipazione politica. La vera emancipazione si raggiungerà con la reintegrazione dell'uomo ideale, del cittadino, del borghese che dovrà abbandonare il suo modo egoistico di vita, per innalzarsi alla vita collettiva, alla vita sociale. Come l'umanità, che ha proiettato nel cielo la sua essenza, deve impregnarsene di nuovo, così la società deve riassorbire in sé il suo essere ideale, lo Stato, che essa ha esteriorizzato, e confondere la sua vita civile con la sua vita politica, innalzando la prima al livello della seconda. «Soltanto il giorno in cui l'uomo reale ed individuale avrà riassorbito in sé il cittadino astratto e sarà divenuto un essere sociale nella sua vita empirica, nel suo lavoro e nelle sue funzioni individuali, soltanto il giorno in cui l'uomo avrà riconosciuto e organizzato le «proprie forze» come forze sociali, e pertanto non»separerà più da sé la forza sociale sotto forma di forza politica, soltanto allora» si avrà l'emancipazione umana».

Dopo avere dimostrato che l'emancipazione religiosa non condiziona l'emancipazione politica e non è condizionata da essa, e che l'emancipazione politica costituisce soltanto un primo passo verso la vera emancipazione, la quale ha un carattere sociale, Marx, nella seconda parte del suo articolo, critica la tesi di Bauer sulla capacità dei cristiani e degli ebrei ad accedere alla libertà. Anche qui, egli dice, bisogna porre la questione sul piano sociale, sul piano umano, spiegare la religione ebraica per mezzo dell'ebreo e non l'ebreo per mezzo della sua religione, e domandarsi quale sia l'elemento sociale particolare all'ebreo che ostacola la sua emancipazione. L'emancipazione ebraica rientra così nel quadro dell'emancipazione umana, della quale non è che un aspetto. Ciò che si oppone alla vera emancipazione dell'ebreo è il suo carattere particolare, il suo spirito mercantile ed egoista, di cui la sua religione è soltanto il riflesso. Infatti il giudaismo ha come culto la pratica commerciale, l'usura, e come Dio il denaro. Esso si è generalizzato tra gli uomini impregnando il cristianesimo del suo spirito : gli affari, che sono la sua legge, son divenuti il principio della società moderna, nella quale hanno raggiunto il loro culmine. Perciò l'ebreo ha perfettamente ragione di reclamare la sua emancipazione politica, che ha già ottenuto del resto nei paesi più penetrati di spirito mercantile. Per emanciparsi veramente, gli ebrei dovrebbero dimenticare gli affari, la pratica dell'usura, e non far più del denaro il loro Dio; emanciperebbero così tutta la società, che obbedisce al loro principio. Sicché l'emancipazione degli ebrei si riduce in ultima analisi alla liberazione dell'uomo dal giudaismo, che Marx identifica col capitalismo.

In questi due articoli, Marx faceva rientrare la sua critica nel quadro e nelle formule della filosofia di Feuerbach, alla quale attribuiva un carattere dialettico e conclusioni comuniste. Egli concepiva la realtà sotto forma di attività sociale; ne derivava che l'uomo, invece d'essere considerato in sé, invece di costituire un essere astratto, s'integrava nella società e diveniva insieme il soggetto e l'oggetto dell'evoluzione sociale, Di conseguenza, per spiegare la natura e il divenire dell'uomo, non bastava più, come faceva Feuerbach, denunciare il dualismo religioso che priva l'uomo della sua vera natura; bisognava mostrarne l'origine e la causa nell'organizzazione stessa della società.

Era proprio quello che Marx si accingeva a fare con i suoi articoli, e particolarmente con «Il problema ebraico», che segnava un deciso progresso sull'«Introduzione alla Critica della Filosofia del Diritto», nel quale restava ancora in certo senso idealista ed utopista. La sua analisi della società era un'applicazione ai fenomeni sociali dell'analisi che Feuerbach aveva fatta della religione: il vizio capitale della società presente è il dualismo generato dall'egoismo e dalla proprietà privata, che corrompe l'uomo e crea classi rivali. A questa società si oppone la società comunista nella quale, abolito l'egoismo, i fini dell'individuo si confondono con quelli della specie e l'uomo s'innalza alla vita collettiva. Questo stato di cose è già realizzato, ma solo teoricamente, nello Stato, nel quale la collettività proietta e aliena la propria essenza. L'umanità ha il compito di adattare la propria vita reale alla propria vita teorica, di innalzare la prima al livello della seconda, restituendo alla società la sua vera natura, alienata nello Stato.

Tanto l'emancipazione religiosa quanto l'emancipazione politica, che non mirano alla trasformazione della società, debbono necessariamente restare parziali e perciò stesso inefficaci; la sola vera emancipazione è l'emancipazione sociale. Si spiega così l'impotenza o almeno l'insufficienza del radicalismo religioso e del radicalismo politico, i quali pretendono di liberare la coscienza e lo Stato senza riformare la società. Questa trasformazione della società, Marx la concepisce dialetticamente come una rivoluzione totale. Trasformando il conflitto tra l'egoismo e l'altruismo in una lotta sociale tra il capitalismo e il proletariato, egli lo risolve col procedimento feuerbachiano di reintegrazione dell'essenza umana nella società, ma facendo del proletariato, considerato come termine antitetico, lo strumento di questa reintegrazione, a cui assegna come fine non il vago umanesimo di Feuerbach, ma il comunismo.

La tesi e l'antitesi, che nell'«Introduzione alla Critica della Filosofia del Diritto» rivestivano ancora una forma logica e metafisica, erano concepite nel «Problema ebraico» come forze economiche e sociali; la coscienza, che aveva ancora una funzione essenziale nel primo articolo, in cui era considerata come la condizione della liberazione del proletariato, scompariva in quanto fattore dell'evoluzione sociale, e con essa scomparivano gli intellettuali, che non costituivano più una classe sociale al di fuori della borghesia e del proletariato.

Nello stesso tempo veniva diminuita se non eliminata la parte assegnata alla filosofia; mentre nel primo articolo Marx la faceva partecipare all'opera di liberazione supponendo che la rivoluzione nascesse dall'alleanza dei pensatori e dei proletari, questa alleanza non viene più menzionata nel secondo articolo. Dopo aver fatto rientrare nella Storia la filosofia, che finora aveva considerata come l'elemento essenziale del divenire, egli non le attribuisce più ormai alcuna parte attiva e indipendente nell'evoluzione sociale.

Marx superava così di colpo Moses Hess, che nelle «Quattro lettere» pubblicate negli Annali franco-tedeschi si limitava a riprendere la tesi già esposta nei Ventun fogli, secondo la quale la libertà e l'uguaglianza non avrebbero potuto essere attuate che dal comunismo, e a prova di ciò citava la Rivoluzione francese, la quale aveva fallito nel tentativo di un regime di libertà e d'uguaglianza perché non era riuscita a regolare il problema sociale.

L'unico che oltre Marx portasse negli Annali franco-tedeschi un contributo importante all'elaborazione della dottrina comunista, era Fr. Engels. Nei suoi due articoli : «La situazione in Inghilterra» e «Lineamenti d'una critica dell'economia politica», egli svolgeva le idee che già aveva esposte in un grande articolo «Il progresso della riforma sociale nel continente», pubblicato nel novembre del 1843 nel New Moral World. In quest'articolo, dimostrava che il comunismo era la meta a cui tendevano per vie diverse i tre grandi paesi europei, Francia, Germania e Inghilterra.

In Francia il comunismo è andato oltre il liberalismo politico, ostile all'eguaglianza sociale, con Babeuf, i cui eredi sono Saint-Simon, Fourier, Cabet, e soprattutto Proudhon. Con la sua critica decisiva della proprietà privata, Proudhon ha dimostrato che questa costituisce il fondamento della società, l'elemento essenziale dell'evoluzione storica; che la politica è subordinata all'economia, lo Stato alla società, e che bisogna abolire la proprietà privata se si vuole trasformare la società adattandone l'organizzazione alla vera natura dell'uomo,

In Germania il comunismo appare come la logica conseguenza del radicalismo filosofico, come la sintesi sociale del repubblicanesimo e dell'ateismo.

In Inghilterra, infine, il comunismo è nato dalla rivoluzione economica, dalle crisi che determinano le lotte sociali, ciò che spiega come esso trovi là il suo appoggio non nella classe intellettuale, come in Germania, ma nel proletariato.

Mentre in questo articolo, destinato al pubblico inglese, Engels aveva particolarmente insistito sul carattere del comunismo francese e tedesco, negli Annali, destinati invece a un pubblico franco-tedesco, studiava il movimento economico e sociale inglese.

Il suo articolo sulla «Situazione in Inghilterra» era una critica di Carlyle, che nel libro intitolato Fast and Present condannava il materialismo e l'utilitarismo del secolo e prediceva il ritorno alla fede religiosa e all'idealismo. Pur associandosi alle critiche che Carlyle faceva della società contemporanea, Engels respingeva le conclusioni del suo libro in nome dell'umanesimo, ed esaltava invece l'ateismo, che doveva portar l'uomo a prender coscienza di se stesso e a regolare l'organizzazione sociale conformemente alla sua vera natura.

Del resto, egli diceva, la storia testimonia un'evoluzione progressiva verso la vita collettiva, il cui definitivo trionfo sull'attuale modo di vita, irrazionale ed egoistico, sarà assicurato dal comunismo.

Nel secondo articolo - «Lineamenti d'una critica dell'economia politica» -, Engels si proponeva di dimostrare che il comunismo nasce dall'evoluzione stessa del sistema capitalista. Questo sistema, infatti, il cui solo merito è di aver sviluppato tutte le conseguenze della proprietà privata, ha determinato, col libero scambio e la concorrenza, un aumento indefinito della produzione e lo squilibrio tra questa e il consumo, e perciò stesso le crisi che aggravano incessantemente la miseria della classe operaia, le quali non sono dovute, come afferma Malthus, ad un eccessivo accrescimento della popolazione in confronto alle possibilità di produzione. Solo per mezzo di una migliore organizzazione della produzione si potrà porre rimedio alla miseria. Per ottenere ciò bisognerà abolire la proprietà privata e la concorrenza, che schiacciano il lavoro a vantaggio del capitale; e questa soppressione sarà opera del comunismo, che nasce e si sviluppa nel seno stesso della società capitalista. Giacché, come ha dimostrato Sismondi, la concorrenza, eliminando gli elementi più deboli del capitalismo, causa la rovina progressiva della classe media, che tende a scomparire, per lasciare gli uni di fronte agli altri proletari e capitalisti. La lotta sociale, ravvivata dalle crisi, porterà necessariamente ad una rivoluzione che distruggerà il monopolio della proprietà privata, ed instaurerà il comunismo.

così Engels arrivava al comunismo per una via diversa da quella di Marx, cioè attraverso la critica della società invece che attraverso la critica dello Stato. Fondandosi sulla sua conoscenza della vita industriale e commerciale inglese, egli studiava il comunismo sul piano economico e sociale piuttosto che sul piano filosofico e politico, e, mostrando come esso fosse una conseguenza necessaria dell'evoluzione del capitalismo, precisava e completava la concezione ancora teorica ed astratta di Marx.

La tendenza comunista degli articoli di Marx e di Engels doveva portare alla soppressione degli Annali franco-tedeschi, poiché comprometteva definitivamente il successo di questa rivista — reso già precario fin dall'inizio per l'assenza totale di collaboratori francesi — provocando le persecuzioni del governo prussiano. Questo governo, che voleva impedire la pubblicazione all'estero dei giornali radicali soppressi all'interno, faceva sorvegliare i loro antichi redattori, e particolarmente Ruge e Hess, dei quali la relazione di Bluntschli aveva segnalato i legami coi comunisti svizzeri. Il 26 settembre 1843, l'ambasciatore prussiano a Parigi, von Àrnim, segnalava al suo governo la presenza in questa città di Ruge e di Hess, ed una recrudescenza dell'agitazione comunista tra gli artigiani tedeschi di Parigi. Poco dopo lo informava della prossima pubblicazione degli Annali franco-tedeschi. Allora il governo prussiano si sforzò di ottenere da Guizot la proibizione di questa rivista e l'espulsione dei suoi redattori. Avutane una risposta dilatoria, cominciò col proibire d'introdurre in Prussia tutti i libri pubblicati dal Banco letterario, poi, avvertito l'8 marzo 1844 da von Arnim che gli Annali erano usciti e costituivano con la loro tendenza rivoluzionaria uno dei prodotti più pericolosi della letteratura d'opposizione, ordinò la confisca della rivista: cento esemplari furono sequestrati su un battello renano e duecentoquattordici nei pressi di Weissenburg. Il 16 aprile, il ministro degli Interni ordinava inoltre ai prefetti di arrestare, (malora avessero varcato la frontiera, Ruge, Marx, Heine e Bernays, incolpati di alto tradimento.

Perseguitati così senza pietà dal governo prussiano, gli Annali franco-tedeschi non dovevano trovare nemmeno a Parigi l'appoggio sperato; un organo rivale, il Vorwaerts, cui essi facevano ombra, rimproverava loro, quasi con la stessa violenza che avrebbe potuto usare la stampa ufficiale, la loro tendenza rivoluzionaria. Infine difficoltà finanziarie, accompagnate da gravi dissensi tra Marx e Ruge, dettero il colpo di grazia alla rivista.

Froebel, che aveva mandato da Zurigo 2000 franchi per la stampa delle prime dispense, dichiarò di non essere più in grado di sopperire alle spese di pubblicazione, e si ritirò senza mostrare alcun rimpianto da questa impresa di cui non approvava più le tendenze. Difatti egli, fautore di una riforma sociale fondata sull'educazione, condannava il comunismo rivoluzionario di Marx. Il suo parere era condiviso da Ruge, il quale, rimasto liberale, cioè fautore del dominio politico della borghesia, aveva potuto intendersi con Marx sul piano dell'umanesimo soltanto finché questi non aveva manifestato altro che una vaga tendenza democratica. Già nell'agosto del 1843, durante il viaggio per Parigi, compiuto in diligenza con Hess, egli aveva criticato le idee comuniste di quest'ultimo; quando poi vide a Parigi, tra gli artigiani tedeschi, il vero aspetto del comunismo, se ne allontanò definitivamente. Anch'egli dunque giudicò senza simpatia gli Annali, ai quali, a causa della sua malattia, non aveva potuto dare il carattere che avrebbe voluto, e poiché non corrispondevano alle speranze che aveva riposto in loro, rinunciò, come aveva fatto Froebel, a impegnare nuovi capitali nell'impresa. Marx gli rimproverò con amarezza di aver abbandonato, contrariamente all'impegno preso personalmente con lui, la pubblicazione della rivista, e di averlo lasciato quasi senza mezzi. Questo rimprovero era tanto più fondato in quanto Ruge, che aveva ricoperto le spese, fece, come attesta Hess, il gesto piuttosto antipatico di pagargli quanto gli doveva con copie della rivista, lasciando a lui la cura di venderle. Non era nel carattere di Marx, così schietto e perfino brutale, badar troppo alle forme nel romper le relazioni. L'aveva già dimostrato con i Bauer e con i «Liberi», e agi press'a poco nella stessa maniera con Ruge. La causa immediata, o piuttosto il pretesto della rottura, fu una discussione a proposito di Herwegh, a cui Ruge rimproverava, del resto a ragione, una leggerezza di costumi che ne macchiava il genio, mentre Marx si rifiutava di giudicare il poeta rivoluzionario dalla sua vita privata.

Questa rottura segnava la fine del movimento giovane-hegeliano, che si divideva in anarchismo da una parte e in comunismo dall'altra. La ragione profonda di questa divisione era nel fallimento del radicalismo politico, che aveva posto per la sinistra hegeliana il problema dello Stato e con esso il problema sociale.

Gli uni, con B. Bauer e Stirner, tendevano a risolvere questi due problemi per mezzo dell'individualismo anarchico, il che li portava a condannare tutto ciò che si oppone all'autonomia dell'individuo: religione, Stato, società, e ad allontanarsi dal movimento politico e sociale.

Stampare. Gli altri invece, evolvendo verso un radicalismo sociale che si ispirava alla dottrina di Feuerbach, si sforzavano di stabilire un più stretto legame tra la filosofia e l'azione sociale. Respingendo il liberalismo che portava al popolo soltanto l'emancipazione politica, cioè un'emancipazione parziale, essi pensavano che solo la democrazia sociale fosse capace di-realizzare l'umanesimo, abolendo la proprietà privata, fonte dell'egoismo, e tendevano quindi a passare dal radicalismo politico al comunismo.

Hess aveva aperto la via, ma la sua dottrina che pretendeva di attuare l'uguaglianza sociale senza compromettere la libertà individuale, presentava una eterogenea e confusa mescolanza di anarchismo e di comunismo utopistico.

Toccava ad Engels e a Marx di svincolare il comunismo dall'utopia, subordinando il problema della libertà a quello dell'uguaglianza, e dimostrando che la lotta di classe, l'azione del proletariato, rendeva storicamente realizzabile la soppressione della proprietà privata e l'istituzione di un regime comunista.

Mentre Engels, sotto l'influenza di Hess e di Stein, giungeva direttamente al comunismo, che non fondava più su di un postulato morale, ma sullo sviluppo economico e sociale, Marx cominciava con l'evolvere verso la democrazia sociale per giungere attraverso di essa al comunismo.

Nella critica della filosofia del diritto, nella quale, capovolgendo la dottrina hegeliana, mostrava che lo Stato non è altro che l'emanazione la creazione della società, egli si limitava infatti ad opporre al regime monarchico il regime democratico, che gli sembrava realizzasse pienamente l'essenza dell'umanità, l'essere collettivo, il Gattungsivesen di Feuerbach; soltanto negli articoli degli Annali franco-tedeschi passava da questo radicalismo democratico al comunismo. Alla fine della sua critica alla Filosofia del Diritto, egli era giunto a constatare che la questione sociale, e in particolare il problema della proprietà privata, aveva una parte essenziale nella formazione dello Stato e della società; e l'applicazione al problema sociale della soluzione feuerbachiana, che gli era appunto servita a risolvere il problema dello Stato, portava anche lui, come Hess e Engels, al comunismo.

Nei suoi articoli sugli Annali franco-tedeschi, Marx sosteneva che la società aliena la sua essenza nello Stato, il quale incarna di fronte ad essa la vita superiore, la vita collettiva, e che per restituirle la sua vera natura e dare con ciò stesso un'esistenza reale allo Stato, all'Essere collettivo, bisogna reintegrare lo Stato nella società, innalzando l'una al livello dell'altro con la soppressione dell'egoismo e della proprietà privata.

Questa trasformazione sociale sarà opera, della classe più oppressa che, liberandosi, abolirà la proprietà privata ed emanciperà con ciò la società intera. In questa dottrina, che derivava dalla filosofia di Hegel il suo carattere dialettico, il proletariato altro non era ancora se non l'elemento antitetico e attivo a cui toccava la realizzazione del progresso, lo strumento della filosofia, il veicolo dell'Idea. Secondo la legge della dialettica la trasformazione della Società, l'emancipazione totale dell'umanità, doveva risultare da una rivoluzione dovuta all'accentuazione della lotta di classe : e questo portava Marx a respingere come palliativi inefficaci e insufficienti non soltanto le riforme politiche, ma anche l'azione morale e l'educazione popolare celebrate da Feuerbach e da Hess.

Questa concezione del comunismo, intermedia tra quella di Hess e quella di Engels, era ancora costituita da un miscuglio di morale, di politica e di economia; ma, sotto l'influenza di Engels e dei socialisti francesi, Marx veniva sempre più subordinando la morale alla politica, questa all'economia, e, respingendo il comunismo ancora astratto e utopistico di Hess, tendeva sempre più a derivare la sua dottrina dallo svolgimento stesso della realtà. Questa evoluzione dal radicalismo politico a un comunismo di carattere dialettico, tendente ad eliminare l'influenza del pensiero e dell'azione individuale nello svolgimento storico, si accompagnava in Marx ad un'evoluzione dall'idealismo verso il materialismo, segnata dalla parte sempre meno importante che egli attribuiva alla filosofia nel divenire sociale.

Nella corrispondenza scambiata con Ruge in occasione della fondazione degli Annali franco-tedeschi, assegnava ancora una parte considerevole alla filosofia, attribuendo il progresso sociale alla critica della realtà spirituale, la quale permette alla società di prender coscienza di se stessa. La coscienza restava così un elemento essenziale dell'evoluzione storica, ma non aveva più come in Bauer un carattere soggettivo, non era più un ideale opposto al reale, ma era anzi l'espressione di esso, sicché la dialettica che ne esprimeva lo svolgimento, invece di avere il carattere formale che B. Bauer tendeva ad attribuirle, si confondeva con l'evoluzione stessa delle cose --). Ciò spiega quella critica dell'utopia che Marx faceva nella medesima lettera, ed il suo invito a sprigionare dalla realtà presente la realtà futura, che essa racchiude in potenza.

