Possiamo definire la nozione di civiltà soltanto concentrando i lumi di tutte le scienze dell'uomo, inclusa la storia. Quest'ultima tuttavia non verrà ancora chiamata in causa nel corso del presente capitolo, dove invece ci sforzeremo di definire il concetto di civiltà in relazione con le altre scienze dell'uomo: geografia, sociologia, economia, psicologia collettiva. Sono quattro viaggi attraverso paesi che non hanno fra loro alcuna somiglianza: eppure, le conclusioni che ne trarremo, saranno molto più concordanti tra loro di quanto ci potremmo attendere a tutta prima.
Le civiltà, qualunque ne sia la dimensione, possono sempre venire localizzate su una carta geografica. Una parte essenziale della loro realtà dipende dalle esigenze o dai vantaggi della loro situazione geografica.
Beninteso, da secoli e spesso da millenni l'uomo ha organizzato questo sito; non vi è paesaggio che non rechi il segno di un lavoro continuo, arricchito di generazione in generazione, insomma capitalizzato. Nel corso di questa impresa l'uomo è venuto trasformando se stesso mediante quel "possente lavoro di sé su se stesso" di cui parla Michelet, o, se vogliamo, quella "produzione dell'uomo per opera dell'uomo", secondo la definizione di Marx.
1.
Parlare di civiltà, equivale a parlare di spazi, di terre, di rilievi, di climi, di vegetazione, di specie animali, di vantaggi dati o acquisiti. Significa dunque parlare di tutto ciò che riguarda gli uomini: agricoltura, allevamento, alimentazione, case, abbigliamento, comunicazioni, industria... La scena dove hanno luogo questi interminabili atti umani, ha la sua parte nel determinare lo sviluppo, e spiega la loro peculiarità. Gli uomini passano, la scena rimane relativamente uguale a se stessa.
Così, secondo l'indianista Hermann Goetz, due Indie si trovano in contrasto l’una con l'altra: l'India umida delle grandi piogge, dei laghi, delle paludi, delle piante e dei fiori acquatici, delle foreste e delle giungle, l'India degli uomini dalla pelle bruna; e, d'altro canto, l'India relativamente secca, che comprende i corsi medi dell'Indo e del Gange e continua attraverso il Deccan, il paese degli uomini dalla pelle chiara, spesso bellicosi. L'India è il dialogo, la lotta di questi due spazi e di questi due tipi di umanità.
Naturalmente l'ambiente - naturale e al tempo stesso costruito dall'uomo - non costringe fin dall'inizio ogni cosa nei vincoli di uno stretto determinismo. L'ambiente non spiega tutto, anche se grande è il suo influsso sotto forma di condizioni favorevoli date o acquisite.
Dal punto di vista delle condizioni date, ogni civiltà sarebbe figlia di privilegi immediati, di cui l'uomo si è subito impadronito. In principio, dunque, fiorirono le civiltà fluviali del mondo antico, lungo le rive del Fiume Giallo (civiltà cinese), dell'Indo (civiltà preindiana ), dell'Eufrate e del Tigri (civiltà sumerica, babilonese, assira), del Nilo (civiltà egiziana). Nello stesso modo fiorirono le civiltà talassocratiche, figlie del mare: la Fenicia, la Grecia, Roma (se l'Egitto è un dono del Nilo, esse sono un dono del Mediterraneo), e il gruppo di vigorose civiltà dell'Europa settentrionale, che hanno come loro centro il Baltico e il mare del Nord; senza dimenticare lo stesso Atlantico e le suo civiltà periferiche: l'Occidente attuale e le sue propaggini non si trovano forse proprio riuniti attorno a questo oceano, come anticamente il mondo romano attorno al Mediterraneo? In realtà, i casi classici che abbiamo citato mettono soprattutto in evidenza l'importanza primaria della circolazione. Nessuna civiltà vive senza un proprio movimento: tutte si arricchiscono degli scambi e degli urti determinati - da fruttuosi rapporti di vicinato. Così l'Islam è impensabile senza il movimento delle carovane attraverso i suoi vasti "mari senz'acqua", i deserti e le steppe, senza le sue navigazioni attraverso il Mediterraneo e l'oceano Indiano, fino a Malacca e in Cina. Ma accennando a questi casi, eccoci già fuori del campo delle condizioni favorevoli naturali, immediate, che si pretendono all'origine delle civiltà. Vincere l'ostilità di deserti o le improvvise collere del Mediterraneo, utilizzare la regolarità dei venti dell'oceano Indiano, imbrigliare con dighe un fiume sono il risultato degli sforzi umani: vantaggi acquisiti, o meglio, conquistati. Ma allora, perché, nel corso di generazioni, alcuni uomini si sono mostrati capaci di queste vittorie e altri no, in certi territori e non in altri?
A questo proposito, Arnold Toynbee ha presentato una teoria seducente: per la buona riuscita di uno sforzo umano occorre sempre un challenge, una sfida e una response, una risposta; è necessario che la natura si presenti all'uomo come una difficoltà da superare: se l'uomo accetta la sfida, la sua risposta crea le basi stesse della civiltà. Tuttavia, se volessimo spingere questa teoria alle sue estreme conseguenze, dovremmo forse concludere che più grande sarà la sfida della natura, più forte sarà la risposta dell'uomo? Possiamo dubitarne. L'uomo civile del secolo xx ha accolto la sfida insolente dei deserti, delle regioni polari ed equatoriali; tuttavia, nonostante la presenza di indiscutibili interessi (oro, petrolio) non ha potuto finora moltiplicarvisi e crearvi vere civiltà. Sfida e risposta, certo; ma non necessariamente civiltà, almeno fino a quando non saranno state trovate tecniche e risposte migliori. Dunque, ogni civiltà è legata a uno spazio dai confini press’a poco stabili; ognuna possiede una propria geografia particolare, che implica tutta una serie di possibilità e di necessità - alcune quasi permanenti -, ma non mai le medesime da una civiltà all'altra. Così, sulla superficie variegata della terra, le carte distinguono, a volontà, le varie zone delle case di legno, di paglia e di terra, di bambù o di carta, di mattoni o di pietra; le zone delle diverse fibre tessili: lana, cotone, seta; le zone delle grandi colture alimentari di base: riso, mais, grano... Variano le sfide, e così le risposte.
La civiltà occidentale o europea non è forse quella del frumento, del pane, anzi, del pane bianco, con tutte le conseguenze che necessariamente ne derivano? Il frumento è infatti una pianta esigente: basti pensare che la sua coltura esige una rotazione annua e richiede che ogni due anni, o ad anni alterni, la terra sia lasciata in riposo. Ma anche la risaia ricoperta d'acqua, estesasi progressivamente sulle basse terre dell'Estremo Oriente impone a sua volta una serie di necessità.
Così, di volta in volta, le risposte dell'uomo giungono a liberarlo dalle servitù dell'ambiente circostante per poi asservirlo alle soluzioni che ha escogitato. È liberato da un determinismo per ricadere in un altro.
2.
Nel linguaggio degli antropologi, un'area culturale è uno spazio all'interno del quale predomina l'associazione di certe caratteristiche culturali. Così quando si tratta di popoli primitivi la determinazione di un'area culturale si basa, oltre che sul linguaggio, su certe culture alimentari, certe forme di matrimonio, certe credenze, una particolare arte della ceramica o della freccia piumata, una data tecnica della tessitura, ecc. Definite in base a precisi particolari le aree distinte dagli antropologi sono in generale ristrette.
Tuttavia, diverse aree culturali possono venire raggruppate in un più vasto insieme, a seconda di alcune caratteristiche comuni al gruppo, capaci di distinguerlo da altri grandi complessi. Secondo Marcel Mauss le culture primitive sorte attorno all'immenso oceano Pacifico costituivano, nonostante le differenze notevoli e l'enormità degli spazi che le separano, un solo, unico insieme umano, o meglio culturale.
Sulla scorta degli antropologi, anche gli storici e i geografi hanno naturalmente cominciato a parlare di aree culturali, applicandone la problematica allo studio di civiltà più evolute e complesse. Anche in questo caso, uno spazio è sempre scomponibile in una serie di più ristrette regioni particolari, e la possibilità di procedere ad una tale scomposizione è essenziale, come vedremo, nel caso delle grandi civiltà, che si suddividono regolarmente in unità più piccole.
La civiltà cosiddetta "occidentale" comprende ad un tempo la "civiltà americana", sia quella degli Stati Uniti, sia quella dell'America latina, la Russia e, beninteso, l'Europa. L'Europa stessa racchiude una serie di civiltà - polacca, tedesca, italiana, inglese, francese, ecc. - senza parlare del fatto che ognuna di queste civiltà nazionali si distingue a sua volta in "civiltà" ancora più ristrette: Scozia, Irlanda, Catalogna, Sicilia, Province basche, ecc... Né si dimentichi che queste suddivisioni, questi mosaici dalle tessere multicolori costituiscono caratteristiche permanenti o quasi.
3.
Il fatto che lo spazio saldamente occupato da una civiltà sia racchiuso tra frontiere immobili, non esclude la permeabilità di queste frontiere ai beni culturali che di continuo le attraversano in tutti i sensi.
Ogni civiltà esporta e importa beni culturali, che si tratti di una particolare tecnica di fusione, della bussola, della polvere da sparo, di un modo per temperare l'acciaio, di un sistema filosofico intero o frammentario, di un culto, di una religione, o di quella canzone sul Marlborough che, a partire nel Settecento fece il giro di tutta l'Europa: Goethe la udì nelle vie di Verona nel 1786.