L'Introduzione alla Critica della Filosofia del Diritto segnava un nuovo progresso verso la concezione materialistica della storia. Pur conservando ancora un'esistenza sua particolare in quanto preformazione, anticipazione spirituale della realtà, la filosofia tendeva a confondersi completamente con la storia che realizza progressivamente. Marx esprimeva queste relazioni tra la filosofia e la storia, dicendo che la realizzazione della filosofia porta con sé necessariamente la sua soppressione, allo stesso modo che la sua soppressione suppone la sua realizzazione.

Nel Problema ebraico, infine, Marx non attribuiva più alla filosofia alcuna funzione speciale nello svolgimento storico, ma, cercando nella realtà stessa le ragioni della sua evoluzione, assorbiva del tutto la filosofia nel divenire sociale, e passando così dall'idealismo al materialismo, dava una nuova soluzione a quel problema dell'azione, che né Hegel né Bauer né Feuerbach avevano saputo risolvere.

Infatti Hegel, non avendo penetrato le vere cause dell'evoluzione storica, aveva ricondotto lo svolgimento della realtà a quello dell'idea, mantenendo così, non ostante i suoi sforzi per superarla, la dualità di pensiero ed essere. Nella sintesi dello spirito e della materia che egli aveva tentato di realizzare nell'idea concreta, la materia costituiva l'elemento inferiore, passivo, sicché la dialettica restava ancora interna all'idea.

B. Bauer, opponendo la coscienza alla realtà, aveva accentuato questa separazione tra l'idea e l'essere, e reso insolubile il problema dell'azione sul piano hegeliano dell'unione di soggetto e oggetto.

Feuerbach, invece, aveva posto le premesse della soluzione'di Marx, mostrando come la coscienza sia determinata dalla vita sociale; ma poiché egli aveva ridotto questa vita all'attività dell'uomo considerato da un punto di vista assoluto al di fuori della storia, aveva finito col dare a questa attività un carattere morale.

Marx, reintegrando l'uomo nella società e considerando l'attività umana come un'attività sociale, realizzava l'unità dinamica dello spirito e della materia, del soggetto e dell'oggetto. Era questo il seme del materialismo storico, il quale, a differenza del materialismo del sec. XVIII a cui Feuerbach era tornato, mostra che l'uomo non soltanto è il prodotto dell'ambiente, ma che anche lo crea, e che l'evoluzione storica nasce da questo attivo adattamento dell'uomo al mondo esterno.

così la concezione comunista di Marx, nata, come quella di Hess e di Engels, da un sentimento di rinnovazione morale nei riguardi dell'ingiustizia sociale, evolveva dall idealismo verso il materialismo, passando dal piano filosofico e morale sul quale si manteneva quella di Hess, al piano economico e sociale: e a Marx non restava che rendersi conto con maggior esattezza e precisione delle ragioni e del carattere dell'evoluzione storica, per unire in una stessa dottrina il materialismo storico e il comunismo.

CAPITOLO QUINTO
FORMAZIONE DEL MATERIALISMO STORICO
LA SACRA FAMIGLIA (1844) - TESI SU FEUERBACH (1845)

Dopo la fine degli Annali franco-tedeschi, Marx si giovò della sua dimora a Parigi, dove rimase fino al principio del 1845, per svolgere ulteriormente la sua concezione del comunismo e del materialismo storico, di cui aveva dato un primo abbozzo nei suoi articoli sugli Annali.

Privo ormai di ogni risorsa per la soppressione di questa rivista, potè tuttavia dedicarsi a questo lavoro grazie ad un aiuto di 1000 talleri inviatogli dai suoi amici di Colonia.

A Parigi veniva a contatto con due realtà che dovevano permettergli di chiarire il concetto ancora vago ed astratto che aveva del comunismo: da una parte un proletariato industriale molto maturo politicamente e fornito di una chiara coscienza di classe, dall'altra l'esperienza di una grande rivoluzione sociale, la Rivoluzione del 1789.

Malgrado i ripetuti fallimenti dei suoi tentativi rivoluzionari, il proletariato parigino, privato dalla borghesia dei benefici della Rivoluzione dei 1830, era tuttora in pieno fermento, e Parigi era più che mai un centro di socialismo e di comunismo. Mentre i dottrinari sansimoniani e fourieristi restavano confinati nei loro sistemi superati ormai dagli avvenimenti, gli altri teorici socialisti tendevano ad unirsi al movimento operaio per prenderne la direzione. Il partito social-democratico con Louis Blanc, Ledru-Rollin e F. Flocon, lanciava la parola d'ordine dell'organizzazione del lavoro, ed esaltava l'azione politica, la conquista dei pubblici poteri, come il mezzo migliore per realizzare le riforme sociali e liberare il proletariato. La rivendicazione del suffragio universale, che esso sosteneva, trovava un'eco profonda nel popolo, stanco delle congiure e dei colpi di mano.

Cabet s'accordava col partito socialdemocratico nei reclamare la democrazia, che però egli concepiva soltanto come stadio intermedio per giungere al comunismo, poiché pensava che non fosse possibile organizzare il lavoro senza aver prima stabilito la comunanza dei beni. Proudhon, da parte sua, dopo aver dimostrato nei suoi Mémoires che la proprietà è la fonte dell'ineguaglianza e dell'ingiustizia sociale, si accingeva, nella Créa-tion de l'ordre dans l'Humanité, a dare una giustificazione filosofica, storica ed insieme economica del socialismo.

Queste differenti dottrine avevano di comune il ripudio della violenza come mezzo d'azione, e contavano tutte, più o meno, sullo spirito illuminato della borghesia o sulla benevolenza dello Stato.

Nessuna di esse poteva soddisfare Marx, il quale vedeva la salvezza dell'umanità unicamente nella trasformazione dell'ordine sociale ad opera di una rivoluzione proletaria. Fu quindi sua prima cura di prender contatto, come già aveva fatto Hess, con gli operai tedeschi riuniti nella Lega dei Giusti. Dopo lo sfortunato colpo di mano del 12 e del 13 maggio 1839, la Lega dei Giusti s'era dispersa. Una parte dei suoi membri s'era rifugiata in Svizzera con Weitling, altri, come il tipografo Karl Schapper, il calzolaio Heinrich Bauer, l'orologiaio Joseph Moli ed il sarto Eccarius, avevano dovuto andare in esilio a Londra, dove avevano fondato il gruppo comunista di educazione operaia. Quelli che erano restati a Parigi si erano raccolti sotto la direzione del medico cabettista Ewerbeck. Questi tre gruppi mantenevano un'attiva corrispondenza fra di loro e costituivano l'embrione dell'internazionale comunista che doveva nascere da essi. Dopo lo scacco del 1839, tendevano'tutti ad adattare la loro dottrina e la loro tattica alla nuova situazione politica. In un articolo del New Moral World, Engels aveva criticato le associazioni segrete, che ostacolavano i movimenti di massa, gli unici capaci di assicurare il successo alla rivoluzione, e che d'altra parte provocavano inutilmente col loro carattere illegale la repressione governativa, dandole un'apparenza di giù-

Per questa ragione Engels aveva rifiutato di entrare a far parte del gruppo londinese, malgrado l'invito che gli era stato rivolto da Schapper e da Moli. Marx era dello stesso parere, e sebbene frequentasse assiduamente gli operai tedeschi e i loro capi, non aderì alla Lega dei Giusti. Del resto, quel confuso miscuglio di filosofia tedesca e di babeuvismo che costituiva la dottrina dei Giusti, non poteva piacergli, soprattutto nel momento in cui egli tendeva con tutte le sue forze a render più chiare e piti precise le proprie idee. Ciò non diminuiva pertanto la sua simpatia per questi operai, le cui ardenti convinzioni e il cui coraggio contrastavano con la mollezza della borghesia tedesca, la quale accettava senza protesta tutte le misure repressive : nelle opere che veniva scrivendo allora, rendeva omaggio alla nobiltà d'animo e al carattere dell'avanguardia proletaria tedesca e francese. Lo stesso omaggio gli veniva del resto contraccambiato dai comunisti da lui frequentati; Ewerbeck, per esempio, così scriveva di lui nel suo libro L'Allemagne et les Attemands : «Carlo Marx è incontestabilmente un genio critico per lo meno altrettanto notevole quanto G. E. Lessing. Dotato di un'intelligenza straordinaria e di una vasta erudizione, di un carattere di ferro e di una perspicacia a tutta prova, C. Marx ha rivolto la sua attenzione ai fatti economici, giuridici, politici e sociali».

Quello che a Marx allora importava era l'elaborazione della sua teoria comunista. Come appare da una lettera di Ruge a Feuerbach, egli vi lavorava con assiduità e tenacia particolari; nel fervore della creazione accumulava le letture e si lasciava trascinare dal suo lavoro fino a vegliare per tre o quattro notti di seguito. Tralasciando momentaneamente la critica della filosofia di Hegel, cominciò a studiare la Rivoluzione francese, di cui aveva già analizzato gli aspetti essenziali nei suoi articoli sugli Annali, proponendosi di scrivere la storia della Convenzione che però non scrisse; si sa solamente che egli considerava la Convenzione come la manifestazione più alta e l'espressione più completa della potenza e dell'energia della borghesia rivoluzionaria.

Fu indubbiamente questo studio della Rivoluzione che lo portò a leggere gli storici francesi del tempo, i quali mostravano come lo sviluppo della borghesia francese fosse costituito da una lunga serie di lotte di classe, ed a chiarire il concetto, fin allora un po' astratto, che egli aveva di questa lotta.

La sola parte attiva che egli ebbe nel movimento politico durante il suo soggiorno a Parigi, fu la collaborazione all'organo dei rifugiati tedeschi il Vorwaerts. Questo giornale bisettimanale era stato fondato all'inizio del 1844 da Heinrich Boernstein, regista teatrale e uomo di lettere, amico del compositore Meyerbeer, che gli aveva anticipato i fondi necessari per lanciare il giornale. Da principio il Worwaerts non aveva un carattere politico: Boernstein, che già nel 1840-41 aveva fondato un «ufficio corrispondenze tedesche», voleva farne un organo di informazioni per la colonia borghese tedesca di Parigi, e si proponeva di pubblicarvi soprattutto notizie concernenti il teatro, la musica e la vita mondana. Il direttore Adalbert von Bornstedt, vecchio ufficiale prussiano, venuto a Parigi per dedicarsi al giornalismo, era un individuo sospetto, al soldo del governo prussiano ed austriaco, dai quali aveva avuto l'incarico di sorvegliare i rifugiati politici. Il Vorwaerts, affermando il proprio spirito patriottico, rivolgeva le sue critiche soprattutto contro l'opposizione radicale, e disapprovava vivamente il tono e il contenuto degli Annali franco-tedeschi. Sicché A. Weil, amico di H. Heine, poteva scrivere nel marzo del 1844 al Telegrafo di Gutzkow che il Vorwaerts mostrava come un giornale potesse essere sciocco e banale anche senza la censura.

Tuttavia il Vorwaerts, per non dispiacere ai rifugiati tedeschi, dovette accentuare la critica ai governi prussiano ed austriaco. Bornstedt, non volendo compromettersi, parti al principio di maggio per l'Inghilterra, e fu sostituito da C. Bernays, collaboratore degli Annali franco-tedeschi, il quale pubblicò nel Vorwaerts una serie di articoli spiritosi e mordaci sui principi tedeschi. Con lui doveva entrare nel Vorwaerts tutto il gruppo degli Annali. L'11 maggio Heine vi pubblicava «L'Imperatore della Cina», a cui seguirono «Pacificazione, ai Principi Tedeschi» (1 giugno) e «Nuovo Alessandro» (16 giugno), dove metteva in ridicolo Federico Guglielmo IV. Il 19 giugno, rispondendo ad una critica della Deutsche Schnellpost di New York, Ruge faceva l'apologia dell'umanesimo, che, egli diceva, si proponeva di liberare l'uomo dalla schiavitù per mezzo di una organizzazione razionale del lavoro. Il 3 luglio, invitato da Boernstein a spiegare il suo disaccordo con Marx a proposito dei Diritti dell'Uomo, che lui difendeva e che Marx criticava, Ruge rispose affermando un'identità di vedute con Marx e dichiarando che i Diritti dell'Uomo, dopo essere stati proclamati dalla Rivoluzione e aboliti dalla Contro-Rivoluzione, avevano trovato nell'umanesimo la loro espressione più alta.

Alla fine di questo stesso mese, Ruge precisava la sua concezione dell'umanesimo in un articolo sulla riforma sociale intrapresa da Federico Guglielmo IV in seguito alla rivolta dei tessitori della Slesia ls). Spinti dalla miseria, 5000 tessitori slesiani, i cui salari erano discesi a pochi centesimi per giornate di 14 o 16 ore di lavoro, s'erano ribellati, e la loro ribellione era stata repressa sanguinosamente dalla truppa 19). Ma tuttavia la loro miseria aveva commosso la popolazione, e il re aveva invitato le autorità a creare società di beneficenza per venire in aiuto della classe operaia 20). Si trattava, comunque, soltanto d'un gesto, perché il comitato centrale di queste società, appena costituito, urtò nell'opposizione del governo che lo sospettava di tendenze rivoluzionarie.

Ruge, rispondendo ad un articolo apparso il 19 luglio sulla Riforma, il quale vantava il decreto reale come il preludio di grandi riforme sociali, diceva che, data l'arretratezza politica della Germania, la rivolta dei tessitori non usciva dal quadro d'un avvenimento locale, e che il decreto non aveva la portata che questo giornale gli attribuiva. Federico Guglielmo IV, facendo appello alla beneficenza pubblica, lungi dall'obbedire ad un sentimento di paura, come pretendeva La Riforma, mostrava semplicemente di considerare la miseria come una calamità naturale, analoga ad una carestia o ad una inondazione, e di pensare che fosse il caso di porvi rimedio con simili mezzi.

Da questa analisi Ruge concludeva che una rivoluzione sociale era impossibile senza un'educazione ed un'organizzazione politica, la quale soltanto avrebbe potuto scoprire e sopprimere la causa della miseria, che ai suoi occhi risultava dall'isolamento dell'individuo nella società.

Ruge aveva firmato questo articolo, come pure un articolo precedente, nel quale prendeva in giro, in modo del resto piuttosto banale, la famiglia reale prussiana, con lo pseudonimo: «Un prussiano»: ciò, essendo egli suddito sassone, Boernstein amburghese, e Bernays nativo del Palatinato, poteva far pensare che ne fosse autore Marx. Questi, a cui era già dispiaciuta la risposta di Ruge a Boernstein, nella quale si affermava una comunanza di idee che non esisteva più ormai tra loro, decise di rispondere a Ruge per metter le cose a punto e sottolineare l'opposizione irriducibile delle loro concezioni.

Questa replica usci col titolo di «Note marginali» nel «Vorwaerts del 7 e del io agosto.

Nella prima parte della sua risposta Marx confuta l'opinione di Ruge a proposito delle misure prese dal re per porre rimedio al pauperismo.

Queste misure, egli dice, si spiegano non con le condizioni arretrate della Germania o con la poca importanza che si è potuta attribuire alla rivolta dei tessitori, ma con la natura stessa del problema sociale. Noi vediamo infatti che in Inghilterra, che pure è un paese molto progredito dal

punto di vista politico, e nel quale, siccome la miseria degli operai ha un Carattere permanente e generale ed ha provocato rivolte da più di un secolo la questione del pauperismo si pone in un modo molto più acuto che in Germania, l'incomprensione del problema è altrettanto completa. I whigs attribuiscono il pauperismo al protezionismo, mentre i toryes ne vedono la causa nella concorrenza industriale, e gli uni e gli altri non hanno saputo trovare come rimedio alla miseria se non dei palliativi che non differiscono in nulla da quelli auspicati dal re di Prussia. Per attenuare il pauperismo, hanno fatto ricorso, dapprima alla beneficenza, poi, quando esso divenne un pericolo sociale, hanno represso per mezzo di regolamenti amministrativi la povertà come se fosse un delitto, istituendo delle «Case di lavoro» nelle quali i disoccupati sono condannati ai lavori forzati. Questa incapacità di porre un efficace rimedio al pauperismo, non è del resto cosa esclusiva dell'Inghilterra. Nel 1808, in Francia, Napoleone non riuscì se non a creare dei rifugi per i poveri, trasformati ben presto in penitenziari, e prima di lui la Convenzione non aveva ottenuto risultati migliori.

Questa incapacità dipende dal fatto che lo Stato, espressione e creazione della società, non la può trasformare radicalmente, ciò che avverrebbe se esso riuscisse a sopprimere il pauperismo. Perciò il rimedio proposto da Ruge, cioè l'educazione dei bambini poveri a cura dello Stato, si dimostra altrettanto utopistico quanto le altre misure di beneficenza, perché lo Stato, anche in questo caso, dovrebbe incaricarsi del mantenimento di questi bambini, e questo equivarrebbe all'abolizione del proletariato. I partiti polìtici, anche quelli radicali, e lo Stato, poiché non possono attribuire il pauperismo all'organizzazione sociale, sono naturalmente disposti a vedere in esso un fenomeno naturale, dovuto sia a determinati difetti degli individui (cattiva volontà dei poveri, mancanza di carità dei ricchi) sia a un accidentale cattivo funzionamento dell'organismo economico o amministrativo, al quale non si può porre rimedio.

Ne risulta che, contrariamente alle asserzioni di Ruge, più uno Stato è forte, più un paese è sviluppato dal punto di vista politico, meno esso è disposto a lottare contro la miseria, perché questa lotta implicherebbe la sua distruzione.

Nella seconda parte del suo articolo, Marx critica l'opinione di Ruge a proposito della funzione spettante all'azione politica.

Questa rivolta, dice Marx, lungi dall'essere un moto insignificante e d'importanza locale, è stato un avvenimento considerevole, soprattutto se si tiene conto del fatto che essa è scoppiata in un paese abituato ad un'obbedienza passiva, nel quale il governo aveva potuto, poco prima, sopprimere la libertà di stampa senza provocare la minima resistenza da parte della borghesia. Questa rivolta, sebbene sia la prima scoppiata in Germania, si distingue dai moti analoghi che hanno avuto luogo in Inghilterra ed in Francia per la consapevolezza con cui è stata condotta. Infatti i tessitori non si sono accontentati di rompere le macchine, causa immediata della loro miseria, ma hanno anche distratto i libri, titoli di proprietà, demolendo le basi stesse del capitalismo.

L'elevato grado di sviluppo intellettuale raggiunto dal proletariato tedesco è del resto testimoniato dal suo rappresentante più caratteristico, Weitling, che nelle Garanzie dell'armonia e della libertà supera di gran lunga tutto ciò che la borghesia scriveva quando lottava per la propria emancipazione. Se ne può trarre l'auspicio che il proletariato tedesco sia chiamato a divenire il teorico del movimento operaio internazionale.

La questione sociale, contrariamente a quanto Ruge sostiene, non potrà risolversi per mezzo dell'azione politica. Giacché lo spirito politico, come è mostrato dall'esempio della borghesia francese, nasce dalla prosperità economica, ed il suo sviluppo, lungi dal contribuire a svegliare nel proletariato la coscienza di classe, non fa che offuscarla; e lo provano le lotte sostenute al principio del secolo dal proletariato francese in favore della borghesia.

Soltanto nella miseria e ad opera della miseria sorge l'istinto di classe che spinge alla rivoluzione sociale, unica capace di abolire la miseria.

Ruge attribuisce la miseria e la rivolta al fatto che l'individuo è isolato, separato dalla collettività. Ed è giusto, ma per collettività non bisogna intendere, come fa lui, la collettività politica, il governo, lo Stato, bensì la collettività sociale. Questo isolamento dell'individuo, causato dalla cattiva organizzazione della società attuale, fondata sull'egoismo, è più intollerabile e più temibile dell'isolamento politico. La sua soppressione richiede una radicale trasformazione della società, le cui conseguenze sono incomparabilmente più importanti di quelle di una rivoluzione politica. Ciò spiega come un movimento sociale, una rivolta operaia, sia pure locale e parziale, abbia effetti più profondi ed una portata più generale che non una sommossa politica.

Marx ne conclude che è vano pretendere di subordinare, come vorrebbe Ruge, la riforma sociale all'azione politica, la quale porta a trasferire il governo dall'uno all'altro partito, a cambiare gli uomini che sono a capo dello Stato, senza modificare il carattere di questo. Ogni vera rivoluzione ha in realtà un carattere insieme politico e sociale; poiché, mentre da una parte rovescia il potere esistente, dall'altra distrugge l'antica organizzazione della società, che ricostruisce poi su nuove basi.