Il sociologo Gilberto Freyre si è provato a mettere insieme un elenco di tutto ciò che il suo paese, il Brasile, nel corso degli ultimi decenni del Settecento e dei primi cinque o sei decenni del secolo XIX ha ricevuto dall'Europa: la birra scura di Amburgo, il cottage inglese, la macchina a vapore (un battello a vapore circola nella baia di San Salvador fin dal 1819), il completo estivo da uomo in tela bianca, i denti artificiali, il gas illuminante, e, prima di tutte, in ordine cronologico, le società segrete, in particolare la massoneria, la cui funzione fu molto importante in tutta l'America ispano-portoghese al tempo delle lotte per l'indipendenza. Qualche decennio dopo, arrivò il sistema filosofico di Auguste Comte, il cui influsso fu così importante, che ancora oggi se ne ritrovano alcune tracce.
Il passaggio di tutti questi beni culturali - un esempio scelto tra mille - dimostra che nessuna frontiera culturale è chiusa e impermeabile.
Verità di un passato prossimo e remoto: i beni culturali arrivavano un tempo con il contagocce, ritardati dalla lentezza dei viaggi. Se vogliamo credere agli storici, alcune mode cinesi dell'epoca dei T'ang (secolo vii d. C.) avrebbero viaggiato tanto lentamente, da giungere soltanto nel secolo xv nell'isola di Cipro alla brillante corte dei Lusignano; di qui si diffusero poi con la rapidità dei vivaci traffici mediterranei, giungendo fino in Francia, alla corte un po' folle di Carlo VI, dove furoreggiarono le acconciature femminili che incorniciavano il capo con un pesante rotolo di capelli (atours), i copricapi femminili a forma di lungo cono, o di sella (hennin), i calzati a punta (a la poulame), eredità di un mondo da tempo scomparso. Così la luce di stelle spente da secoli giunge ancora a noi.
Oggi, la diffusione dei beni culturali ha subito una tremenda accelerazione. Presto non rimarrà un solo angolo nel mondo, "incontaminato" dalla civiltà industriale partita dall'Europa. Nel Borneo del nord (che, con il vicino Sarawak, è soggetto all'autorità britannica) vi sono altoparlanti che trasmettono emissioni di radio lontane: Cina comunista, Indonesia. Ora, anche se gli ascoltatori non capiscono assolutamente niente, i ritmi musicali ascoltati hanno alterato danze e musiche tradizionali. Che dire poi dell'influsso del cinema, e specialmente del cinema americano ed europeo, sui gusti e sui costumi stessi di paesi estremamente lontani?
Nessun esempio però, può rivaleggiare con la storia narrata dall'antropologa americana Margaret Mead, in un piccolo volume. Nella sua giovinezza questa studiosa aveva compiuto un'inchiesta in un'isola del Pacifico, dove, per alcuni mesi, divise la vita di una popolazione primitiva. In seguito, la guerra, con i contatti aberranti che ha provocato, inserì quegli isolani in un nuovo tipo di esistenza, che per la prima volta li lega alla vita del mondo. Margaret Mead è ritornata sul posto dopo questi avvenimenti e ha riscritto il suo volumetto affiancando per un confronto le fotografie degli stessi uomini prese a distanza di vent'anni e raccontando con emozione questa straordinaria avventura.
Così possiamo intuire di nuovo il dialogo fra la civiltà e le civiltà, che seguiremo da un capo all'altro di questo libro. Questa diffusione, sempre più rapida farà saltare le frontiere fra le varie civiltà, spezzando le rigide linee lungo le quali si è svolta fino ad oggi la storia del mondo. Molti lo credono e se ne rallegrano o se ne rattristano. Teniamo presente tuttavia che le civiltà, per quanto impazienti siano di far propri i beni della vita "moderna", non sono disposte ad assimilare tutto indistintamente. Al contrario (e ritorneremo su questo punto), capita a volte che esse si ostinino nel rifiuto di accogliere determinati beni; il che spiega oggi come ieri, la loro possibilità di conservare un'originalità che tutto sembra minacciare.
Non esistono civiltà senza società che le nutrano, le animino con le loro tensioni e i loro progressi.
Di qui, il primo problema che non possiamo fare a meno di affrontare: era proprio necessario creare la parola civiltà e promuoverla poi sul piano scientifico, se essa è soltanto il sinonimo di società? Arnold Toynbee, ad esempio, usa sempre il termine society in luogo di civilisation; Marcel Mauss giudica "la nozione "civiltà" certamente meno chiara di quella " società" che essa presuppone".
1.
La società non può mai venire astratta dalla civiltà, e viceversa: le due nozioni si riferiscono alla stessa realtà.
Lévi-Strauss, afferma addirittura che queste due parole "non corrispondono a due realtà distinte, ma a due punti prospettici complementari sulla medesima realtà, che si trova descritta adeguatamente sia da un termine, sia dall'altro, a seconda del punto di vista adottato".
La nozione di società implica un contenuto estremamente ricco, come pure quella di civiltà, che così spesso combacia con l'altra. Così, la civiltà occidentale in cui viviamo dipende dalla "società industriale" che la anima. Sarebbe facile descriverla descrivendo questa società, con i suoi gruppi, le sue tensioni, i suoi valori morali e intellettuali, i suoi ideali, le sue costanti, i suoi gusti, ecc.; in una parola, descrivendo gli uomini, portatori di questa civiltà e che la trasmetteranno a loro volta.
Quando la società sottostante si agita o si trasforma, anche la civiltà si trasforma e si agita. Questa è la conclusione cui giunge Lucien Goldmann nel suo bel lavoro Le dieu caché (1955), dedicato alla Francia del "Gran secolo". Ogni civiltà, spiega in ultima analisi l'autore, trae luce dalla visione del mondo che adotta e fa propria. Ma la visione del mondo non è che la descrizione, la conseguenza delle tensioni sociali predominanti. La civiltà, non sarebbe che uno specchio o meglio un apparecchio che registra tali tensioni e tali sforzi.
Ai tempi del giansenismo, di Racine, di Pascal, dell'abate di Saint-Cyran e dell'abate Barcos le cui lettere, ritrovate da Goldmann, offrono tanto interesse -, in quel momento appassionato del destino francese, affrontato nel Dieu caché, la visione tragica del mondo che prevale va ascritta a merito dell'alta borghesia parlamentare, in lotta con la monarchia da cui era stata delusa.
Il suo tragico destino, la coscienza che essa ne ha, e il suo prestigio intellettuale imposero al gran secolo una visione dominante: la sua.
Con spirito ben diverso, un'identificazione di civiltà e società presiede anche le tesi di LéviStrauss sulla differenza tra società primitive e società moderne, o, se si vuole, tra cultura e civiltà, secondo la distinzione in uso fra gli antropologi.
Alle culture corrispondono società "generatrici di scarso disordine (i fisici parlerebbero di entropia), che hanno la tendenza a conservarsi indefinitamente nel loro stato iniziale; il che spiega fra l'altro perché esse ci appaiano senza storia e senza sviluppo. Le nostre società invece (corrispondenti alle civiltà moderne)... utilizzano per il loro funzionamento una differenza di potenziale, attuata da diverse forme di gerarchia sociale. Tali società hanno finito col realizzare al loro interno uno squilibrio sociale utilizzato da esse per produrre al tempo stesso molto più ordine (le società basate sul macchinismo), e molto più disordine, molto meno entropia, proprio sul piano dei rapporti umani".
Insomma, le culture primitive sarebbero il frutto di società egualitarie, nel cui seno i rapporti fra i gruppi sono regolati una volta per sempre e si ripetono immutati; le civiltà, invece, si fonderebbero su società organizzate gerarchicamente, con profonde differenze tra i gruppi, e quindi con mutevoli tensioni, conflitti sociali, lotte politiche e una perpetua evoluzione.
2.
Di tali differenze fra "culture" e "civiltà" il segno distintivo più evidente è probabilmente la presenza o l'assenza delle città e delle società urbane.
La città si sviluppa e si espande allo stadio delle civiltà, mentre è appena abbozzata al livello delle culture. Tra un estremo e l'altro esiste naturalmente tutta una serie di gradi intermedi di sviluppo: oggi l'Africa nera si presenta come un gruppo di società tradizionali e di culture impegnate nel difficile e spesso tormentoso processo di creazione di una nuova civiltà e di un moderno urbanesimo. Le sue città, attente a tutto ciò che proviene dall'esterno, a ciò che sbocca sulla vita unitaria del mondo, costituiscono delle isole nell'ambiente ristagnante del loro retroterra, pur precorrendo la società e la civiltà del futuro.
Ma anche le civiltà e le società più evolute presuppongono, all'interno dei loro stessi confini, la presenza di culture, di società elementari: il dialogo ancora oggi tanto importante fra la città e le campagne ne è un esempio. In ogni società lo sviluppo non raggiunge mai allo stesso modo tutte le regioni, tutti gli strati della popolazione. Sopravvivono numerose zone di sottosviluppo (regioni montagnose o troppo povere o lontane dalle vie di comunicazione), vere e proprie società primitive o "culture" nel cuore di una civiltà.