In questa controversia, e per quanto riguarda la sostanza stessa della disputa, cioè l'importanza che poteva avere la rivolta dei tessitori, aveva ragione Ruge. Infatti Marx esagerava la portata di questa rivolta, che in realtà era soltanto una ribellione locale provocata dalla miseria, quando le attribuiva un carattere cosciente. Come osservava Ruge in una lettera a Fleischer, questo moto non aveva né organizzazione né scopo politico e non poteva ottener altro che un ritardo dell'evoluzione sociale, riavvicinando la borghesia al governo reazionario; perciò era necessariamente destinato a fallire, come già era fallito il primo movimento liberale, quello della Burschenschaft.

Tuttavia, da questa analisi d'un episodio della lotta proletaria, Marx derivava le linee essenziali della politica comunista. Egli cominciava col respingere l'alleanza con la borghesia, implicitamente auspicata da Ruge. Non si lasciava affatto indurre in errore dalla debole reazione della borghesia di fronte alla rivolta dei tessitori, e prevedeva che l'agitazione operaia avrebbe indebolito l'opposizione tra le classi dirigenti, e attirato su di sé tutta la loro ostilità, non appena si fosse dimostrata potente e pericolosa. Contemporaneamente respingeva il socialismo di Stato, già esaltato come una panacea, dimostrando che lo Stato non potrebbe abolire la miseria senza sopprimere insieme l'organizzazione economica e sociale di cui esso è il prodotto. Criticava inoltre il comunismo utopistico, come quello di Cabet, che pretendeva che il regime comunista potesse instaurarsi senza rivoluzione, e nella concezione della rivoluzione si ergeva infine contro il blanquismo, contro la tattica delle cospirazioni, delle sommosse e dei colpi di mano, sostenendo che la rivoluzione liberatrice sarebbe nata proprio dalla miseria che avrebbe indotto la classe operaia a ribellarsi contro le sue condizioni di lavoro e di vita.

A questo articolo Ruge rispose con poche osservazioni insignificanti, e cessò di collaborare al giornale. Marx, dal canto suo, scrisse per il Vcrwaerts soltanto un altro articoletto in occasione dell'attentato di Tschecli contro Federico Guglielmo IV.

La ragione di ciò risiedeva nel fatto che durante questo periodo Marx era dietro a due grandi lavori che gli assorbirono tutto il tempo fino alla sua partenza da Parigi : il primo, rimasto allo stato di manoscritto, fu steso tra il marzo ed il settembre, e trattava di economia politica e di filosofìa; il secondo, la Sacra Famiglia, fu scritto in collaborazione con Fr. Engels.

Dopo gli articoli degli Annali franco-tedeschi, nei quali aveva posto il principio che la società dovesse riassorbire la propria essenza alienata nello Stato, bisognava ch'egli dimostrasse più precisamente in che modo si fosse prodotta questa alienazione, e in che modo dovesse essere eliminata. S'induceva così a studiare più attentamente l'organizzazione sociale dell'economia politica, che già aveva riconosciuta come l'anatomia della società.

Nella prefazione al secondo volume del Capitale, Engels dice che Marx cominciò a studiare i grandi economisti inglesi e francesi nell'estate del 1844; in realtà gli estratti delle sue letture e l'uso che egli ne fece allora provano che s'era messo a studiare questi autori già dalla primavera. Egli si dedicò a queste letture altrettanto profonde che vaste le quali comprendevano tutta l'economia politica, da Boiglelebert e A. Smith, fino a J. B. Say e a F. List, con un particolare interesse, ma cercandovi a priori una conferma della propria dottrina, per cui fin dall'inizio prendeva posizione contro l'economia classica, ispirandosi alle critiche che ne avevano fatto Engels ed Hess.

In un articolo sugli Annali franco-tedeschi: «Lineamenti d'una critica dell'economia politica», di cui Marx fece un'analisi minuziosissima, Engels, criticando tutti i sistemi economici che si fondano sulla proprietà privata., sia il sistema protezionista che il sistema libero-scambista, aveva dimostrato che in questi sistemi la produzione e gli scambi sono parzialmente governati dalla concorrenza, la quale da una parte ottiene l'effetto di viziare tutte le categorie economiche, commercio, valore, prezzo, e dall'altra, di separare il capitale dal lavoro, il produttore dal frutto della sua attività, e di ridurre in fin dei conti tutti gli uomini ad un'uguale servitù.

La concorrenza, fondando il commercio sul guadagno, fa di esso un furto legale, poiché il valore non corrisponde al prezzo. Infatti, in regime di concorrenza, il valore, invece di regolare il prezzo, ne è determinato, ed il prezzo stesso è fissato dall'azione reciproca della concorrenza e delle spese di produzione.

Queste comprendono, non solo la remunerazione del lavoro, ma anche quella del capitale, che in realtà non è altro che lavoro accumulato. Il capitale, prendendo la forma di interesse e di profitto, si oppone al lavoro, e priva il lavoratore del frutto della sua attività. Questi riceve soltanto un salario il cui ammontare è fissato dalla concorrenza, che fa dell'uomo una merce sottoposta come ogni merce alla legge dell'offerta e della richiesta. Se la concorrenza colpisce più duramente l'operaio, non risparmia però i capitalisti, che oppone gli uni agli altri. Le crisi, eliminando i più deboli, provocano una concentrazione delle ricchezze, e la progressiva sparizione delle classi medie, che finirà col lasciare gli uni di fronte agli altri milionari e proletari.

L'attività economica e l'organizzazione sociale non diverranno umane se non con la soppressione della proprietà privata e della concorrenza, e con l'istituzione d'un regime di produzione fondato non sull'attività industriale ed egoistica, ma sull'attività collettiva: e ciò sarà opera del comunismo.

Mentre Engels, criticando così l'insieme del sistema economico fondato sulla proprietà privata e sulla concorrenza, studiava, nelle diverse forme che l'attività privata riveste: commercio, prezzo, capitale, salario, gli effetti da essa provocati, Hess, in un articolo su «La natura del denaro», destinato originariamente agli Annali franco-tedeschi, e uscito nel 1845 sugli Annali renani, dimostrava che la proprietà privata si viene costituendo attraverso l'alienazione del lavoro umano e della persona umana nel denaro. La società attuale, fondata sull'egoismo, che crea la proprietà privata e la concorrenza, distrugge la vera natura dell'uomo, la sua natura sociale. In seguito ad un rovesciamento dell'ordine naturale delle cose, l'individuo costituisce un fine in sé, e la società è soltanto un mezzo di cui egli si serve per realizzare i propri disegni. Questo capovolgimento di cui è espressione teorica la religione, nella quale l'uomo, alienando la sua essenza in Dio, fa di questo lo strumento del suo Io egoista, trova la sua applicazione pratica nel denaro, che è costituito dall'alienazione del lavoro umano, divenuto una forza estranea, esteriore all'uomo. Nel mondo attuale il denaro costituisce l'unico valore, e rende schiavi tutti gli uomini, obbligandoli a vendersi per acquistarlo, sicché il loro valore corrisponde al prezzo per cui si vendono. Ciò spiega la schiavitù generale di tutti gli uomini, sia sfruttatori che sfruttati, tutti sottoposti al potere del denaro.

Per abolire questa schiavitù bisogna abolire l'egoismo e sostituirlo con lo spirito collettivo, con l'amore dell'umanità.

Ciò avverrà per opera del comunismo che, nato dalla grande miseria materiale e morale dell'umanità, creerà un ordine nuovo.

A queste critiche di Engels e di Hess si ispira Marx nel suo manoscritto Economia polìtica e filosofica.

In questo lavoro, che costituisce il seguito logico dell'Introduzione alla Critica della Filosofia del Diritto e del Problema ebraico, Marx studia il diritto, la morale e lo Stato non più nei loro rapporti con la società, ma nelle loro relazioni col fondamento di essa, cioè con l'organizzazione economica, e tende a dimostrare che l'economia politica dà la chiave di tutti i problemi morali, politici e sociali.

Alla base di questo lavoro c'è una critica della filosofia hegeliana e in genere di ogni ideologia che tenda, assorbendo la realtà nel pensiero, a far derivare l'evoluzione dell'umanità dallo svolgimento dello spirito. Hegel ha il grande merito di aver dimostrato che ogni svolgimento ha un carattere dialettico, si effettua per mezzo d'una alienazione e di una reintegrazione di ciò che è stato alienato, e si conclude con una sintesi dei contrari. così l'Idea si realizza esteriorizzando, alienando il proprio contenuto, la cui riassunzione o reintegrazione progressiva in se stessa, le dà coscienza di ciò che costituisce la sua stessa sostanza.

Con questa analisi dello svolgimento dell'Idea, che rappresenta l'evoluzione umana, Hegel ha giustamente dimostrato che l'uomo è il prodotto del proprio lavoro, e che questo lavoro consiste in un'alienazione della propria sostanza in un oggetto che appaia all'uomo come qualche cosa di esterno, di estraneo, e che egli in seguito assimila concependolo come espressione del proprio Io.

Ma in Hegel, ed è questo agli occhi di Marx il suo difetto fondamentale poiché il movimento, l'attività, il lavoro sono concepiti come svolgimento della coscienza in sé, dell'Idea, e non come attività concreta, reale, sensibile, dell'uomo, non c'è un vero e proprio svolgimento, e l'attività ha un carattere puramente formale.

Poiché solo l'Idea ha realtà, l'uomo diviene essenzialmente coscienza di sé, ed il prodotto della sua attività, l'alienazione della coscienza nell'oggetto e la reintegrazione di questo in essa, resta cosa astratta. Tra il soggetto e l'oggetto c'è, si, opposizione, ma nell'interno stesso della coscienza di cui essi rappresentano due diversi aspetti; ora, tutto lo sforzo di Hegel tende a sopprimere l'oggetto in sé, mostrando che esso si confonde con la coscienza, della quale è soltanto l'esteriorizzazione, la alienazione. Dal fatto che la dialettica dell'Idea, la quale esteriorizza e riassume per mezzo di essa la sua sostanza, costituisce da sola la vera vita, risulta, che l'attività dell'uomo è puramente spirituale e si compendia nel sapere. La natura del sapere, il quale ha coscienza che il proprio oggetto non ha realtà in sé, non essendo altro che l'alienazione di sé stesso, spiega le illusioni e le debolezze della speculazione.

La coscienza, il pensiero, ritrovando se stesso nella sua alienazione, pretende di costituire tutta la realtà. Essa è perciò meno colpita dalla propria alienazione in un oggetto che da quest'oggetto stesso, e da ciò consegue che nella propria reintegrazione tende meno a sopprimere l'alienazione, che in realtà è inesistente, che non l'oggetto. Invece di realizzare la sintesi del pensiero e dell'essere, essa giunge così alla negazione della realtà oggettiva, che reintegra in sé. La Coscienza, l'Idea, costituendo inizialmente tutta la realtà, non è suscettibile di svolgimento, e al termine della sua evoluzione, che assume la forma di una involuzione, si ritrova tale quale era in sé.

L'Idea, isolata dal mondo, resta vuota, e la Natura, perdendo, in quanto esteriorizzazione dell'Idea, ogni carattere concreto, è ridotta ad una pura apparenza.

Questa dottrina è stata criticata secondo due differenti punti di vista da B. Bauer e da Feuerbach.

Bauer, distruggendo la sintesi che Hegel aveva inteso istituire tra i pensiero e l'essere, e riducendo l'evoluzione dell'Idea concreta allo svolgimento della Coscienza, dell'Io, non ha fatto altro che aggravare, con un ritorno alla filosofia di Fichte, il carattere idealistico della filosofia hegeliana.

Invece Feuerbach ha superato questa filosofia dimostrando che essa non è altro che una forma razionale della religione, opponendo il reale, il concreto, che ha in se stesso la propria ragion d'essere, alla realtà hegeliana che, in quanto alienazione dell'idea, non ha un carattere proprio, e ponendo infine come oggetto del lavoro umano l'attività sociale.

Bisogna ispirarsi all'umanesimo di Feuerbach, dice Marx, e, rovesciando il sistema hegeliano, considerare l'attività umana, il lavoro, non come attività dello spirito, distaccata dalla vita reale e sensibile, ma come prodotto dell'uomo, che esteriorizza le sue forze, il suo io, negli oggetti che crea.

Il problema apparentemente insolubile dell'antinomia tra il pensiero e l'essere, il soggetto e l'oggetto, trova allora la sua soluzione. Una volta integrato l'uomo nella natura, ne deriva necessariamente che la sua attività acquista un carattere concreto, e che il soggetto, invece di essere, come per Hegel, attività pura, e di ridursi all'atto stesso in cui si pone, è costituito dalla soggettività delle forze umane, la cui azione, a motivo del risultato a cui giunge, ha un carattere obbiettivo. Perciò non esiste più un'opposizione tra soggetto ed oggetto, tra uomo e natura, ma una compenetrazione e una dipendenza reciproca, in quanto l'uomo diviene un prodotto della natura, e la natura un prodotto dell'uomo.

L'adattamento della natura ai bisogni dell'uomo costituisce la storia dell'umanità. Inizialmente l'attività umana è istintiva come quella dell'animale, e allora gli oggetti della sua attività esistono al di fuori e indipendentemente da lui, pur essendo tuttavia necessariamente legati al suo essere, poiché servono a soddisfare ai suoi bisogni. Ma l'uomo non è soltanto un essere naturale, è un essere naturale umano, che invece d'accettare, come l'animale, la natura tal quale gli si presenta, si sforza insieme di adattare sé ad essa ed essa a sé.

Questo doppio processo di adattamento costituisce l'oggetto del lavoro, dell'attività umana, della praxis, come dice Marx, che ne delinea per così dire il carattere e i modi su quelli del sapere nella dottrina hegeliana.

Il sapere è contemporaneamente soggetto ed oggetto. L'oggetto, cioè quel che è saputo; ma un oggetto, che in quanto oggetto ha un carattere esteriore, si confonde col soggetto, col sapere stesso, di cui non è altro che l'esteriorizzazione, l'alienazione. Poiché in questa alienazione il sapere, cosciente che il suo oggetto fa parte integrante di se stesso, lo sopprime in quanto oggetto.

Il lavoro, come il sapere, è costituito da un'alienazione del soggetto, ma quest'alienazione, invece di restare limitata al campo spirituale, d'essere senza oggetto reale, ha invece avuto l'effetto di creare degli oggetti esteriori, estrinseci all'uomo. Bisogna che l'uomo, dopo aver esteriorizzato la propria sostanza, la propria natura, riprenda in sé la propria essenza così alienata, per mezzo del gioco della dialettica.

A differenza di ciò che avviene in Hegel, questa riassunzione ha lo scopo di sopprimere non l'oggetto in quanto tale, ma l'alienazione, cioè il fatto che l'uomo consideri estraneo a sé il prodotto del proprio lavoro.

Si vede quindi come, ispirandosi contemporaneamente alla dialettica hegeliana e alla dottrina di Feuerbach, Marx si avvìi a fondare la sua concezione del materialismo storico e la sua dottrina comunista.

Nell'attuale organizzazione della società, il lavoro si esprime nella proprietà privata, la quale, separando l'attività del soggetto dal suo oggetto, costituisce un'alienazione della vita umana: famiglia, Stato, diritto, morale, non sono altro che espressioni particolari di questo modo di lavoro e di produzione nel quale l'uomo aliena la propria essenza, la propria sostanza. Nel lavoro avviene un'alienazione analoga a quella che si verifica nella religione, e la soluzione del problema teorico, posto da Feuerbach, cioè il ritorno dell'uomo alla sua vera natura, diviene così un compito dell'attività pratica, della «Praxis». Da ciò la necessità di passare dalla critica della filosofia speculativa, che rappresentava l'ultima forma dell'alienazione spirituale dell'essenza umana, alla critica dell'economia politica fondata sulla proprietà privata, espressione dell'alienazione reale, materiale dell'uomo.

In questa critica dell'economia politica, Marx s'ispira contemporaneamente a Engels — che aveva analizzato dal punto di vista comunista le diverse categorie economiche dimostrando che il regime capitalista doveva necessariamente portare, per effetto della concorrenza, ad un'organizzazione collettiva della produzione - e a Hess, il quale, con una prima analisi del meccanismo dell'alienazione in regime di proprietà privata, aveva dimostrato che il denaro, analogo in ciò a Dio, costituiva un'esteriorizzazione dell'essenza dell'uomo, al quale si opponeva come una forza esteriore. Il merito degli economisti moderni, e di A. Smith in particolare, dice Marx, consiste nell'aver fatto del lavoro il principio dell'economia politica, indicando nella proprietà, nella ricchezza, che per i mercantilisti si riassumeva nel possesso dell'oro, il prodotto dell'attività umana, dell'industria. La scuola fisiocratica di Quesnay segna la transizione tra il sistema mercantilista e quello di A. Smith, poiché considera non più l'oro, ma la terra, o piuttosto il lavoro della terra, dell'agricoltura, come il solo lavoro produttivo, la sola ricchezza. Il lavoro è ancora legato ad un elemento esteriore, ad una materia, e il suo prodotto dipende più dalla natura che dall'uomo; tuttavia questa dottrina segna un notevole progresso verso la soppressione del feticismo, cioè della credenza in un'esistenza obbiettiva della ricchezza. Muovendo da ciò, basta mostrare che il lavoro dell'agricoltura non è essenzialmente diverso dal lavoro dell'industria, per giungere alla conclusione che la ricchezza non è il prodotto di un lavoro particolare, legato ad un elemento esterno, ma di un lavoro considerato in sé.

L'errore degli economisti consiste nell'aver identificato il lavoro con la proprietà privata e nell'aver considerato il regime della proprietà privata come regime normale. Se infatti in regime di produzione collettiva, nel quale si traduce l'attività di tutta la specie, l'uomo, lavorando liberamente e coscientemente, fa della natura un'opera propria integrandosi in essa, diversamente accade in regime di proprietà privata, nel quale il lavoro si concretizza e si fissa in un oggetto indipendente dal produttore, costituendo cosi un'alienazione del lavoratore, che in essa si spoglia della propria sostanza.

Di questo lavoro alienato avviene ciò che si verifica nella religione; l'uomo, esteriorizzandosi in un oggetto indipendente da sé, s'indebolisce nella misura stessa in cui produce, e considera la propria attività come un'attività estranea a sé. Il lavoro separato dall'essenza dell'uomo, dalla vita collettiva, diviene uno strumento destinato a soddisfare bisogni individuali e fini egoistici, sicché, dopo aver privato l'uomo della sua sostanza del suo prodotto, lo rende servo di questo.

E infatti la proprietà privata, che è il risultato immediato dell'alienazione del lavoro, diventa il fondamento di un regime che obbliga gli uomini ad alienare la loro attività, il loro lavoro, rendendoli estranei gli uni agli altri, dividendoli in due grandi classi: salariati e capitalisti.

In regime di lavoro alienato, di proprietà privata, l'operaio che crea il capitale è, a sua volta, prodotto da esso, allo stesso modo e alle stesse condizioni che le merci, ed è quindi sottoposto alle stesse leggi da cui queste sono governate. Poiché l'operaio, considerato non in quanto uomo, ma in quanto produttore, ha esattamente il valore d'uno strumento di produzione, ed il suo salario rappresenta perciò la rimunerazione necessaria per assicurare la sussistenza sua e della sua famiglia.

Siccome l'operaio non dispone per vivere che della sua capacità di lavoro, la sua situazione è sempre tragica, perché egli deprezza e diminuisce sé stesso nella misura precisa in cui produce ed accresce, invece, la potenza del capitale. Ci sia prosperità o ci siano crisi, il risultato finale è sempre lo stesso per lui: cioè la miseria, che lo obbliga a vendersi, ad alienare la sua libertà e il suo lavoro, e a ridursi alla condizione d'una macchina, a tutto vantaggio del capitalista.

Il capitale è lavoro accumulato, che permette di comprare insieme il lavoro ed il prodotto del lavoro. Il guadagno che esso procura, il profitto, si distingue dal salario per il fatto che non è necessariamente il frutto d'un lavoro Solo il profitto unito alla sicurezza regola l'impiego dei capitali, e di conseguenza la produzione, senza tener alcun conto dell'utilità sociale.

II profitto è soggetto, come il salario, alla legge della concorrenza, che produce l'effetto di aumentare la concentrazione dei capitali e di eliminare i piccoli capitalisti.

La rendita è, meno ancora del profitto, un frutto del lavoro di chi la riscuote. Giacché essa dipende dalla qualità più o meno buona del suolo, ed il suo tasso è determinato dalla concorrenza tra il fittavolo ed il proprietario. Questa concorrenza provoca sempre una diminuzione dei salari degli operai agricoli, perciò sia la rendita che il profitto tendono ad abbassare le condizioni di vita dei lavoratori.