Il maggior successo del mondo occidentale è stato certamente l'inserimento delle sue campagne e delle "culture" agricole nella sfera della civiltà urbana. Nel mondo islamico il dualismo città-campagna è più netto, le città si sono formate pi rapidamente e più precocemente che in Europa, mentre le campagne sono rimaste più primitive, con vaste zone di nomadismo. Una soluzione di continuità, questa, ch'è di regola in Estremo Oriente, dove le culture sono rimaste quasi del tutto isolate e vivono una vita propria, ripiegate su se stesse, cosicché le città più splendide si trovano separate tra loro da vasti spazi rurali a economia quasi chiusa, a volte addirittura selvaggia.
3.
Data la stretta relazione fra civiltà e società, è opportuno comportarsi da sociologi ogni qual volta si affronti la storia di lunga durata delle civiltà.
Tuttavia uno storico dovrà guardarsi dal confondere i due* concetti di società e civiltà.
Nel prossimo capitolo spiegheremo in che cosa consista - a parer nostro - questa differenza: nell'arco del tempo una civiltà abbraccia spazi cronologici assai più vasti di una data realtà sociale. Essa cambia molto più lentamente delle società che nutre e porta in sé. Ma non è ancora venuto il momento di discutere questa prospettiva della storia. Ogni cosa a suo tempo.
Ogni. società, ogni civiltà dipende da una serie di dati economici, tecnologici, biologici, e demografici. Le condizioni materiali e biologiche pesano molto gravemente sul destino delle civiltà. L'aumento o la diminuzione della popolazione, la buona o cattiva salute fisica, lo sviluppo o la crisi dell'economia e della tecnica si ripercuotono sull'edificio culturale e sociale. L'economia politica nel suo più largo significato è lo studio di tutti questi immensi problemi.
I.
Importanza del numero: per lunghi secoli l'uomo è stato il solo strumento e il solo motore a disposizione dell'uomo, il solo artefice, poi, della civiltà materiale che ha costruito con la sola forza delle sue mani e delle sue braccia.
In linea di massima e in effetti, ogni fenomeno di espansione demografica ha favorito lo sviluppo delle civiltà: questo accadde in Europa nei secoli XIII, XVI, XVIII, XIX e XX.
Altrettanto regolarmente, la sovrabbondanza d'uomini, inizialmente vantaggiosa, diventa un elemento negativo, quando lo sviluppo demografico proceda più rapidamente di quello economico: è quello che probabilmente avvenne in Europa verso la fine del Cinquecento e avviene oggi ancora nella maggior parte dei paesi sottosviluppati. Di qui, nel passato, le carestie, la deteriorazione del salario reale, le rivolte popolari, i tetri periodi di recessione; fino a quando le epidemie, aggiungendosi alla fame, non finivano col diradare le file troppo strette degli uomini. A queste catastrofi biologiche - ad esempio quella della seconda metà del Trecento in Europa, peste nera e le altre successive epidemie, oppure quella che si delinea nel secolo XVII - i sopravvissuti vivono per qualche tempo abbastanza a loro agio e l'espansione riprende, accelera sino alla successiva frenata.
Soltanto l'industrializzazione, dalla fine del secolo XVIII in poi, sembra essere riuscita a rompere questo circolo vizioso e a ridare all'uomo, anche quando sia numericamente sovrabbondante, il suo valore e la possibilità di vivere e di lavorare. Ce lo dimostra la storia d'Europa: il sempre maggior valore dell'uomo, e pertanto la necessità di economizzare il suo impiego, hanno permesso la nascita delle macchine e dei motori. L'antichità greco-romana, pur così intelligente, non ha posseduto macchine al livello della sua intelligenza. In effetti, non cercò di averle: aveva il torto di possedere schiavi. Anche la Cina classica, formatasi ben prima del secolo XIII, per quanto fosse a un livello intellettuale tanto avanzato, particolarmente nel campo della tecnica, ebbe a propria disposizione, per sua disgrazia, troppi uomini. L'uomo non costava e compiva quindi tutte le attività di un'economia che praticamente ignorava persino gli animali domestici. Per questa ragione la Cina, tanto a lungo all'avanguardia nel campo scientifico, non seppe oltrepassare le soglie della scienza moderna e dovette lasciarne il privilegio, l'onore e il vantaggio all'Europa.
2.
Incidenza delle fluttuazioni economiche: la vita economica continua a oscillare in fluttuazioni di lunga o di breve durata.
Nel corso degli anni si succedono dunque periodi di bello e brutto tempo economico, ed ogni volta società e civiltà ne risentono gli effetti, soprattutto quando si tratta di movimenti di lunga durata. Il pessimismo e l'inquietudine che caratterizzarono la fine del Quattrocento, quell'"autunno del Medioevo" che ha tanto appassionato Johan Huizinga, corrispondono a una netta recessione dell'economia occidentale, così come più tardi il romanticismo europeo coinciderà con una recessione economica di lunga durata: dal 1817 al 1852. L'espansione economica della seconda metà del Settecento (a partire dal 1733), pur avendo conosciuto qualche momento di stasi (ad esempio alla vigilia della Rivoluzione), segui nel complesso un attivo ritmo di accelerazione, che ci porta a situare l'espansione intellettuale del "secolo dei lumi" nel suo contesto di benessere, di vivaci attività commerciali, di sviluppo industriale e demografico.