La differenza tra il profitto e la rendita si attenua a misura che la proprietà fondiaria perde il carattere individuale, personale, che essa aveva nell'organizzazione feudale. Divenendo la terra una merce come le altre, l'agricoltura si trasforma progressivamente in industria, e l'antagonismo tra il proprietario fondiario ed il capitalista scompare a misura che la proprietà fondiaria sottostà all'invadenza del capitale, che ha cominciato col rovinarne la potenza col sistema libero-scambista.

In regime di lavoro alienato, di proprietà privata, l'uomo, dipendendo dalle cose che crea, cade sotto il dominio del denaro in cui esse si incarnano, e che serve a soddisfare i suoi bisogni. Il denaro, indispensabile intermediario tra il bisogno ed il suo oggetto, tra la vita e i mezzi per vivere, ha il potere malefico di appropriarsi delle cose e di alienarle, conferendo questo potere a chi lo possiede. Da ciò deriva questa avidità, questa sete di denaro che determina l'infame sfruttamento dell'uomo da parte dell'uomo, e che obbliga l'uomo a ridurre sempre più i propri bisogni, che non ha mezzo di soddisfare. Ciò spiega l'elogio che l'economia politica fa dell'ascetismo e del risparmio, particolarmente in materia di procreazione, a proposito della quale predica l'astinenza come una virtù.

Questo regime, che degrada così gli uomini e li oppone gli uni agli altri, è destinato a perire.

Infatti, la legge che lo governa, la concorrenza, genera l'anarchia economica e le crisi, le quali hanno l'effetto di aggravare, eliminando i concorrenti più deboli, l'antagonismo delle classi, affrettando così la rivoluzione sociale.

A questa si giunge ugualmente per il contrasto tra lavoro e capitale. Il lavoro è originariamente l'espressione soggettiva della proprietà, ma si oppone a questa dal momento che essa prende la forma di capitale. Poiché quest'ultimo, separando il lavoro dal suo prodotto, lo esclude dalla proprietà, distaccandosi a sua volta dal lavoro che lo ha costituito; ne deriva così un'opposizione, una contraddizione, che può essere risolta soltanto con la soppressione della proprietà privata.

Si è tentato di porre rimedio ai difetti del regime di proprietà privata con riforme parziali tendenti a migliorare sia l'organizzazione del lavoro, che le condizioni del salariato. Ma queste riforme sono inefficaci, poiché lasciano sussistere il lavoro alienato, il quale può essere soppresso soltanto con l'abolizione radicale della proprietà privata. Questa abolizione sarà opera del comunismo, che emancipando il proletariato emanciperà l'umanità intera.

Il comunismo ha cominciato col voler generalizzare la proprietà privata ripartendola fra tutti, ma con ciò non la si sopprime, né si libera l'uomo dal dominio che le cose esercitano su di lui. Il difetto inerente a questo comunismo primitivo appare nella sua intenzione di istituire la comunanza delle donne, cosa che le ridurrebbe in condizione di schiavitù; infatti la misura in cui l'uomo, svincolandosi dall'egoismo, diviene un essere sociale, è indicata appunto dal grado di libertà a cui sono giunte le donne.

Poi il comunismo ha adottato la tesi della soppressione della proprietà privata, ma ha cercato, come ha fatto per esempio Cabet, di giustificare questa tesi appoggiandosi su forme particolari del passato. Ciò che costituisce in realtà la sua giustificazione è il divenire stesso della proprietà privata, la cui abolizione si avvererà attraverso un processo dialettico inverso a quello che l'ha istituita.

Con l'abolizione della proprietà privata e la soppressione di ogni alienazione, il comunismo segnerà il ritorno dell'uomo alla vita umana; poiché l'alienazione avviene contemporaneamente nel campo della coscienza ed in quello della vita concreta, l'emancipazione economica e sociale, cioè il comunismo, avrà come necessario corollario l'emancipazione religiosa, cioè l'ateismo.

Infine, il comunismo sopprimerà l'opposizione tra l'uomo e la natura, tra l'individuo e la società, integrandoli l'uno nell'altra. Nella società, comunista si produce infatti un'intima unione della natura e dell'uomo nel lavoro, nel quale l'uomo non è più separato dall'oggetto della sua attività. D'altra parte l'uomo, invece di obbedire a tendenze egoistiche ed individualiste, tende a dare alla sua attività intellettuale e materiale un carattere altruista e sociale.

Quest'opera fatta di critiche giustapposte piuttosto che coordinate, nella quale Marx si sforzava di applicare la dottrina di Feuerbach alla economia politica e di definire le diverse categorie di questa muovendo dal principio generale della proprietà privata, segnava già i caratteri essenziali della sua dottrina.

Il fenomeno di alienazione, denunciato da Feuerbach nella religione, è un fenomeno generale che caratterizza la vita moderna. L'alienazione dell'essenza dell'umanità in Dio non è altro che il riflesso spirituale dell'alienazione effettiva che si produce nell'attività materiale, nel lavoro. Questa conduce al regime di proprietà privata, al regno della concorrenza, al dominio del denaro, allo sfruttamento dell'uomo da parte dell'uomo, al trionfo dell'egoismo, e il risultato di questo regime è l'opposizione fra l'uomo e la natura, l'isolamento dell'individuo nella società.

La soppressione di questa alienazione deve essere opera dell'attività reale, pratica, dell'uomo, e non semplicemente del suo pensiero; per riassumere in sé la propria essenza, la sua stessa vita alienata nel lavoro e nel prodotto di esso, bisogna che egli trasformi le condizioni materiali che hanno reso possibile questa alienazione, bisogna che abolisca il regime di proprietà privata. Quest'opera non è un'opera arbitraria, dettata semplicemente dal suo desiderio e dalla sua volontà, ma è determinata dal divenire stesso di questo regime, che contiene in sé i germi della propria decomposizione e della propria trasformazione in regime comunista.

Questa evoluzione necessaria del regime economico, portando con sé la trasformazione dell'organizzazione politica e sociale e delle concezioni religiose e morali, costituisce il fondamento della dottrina materialistica della storia. La critica, che rimane in Marx un elemento essenziale del progresso, ha lo scopo di mostrare la via che l'evoluzione storica deve seguire, e di affrettare questa evoluzione, denunciando le contraddizioni economiche e sociali. Bisogna notare che la contraddizione è, nel suo spirito, ancora legata all'idea di un difetto morale che impedisca all'uomo la realizzazione dei suoi fini; perciò egli oppone alla realtà presente un'altra realtà conforme alla vera natura dell'uomo. Malgrado la sua apparenza obbiettiva, questo materialismo rimane dunque idealista per il fine che assegna implicitamente alla storia. Marx, tutto imbevuto della dottrina di Hegel, regola ancora l'evoluzione del reale in gran parte secondo quella dello spirito, ma respinge deliberatamente ogni idea di trascendenza, realizzando la sintesi del pensiero e dell'essere nell'attività umana, ed inserendo l'ideale dell'umanesimo nell'evoluzione della realtà economica e sociale.

Marx, conducendo vita ritirata, come durante il primo anno di dimora a Berlino, con cui questo nuovo periodo di crisi intellettuale presenta alcuni punti di contatto, non strinse molte relazioni a Parigi. Passando al materialismo e al comunismo, egli spezzava gli ultimi legami spirituali che lo univano alla Sinistra Hegeliana, e si distaccava non soltanto da Bauer e da Ruge, ma anche da Feuerbach, da Hess, e da tutti quelli che, interpreti delle aspirazioni della piccola borghesia, cercavano di salvaguardare contemporaneamente il principio di libertà e quello di uguaglianza, dando al problema sociale una soluzione consistente in un miscuglio di socialismo e di anarchismo.

Si era ormai distaccato del tutto da Ruge, il quale, irritato per la risposta che Marx gli aveva dato nel Vorwaerts, e indispettito nel vedere che la direzione del movimento Giovane Hegeliano gli sfuggiva completamente, si mostrava sempre più duro nei suoi giudizi su Marx e sul comunismo.

Anche le relazioni di Marx con Herwegh si rilassarono. Herwegh era come Ruge, un individualista preoccupato soprattutto della libertà, e condivideva l'opinione di Feuerbach intorno al comunismo, che riduceva ad una vaga aspirazione di solidarietà. Marx l'aveva difeso contro il severo giudizio di Ruge, ma era chiaro che questi non aveva avuto torto nel suo apprezzamento, perché Herwegh, non sapendo resistere alle seduzioni della vita parigina, dissipava il suo genio e perdeva la sua fede, né più avrebbe ritrovato gli accenti che avevano fatto di lui il poeta della gioventù liberale tedesca.

In tutt'altra maniera andavano le cose col suo grande rivale Heine, che proprio in quello stesso anno dava voce alle sue più belle ispirazioni rivoluzionarie. La sua poesia prese allora, indubbiamente sotto l'influenza di Marx, un carattere rivoluzionario quanto mai accentuato, come appare soprattutto nel suo poema satirico sulla Germania. Durante tutto il tempo della sua permanenza a Parigi, Marx fu in ottime relazioni con Heine, che frequentò la sua casa. In Marx, Heine ammirava anzitutto il pensatore rivoluzionario, al quale senza dubbio pensava quando, più tardi, rappresentava i capi comunisti come uomini energici e risoluti, che con una chiara visione dell'avvenire demolivano l'organizzazione sociale per edificare la vita futura. Stimava anche altamente lo scrittore, e sottoponeva volentieri i propri versi alla critica di Marx e della moglie di lui, della quale apprezzava moltissimo la sicurezza del giudizio e la finezza del gusto. Alcune poesie furono così il frutto di un'amichevole collaborazione, che del resto non era sempre stata troppo agevole, data la suscettibilità del poeta. Talora le parti si invertivano, ed era Heine che portava il suo aiuto alla giovane coppia. Eleanor Marx Aveling riferisce nei suoi ricordi che il poeta trovò un giorno Marx e la moglie disperati perché la loro figlioletta Jenny, che aveva appena qualche mese, era in preda a convulsioni. Heine preparò immediatamente un bagno caldo dove immerse la bambina, che così fu salva. Marx, che aveva una grande simpatia per Heine, scusava le sue debolezze e lo difendeva contro gli attacchi dei suoi nemici, dicendo che i poeti sono delle nature particolari che non si possono giudicare con gli stessi criteri con cui si giudicano gli altri uomini.

Nello stesso tempo in cui stringeva amicizia con Heine, Marx conobbe Bakunin e Proudhon, destinati ambedue ad avere un'importanza considerevole nella sua vita.

Incontrò Bakunin in casa di Boernstein, che lo aveva accolto da quand'era arrivato a Parigi in luglio. La camera di Bakunin serviva allora da luogo di ritrovo per i redattori del Vorwaerts, che vi si raccoglievano per discutere di politica e di socialismo. Nei primi tempi della sua permanenza a Parigi, Bakunin frequentò soprattutto Ruge; il quale però, siccome aveva trascurato di restituirgli una somma abbastanza considerevole avuta in prestito al principio del 1843, non avendo avuto fortuna nelle sue operazioni finanziarie con i Giovani Hegeliani, evitava ormai ogni relazione del genere con essi. Le loro conversazioni vertevano sul comunismo, al quale Bakunin era stato convertite da Hess, e dal quale Ruge cercò senza dubbio di distoglierlo, ma senza successo, perché Bakunin prese partito per Marx contro di lui.

Bakunin era proprio l'opposto di Marx: sempre in agitazione, pronto all'entusiasmo, disposto più a indulgere alla collera che alla riflessione, aveva un'intelligenza vivace, sebbene la sua mente non fosse altrettanto profonda quanto quella di Marx. In seguito egli precisò che cosa lo separasse da colui che doveva divenire il suo avversario implacabile, e che, sebbene più giovane di lui di quattro anni, gli sembrò lì per lì superiore per la maturità dello spirito e la ricchezza delle cognizioni. «Marx ed io», scrive in un manoscritto del 1871, «siamo vecchie conoscenze. L'ho incontrato per la prima volta a Parigi nel 1844. Allora io ero un emigrato. Fummo abbastanza amici. Marx era già molto più maturo di me, e del resto è anche oggi, non soltanto più maturo, ma incomparabilmente più colto di me. Allora io non sapevo niente di economia politica, non m'ero ancora liberato delle astrazioni metafisiche, ed il mio socialismo era un socialismo d'istinto. Lui, sebbene più giovane di me, era già un ateo, un materialista serio ed un socialista convinto. Proprio in quell'epoca egli elaborò i primi fondamenti del suo attuale sistema. Ci vedevamo abbastanza spesso, perché io lo rispettavo moltissimo per la sua dottrina e per la sua dedizione seria e appassionata, seppur mescolata di vanità personale, alla causa del proletariato, e cercavo avidamente la sua conversazione, sempre istruttiva ed arguta purché non si ispirasse a odi meschini, ciò che purtroppo avveniva molto spesso. Tuttavia non vi fu mai una schietta intimità fra noi. I nostri caratteri non erano fatti per intendersi. Lui diceva che io ero un realista sentimentale, ed aveva ragione: io dicevo che lui era un vanitoso perfido e sornione, e anch'io avevo ragione». Autoritario, vanitoso e perfido, ma anche superiormente intelligente e colto, ecco come Bakunin giudicò Marx sin dal primo incontro, e quest'impressione non doveva più cancellarsi in lui.

Bakunin per le sue tendenze intellettuali si avvicinava a Hess e cercava come lui di conciliare il comunismo e l'anarchia. Questa tendenza corrispondeva del resto al genere di vita ch'egli conduceva: era uno spostato, che simpatizzava con gli spostati, e in cui il sentimento di rivolta contro la società aveva un carattere piuttosto individualista che sociale.

Il suo comportamento, come quello di altri suoi compatrioti russi rifugiati a Parigi, era piuttosto equivoco. Infatti, nello stesso tempo in cui frequentava gli ambienti rivoluzionari, era ospite dei saloni aristocratici del boulevard Saint-Germain, ed Engels lo sospettò per un momento di fare il doppio gioco e di avere relazioni sospette con l'ambasciata russa.

Proudhon, che Marx conobbe presso a poco nello stesso tempo in cui conobbe Bakunin, teneva come quest'ultimo una posizione intermedia tra il liberalismo e il comunismo. Mentre Marx voleva distruggere l'ordine sociale esistente con una rivoluzione che, sopprimendo la proprietà privata, emancipasse non soltanto il proletariato, ma l'umanità intera, Proudhon, esprimendo le aspirazioni della piccola borghesia agraria da cui era uscito, come più tardi esprimerà quelle della piccola borghesia cittadina, era, malgrado le sue arie rivoluzionarie e il suo tono aggressivo, un conciliatore che cercava di adattare il presente stato di cose agli interessi delle classi medie. Per difendere queste ultime dall'espropriazione di cui erano minacciate dal capitalismo fondiario e industriale e dal socialismo, egli si poneva ad uguale distanza dalle dottrine estremiste, respingendo sia il sistema liberale che il sistema comunista.

Le sue critiche si rivolgevano contro la proprietà esclusiva e privilegiata che conferisce il diritto di godere e disporre delle cose nel modo più assoluto, e contro di questa lanciava il suo celebre motto : «La proprietà è un furto». Confutando gli argomenti derivanti dal diritto di occupazione, dal lavoro o dalla libertà, che si erano fatti valere in favore della proprietà, egli denunciava gli abusi di questa, a cui rimproverava in particolare di permettere che si godesse senza lavorare dei frutti del lavoro altrui, e che si accaparrassero i beni mobili e immobili riducendo così il popolo alla miseria.

Tuttavia Proudhon, pur muovendo da questa critica, non arrivava al comunismo, e non predicava affatto un'espropriazione generale, poiché riteneva che un regime di comunità dei beni fosse altrettanto nefasto ed ingiusto quanto quello della proprietà assoluta. Se si levava contro i redditi percepiti senza lavoro, non protestava però contro il principio stesso della proprietà individuale, e lungi dal volerla sopprimere, pretendeva invece di generalizzarla nella forma del possesso.

Egli concepiva il possesso come una proprietà relativa, limitata, subordinata al potere ed al controllo dello Stato. Il possesso, del quale faceva in sostanza una specie di sintesi della proprietà e della comunità, permetteva di evitare gli eccessi della grande proprietà, pur salvaguardando contro l'inerzia e il dispotismo della comunità, l'iniziativa e l'indipendenza del lavoratore. Nel possesso Proudhon realizzava l'ideale delle classi medie, che lottano contemporaneamente contro la feudalità capitalista che le schiaccia, e contro il comunismo egualitario che le sopprimerebbe.

Questa sintesi dell'individualismo, fondato sul principio di libertà, e del comunismo, fondato sul principio d'uguaglianza, consisteva in un equilibrio di principi antagonistici. Questo metodo di conciliazione, di accomodamento dei contrari, il quale tendeva a conservare il lato buono del regime di proprietà privata, che gli economisti avevano messo in luce, e a respingerne il lato cattivo, che i socialisti avevano criticato, s'avvicinava esteriormente alla dialettica hegeliana, di cui Proudhon discuteva allora lungamente con Marx.

In realtà esso ne costituiva la negazione, perché, scindendo il processo dialettico in un lato buono e in un lato cattivo, e facendo del lato buono l'antidoto dell'altro, Proudhon sopprimeva questo processo, il quale era appunto generato dal lato cattivo che egli avrebbe voluto sopprimere.

Ciò lo divideva da Marx, il quale pensava invece che la rivoluzione liberatrice non potesse nascere se non dall'accentuazione delle contraddizioni economiche e sociali.

Esistevano tuttavia tra di loro sufficienti punti di contatto per permettere di concludere un'alleanza sia pure momentanea. Infatti, nella dottrina di Proudhon, oltre alle critiche della proprietà, per le quali Marx considerava la sua dissertazione come il più eloquente manifesto del proletariato francese, si trovavano sia pure sparsi qua e là alcuni elementi di materialismo storico. Nella seconda delle sue dissertazioni egli dimostrava che l'economia politica era la molla della storia, e nella «Creazione dell'ordine nell'umanità» poneva il principio che le leggi economiche dirigono l'evoluzione sociale, concludendone che era vano voler imporre arbitrariamente delle riforme, come facevano gli utopisti.

D'altra parte egli insisteva sul carattere collettivo della produzione, e da questa constatazione derivava la sua teoria delle forze collettive, attraverso la quale si ricollegava in certo senso alla dottrina comunista.

Infine, un altro elemento ancora lo avvicinava a Marx. A differenza degli altri socialisti francesi, come Pecquer, Leroux e Cabet, Proudhon attaccava direttamente, la religione come ostile alla scienza e al progresso. Ma mentre Marx, considerando la religione come l'espressione ideologica della cattiva organizzazione sociale, trasformava la critica religiosa in una critica dell'economia politica, Proudhon si proponeva di sostituire il dogma religioso con un dogma nuovo, quello della scienza.

Così tra i vari teorici ed agitatori socialisti con i quali Marx aveva già stretto o stava stringendo relazione : Hess, Weitling, Bakunin e Proudhon, le tendenze anarchiche e socialiste si confondevano ancora, in maggiore o minore misura. Il compito di Marx doveva essere di chiarificare questo miscuglio confuso di ideologie liberali e comuniste, nel quale si riflettevano queste diverse tendenze, per mezzo d'una polemica con B. Bauer, che insieme a Stirner rappresentava la tendenza anarchica del movimento Giovane Hegeliano.

B. Bauer. dopo aver promesso a Froebel di collaborare agli Annali franco-tedeschi, aveva deciso di fondare per conto proprio una rivista, la Allgemeine Literaturzeitung. «Gazzetta letteraria universale», che pubblicò a Charlottenburg.. presso la casa editrice del fratello Egberto. In questa rivista, che cominciò ad uscire nel dicembre del 1843, egli si proponeva di denunciare la mediocrità e la retorica del liberalismo e del radicalismo del 1842, anno memorabile tra tutti, e che a suo parere aveva deciso il destino della Germania.

La facilità con cui la reazione aveva soppresso la libera stampa, l'indifferenza totale con cui il popolo, la «massa», aveva assistito a questo massacro dello «spirito», era per Bauer la prova che si era sbagliato strada e che ci si doveva incamminare su di una nuova via. L'evoluzione verso il comunismo, che si andava sempre più manifestando negli Annali franco-tedeschi, gli sembrava un insistere nel primo errore. I radicali, egli diceva, non avevano avuto né la volontà né il coraggio di lottare; da principio si erano rimessi al buon volere dello Stato, dal quale avevano sperato la realizzazione delle loro idee; poi, dopo gli scacchi subiti, avevano riposto le loro speranze nel popolo, nella «massa», e si erano rivolti al comunismo che, con la soppressione dell'egoismo e dell'individualismo, doveva trasformare la società in una vasta associazione monacale. Il leit-motiv dei suoi articoli nella Gazzetta letteraria universale, era costituito da una critica continua della «massa», a cui facevano coro tutti i suoi collaboratori. La «massa» era responsabile di tutti i mali presenti e futuri, ad essa si doveva il fallimento di tutte le nobili imprese, ed i1 fatto stesso che si entusiasmasse per un'impresa, era l'indizio più sicuro che questa non aveva alcun valore.