3.
Qualunque sia il senso della fluttuazione, la vita economica è quasi sempre creatrice di surplus.
Il dispendio, lo sciupo del surplus sono stati condizione indispensabile del lusso e di certe forme d'arte nelle civiltà. In una certa opera di architettura, di scultura, di pittura noi, oggi, ammiriamo, spesso senza saperlo, anche l'orgoglio sicuro di una città, la follia vanitosa di un principe o la ricchezza troppo recente di un mercante-banchiere. In Europa, a partire dal Cinquecento - ma senza dubbio da prima - la civiltà, al suo stadio supremo, avanza sotto il segno del denaro e del capitalismo.
La civiltà è così funzione di una certa ridistribuzione del denaro. Le civiltà assumono una diversa fisionomia al loro vertice e poi nella loro massa, a seconda del modo di ridistribuzione loro peculiare, a seconda di meccanismi sociali ed economici che prelevano sulla circolazione del denaro la parte destinata al lusso, all'arte, alla cultura. Nel Seicento, nel periodo di gravissime difficoltà economiche che caratterizzarono il regno di Luigi XIV, il mecenatismo fu praticato quasi esclusivamente dalla corte, e in questa cerchia ristretta venne a concentrarsi tutta la vita letteraria ed artistica del tempo. Ma la prosperità economica del Settecento permise anche all'aristocrazia e alla borghesia di prendere parte attiva - a fianco della monarchia - alla diffusione della cultura, della scienza, della filosofia.
Tuttavia, in quel tempo il lusso era ancora privilegio di una minoranza sociale, cui non partecipava la civiltà sottostante, quella della povera vita quotidiana. Ora, proprio questa base di una civiltà è in generale rivelatrice della sua natura più autentica. Che cosa è la libertà, che cosa è la cultura individuale, quando il minimo vitale è ancora fuori portata? Da questo punto di vista, l'Ottocento, questo secolo tanto spesso messo sotto accusa, il secolo dei nuovi ricchi, dei "borghesi conquistatori", il noioso secolo XIX preannunzia, se ancora non realizza, un nuovo destino per le civiltà e per gli uomini. Mentre aumenta considerevolmente il loro numero, essi sono chiamati in masse sempre più vaste a partecipare ad una certa civiltà collettiva. Certo il prezzo di una tale trasformazione (incosciente, non c'è nemmeno bisogno di dirlo) fu socialmente altissimo. Ma in cambio, la contropartita fu di grande importanza. Lo sviluppo dell'insegnamento, l'accesso alla cultura e alle università, la promozione sociale sono le conquiste, ricche di conseguenze, di un secolo già ricco come l'Ottocento.
Il grosso problema di oggi e di domani è la creazione di una civiltà che sia contemporaneamente di qualità e di massa; terribilmente costosa e impensabile senza la produzione di un importante surplus posto a disposizione della società, impensabile anche senza larghi margini di tempo libero, che solo il macchinismo industriale potrà senza dubbio mettere presto a nostra disposizione. Nei paesi industriali questo avvenire è già in vista, realizzabile entro uno spazio di tempo più o meno ampio. Il problema si complica, però, su scala mondiale.
In effetti, le ineguaglianze dell'accesso alla civiltà create dalla vita economica fra le varie classi sociali esistono anche fra i vari paesi del mondo. Una gran parte del mondo costituisce oggi quello che un brillante saggista ha definito "il proletariato esterno", quello che nel linguaggio corrente viene chiamato il Terzo mondo: un'enorme massa di uomini per i quali l'accesso al minimo vitale si pone prima dell'accesso alla civiltà - spesso ignota loro - del loro proprio paese. O l'umanità si metterà al lavoro per colmare questi giganteschi dislivelli, oppure la e le civiltà correranno il rischio di scomparire.
Dopo la geografia, la sociologia e l'economia, ci attende il confronto con la psicologia. Con quest'unica differenza: che la psicologia collettiva non è una scienza tanto sicura di sé e tanto ricca di risultati quanto le altre scienze umane fin qui esaminate. Raramente si è finora avventurata sulle vie della storia.
1.
Psiche collettiva, presa di coscienza, mentalità o attrezzatura mentale: è difficile scegliere fra questi termini proposti a titolo di questo paragrafo. Proprio tale incertezza linguistica è segno dell'immaturità della psicologia collettiva come scienza.