Bauer diceva che invece di allearsi, come i radicali, a questa massa incapace di comprendere le idee che costituiscono la sostanza della storia, bisognava staccarsi da essa, dai movimenti politici e sociali, dal liberalismo e dal comunismo. La salvezza è nel ritorno alla filosofia pura, alla teoria pura, alla critica pura, nel campo della quale è facile allo spirito esercitare la sua potenza sovrana e organizzare a suo piacimento il corso delle cose. Questa critica pura, questa critica «libera e umana», non deve abbassarsi a queste lotte volgari, che hanno lo scopo di difendere la costituzione, la sovranità popolare o la libertà di stampa.

Sicura fin dal principio della vittoria finale, essa deve dominare dall'alto le cose, e acquistare con un ritorno in se stessa una chiarezza ed una serenità che la renderanno invincibile. L'azione, ridotta così ad una contemplazione ironica, diviene agevole e priva di pericoli.

Bauer liquidava il liberalismo dicendo ch'esso era fondato sulla coscienza borghese, la quale, in quanto tale, si oppone alla pura coscienza dell'uomo. Il socialismo era considerato alla stessa stregua e criticato come una manifestazione particolare, e perciò stesso imperfetta, della coscienza.

Questa critica, sufficiente a se stessa, poiché, per confessione dello stesso Bauer, la sua forza le derivava dal non aver dottrina, in realtà non approdava a niente. Ciò spiega lo scarso successo della Gazzetta letteraria universale, che non trovò alcuna eco nella «massa» (cosa che del resto fu per i suoi redattori, se non un argomento di gioia, almeno un motivo d'orgoglio) e non riusci nemmeno a raggruppare intorno alla propria insegna tutti i «Liberi» di Berlino, i principali dei quali formarono un gruppo dissidente Sicché B. Bauer dovette accontentarsi di collaboratori piuttosto insignificanti, come Jungnitz e Szeliga , o come il rilegatore Reichardt , che attaccava in forme alquanto banali il liberalismo, ed il sarto Beck che faceva professione di poeta lirico a scapito della poesia; soltanto il fratello Edgard e Faucher avevano un certo valore.

Il gruppo dissidente, di cui facevano parte Koeppen, Bulli, Meyen e Stirner, pubblicò due riviste : la Berliner Monatsschrift, «Rivista mensile di Berlino» e i Norddeutsche Blatter, «Foglio della Germania settentrionale», accentuando ulteriormente la tendenza della «Critica pura» verso l'individualismo assoluto e l'anarchismo. Questo ebbe il suo teorico in Stirner, il quale, andando più in là di B. Bauer, nel suo libro L'Unico e la sua proprietà, pubblicato alla fine del 1844, sviluppò le conseguenze estreme dell'individualismo dei «Liberi».

Più logico di B. Bauer, il quale, pur essendo individualista, si sforzava di giungere ad una concezione dell'uomo in sé e della società considerata nella sua forma assolute, Stirner affermava che solo l'Io ha un valore assoluto per l'individuo, Perché costituisce la sua ragion d'essere, la sua proprietà, il suo mondo. Celebrando l'egoismo, respingeva tutto ciò che si oppone all'Io e al suo libero sviluppo pretendendo di imporgli obblighi e di subordinarlo ad un principio superiore. Nuovo iconoclasta, egli abbatteva tutti gli idoli, lo Spirito di Hegel, l'Essere collettivo di Feuerbach, il Liberalismo, che sottopone l'individuo allo Stato, il Comunismo, che lo assorbe nella società, e analmente la «Critica» di Bauer, che ai suoi occhi non era niente altro che una nuova incarnazione dello Spirito di Hegel. I suoi attacchi erano diretti particolarmente contro B. Bauer, contro il socialismo, al quale rimproverava di sacrificare ad una entità astratta la società e gli individui che la compongono, nei quali essa in realtà si risolve.

La retorica vuota e inconsistente sulle funzioni della critica, la facile ironia nei confronti delle lotte politiche e sociali, culminavano così nell'apologia e nel culto esclusivo dell'Io, e in sostanza mascheravano l'assoluta incapacità di questi intellettuali ad agire.

Davanti al pericolo dell'azione politica questi rivoluzionari da tavolino si rifugiavano prudentemente nella torre d'avorio della critica pura, da dove potevano decretare a loro agio la distruzione del reale, senza rischi per sé né danni per esso.

In realtà la critica pura con suoi attacchi contro il liberalismo e il socialismo, sotto apparenze ultrarivoluzionarie, serviva la reazione. Così, per esempio, B. Bauer sosteneva contro i liberali di Koenigsberg che non si potesse opporre il popolo al governo, nel quale, egli diceva, esso era incluso. Koeppen, dal canto suo, approvava la censura, la quale, ponendo un freno alla critica radicale e grossolana, obbliga lo scrittore a dare ai propri pensieri una forma disinvolta e ricca di sfumature. Condannando perciò la lotta contro la censura, egli sosteneva che ci si potesse piegare senza sforzo di fronte ad essa, quando si fosse compreso a quali necessità rispondesse. Del resto, sia lui che i suoi amici vi riuscivano così bene, che il censore doveva riconoscere che questa stampa non presentava alcun pericolo per il governo. La critica pura che, distaccata da ogni realtà, si librava per così dire nell'assoluto con un sentimento d'ironia e di pietà per tutte le contingenze, era proprio la negazione di tutti gli sforzi intrapresi fino ad allora per adattare la dottrina hegeliana alla realtà concreta e darle un contenuto rivoluzionario. Con un procedimento inverso a quello di Feuerbach, di Engels e di Marx, che trasformava il movimento filosofico in un movimento sociale, B. Bauer e i suoi amici, innalzandosi alla critica pura, assoluta, creavano un umanesimo spiritualista che segnava un ritorno all'idealismo trascendentale di Fichte.

Marx non ammetteva questa abdicazione dello spirito davanti alla forza, e questo isolamento che, volendo essere altero e superbo, era in realtà impotente e sterile. Lungi dal pensare che lo spirito dovesse tenersi in disparte dalle lotte politiche e sociali col pretesto che non erano guidate dalla ragione, egli credeva invece che una dottrina, un pensiero, avesse valore e forza reale soltanto se penetrasse nella massa per guidarne l'azione.

Se già aveva rimproverato ai «liberi» la loro tendenza ad isolare la critica religiosa dalla critica politica e sociale, ora che riteneva ormai terminato il compito della critica filosofica, la quale doveva far posto all'azione sociale, sentiva di dover condannare con anche maggior vigore questa nuova forma di critica, questa «critica critica» che non aveva alcun fine che soddisfare a se stessa; e che, per così dire, funzionava a vuoto.

Già nel suo articolo sugli Annali franco-tedeschi intorno alla Filosofia del Diritto, dopo la pubblicazione dei primi numeri della Gazzetta letteraria universale, Marx aveva espresso la sua intenzione di criticare la tendenza di B. Bauer e dei suoi amici. Fu incoraggiato in questo progetto da G. Jung, antico accomandatario della Gazzetta renana, che s'era assunto l'incarico di vendere in Prussia gli esemplari degli Annali franco-tedeschi che Ruge aveva dato a Marx in pagamento di ciò che gli doveva.

Nella sua corrispondenza con Jung, che gli mandava regolarmente la rivista di Bauer, Marx gli comunicava le critiche che la lettura di questa rivista gli suggeriva, e Jung, riprendendo e riassumendo queste critiche in una lettera del 31 luglio 1844, lo invitava vivamente a pubblicarle. «Le invio sotto fascia per posta i n. 5, 6 e 7 della Gazzetta letteraria universale. Le Sue osservazioni su Bauer sono giustissime, ma sarebbe bene che Lei ne facesse argomento di una critica su qualche giornale tedesco, soprattutto per indurre Bauer a uscire dalla sua misteriosa riservatezza. Infatti egli non ha espresso finora nessuna opinione precisa su nessun argomento, poiché secondo lui il compito della critica consisterebbe nel comprendere il reale. Egli ci rende quanto mai agevole questo compito mostrando a nudo con un sorriso sardonico le contraddizioni che scopre nel reale, dopo di che si allontana con aria di gran mistero. Naturalmente non è difficile attuare in questo modo l'impresa di cui tanto si vanta, di scrivere cioè sotto la censura prussiana. Il modo di procedere dei fratelli Bauer diventa addirittura meschino quando si mettono ad analizzare secondo il

loro costume il parere della facoltà di filosofia su Nauwerk, e altre cose del genere, nelle quali le contraddizioni saltano agli occhi del primo venuto. È vero che se volessero tentare di risolvere le contraddizioni, verrebbe subito a mancar loro quel particolare talento di cui tanto si vantano, cioè di saper scrivere sotto la censura, ed il cammino dell'esilio, indicato dai postiglioni, resterebbe così la sola via che si offrirebbe loro. Bauer è talmente preso da questa sua mania per la critica, da scrivermi recentemente che non si deve criticare soltanto la società, i privilegiati, i proprietari, ma anche, cosa di cui nessuno s'era accorto finora, i proletari, come se la critica dei ricchi, della proprietà, della società, non derivasse dalla critica del proletariato, dalla critica della condizione inumana ed indegna nella quale esso vive. Mi scriva su ciò che ritiene sia il caso' di fare contro B. Bauer; se Lei non ha voglia di dedicare del tempo a questa critica, Hess ed io ci proponiamo di utilizzare le sue lettere per farne un articolo di giornale».

Una circostanza fortunata doveva presto permettere a Marx di porre in esecuzione il suo progetto. Alla fine d'agosto Engels, di ritorno dall'Inghilterra, si fermò a Parigi, dove restò fino al io settembre, e strinse relazione con Marx, che era allora solo, poiché la sua giovane moglie era andata in Renania a far conoscere ai genitori la loro prima figlia.

Il primo incontro tra Marx ed Engels risaliva al novembre del 1842; siccome allora Engels faceva parte dei «liberi», coi quali Marx aveva rotto le relazioni, fu accolto piuttosto freddamente, e la loro conversazione fu priva di cordialità. Ma nel frattempo l'evoluzione delle loro idee li aveva riavvicinati: essi si resero conto di essere arrivati alle stesse conclusioni comuniste, di essere d'accordo sia sullo scopo da perseguire che sui mezzi per raggiungerlo, e di poter ormai fare la strada insieme. Da quel momento conclusero una stretta alleanza, che gli anni dovevano rendere ancora più stretta, e che doveva rivelarsi tanto più feconda quanto più felicemente le loro qualità e le loro tendenze si integravano.

Engels aveva più equilibrio di Marx, più armonia, una maggiore capacità d'adattamento e d'assimilazione. Sapeva cogliere rapidamente l'essenziale nel complesso groviglio dei fatti politici, economici e sociali; ma si trattava in lui più che altro d'intuizione, e non sapeva in seguito sviluppare ed approfondire come Marx il suo pensiero in modo sistematico. Marx fornito di una più vasta cultura filosofica, andava più a fondo nelle cose ma la sua capacità d'analisi era così grande che non gli consentiva di giungere rapidamente alla sintesi. Il suo spirito penetrava come un succhiello nella massa complessa e contraddittoria delle idee e dei fatti, aprendosi inflessibilmente la via verso la meta che la logica gli additava.

La loro differente maniera di trattare i problemi si rifletteva nel loro stile. Quello d'Engels, sciolto e naturale, era la perfetta espressione d'un pensiero chiaro e lineare. I periodi lenti e complicati di Marx testimoniavano invece una ricchezza d'idee che arrivava solo con difficoltà a chiarezza d'espressione; ed egli usava volentieri la forma dell'epigramma e dell'antitesi perché gli consentivano di fissare solidamente un pensiero elaborato con lentezza e talvolta con fatica.

Partiti tutti e due dallo hegelismo, erano stati guidati verso il comunismo dall'umanesimo di Feuerbach; ma mentre Marx vi giungeva attraverso la critica della filosofia e della politica, Engels vi giungeva attraverso la critica dell'organizzazione economica e sociale.

Se Marx aveva esposto con altrettanta precisione che forza il modo in cui il comunismo si sviluppa dall'umanesimo, il contributo di Engels all'elaborazione della loro dottrina non era stato meno considerevole e meno prezioso, ed in materia di economia politica, la quale, a partire da questo momento, doveva costituire la parte essenziale della loro dottrina, Engels era il maestro e Marx il discepolo.

Durante questo incontro, uno dei primi argomenti delle loro discussioni fu senza dubbio l'evoluzione diametralmente opposta alla loro che aveva seguito B. Bauer, e che questi del resto sottolineava in un articolo dell'ultimo numero della Gazzetta letteraria universale, nel quale rimproverava al radicalismo politico e sociale di affondare sempre più nella «massa» e di allearsi con essa contro la critica. Marx ed Engels decisero di rispondere subito al loro amico di una volta. Engels buttò giù in poche parole quello che aveva da dire, lasciando la cura di portare a termine questo lavoro di critica a Marx, il quale, di quello che originariamente doveva essere soltanto un articolo polemico, fece un'opera di più di venti fogli. La dottrina di Bauer non costituiva in sé e per sé un pericolo troppo temibile e non valeva la pena di attribuire tanta importanza ad un avversario che conduceva un'esistenza oscura e che era destinato a morire prima ancora che i colpi destinatigli lo avessero colpito. Ma, combattendo questa parodia dell'idealismo speculativo e l'idealismo speculativo stesso, Marx liquidava per così dire il proprio passato e coglieva l'occasione per precisare la dottrina che stava elaborando, opponendo a ciascuna delle tesi di Bauer la tesi contraria del materialismo storico.

Il titolo originario del libro «Critica della critica critica» sottolineava la nullità e il vuoto della critica di Bauer, la cui attività era fine a se stessa. L'editore propose a Marx, che accettò, di farne un sottotitolo, e di dare al libro il titolo più suggestivo «La sacra famiglia», appellativo col quale Marx ed Engels designavano comunemente B. Bauer e i suoi amici; i quali, dopo aver, per così dire, canonizzato lo Spirito, la Coscienza, lo avevano trasformato in una potenza trascendentale, la «Critica», incarnata nei pochi individui che formavano il loro gruppo.

Il libro si apre con alcune scaramucce di Engels contro i collaboratori di B. Bauer, Reichardt, Jungnitz, Faucher ed E. Bauer.

Nel primo capitolo egli regolava con poche parole i conti col rilegatore Reichardt, artigiano ignorante, che nel gergo della «critica critica» aveva parlato del tema allora di moda, il pauperismo, per fare l'elogio della bontà del re. Poi Engels se la prendeva con una comparsa dotata di una uguale apertura di mente, Jungnitz, che si era affannato a stabilire una differenza tra la revoca del professore liberale Nauwerk, avvenuta in marzo, e quella di B. Bauer, che la Gazzetta letteraria considerava come l'avvenimento principale del secolo. Engels dimostrava che questa revoca era la logica conseguenza di quella di Bauer, e non faceva altro che confermare l'incompatibilità tra lo spirito liberale e l'insegnamento prussiano.

Nella sua critica di Faucher e di E. Bauer, che erano gli avversari più degni, Engels affrontava questioni di maggiore interesse. Julius Faucher, che egli poteva considerare come il proprio rivale diretto, in quanto era come lui specialista di questioni economiche e sociali inglesi, studiando in due articoli le conseguenze della soppressione dei diritti doganali sul grano e della legge sulle dieci ore di lavoro, sosteneva che questa soppressione avrebbe portato con sé un abbassamento dei salari: egli forniva un primo esame della legge di bronzo dei salari e presentava la legge sulle dieci ore di lavoro come una mezza misura incapace di ovviare alla miseria. Engels, approfittando di qualche errore di traduzione, che era in grado di ben giudicare, sosteneva contro Faucher, del resto non senza una certa incoerenza, poiché egli stesso non credeva all'efficacia delle riforme parziali, che la legge sulle dieci ore di lavoro era un provvedimento rivoluzionario che assestava un colpo vigoroso al regime industriale e commerciale inglese. Engels esponeva il tema generale della Sacra Famìglia in una critica su E. Bauer, il quale in un articolo su Flora Tristan e l'Unione operaia aveva preteso di sostenere che l'operaio fosse meritevole della sua sorte perché il suo lavoro restava isolato, e s'era levato contro l'organizzazione del lavoro predicata appunto da Flora Tristan. Questa incoerenza e questa incapacità di approdare ad un'azione caratterizzavano agli occhi di Engels la Critica critica, la quale era condannata a rimanere sterile, perché, opponendo lo spirito alla massa, separava l'attività spirituale dalla realtà concreta, arrivando a giustificare l'attuale stato di cose. La Critica critica, facendo, come Hegel, della storia una specie d'entità che serve all'uomo per realizzare i suoi fini, segnava un arretramento rispetto a Feuerbach, che aveva dimostrato la vacuità di tutte le astrazioni e posto .il principio che la storia è costituita dall'attività concreta dell'uomo.

Questa critica astratta, senza alcun contatto col reale, era incapace di dirigere l'evoluzione dell'umanità, malgrado le pretese in contrario di Bauer. Questo compito toccava ormai al comunismo, la cui critica, unendo il pensiero all'azione, tendeva a precipitare la trasformazione della società rivelandone le contraddizioni.

Questa è l'idea centrale che Marx svolge in una serie di osservazioni critiche su Edgard e Bruno Bauer e su Szeliga. Per dare alla sua critica una solida base, egli utilizza e sviluppa lo studio che già aveva compiuto sulla «mistificazione» hegeliana nella sua Critica della filosofia del Diritto, mostrando che la Critica critica non è altro che l'ultima forma, ed in certo modo la caricatura, della filosofia di Hegel.

In una analisi penetrante e piena di spirito egli svela il mistero della costruzione speculativa a cui ogni ideologia si applica. Se si riduce, egli dice, i diversi frutti, mele, pere, etc, al concetto di frutto, e si pensa che questo concetto esistente al di fuori di essi ne costituisca l'essenza, si fa di questo concetto la «sostanza», e della mela o della pera, dei semplici modi di esistere del frutto. Ciò che vi è di essenziale nella mela o nella pera, non è dunque più il loro essere reale e concreto, ma l'entità astratta che è stata sostituita ad esse. I frutti reali e particolari non sono ormai altro che frutti apparenti, la cui vera essenza è nella sostanza, nel frutto. Dopo aver così impoverito il sapere riducendolo alla parola «frutto», la speculazione deve, per arrivare all'apparenza d'un contenuto reale, retrocedere da questa sostanza, da questa entità, ai frutti veri e pro-in forme differenti ciò che è contrario all'unità della sostanza, del frutto non altrettanto facile è arrivare ai frutti reali partendo da questo concetto senza rinunciare all'astrazione, come vorrebbe fare la filosofia speculativa, che vi riesce però soltanto in apparenza. Essa dice infatti che se i frutti, i quali non esistono in realtà se non in quanto sostanza, appaiono in forme differenti, ciò che è contrario all'unità della sostanza, del frutto, gli è perché il frutto, considerato come sostanza, non è un'entità senza vita, ma un essere vivente, e le varietà dei frutti non sono altro che espressioni diverse d'una stessa essenza, d'una stessa sostanza. I frutti reali, pere, mele, etc, non sono altro che il diverso grado dello svolgimento del concetto di frutto, che costituisce la totalità dei frutti.

La speculazione filosofica, dopo aver ridotto gli oggetti ad una sostanza, li ricrea partendo da questa sostanza, e facendo di ciascuno di loro la incarnazione di essa. Ma questi oggetti reali non sono altro che apparenze, modi d'essere d'un concetto astratto, la loro qualità essenziale non è la loro qualità naturale, e il solo interesse che essi presentano consiste nel rappresentare e costituire un'esteriorizzazione del concetto, un grado necessario della sua evoluzione.

L'uomo comune non crede di afferrare nulla di straordinario se dice che esistono delle mele e delle pere; ma il filosofo, esprimendo speculativamente questa loro esistenza, fa un miracolo: da un'entità razionale, irreale, il frutto, ha prodotto entità naturali, reali, le mele e le pere. In altri termini, dalla propria intelligenza astratta, che egli rappresenta a sé stesso come un soggetto assoluto, al di fuori di sé, in questo caso il frutto, egli ha derivato questi frutti, ed in ogni esistenza che enuncia, compie un atto creatore.

Evidentemente il filosofo speculativo non può compiere questa creazione continua in altro modo che intercalandovi le proprietà riconosciute da tutti come appartenenti realmente agli oggetti che egli crea, dando cioè i nomi delle cose reali alle forme razionali astratte, e dichiarando infine che la propria attività, per mezzo della quale egli passa per esempio dalla rappresentazione mela alla rappresentazione pera, è l'attività stessa del soggetto assoluto, cioè del frutto. Compiere questa operazione significa comprendere la sostanza come soggetto, come processo interiore, come persona assoluta, ed in ciò consiste il carattere essenziale della speculazione hegeliana.

Questo falso idealismo, consistente nel ridurre così la realtà al pensiero, ha raggiunto il suo punto culminante con la Critica critica, la quale sostituisce al mondo reale un mondo puramente immaginario, alla storia umana una vasta fantasmagoria. La filosofia hegeliana aveva, se non altro, il merito di mescolare tanti tratti reali alle costruzioni speculative, che poteva sembrare che l'evoluzione dell'idea si confondesse con quella della realtà, mentre la Critica critica, separando l'idea dall'oggetto, opponendo lo spirito alla realtà, mette in evidenza tutta la nullità della costruzione speculativa.

Questa erronea concezione della natura e dell'evoluzione del reale, e della funzione dello spirito in questa evoluzione, spiega la falsità dei giudizi che Edgard e Bruno Bauer e Szeliga hanno dato sui diversi argomenti da loro affrontati, e che Marx fa notare opponendo ad essi le sue concezioni materialistiche e comuniste.

E. Bauer aveva rimproverato a Proudhon di essere un utopista. Di partire da un'idea assoluta, dall'idea di Giustizia, e di procedere secondo la maniera dei teologi, che oppongono Dio al mondo, per condannare in nome di questa idea la società attuale fondata sull'ineguaglianza sociale. Da ciò, diceva Bauer, Proudhon è stato indotto a prender partito per la povertà contro la proprietà privata, che considera come la causa dell'ineguaglianza sociale, invece di ricercare i legami che uniscono necessariamente la povertà alla proprietà, e di vedere in essa due aspetti d'uno stesso fenomeno sociale.

Del resto, il diritto al possesso, che Proudhon giudica legittimo, a differenza del diritto alla proprietà, non può fondarsi sul principio d'uguaglianza più che non lo possa il primo. Poiché, ciò che nel possesso veramente interessa, è che lo si possieda esclusivamente senza dividerlo con altri; se c'è uguaglianza assoluta, il possesso non ha più alcuna attrattiva. E del resto questa uguaglianza è chimerica, perché il lavoro, con la sua ineguaglianza, tende necessariamente a distruggerla.

Nella sua risposta a questa critica, Marx difende Proudhon contro E. Bauer, pur mostrando i difetti e le insufficienze della dottrina proudhoniana.

Lungi dall'essere un utopista, Proudhon ha derivato il suo sistema da uno studio critico della proprietà privata, principio fondamentale dell'economia politica classica. Dimostrando che la proprietà privata è la causa di tutti i mali sociali, denunciando la contraddizione esistente tra la giustificazione teorica della proprietà e le sue conseguenze pratiche, tra la dottrina e la realtà economica, egli ha fatto tutto ciò che la critica può fare ponendosi sul terreno dell'economia politica classica. Il suo errore consiste nel non aver spinto fino alle estreme conseguenze la critica della proprietà privata, e nell'aver creduto all'eternità delle categorie economiche, valore, commercio, salario, prezzo, denaro, invece di dimostrare, come aveva fatto Engels, che esse non sono altro che forme diverse della proprietà privata.

Poiché, d'accordo in ciò con gli economisti, egli attribuisce i mali sociali non alla natura stessa della proprietà privata, ma ad alcuni dei suoi caratteri, non ha saputo trovare la soluzione del problema sociale al di fuori di essa. Egli si propone, sì, di sopprimere uno stato di cose che obbliga l'uomo a vendersi, ad alienare la sua attività ed il suo lavoro, e nel quale chi non possiede nulla non è nulla; ma siccome mantiene il principio fondamentale dell'economia politica e sostiene la necessità di conservare una certa forma di proprietà privata, la riassunzione da parte dell'uomo della sua natura alienata si effettua in lui non mediante la soppressione totale della proprietà privata, mediante il comunismo, ma per mezzo della creazione di una nuova forma di proprietà, il possesso: l'alienazione è soppressa, ma nell'ambito dello stesso ordine di cose nel quale si era verificata.

Non essendo riuscito a superare il punto di vista dell'economia politica classica, Proudhon non è stato neanche in grado di dimostrare che lo svolgimento politico e sociale è determinato dall'opposizione tra ricchezza e povertà, tra borghesia e proletariato. Invece di prendere in considerazione, come fa lui, uno solo degli effetti della proprietà privata, cioè la miseria di cui essa è causa, bisogna considerare la ricchezza e la miseria come due aspetti, due lati di una stessa realtà. Il lato positivo della proprietà privata tende a mantenerla, il suo lato negativo tende a sopprimerla: i possidenti costituiscono il partito della conservazione, i proletari quello della distruzione. Creando la classe dei proletari, la proprietà privata si distrugge da sé senza volerlo, perché il proletariato ha il compito di eseguire la sentenza che la proprietà privata pronuncia contro sé stessa promuovendo la miseria. Se i comunisti attribuiscono al proletariato questo compito di liberazione, non è, certo, come pensa la critica critica, perché essi lo deifichino, ma perché il proletariato, ridotto ad una condizione inumana, non può liberarsi senza sopprimere la società attuale; l'organizzazione sociale stessa determina la sua azione. Il merito di Proudhon resta quello di aver impostato rettamente il problema sociale. Infatti egli ha, da una parte, dimostrato che il lavoro, l'attività umana, è la sola misura di valore, l'elemento essenziale della produzione, mentre gli economisti attribuiscono al capitale ed alla proprietà fondiaria una funzione di uguale importanza. Dall'altra, egli considera a ragione il problema sociale come un problema pratico e non come un problema teorico, perché pensa che non sarà mai possibile trasformare la società col semplice mezzo del ragionamento. Proudhon, e i proletari con lui, avvertono tutta la differenza che separa il pensiero dall'essere, e ritengono che la proprietà debba essere soppressa non soltanto nello spirito, ma anche nella realtà. La Critica critica, che si libra al disopra dei bisogni umani, si contenta di sopprimerla nell'astrazione, e, riducendo l'attività umana al pensiero, crede di poter rigenerare il mondo col miracolo della speculazione.

Questa orgogliosa indifferenza nei confronti della realtà spiega la concezione che la Critica critica ha della storia. Per B. Bauer l'opposizione tra lo «spirito» e la «massa» costituisce la chiave della storia, la quale, per realizzarsi, non può rivolgersi alla «massa», cioè all'uomo concreto, perché la «massa» ha sempre fatto fallire le grandi azioni, tutte le volte che ha riposto in esse il proprio interesse. L'evoluzione storica si effettua soltanto nello spirito e ad opera dello spirito.

Questa concezione della lotta tra lo spirito e la massa, dice Marx non è altro che una nuova forma della concezione hegeliana o cristiana che oppone lo spirito alla materia, Dio al mondo. Anzi, Bauer aggrava l'idealismo hegeliano, nel quale se non altro lo Spirito assoluto s'incarna nella massa e si realizza per opera sua, mentre la filosofia si contenta di esprimere l'evoluzione dello Spirito, dopo che si sia realizzata. Per lui, lo Spirito assoluto, che si confonde con la Critica, costituisce l'elemento attivo e vivente che, al di fuori della massa inerte e passiva a cui si oppone, determina il corso della storia.

La falsità di questa concezione appare dai giudizi che B. Bauer pronuncia sul radicalismo, la Rivoluzione francese ed il socialismo.

A proposito del problema ebraico, opponendo per la prima volta lo spirito alla massa, egli si schiera contro il radicalismo, predicando la libertà spirituale, la libertà teorica che non tien conto della realtà.

Il radicalismo respinge a ragione questa emancipazione teorica come illusione, e persegue invece la realizzazione effettiva e concreta della libertà ad opera della rivoluzione sociale; giacché le idee possono soltanto sostituire altre idee, e non sono capaci di cambiar nulla per virtù propria dell'ordine delle cose. Per essere efficaci, per agire sulla realtà, esse devono integrarsi nella massa e dirigerne l'azione.

Questa fede illusoria nel potere delle idee ha distolto Bauer dall'analisi della natura reale e concreta degli avvenimenti storici, e spiega il suo giudizio sulla Rivoluzione francese.

Egli ne attribuisce il fallimento allo sviluppo dell'individualismo e si adopera a dimostrare che la caduta di Robespierre è dovuta all'antagonismo tra la sua concezione della giustizia e della virtù, e l'atomismo egoistico degli individui, che egli aveva cercato di controbilanciare col potere dello Stato.

Non si capisce, dice Marx, come si possano paragonare gli individui ad atomi, dato che essi non esistono indipendentemente dalla società; difatti essi hanno interessi comuni che li rendono solidali gli uni con gli altri, e perciò il loro legame è costituito dalla società e non dallo Stato, che, lungi dal regolare la vita sociale, come pensa B. Bauer, è determinato da essa. D'altra parte la caduta di Robespierre e di Saint-Just si spiega non coll'opposizione tra il loro ideale di virtù e l'egoismo popolare, ma col fatto che essi confondevano, nella loro concezione dello Stato, la democrazia antica fondata sulla schiavitù, con la democrazia moderna fondata sul salariato, sulla schiavitù emancipata. Essi, dopo aver formulato i principi dell'età moderna nei Diritti dell'Uomo, hanno commesso l'errore di aver voluto regolare l'organizzazione di questa società secondo l'antica. Così la Convenzione ha dovuto far posto al Direttorio, per opera del quale la borghesìa ha regolato la propria organizzazione politica conformemente alla propria organizzazione economica e sociale. Napoleone ha segnato l'ultimo tentativo del terrorismo rivoluzionario per regolare a proprio piacimento la società borghese. Questo tentativo è fallito per le stesse ragioni che avevano causato la caduta di Robespierre. Dopo la sua vittoria sulla Controrivoluzione, nel 1830, la borghesia ha realizzato le sue aspirazioni del 1789, ma questa volta con la coscienza che esse costituivano degli scopi particolari e non un ideale comune a tutta l'umanità.

La stessa causa d'errore appare nei giudizi che B. Bauer pronuncia sul materialismo francese e sul socialismo.

Bauer considera il materialismo come una dottrina derivata, insieme al teismo, dalla speculazione di Spinoza. Teismo e materialismo costituiscono i due aspetti del razionalismo che ha dominato il pensiero francese del secolo XVIII e che è stato soppiantato dal romanticismo dopo il fallimento della Rivoluzione francese.

Ma questo, dice Marx, è un giudizio sommario ed astratto, che non tiene conto della realtà sociale. Ciò che caratterizza essenzialmente il materialismo del secolo XVIII è la sua lotta contro lo spiritualismo del secolo XVII; a questa lotta è succeduta ora una battaglia contro ogni metafisica, battaglia combattuta dal punto di vista teorico dall'umanesimo, e sul piano della realtà concreta dal socialismo e dal comunismo.

Nel materialismo francese ci sono due tendenze : una tendenza meccanicistica che trae le sue origini dalla fisica di Cartesio, e che ha nelle scienze naturali la sua espressione, ed una tendenza sociale, di derivazione lockiana, che sfocia nel comunismo.

Cartesio, separando la fisica dalla matematica, aveva attribuito alla materia una forza creatrice e concepito il movimento in una forma meccanica. Da questa fisica, che considera la materia come l'unica sostanza, è nato il materialismo meccanicistico francese che, respingendo la metafisica cartesiana, si ispira alla dottrina epicurea (Leroy, Lamettrie, Caba-nis, Gassendi).

Questa tendenza materialistica, a cui corrispondeva il materialismo stesso della vita francese del secolo XVIII, s'accompagna ad una critica della metafisica, cominciata da Bayle, che col suo scetticismo toglie ad essa ogni credito. Locke poi, nel suo Saggio sull'intelletto umano, a questa critica un carattere positivo. Egli derivava le linee essenziali della sua dottrina da Bacone, secondo cui i sensi sono la sola fonte di conoscenza, e da Hobbes, che, basandosi sul fatto che ogni conoscenza viene dalla materia, affermava che non si può separare l'idea dalla realtà, il pensiero dall'essere, e che le stesse leggi governano la natura e l'uomo. Mentre Hobbes basava la sua dottrina sulla geometria e sulla meccanica, Locke si fondava sui dati del mondo sensibile per porre il principio dell'origine materiale della conoscenza e delle idee.

Condillac, che diffuse in Francia il sensualismo di Locke, sostiene che non solo le idee, ma anche le sensazioni sono il risultato dell'esperienza e dell'abitudine, e mette anche in rilievo l'importanza dell'educazione e dell'ambiente nell'evoluzione umana. Ispirandosi a lui, Helvetius, che applica alla vita sociale la dottrina di Locke, fonda la morale sull'egoismo e sull'interesse, mostrando le relazioni tra il progresso dell'industria e quello della ragione, affermando la bontà e l'eguaglianza naturale degli uomini, e sottolineando la funzione dell'educazione.

Così, mentre il materialismo cartesiano è all'origine della concezione meccanicistica della natura, il materialismo di derivazione lockiana sfocia nel socialismo attraverso la teoria dell'eguaglianza naturale, dell'onnipotenza dell'esperienza, dell'educazione e delle influenze esterne, e attraverso l'importanza attribuita alla produzione nell'evoluzione sociale. Se è vero che l'uomo si modella secondo il mondo esteriore, bisogna organizzare questo mondo in modo tale che possa sviluppare ciò che ha in sé di umano; se l'interesse è il movente dell'azione, bisogna che l'interesse particolare ceda il passo all'interesse generale; se, finalmente, l'uomo dipende dall'ambiente, bisogna trasformare quest'ambiente per migliorarlo.

Questi sono i principi che hanno ispirato le opere dei primi socialisti e comunisti: Babeuf, Fourier, Owen e Cabet.

Invece di cercare di comprendere la necessità storica del socialismo, Bauer lo condanna dogmaticamente. Confondendo il socialismo con l'organizzazione del lavoro, vede in esso un tentativo d'organizzare le masse, ne attribuisce il fallimento all'aver fatto causa comune con esse, e da questo fallimento, che fa seguito a quello del radicalismo politico, conclude che la critica offre l'unica via di salvezza.

Allora Marx, passando dalla difesa all'attacco, con un'analisi della natura e dell'origine della Critica critica, ne dimostra l'inanità e l'impotenza.

B. Bauer, nella lotta che aveva combattuta contro Strauss in nome della «Coscienza» contro la «Sostanza», non ha fatto altro che svolgere uno dei lati del sistema di Hegel, che realizza nello Spirito l'unità della «Sostanza» di Spinoza e dell'«Io» di Fichte. Benché pretenda d'aver trionfato dell'idealismo hegeliano, Bauer lo ha aggravato sostituendo all'idea la coscienza, che egli trasforma in soggetto indipendente dall'uomo. La coscienza, che è per lui la causa del tutto, diviene l'essere unico; nulla esiste al di fuori di essa, il mondo in cui essa si esteriorizza non è altro che apparenza, e l'uomo in relazione ad essa non è soggetto, ma attributo.

Questa teoria che costituisce un ritorno alla più astratta e alla più avventata speculazione, segna il termine ultimo dell'idealismo trascendentale.

Vuotata di ogni contenuto, separata dalla società e dal mondo, distaccata dalla massa profana, esistente soltanto in sé e per sé, la critica diviene critica pura o critica critica e, incarnata in alcuni individui eletti, conduce un'esistenza solitaria, assoluta, divina.

Dopo questa analisi della Critica critica non restava a Marx che mostrare le conseguenze pratiche del sistema di Bauer. Ma ciò era molto difficile, perché B. e E. Bauer si guardavano bene dal precisare il lato positivo della loro dottrina, e anche Faucher, nella sua esposizione delle condizioni economiche e sociali inglesi, s'era limitato a criticare e a condannare tutti i partiti.

Solo lo studio che Szelig'à faceva dei Misteri di Parigi di E. Sue, nel n. 7 della Gazzetta letteraria universale, offriva qualche cosa di concreto a cui appigliarsi per criticare. Infatti Szeliga aveva scoperto che questo romanzo dava la soluzione di tutti i misteri sociali, e che il suo protagonista Rodolfo realizzava, incarnandolo, l'ideale della Critica critica. Questa critica di Szeliga permetteva inoltre di mostrare l'assoluta inconsistenza di questo romanzo sentimentale e vagamente socializzante, che riscuoteva un immenso successo. Il Journal des Débats, che dava il tono a tutta la stampa, l'aveva pubblicato in appendice, ed in Germania Wigand ne pubblicava una traduzione che doveva raggiungere undici edizioni. Questo romanzo non aveva nessun valore letterario, e per tutti i suoi quindici volumi si «dilungava in episodi interminabili, uniti dal legame piuttosto debole dell'intreccio. E. Sue, dotato d'una fertile immaginazione, sciupata del resto da un insipido idealismo, portava da principio il lettore nei bassifondi della società, per ricondurlo poi in un'atmosfera più pura, in un ambiente morale, dove la virtù viene ricompensata ed il vizio punito. Per la intelligenza delle critiche di Szeliga e di Marx, si può così riassumere il romanzo:

Rodolfo, principe di Gerolstein, dopo aver sposato di nascosto una giovane intrigante, Sarah Seyton, rompe le relazioni con lei, la caccia dai suoi stati, e si mette a viaggiare per il mondo per consacrare la vita a ricompensare la virtù, castigare i malvagi e soccorrere gli infelici, ricercando la causa dei mali di cui l'umanità soffre. Durante un suo viaggio in Florida, strappa una meticcia, Cecily, dalle mani d'un piantatore crudele e le fa sposare un negro di cui egli ha fatto il suo medico : ma siccome Cecily si dà ad una vita sregolata, la punisce facendola chiudere per sempre in una casa di correzione. Torna quindi a Parigi, dove ritrova Sarah che, con la complicità d'un notaio dall'anima diabolica, Jules Ferrand, ha fatto scomparire la figlia che aveva avuto da Rodolfo. Durante una passeggiata in un quartiere malfamato, Rodolfo prende le difese d'una giovane prostituta, Fleur de Marie, che non è altro che sua figlia, contro un losco lenone, il Chourineur, che la maltratta. S'occupa della riabilitazione morale di Fleur de Marie e prence come servitore il Chourineur, che lo protegge contro due banditi messigli alle costole da Sarah, il Maitre d'école e la Chouette. Grazie all'aiuto di Chourineur, Rodolfo s'impadronisce di Maitre d'école e lo fa acciecare. Poi punisce il notaio Ferrand, responsabile del traviamento di Fleur de Marie, e l'obbliga a. lasciare le sue ricchezze ad opere di beneficenza, e in particolare ad una banca dei poveri. Quanto a Fleur de Marie, la sistema nella fattoria modello di Bouqueval, e l'affida ad un prete che la induce a mortificarsi, a far penitenza e ad entrare in un convento, dove morirà.

In questa scipitaggine sentimentale Szeliga vedeva la rivelazione dei misteri della società. Questi misteri, diceva, s'incarnano nei delitti e nei criminali, che pongono alla scienza e allo Stato il problema della civiltà. Secondo Szeliga i principali misteri sono : la privazione dei diritti nello Stato, dovuta al fatto che i ricchi ignorano che cosa sia la miseria; l'opposizione tra la civiltà vera e quella superficiale, priva di ideali qual è quella della società attuale; la contraddizione tra la morale vera e l'ipocrisia della virtù, che genera il cinismo nel delitto.

La missione di Rodolfo consiste nel rivelare questi misteri incoraggiando la virtù e strappando la maschera ai criminali da lui puniti.

Così converte al bene il Chourineur, predica la morale al Maitre d'école, dopo che, accecandolo, l'ha reso incapace di nuocere; punisce Cecily chiudendola in una casa di pena, il notaio rovinandolo finanziariamente, ed infine salva dal peccato Fleur de Marie, vittima della malvagità della società di cui sconta e redime gli errori.

Marx, invece di vedere come Szeliga nei Misteri di Parigi una specie di epopea del riscatto dell'umanità, critica, come palliativi insufficienti, i rimedi sociali proposti da Sue, e deride spiritosamente Szeliga, che trasforma in misteri le verità più triviali.

Nella sua critica minuziosa che si estende per 80 pagine, e che ci sembra tanto più lunga e fastidiosa per il fatto che né il romanzo di Sue né la critica di Szeliga presentano alcun vero interesse, Marx si adopera soprattutto a confutare la tesi di Szeliga sulla parte e sul carattere di Rodolfo.