Psiche ("psychisme") è il termine preferito da uno storico, grande specialista in questo campo: Alphonse Dupront. Presa di coscienza non corrisponde che a un momento nel corso di un'evoluzione: per lo più al punto conclusivo. Lucien Febvre, dal canto suo, nel suo studio sulla religione di Rabelais, preferì parlare di attrezzatura mentale ("outillage mental").
Ma le parole non hanno grande importanza: non da loro dipende il problema. In ogni età una certa rappresentazione del mondo e delle cose, una mentalità collettiva e predominante, anima e permea l'intera massa della società. Questa mentalità, che ispira gli atteggiamenti, orienta le scelte, rafforza i pregiudizi, indirizza i movimenti della società, è un fenomeno peculiare di civiltà. Più che la risultante degli eventi e delle circostanze storiche e sociali di un certo periodo, la mentalità è il frutto di lontane eredità, di credenze, di paure, di inquietudini antiche, spesso inconsce, quasi il frutto di un'immensa contaminazione i cui germi si sono perduti nel corso del tempo, sono stati trasmessi attraverso generazioni e generazioni di uomini. Le reazioni di una società di fronte agli avvenimenti del momento, alle pressioni che essi esercitano, alle decisioni che impongono, obbediscono più che alla logica e all'interesse egoistico, al comandamento inespresso e sovente inesprimibile che scaturisce dall'inconscio collettivo.
Questi valori fondamentali, queste strutture psicologiche sono decisamente quello che le civiltà hanno di meno facilmente comunicabile tra loro, quello che le distingue e le isola maggiormente. E tali mentalità sono anche assai poco sensibili al lavorio del tempo; il loro mutare è lento e questo mutare richiede sempre lunghi periodi di incubazione, anch'essi inconsci.
2.
Da questo punto di vista) la religione è l'elemento più forte nel cuore delle civiltà: è contemporaneamente il loro passato e il loro presente.
Questo è valido, sia detto innanzi tutto, per le civiltà non-europee; in India, ad esempio, ogni azione trae la propria forma e la propria giustificazione, non dalla nazionalità, ma dalla vita religiosa. Lo avevano già osservato con stupore i Greci, se dobbiamo credere all'aneddoto narrato da Eusebio, vescovo di Cesarea (265-340): "Il musicista Aristoxane racconta questa storia a proposito degli Indiani: uno di loro incontrò Socrate ad Atene e gli chiese di dargli una definizione della sua filosofia. "Uno studio delle realtà umane", rispose Socrate. Al che l'indiano scoppiò a ridere: "Come può un uomo studiare le realtà umane, quando ignora le realtà divine? " Dell'incapacità umana di comprendere l'immenso mistero e l'unicità del sovrannaturale, un filosofo indiano contemporaneo, Siniti Kunar Chatterji, dà questa efficace immagine: "Siamo simili a ciechi, che, tastando le varie parti del corpo di un elefante, sono convinti di toccare chi una colonna, chi un serpente, chi una sostanza dura, chi un muro, chi una spazzola a manico flessibile, a seconda che tocchino la zampa, la proboscide, le zanne, il corpo o la coda".
Di fronte a una così profonda umiltà religiosa, l'Occidente sembra dimentico delle proprie fonti cristiane. Tuttavia, più che di una rottura che il razionalismo avrebbe operato tra la sfera religiosa e quella culturale, ci pare più esatto parlare di coesistenza tra laicismo, scienza e religione, o meglio ancora di dialogo, di volta in volta drammatico o fiducioso, non mai interrotto. Il cristianesimo è una realtà essenziale della vita dell'Occidente, tale da condizionare gli stessi atei, senza che spesso se ne rendano conto o lo riconoscano. Le norme morali, l'atteggiamento davanti alla vita e alla morte, la concezione del lavoro, del valore etico dell'attività, della funzione della donna e del bambino, sono tutte forme del nostro comportamento che apparentemente non hanno nulla a che vedere con il sentimento cristiano, e tuttavia da esso derivano.
Vero è, tuttavia, che la tendenza fondamentale della civiltà occidentale - da quando si sviluppò ii pensiero greco. - fu sempre rappresentata dal razionalismo, quindi dal progressivo distacco dalla vita religiosa. Ma proprio in ciò consiste la sua singolarità, su cui dovremo ritornare. Eccettuati, infatti, alcuni esempi eccezionali - certi sofisti cinesi, qualche filosofo arabo del secolo XII - il distacco dalla religione non si manifestò mai in modo così netto nella storia del mondo non-occidentale. Le civiltà furono quasi sempre invase, sommerse dal fattore religioso, sovrannaturale, magico; la loro vita si è sempre svolta in questo ambito; di qui hanno tratto le ragioni più imperiose della loro particolare forma psicologica. Avremo occasione di ritornare più volte su questo punto.