Rodolfo rivela la vera natura sua e della società che egli rappresenta e difende, soprattutto nel suo atteggiamento di fronte a Fleur de Marie: egli la strappa dalle grinfie dello Chourineur soltanto per abbandonarla in balia del prete che ne uccide l'anima col pentimento e la penitenza, e rende intollerabile ed irrimediabile il sentimento della sua degradazione, trasformando la sua colpa in un delitto contro Dio. Da quando la vergogna del peccato si è impadronita della sua anima, Fleur de Marie, in preda al pentimento ed alla penitenza, rinuncia al mondo ed entra in convento per scontare i suoi peccati. Rodolfo riesce così a fare di una peccatrice innocente una peccatrice penitente, e per salvarla non trova altro mezzo che quello di tagliarla fuori dalla vita. Del resto, questo è per lui un vero e proprio sistema di redenzione; nella stessa maniera riconduce alla virtù la meticcia Cecily, per mezzo della segregazione cellulare in prigione, e allontana il Maitre d'école dal delitto accecandolo, che è un mezzo anche più radicale di separare il peccatore dal mondo e di svegliare in lui il pentimento.

Parallelamente a questo sistema di punizione, che agli occhi di Marx esprime tutta l'angustia della morale borghese, Rodolfo magnifica tutta una serie di rimedi destinati ad attenuare i mali di cui soffre l'umanità. Del resto egli non ha di mira né una trasformazione radicale né una riforma profonda della società, e lascia sussistere l'eredità e la proprietà privata, che considera sacra: si contenta di domandare al ricco di fare buon uso della sua fortuna soccorrendo la miseria, ed allo Stato di occuparsi dell'educazione dei bambini poveri e dell'organizzazione del lavoro.

Quanto al primo punto, Marx dimostra che le feste di beneficienza raccomandate da Rodolfo sono per i ricchi soltanto una nuova occasione di divertirsi col pretesto di alleviare la miseria.

L'educazione dei bambini poveri da parte dello Stato ha un carattere utopistico; perché equivarrebbe alla soppressione del proletariato, e perciò alla distruzione dell'organizzazione sociale di cui lo Stato è espressione, e che esso è incaricato di difendere.

Quanto all'organizzazione del lavoro, nel romanzo essa si riduce a due provvedimenti, tutti e due ugualmente inefficaci : alla creazione di una Banca dei poveri e di una fattoria modello.

Secondo le cifre stesse indicate da Rodolfo, la banca destinata a soccorrere i disoccupati onesti potrebbe dare loro soltanto la metà della somma necessaria al loro mantenimento (27 centesimi invece di 47). Se la banca si mostra avara dei suoi denari, la fattoria modello di Bou-queval pecca al contrario per eccesso di generosità; infatti ogni operaio vi riceve un salario quadruplo della media dei salari degli operai agricoli. Riassumendo, il romanzo di Sue, con tutto il suo aspetto umanitario, si ispira in realtà alla morale utilitaria borghese: i suoi progetti di riforme mirano esclusivamente alla conservazione dei privilegi della borghesia, ed il suo eroe Rodolfo, con tutte le sue arie di giustiziere, di riparatore di torti, di benefattore dell'umanità, è guidato nelle sue azioni esclusivamente dall'egoismo che nasconde sotto false apparenze di virtù.

Nella Sacra Famiglia, Marx, senza esporre dogmaticamente la dottrina del materialismo storico, alla quale era giunto attraverso lo studio della filosofia e dell'economia, la precisava facendone una applicazione ad alcuni casi concreti. Sebbene si richiamasse ancora all'umanesimo di Feuerbach, in realtà in ciascuna delle sue affermazioni egli andava oltre. Ed anzitutto, se sosteneva con Feuerbach, contro Hegel e Bauer, che fosse necessario piegare non la realtà ai pensiero ma il pensiero alla realtà, concepiva però questa realtà sotto forma di attività pratica, di attività sociale. Negando la realtà del pensiero al di fuori di questa attività, egli si assumeva il compito di stabilire, attraverso lo studio della società, le leggi dell'evoluzione di essa, convinto del resto a priori che quest'evoluzione dovesse necessariamente essere conforme alla ragione e alla giustizia, e portare necessariamente all'emancipazione, alla liberazione totale dell'umanità.

Quest'emancipazione non era, come pensava B. Bauer, ed anche Feuerbach, un'emancipazione»spirituale più o meno limitata alla coscienza, ma un'emancipazione vera, materiale, pratica.

«Gli Operai», egli diceva, «che lavorano nelle officine di Manchester e di Lione, non credono di poter arrivare a sopprimere per mezzo del ragionamento, del pensiero puro, i loro padroni industriali e la propria degradazione. Essi avvertono dolorissimamente la differenza che c'è tra il pensiero e l'essere, tra la Coscienza e la Vita. Sanno che la proprietà, il capitale, il denaro, non sono affatto immaginazioni del loro spirito, ma prodotti effettivi ed oggettivi della propria alienazione, e che bisogna sopprimerli radicalmente, concretamente, perché l'uomo diventi uomo uon solo nel pensiero e nella coscienza ma anche nella vita reale, nell'esistenza materiale» 20°).

Non bisogna distruggere soltanto l'illusione religiosa, perché essa non è che il prodotto del regime sociale il quale oppone all'uomo la sua attività, il suo lavoro ed il prodotto di questo, che sotto forma di denaro s'incarna nel capitale per dominarlo ed asservirlo. L'illusione religiosa esprime uno stato di cose concreto, significando il divorzio che esiste nella società tra l'uomo e la natura, tra l'individuo e la specie. Questo divorzio sarà abolito con la soppressione della proprietà privata, e ciò avverrà per opera della rivoluzione comunista, generata dallo svogimento stesso della società, die crea nel proletariato lo strumento della propria distruzione.

La Sacra Famiglia, che segnava per Marx la fine del suo periodo giovane-hegeliano, fu stesa in breve tempo, sicché alla fine di novembre il libro era press'a poco compiuto. Da principio Marx pensò di farlo uscire per i tipi di Froebel, ma il Banco Letterario si avviava rapidamente alla fine, e d'altra parte Froebel riceveva proprio allora dal suo accomandatario e socio Ruge l'invito formale a non pubblicare nessuna opera di Marx.

Fallito questo primo progetto, Marx si rivolse all'editore del Vorwaerts, Jules Renouard, per tramite di Boernstein. Ma anche questo progetto era destinato a fallire, perché il Vorwaerts stava per essere soppresso ed i suoi redattori, tra i quali anche Marx, vivevano sotto l'incubo di un prossimo decreto di espulsione.

Sotto la direzione di Bernays il Vorwaerts aveva preso un carattere radicale sempre più marcato : polemizzava contro il liberalismo, che mirava soltanto a favorire gli interessi della borghesia, contro la critica pura di Bauer, che pretendeva di restare neutrale nei conflitti politici e sociali, e nelle numerose relazioni sul movimento operaio si affermavano sempre più nettamente le sue tendenze comuniste.

Approfittando dell'attentato di Tschech contro Federico Guglielmo IV, di cui il Vorwaerts aveva fatto una mezza apologia, il governo tedesco chiese a Guizot di sopprimere il giornale. Guizot si limitò a procedere contro Bernays perché non aveva versato la cauzione prescritta. Questi, condannato il 13 dicembre a due mesi di prigione e a trecento franchi di ammenda, annunziò in un manifesto di tendenza comunista che il Vorwaerts sarebbe uscito da allora in poi in forma di rivista mensile, cosa che non esigeva alcuna cauzione; il ministro dell'interno Duchàtel emise allora il 25 gennaio 1845 un decreto di espulsione contro i redattori, Heine, Marx, Bakunin, Herwegh, Buergers, Ruge, Boernstein e Bernays, che furono invitati a lasciare immediatamente il suolo francese. Ma essi fecero appello ai giornali liberali, i quali levarono una viva protesta, ottenendo che il governo attenuasse in larga misura l'applicazione del suo decreto d'espulsione. Heine non fu disturbato; Hervegh opponendo la sua qualità di cittadino svizzero, e Ruge facendo valere la sua cittadinanza sassone, poterono restare in Francia. Bernays ottenne l'autorizzazione di rinviare la propria partenza all'estate. Anche a Boernstein si permise di restare, dietro promessa di sospendere la pubblicazione del Vorwaerts. Dovettero lasciare Parigi, forse perché si rifiutarono di piegarsi a compromessi di alcun genere, Bakunin, Buerges e Marx, che andarono rispettivamente a Dresda, a Colonia ed in Belgio.

In sostanza il governo tedesco aveva ottenuto soddisfazione e ridotto al silenzio, sia pure momentaneamente, gli ultimi rappresentanti del movimento d'opposizione del 1842,

Marx, partito da Parigi il 1 febbraio 1845, giunse il 9 a Bruxelles dopo una breve sosta a Liegi. Il 23 marzo egli dovette assumere per iscritto l'impegno di non pubblicare in Belgio neanche una parola sulle questioni politiche attuali. Sua prima cura fu di assicurarsi la pubblicazione della Sacra Famiglia, per la quale nel frattempo aveva trovato un editore nel dottor Lőwenthal, condirettore con J. Ruettern della Literarische Anstalt (Istituto letterario) di Francoforte' sul Meno. Il libro usci alla fine di febbraio del 1845. Engels, che in una lettera del 7 marzo ne aveva criticato il nuovo titolo a causa delle difficoltà che avrebbe potuto suscitargli con la sua famiglia, che era molto religiosa, esprimeva a Marx tutta la gioia provata nel leggere il libro; ma tuttavia mescolava allo elogio due critiche: da una parte trovava il libro troppo prolisso, data la poca importanza della Gazzetta letteraria, che del resto era scomparsa da più di quattro mesi, e dall'altra pensava che la critica dell'idealismo speculativo fosse troppo astratta per essere accessibile al gran pubblico. Il timore di Engels che alcune parti del libro restassero incomprensibili per il gran pubblico, era giustificato, ed era del resto condiviso dall'editore che, giudicando questa polemica un po' astrusa per i lettori, pregava l'amico dr. Ebner, corrispondente della Gazzetta generale di Augusta, a Francoforte, di farne una dettagliata relazione nel suo giornale. In realtà la Sacra Famiglia, la quale, oltre allo scarso interesse che presentava per il pubblico, aveva il difetto di essere tipograficamente mal composta, non ebbe grande successo. Nella rivista Dos Westphalische Damjboot (Il vapore della Vestfalia) ne usci una critica elogiativa, ma del resto poco apprezzata dagli autori del libro che la trovarono superficiale.

G. Julius, vecchio redattore della Gazzetta di Lipsia, ne fece una recensione nella quale criticava contemporaneamente l'individualismo di Bauer ed il comunismo di Marx. Ruge, nelle sue lettere, giudicava la Sacra Famiglia inferiore al libro di Stirner di cui tesseva l'elogio. E B. Bauer rispose, del resto molto debolmente, dichiarando in sostanza che Marx ed Engels non l'avevano capito.

La Sacra Famiglia aveva permesso a Marx di esporre, sia pure in una forma un po' sconnessa, il risultato dell'evoluzione del suo pensiero durante il suo soggiorno a Parigi, che era stato un periodo particolarmente fecondo per lui. Gli restava ora da raccogliere queste concezioni sparse in un corpo di dottrine; e lo fece con le formule chiare e incisive delle sue tesi su Feuerbach, composte nel marzo del 1845, il mese seguente al suo arrivo a Bruxelles, immediatamente dopo la pubblicazione della Sacra Famiglia.

Queste tesi sono in numero di undici. Nelle prime tre Marx definisce il materialismo antico, nel quale fa rientrare quello di Feuerbach, e l'idealismo, opponendo loro la sua concezione del materialismo storico.

Il difetto fondamentale dell'antico materialismo, compreso quello di Feuerbach, consiste nel concepire la realtà, il mondo sensibile, soltanto in forma di oggetto, di conoscenza. Esso distingue, è vero, l'oggetto sensibile dal pensiero, ma siccome non lo integra nell'attività umana, conserva nei riguardi della realtà un atteggiamento da teorico, da osservatore. L'idealismo ha il difetto opposto : riduce il mondo esteriore al pensiero, che concepisce come attività creatrice, la quale però, essendo limitata al dominio dello spirito, resta astratta ed irreale (I Tesi).

La sintesi del pensiero e dell'essere, dell'Io e del Non-Io, a cui né il materialismo né l'idealismo sono giunti non può essere realizzata che nell'azione e dall'azione, colla quale l'uomo si integra nella Natura, e la Natura prende un carattere umano. All'obbiezione dell'idealismo, riguardante la possibilità per l'uomo di attingere la realtà oggettiva, Marx risponde che l'uomo conosce il mondo solo in quanto oggetto delle proprie esperienze. Soltanto l'azione, la pratica, prova la realtà della conoscenza. Cercare al di fuori di questa conoscenza un sapere trascendentale, vuol dire cercare una cosa che non esiste, o che, almeno, non ha alcuna realtà per noi (II Tesi).

L'antico materialismo, ignorando la natura e la funzione dell'attività umana, considerava l'uomo come un prodotto dell'ambiente e dell'educazione, senza vedere che l'ambiente stesso è trasformato dall'uomo. Poiché un mondo non è qualche cosa che esista in sé, al di fuori dell'uomo, e l'uomo non è il prodotto passivo dell'ambiente in cui vive: c'è azione e reazione dell'ambiente sull'uomo e dell'uomo sull'ambiente. L'uomo, per mezzo della sua attività concreta, per mezzo del suo lavoro, si unisce alla natura armonizzandola; e qui sta il carattere rivoluzionario dell'attività umana (III Tesi).

Nelle tre tesi seguenti, Marx mostra le conseguenze che derivano in Feuerbach dal suo atteggiamento contemplativo, teorico, distaccato dall'azione.

Partito dallo studio dell'alienazione religiosa, dello sdoppiamento del mondo in un mondo ideale e in un mondo reale, Feuerbach non s'è chiesta la ragione di questo sdoppiamento, il quale è il prodotto, l'espressione di contraddizioni sociali, che bisogna comprendere ed eliminare per realizzare la reitegrazione dell' uomo nella sua essenza alienata.

Prendendo come esempio la Sacra Famiglia, Marx dice che non basta affermare con Feuerbach che essa è fatta ad immagine della famiglia terrestre, la quale occorre trasformare dopo aver cercato in essa la ragione dell'alienazione religiosa, per rendere impossibile questa alienazione (IV Tesi). Nella la sua analisi della religione Feuerbach respinge, sì, l'idealismo astratto, per opporgli la realtà del mondo sensibile; ma poiché non concepisce questa realtà nella forma dell'attività umana, è incapace di modificarla, e, dopo aver mostrato quale sia il fondamento reale della religione, non cerca affatto di trasformarlo (V Tesi). Così. egli è indotto a considerare l'uomo in sé come un essere isolato, ai fuori della vita sociale, al di fuori della storia. Perciò l'uomo resta in lui un'astrazione, e l'essenza umana, la collettività, è costituita da un insieme di individui che non sono uniti tra loro da legami sociali (VI Tesi).

In realtà l'individuo non è un essere astratto, isolato: non ha una vera esistenza al di fuori dell'ambiente in cui vive, sicché per comprendere la vera natura dell'uomo bisogna integrarlo nella società, nella vita sociale (VII Tesi).

Questa ha un carattere essenzialmente pratico, è costituita dall'unione dell'uomo e della Natura, che si realizza nell'attività umana e particolarmente nell'attività economica. Quando si sia compreso il carattere della vita sociale e dell'attività umana, allora si vedono risolversi i problemi per cui gli uomini inclinano verso il misticismo, e dissiparsi le illusioni religiose e sociali (VIII Tesi) .

Il materialismo storico, il quale ritiene che la vera natura dell'uomo consista nella sua attività sociale, s'innalza al di sopra della nozione dell'individuo isolato, quale esiste nella società borghese e quale lo concepisce Feuerbach (IX Tesi), ed arriva alla vera concezione dell'essere collettivo, che è la società umana (X Tesi).

Questo materialismo, a differenza dell'antico, non separa la conoscenza dall'azione, e cerca di comprendere il mondo, ma per modificarlo, per adattarlo meglio ai bisogni e alla natura dell'uomo. «Finora i filosofi non hanno fatto altro che dare diverse interpretazioni del mondo; ma quel che importa è di trasformarlo» (XI Tesi).

In queste tesi che segnavano la fine del suo periodo hegeliano, Marx fissava definitivamente la sua dottrina del materialismo storico, considerando la storia come il processo d'adattamento dell'uomo al suo ambiente, realizzato per mezzo della produzione economica, per mezzo del lavoro, che costituisce la sintesi della natura e dell'uomo.

All'elaborazione finale di questa dottrina egli era giunto attraverso due esperienze, di cui aveva dato un primo abbozzo in un suo articolo negli Annali franco-tedeschi.

Anzitutto, passando dalla critica dello Stato a quella della società, abbandonava la sua concezione dello sdoppiamento dello Stato in uno Stato teorico e in uno Stato reale, espressione e strumento della società, e conservando solo quest'ultimo concetto dello Stato, sosteneva in un suo articolo del Vonvaerts che soltanto per mezzo di una rivoluzione politica e insieme sociale, che distruggesse lo Stato e la società fondati sulla proprietà privata, era possibile liberare l'umanità.

Nel suo libro sulla Filosofia e l'Economia e nella Sacra Famiglia, criticando l'idealismo incapace di modificare il reale, ed analizzando il lavoro, la produzione economica, fondamento dell'organizzazione sociale, ;«gli mostrava come dovesse necessariamente attuarsi la trasformazione della società. Adattando, come già aveva fatto Hess, la dottrina di Feuerbach all'economia politica, mettendo sulla stessa linea l'alienazione materiale che si effettua nel denaro e l'alienazione spirituale che si effettua in 0io, dimostrava che il carattere inumano della società derivava dal fatto che in regime di proprietà privata l'uomo aliena necessariamente la propria sostanza nel prodotto del proprio lavoro, il quale, prendendo forma di capitale, lo rende servo. Questa alienazione, egli diceva ispirandosi ad Engels, può essere abolita solo mediante una rivoluzione sociale provocata dallo sviluppo stesso del regime economico che crea nel proletariato lo strumento della propria rovina. Del resto, se questa rivoluzione aveva un carattere di necessità, non per questo doveva attuarsi come un avvenimento naturale, ineluttabile; lasciando al pensiero e alla volontà la parte d'azione che loro compete, Marx pensava in realtà che l'uomo non è un prodotto passivo dell'ambiente, ma che anzi agisce su di esso per trasformarlo, non certo a suo grado e arbitrariamente, ma nel senso fissato dall'evoluzione economica e sociale. Con questa dottrina del materialismo storico, sulla quale egli fondava il comunismo, Marx, unico con Engels tra tutti i Giovani Hegeliani, superava Hegel realizzando effettivamente nell'azione sociale l'unione del pensiero e dell'essere, e integrando l'attività umana, ch'egli riduceva al lavoro, alla produzione economica, nella Natura e nella Storia.

Con ciò Marx si separava definitivamente dai suoi vecchi amici, dei quali gli uni, che rompevano il monismo hegeliano distaccando l'idea dall'essere, erano giunti ad un idealismo assoluto col quale giustificavano il loro individualismo; e gli altri, togliendo a questo monismo il suo carattere dinamico e dialettico, si precludevano così la spiegazione dell'evoluzione sociale ed erano perciò spinti ad adottare soluzioni sentimentali ed utopistiche.

E del resto la loro funzione era terminata: Bauer, scoraggiato, si separava dal circolo dei «Liberi», che si dissolveva; Ruge s'irrigidiva nell'antipatriottismo, Stirner aveva ormai posto termine alla sua attività con «L'Unico e la sua proprietà», Feuerbach non riusciva a sollevarsi al di sopra della questione religiosa; e quanto a Hess, egli fondava allora con Gruen il «Vero socialismo» che doveva essere realizzato dalla magica potenza dell'amore.

Di tutte le ramificazioni nate dalla dottrina hegeliana, soltanto la teoria che Marx elaborava allora con Engels si dimostrava viva e feconda, mentre le altre, già esauste, languivano.

CONCLUSIONE

Lo svolgimento intellettuale del giovane Marx è dominato dal pensiero di Hegel e rientra nel quadro dell'evoluzione della Sinistra hegeliana, la quale è nata da un bisogno di adattamento della dottrina di Hegel al movimento intellettuale, politico e sociale, uscito da quella Rivoluzione del 1830, che consacrando il trionfo della borghesia francese, aveva dato un nuovo impulso al liberalismo europeo.

Il sistema di Hegel presentava sia dal punto di vista filosofico che dal punto di vista politico un carattere di transizione, e costituiva un compromesso tra la concezione statica e la concezione dinamica del mondo, tra l'idealismo ed il realismo, tra il conservatorismo politico e sociale e le idee rivoluzionarie.

Da una parte lo sviluppo economico e scientifico, e dall'altra l'evoluzione politica e sociale, tendevano a mettere a nudo le contraddizioni del sistema ed a scuoterne la compagine. Giacché appariva difficile sostenere, coi rapidi progressi dell'industria e della scienza, che la Natura non avesse vera esistenza in sé e non fosse altro che l'esteriorizzazione dell'Idea; d'altra parte sembrava illogico fissare un termine all'evoluzione dialettica del mondo.

La Sinistra hegeliana concentrò le sue critiche proprio su questi due punti. Essa derivò dalla filosofia hegeliana una dottrina dell'azione, inserendo completamente nella Storia lo svolgimento dialettico, facendolo procedere dalla volontà umana, ed abolendo i limiti che Hegel gli aveva assegnati. Volendo poi dare un carattere concreto e pratico a questa azione che da principio aveva limitata al campo dello spirito, rovesciando il sistema di Hegel, affermò il primato del concreto sull'astratto, per fondare la sua azione sulla realtà stessa ed integrarvela.

La Sinistra hegeliana operò questa trasformazione soltanto progressivamente, con una lotta prima religiosa e poi politica e sociale. Il primo colpo alla dottrina di Hegel fu inferto da Strauss, che negando l'identità della filosofia e della religione cristiana, pretendeva che la sostanza di questa fosse costituita non dal suo contenuto metafisico, ma dalle concezioni del popolo ebraico, incarnatesi nella persona del Cristo.

B. Bauer, respingendo ogni idea di sostanza ed ogni credenza nella realtà storica dei Vangeli, sosteneva contro Strauss che la religione cristiana non fosse altro che un momento dello svolgimento della coscienza universale. Allargando poi questa tesi ad una. dottrina generale, egli dimostrava che la Storia non era altro che lo svolgimento di questa Coscienza universale, svolgentesi dialetticamente per mezzo della critica, che aveva lo scopo di eliminare gli elementi irrazionali dal reale.

Questa filosofia critica fu subito adottata con entusiasmo dai giovani intellettuali hegeliani che, avidi d'azione, erano naturalmente portati ad esagerare l'influenza delle idee sui fatti, ed a credere che bastasse denunciare il carattere irrazionale della realtà per trasformarla.

Marx, che allora era intimamente legato con B. Bauer, era senza dubbio, almeno in parte, l'ispiratore di questa dottrina, ma sin dalla sua prima opera, la tesi su la Filosofia della Natura di Democrito e d'Epicuro, ne aveva riconosciuto i limiti ed il pericolo.

Infatti questa dottrina, separando il pensiero dall'essere, considerava l'evoluzione della coscienza, librantesi al di sopra, se non al di fuori della realtà, come il contenuto del processo dialettico della Storia. Questa coscienza così distaccata dalla realtà tendeva a confondersi con la coscienza soggettiva, individuale, ed il movimento dialettico, invece di integrarsi nel reale, nel concreto, era trasposto nel campo dello spirito. Marx, pensando con Hegel che l'azione, per essere feconda, dovesse risultare dall'unione del pensiero con la realtà, e che l'isolamento, l'astrazione, la condannasse necessariamente all'impotenza e alla sterilità, opponeva alla coscienza soggettiva, a cui il Bauer riduceva l'Idea concreta hegeliana, la Ragione oggettiva, l'unica capace di trasformare il reale, e dimostrava che la coscienza individuale, simile all'atomo di Epicuro, era ridotta, data la propria impotenza a modificare il mondo esteriore, ad isolarsi e ad assistere passivamente allo svolgersi delle cose.

La dottrina della filosofia critica doveva venir sottoposta ad una prova decisiva nel momento del passaggio dalla critica filosofica e religiosa alla critica politica. Ruge aveva compiuto per primo questo passaggio negli Annali di Halle. Dopo aver criticato in nome del principio del protestantesimo, in nome cioè della libertà che egli vedeva incarnata nella Riforma, le tendenze conservatrici del governo prussiano, egli attaccava ora quest'ultimo in nome del liberalismo politico, sostenendo il movimento costituzionale. A lui faceva seguito la schiera dei Giovani Hegeliani, i quali rivendicavano con lui l'emancipazione in ogni campo, e respingevano non soltanto il protestantesimo, che evolveva verso un pietismo intransigente, ma anche il principio monarchico; e, dopo aver dichiarato guerra alla religione, iniziavano ora la lotta contro l'assolutismo.

Marx, che compi allora il suo noviziato politico come redattore della Gazzetta renana, durante questa lotta che lo poneva in contatto con la realtà politica, economica e sociale, si rese conto dell'incapacità dello spirito a modificare la realtà per la sola virtù dell'Idea, e della necessità di unire la critica filosofica all'azione politica e sociale. Ciò lo allontanava da B. Bauer e dai Giovani Hegeliani di Berlino i quali si trinceravano sempre più in una critica astratta e sterile.

La soppressione della Gazzetta renana e degli Annali di Ruge, che segnava il fallimento del liberalismo politico, trasporta la lotta sul piano sociale, ed allora appare chiaro a Marx che le questioni sociali sono più importanti delle questioni politiche, e che la forma e l'azione dello Stato, che fino allora egli considerava con Hegel come espressione della Ragione e della Moralità, sono determinate dalla organizzazione sociale. In quest'evoluzione che lo conduce al comunismo, egli è guidato da Feuerbach, Hess e L. Stein.

Feuerbach aveva dimostrato con la critica della filosofia di Hegel e della religione cristiana, che non è l'idea che determina l'essere, che non è Dio che crea l'uomo, ma che invece l'idea non è se non l'attributo dell'essere e Dio il prodotto dell'uomo. Analizzando la formazione della religione, Feuerbach ne aveva dedotto una dottrina sociale. Dio, diceva, è la proiezione nell'assoluto delle qualità essenziali dell'uomo, il quale, adorando in Dio la propria essenza considerata come esteriore ed estranea a se stesso, si spoglia della sua vera natura. Per restituirgli le sue qualità, bisogna distruggere l'illusione religiosa e reintegrare nell'uomo ciò che egli ha esteriorizzato in Dio, mostrandogli che quello che lui crede Dio è in realtà l'essere collettivo che costituisce l'umanità. Difatti, l'uomo è un essere sociale, un membro della specie umana, il quale può realizzare la propria essenza soltanto nella vita collettiva; riassumendo in sé le proprie qualità alienate in Dio, egli integrerà se stesso nella società, e vivrà così una vita conforme alla sua vera natura.

Dopo la filosofia critica, che aveva sottolineato la contraddizione tra il sistema conservatore e la dialettica rivoluzionaria della filosofia hegeliana, la dottrina di Feuerbach segnava la seconda fase dell'adattamento di questa filosofia al movimento della Sinistra hegeliana : poiché, rovesciando l'idealismo hegeliano, permetteva di fondare sulla realtà concreta la dottrina dell'azione che la filosofia critica aveva derivata dal sistema di Hegel.

L'errore di Feuerbach consisteva nel respingere oltre che l'idealismo di Hegel, anche la sua concezione dialettica della Storia. L'uomo, considerato al di fuori dello svolgimento storico, conserva un carattere metafisico, e la specie umana, che Feuerbach considerava come tutt'uno con la società, diventava un'entità superiore agli uomini, come lo Spirito del Mondo di Hegel. L'attività umana, posta al di fuori della storia, assumeva nel suo sistema una vaga forma morale, e la sua filosofia metteva capo ad un'etica, ad una vaga religione della felicità e dell'amore universali.

Marx, conservando ciò che era essenziale nel sistema di Hegel, cioè la sua concezione dialettica della storia, doveva trasformare la filosofia contemplativa e sentimentale di Feuerbach in una dottrina dell'azione, integrando nella realtà il movimento dialettico che ne determina il divenire.

Nella sua critica della Filosofia del Diritto di Hegel egli dava alla dottrina di Feuerbach un carattere ed un contenuto politico e sociale, facendo dell'umanesimo l'espressione dell'ideale democratico. Dimostrava che lo Stato consiste in un'alienazione dell'essenza della società, la quale, spogliata così della sua vera natura, è egoista, di un egoismo che si manifesta nel regime della proprietà individuale, che divide gli uomini gli uni dagli altri. Lo Stato ha un'esistenza doppia e contraddittoria: da una parte è l'espressione, l'agente esecutivo della società, ed in quanto tale ha tutti i difetti di essa; ma d'altra parte rappresenta in modo teorico ed irreale l'essenza alienata della società, che questa deve riassumere in sé, come l'uomo deve riassumere in sé la propria essenza alienata in Dio.

Da questa critica della Filosofia del Diritto Marx non giungeva ancora a conclusioni comuniste, e le riforme da lui proposte non uscivano dal quadro della democrazia sociale. Tuttavia il principio su cui poggiavano la società e lo Stato, cioè il principio della proprietà individuale, gli appariva già come il male essenziale, e dopo aver posto l'ideale democratico come il contenuto reale dell'umanesimo di Feuerbach, doveva arrivare al comunismo attraverso la critica della proprietà.

Hess, che nella Triarchia europea aveva sottolineato l'incapacità del liberalismo e dell'azione politica a trasformare la società, apriva allora la via a Marx, realizzando una prima sintesi della filosofia di Feuerbach e delle dottrine socialiste francesi La società, diceva, si compone di individui egoisti che si oppongono gli uni agli altri, e per rigenerarla, per ristabilire l'armonia sociale, bisogna che l'uomo abolisca la proprietà privata e istituisca un regime fondato contemporaneamente sul principio di libertà e su quello di eguaglianza, che gli permetta di condurre una vita conforme alla sua vera natura, cioè una vita collettiva.

Considerando, come Feuerbach, l'uomo al di fuori della storia, Hess poneva l'evoluzione sociale sul piano morale, facendo dell'egoismo un attributo in certo modo metafisico della società borghese, alla quale opponeva il comunismo, che rappresentava le tendenze altruistiche dell'umanità.

Stein doveva permettere a Marx di dare a questo comunismo ideologico un carattere dialettico, mostrandogli come l'evoluzione della storia sia costituita e determinata da una lotta di classi, provocata a sua volta dal regime di produzione, e come il grande conflitto dell'epoca, dal quale dipendeva la sorte dell'umanità, fosse la lotta tra il capitalismo e il comunismo, tra la borghesia e il proletariato.

Il comunismo faceva allora la sua apparizione in Germania, dove i membri delle società segrete cominciavano a diffondere la dottrina di Weitling, e dove Marx doveva, dopo Hess, attuare negli Annali franco-tedeschi l'unione della filosofia tedesca col movimento comunista operaio. L'uomo, egli diceva, può ritrovare la sua vera natura soltanto distruggendo la cattiva società fondata sull'egoismo e sulla proprietà privata. La società aliena la sua essenza nello stato ideale, che incarna di fronte ad essa la vita superiore, la vita collettiva; per trasformare la società bisogna reintegrare in essa lo Stato, e dare così un'esistenza reale alla vita collettiva. Questa trasformazione sarà opera della classe più oppressa, del proletariato, che liberandosi abolirà la proprietà privata ed emanciperà con ciò stesso la società intera.

In questa concezione il comunismo, considerato contemporaneamente come la soluzione del problema sociale e come la conclusione logica del radicalismo filosofico, restava ancora una dottrina astratta; la società non era ancora considerata in se stessa e per se stessa, ed il proletariato non era altro che l'elemento antitetico incaricato di realizzare il progresso, lo strumento o il veicolo dell'Idea.

Secondo la legge della dialettica, la trasformazione sociale doveva risultare da una rivoluzione dovuta all'accentuazione della lotta di classe, il che portava Marx a respingere come palliativi insufficienti non soltanto le riforme politiche ma anche l'azione morale e l'educazione popolare magnificate da Feuerbach e da Hess.

Marx, subordinando la morale alla politica e la politica all'economia, tendeva a fondare la sua dottrina sull'evoluzione economica e sociale, ed a ridurre così sempre più la funzione dell'idea, della filosofia, nello svolgimento storico.

Portato com'era a cercare nella realtà stessa le ragioni del suo evolversi, egli integrava del tutto la filosofia nel divenire sociale, e passando dall'idealismo al materialismo, dava una nuova soluzione del problema dell'azione, che né Hegel, né Bauer, né Feuerbach avevano saputo risolvere. Infatti Marx, considerando l'attività umana come un'attività sociale, realizzava l'unione dinamica dello spirito e della materia, del pensiero e dell'essere, del soggetto e dell'oggetto: e in ciò era il germe del materialismo storico; sicché gli restava che rendersi conto più esattamente dell'evoluzione economica e sociale, per unire in una stessa dottrina il materialismo storico e il comunismo.

Questa sintesi fu realizzata a Parigi, sotto l'influsso di Hess e di Engels, nelle due opere: Filosofia ed Economia, e La Sacra Famiglia.

Attraverso un'analisi del lavoro e della produzione economica, egli mostrava come dovesse necessariamente effettuarsi la trasformazione della società. Nel regime economico attuale, l'uomo aliena la propria sostanza nel prodotto del suo lavoro che, prendendo forma di denaro, di capitale, lo rende servo. Quest'alienazione può essere eliminata soltanto per mezzo di una rivoluzione sociale, provocata dallo svolgimento stesso del regime economico che crea nel proletariato lo strumento della propria rovina.

Quest'analisi dell'evoluzione e dell'organizzazione economica e sociale su cui egli fondava la sua dottrina comunista, gli dimostrava che la storia è il processo di adattamento dell'uomo al suo ambiente, realizzato per mezzo del lavoro e della produzione economica, che costituisce la sintesi della natura e dell'uomo; nelle sue Tesi su Feuerbach, che segnano la fine del suo periodo hegeliano, formulava questa dottrina del materialismo storico.

Ponendo questa sintesi del materialismo storico e del comunismo, Marx rompeva una volta per sempre con le tendenze più o meno idealistiche degli altri Giovani Hegeliani, ed anzitutto con B. Bauer, il quale, abbandonando la lotta politica, aveva tolto alla critica ogni carattere soggettivo, e che del resto era stato superato nella sua tendenza al soggettivismo, all'egocentrismo, da Stirner, il quale considerava l'Io assoluto come la sola realtà. Si staccava anche dai liberali che, come Ruge, aspiravano soltanto ad una rivoluzione politica. Inoltre, si separava dai comunisti anarchizzanti come Feuerbach, Hess, Herwegh e Bakunin, che volevano associare il principio di libertà a quello d'eguaglianza per salvare l'individualismo.

Nel corso del suo sviluppo intellettuale, Marx aveva derivato dai Giovani Hegeliani la maggior parte delle sue idee fondamentali: da Bauer la dottrina della filosofia critica; da Ruge la prima idea della sua critica della Filosofia del Diritto; da Feuerbach il capovolgimento della dottrina hegeliana e la teoria dell'illusionismo; da Hess l'applicazione della dottrina di Feuerbach al comunismo; da Stein la concezione della lotta di classe e della funzione del proletariato nella evoluzione storica moderna; da Bakunin la nozione del proletariato come idea-forza, come antitesi dialettica; e finalmente, da Engels la sua critica dell'economia politica e l'idea del passaggio necessario dal regime della proprietà privata al comunismo, per effetto della concorrenza e delle crisi.

Malgrado tutte queste derivazioni, la dottrina di Marx costituiva però un tutto organico, grazie alla filosofia di Hegel, di cui conserva i tratti essenziali.

Di Hegel infatti Marx conserva l'idea che il reale è razionale e che i fatti sono logicamente concatenati nella realizzazione d'un ordine conforme alla ragione. Questo svolgimento riveste la forma d'un processo dialettico, nel quale la negazione, origine d'ogni progresso, costituisce l'elemento fondamentale.

Poiché la ragione di questa dialettica è inerente alle cose, non si deve, sotto pena di cadere nell'utopia, opporre un ideale alla realtà e separare la teoria dai fatti, e per agire sul reale è essenziale che se ne comprenda la natura specifica.

Da questa concezione hegeliana Marx deriva la sua dottrina, elaborata da lui in modo per così dire antitetico, movendo dalla critica degli altri sistemi.

Ispirandosi a Hegel, egli comincia con l'opporre alla Coscienza soggettiva di B. Bauer la Ragione collettiva, la quale mantiene la sintesi tra il pensiero ed il reale, che la filosofia spezza, separando lo svolgimento dialettico dal movimento storico.

La dottrina di Hegel gli permette inoltre di superare Feuerbach e Hess, che fanno derivare da un postulato morale l'evoluzione storica, invece di ricercarne le cause nella realtà stessa.

E infine gli suggerisce di respingere quelle teorie che, come quella di Proudhon, tolgono alla realtà il suo dinamismo, la sua capacità d'evoluzione, cercando di conciliare i contrari. Difatti, agli occhi di Marx, ogni compromesso non è altro che un ristagno, una sosta nell'evoluzione, nella quale si trovano momentaneamente mascherati gli antagonismi necessari e vitali. Perché ci sia un progresso, bisogna che l'opposizione tra i contrari si accentui fino a provocare la crisi, per opera della quale si ritroveranno riassorbiti, integrati in una sintesi superiore.

Questa concezione dialettica del divenire implica un concetto del reale considerato contemporaneamente come soggetto e come oggetto, che Marx deriva sempre da Hegel, e che gli permette di superare il materialismo del secolo XVIII adottato da Feuerbach.

Feuerbach, considerando la natura e l'uomo sotto un aspetto statico, era stato portato ad adottare nei riguardi della natura un atteggiamento contemplativo, che gli faceva ammettere che il vero consistesse nell'immediato, nella sensazione, nell'impressione diretta che si ha del mondo esteriore.

Per Hegel questa sensazione diretta non costituiva altro che un grado inferiore della conoscenza, e diveniva veramente umana soltanto integrandosi nel soggetto per il tramite della ragione, e trasformandosi in concetto. Marx riteneva con Hegel che la sensazione immediata del mondo esterno non costituisse un'unione dinamica tra l'uomo e la natura, ma invece di porre quest'unione nel concetto, nel pensiero, la realizzava nell'attività pratica.

In questo modo superava Feuerbach ed anche Hegel, che realizzava quest'unione soltanto nell'ambito dell'idea, del concetto. Hegel concepiva, si, le cose nel loro svolgimento dialettico, nella loro evoluzione, ma siccome non discerneva le vere ragioni di questa, la riduceva allo svolgimento dell'Idea, l'attribuiva ad un immaginario Spirito Assoluto, e sopprimeva di fatto la realtà del mondo esterno, malgrado il suo desiderio di realizzare la sintesi del pensiero e dell'essere. L'evoluzione, ridotta così allo svolgimento dell'Idea, Irovava in questa il suo termine, ed Hegel la faceva culminare nello Stato prussiano, considerato da lui come l'espressione dello Spirito Assoluto.

In Marx l'evoluzione storica perdeva questo carattere spirituale, poiché la dialettica non restava più interiore all'Idea, ma risultava dall'adattamento dell'uomo alla natura, ciò che permetteva di realizzare nell'attività umana l'unione effettiva del pensiero e dell'essere, del soggetto e dell'oggetto, dell'uomo e del mondo esterno.

La dottrina di Marx costituiva così quella nuova concezione dell'evoluzione, che è stata l'idea centrale del secolo XIX.

Hegel, e con lui i romantici, aveva trasformato la concezione statica del mondo in una concezione dinamica, considerandolo come un organismo immenso evolventesi sotto l'azione d'una forza interna, l'Idea, lo Spirito del Mondo. Ma in lui l'evoluzione restava semi-metafisica, o piuttosto semi-teologica, perché l'Idea, che nel suo sistema era la causa efficiente e finale della realtà, restava ancora in un certo senso separata dal mondo nel quale si realizza.

Facendo procedere l'evoluzione non più dall'Idea, ma dalla realtà, dalla natura stessa delle cose, dalle contraddizioni economiche e dagli antagonismi sociali causati dal regime di produzione, Marx toglieva all'evoluzione il carattere d'involuzione che essa aveva ancora in Hegel, e le dava la forma d'un processo dialettico infinito. Nel suo sistema, l'evoluzione è determinata essenzialmente dalla causalità, senza che però ne sia compietamente esclusa la teologia; infatti la sua dottrina, malgrado la sua apparenza oggettiva, è tutta imbevuta di finalità, e in lui come in Hegel si sente una fede mistica che lo induce a piegare i fatti verso la meta che assegna loro; e seppure egli si compiace di proclamare con Hegel che il cammino della storia è un cammino necessario, lo fa perché sa che questa necessità costringe i fatti a realizzare un ideale, che è poi il suo.

Ciò pone un ulteriore problema; resterebbe da ricercare in quale misura la dialettica, che Marx riteneva, conformemente a Hegel, come la sola forma di svolgimento della realtà vivente, sia non soltanto una forma del pensiero, ma una legge della natura. Poiché dalla soluzione di questo problema dipende il giudizio che si può pronunciare su Marx.

Se la dialettica non è altro che una forma del pensiero umano, si criticherà l'asprezza, l'angustia, l'intransigenza della dottrina di Marx, che deforma il reale per sottoporlo al processo dialettico; se invece la dialettica è la legge dell'evoluzione economica e sociale, si riconoscerà che il suo sistema deve ad essa la sua verità, la sua nitidezza, la sua potenza di attrazione e di azione.