Va anche notato che questi fatti di civiltà hanno sempre vita brevissima. Come potranno allora condurci verso quelle coordinate, antiche e insieme attuali, se ci sembra che essi si sostituiscano e si distruggano fra loro, invece di continuarsi?
In un dibattito già complicato e che essa complicherà ulteriormente, dobbiamo ora dare la parola alla storia, con i suoi metodi, le sue spiegazioni essenziali. In effetti non esiste oggi una civiltà che sia comprensibile senza la conoscenza del cammino da essa percorso, dei suoi più antichi valori, delle esperienze compiute. Una civiltà è sempre un passato, un certo passato ancora vivo.
La storia di una civiltà, dunque, è la ricerca, fra le coordinate del passato, di quelle che rimangono ancora valide. Non si tratta di raccontare tutto ciò che si può sapere a proposito della civiltà greca o del Medioevo cinese, ma tutto ciò che, della vita di un tempo, resta efficace ancora oggi, nell'Europa occidentale o nella Cina di Mao Tsetung, per. dirla con un'immagine, isolare tutti i punti nei quali si determina un corto circuito tra presente e passato, un passato spesso lontano di decine di secoli.
Cominciamo da principio. Ogni civiltà, ieri come oggi, si rivela in primo luogo attraverso una serie di manifestazioni, facili da cogliere: un'opera teatrale, un'esposizione di pittura, il successo di un libro, una filosofia, una moda nell'abbigliamento, una scoperta scientifica, il perfezionamento di una tecnica... Sono tutti avvenimenti apparentemente indipendenti l'uno dall'altro: a prima vista non c'è alcun flesso tra la filosofia di Merleau-Ponty e l'ultima tela di Picasso.
1.
Questi spettacoli ci appaiono infatti in perpetuo mutamento. Cambia il programma e nessuno desidera che esso tenga troppo a lungo il cartellone.
Questo variare continuo si esprime nello stesso succedersi di "epoche" letterarie, artistiche e filosofiche: sono tutti episodi chiusi in se stessi. Possiamo dire, usando il linguaggio degli economisti, che esistono con giunture culturali, come esistono congiunture economiche, cioè fluttuazioni pii o meno lunghe, più o meno rapide, che quasi sempre si succedono contraddicendosi violentemente. Da un'"epoca" all'altra tutto cambia, o sembra cambiare, come quando a teatro un proiettore senza modificare le scene o i volti, li cobra diversamente e sembra precipitarli' in tutto un altro mondo.
Il Rinascimento ci fornisce il più bell'esempio di queste "epoche". Ha i propri temi, i propri colori, le proprie preferenze e anche le proprie manie. È caratterizzata dalla passione intellettuale, dall'amore del bello, dalle discussioni libere e tolleranti, in cui il divertimento intellettuale diventa una nuova forma della gioia di vivere, e anche dalla scoperta o riscoperta dell'Antichità, alla quale si appassiona tutta l'Europa colta.
CosI pure esiste una congiuntura romantica, grosso modo tra il i8oo e il 1850, benché ci sia stato naturalmente un preromanticismo e un tardo romanticismo; essa impresse il proprio marchio sulla sensibilità, sulle intelligenze di un'età agitata e difficile, nel melanconico periodo che segui la rivoluzione e l'impero, caratterizzato in tutta Europa da un fenomeno di recessione economica (tra il 18 17 e il 1852). Non intendiamo certo dire che questa recessione basti a spiegare l'inquietudine romantica, e tanto meno che l'abbia determinata. Non si può escludere che esistano movimenti ciclici propri della sensibilità, del modo di vivere e di pensare, indipendentemente o quasi da ogni altro contesto... Comunque, ogni generazione ama contraddire quella che l'ha preceduta, e quella che segue la ripagherà con la stessa moneta. Vi sarebbe cosI un'oscillazione continua fra romanticismo (oppure barocco secondo Eugenio d'Ors) e classicismo, fra intelligenza rigorosa e sensibilità inquieta, con spettacolari cambiamenti di scena.
L'immagine che si presenta ai nostri occhi è dunque quella di un costante andirivieni; una civiltà, come un'economia ha un proprio ritmo; essa si presenta come una storia a eclissi, che si potrà scomporre in una serie di pezzi quasi estranei fra loro. CosI si parla del,"secolo di Luigi XIV" e del "secolo dei lumi", oppure di "civiltà del gran secolo" e di "civiltà del Settecento". Si tratta di "civiltà di un'epoca", di "diaboliche invenzioni" afferma Joseph Chappey, un filosofo economista, che giudica questo modo di parlare contraddittorio con il concetto stesso di civiltà, nel quale è implicito, come vedremo, l'idea di continuità. Ma lasciamo perdere per il momento questa contraddizione. Del resto, unità e diversità coesistono e si affrontano continuamente; serviamocene anche noi, allora.
2
"Svolte", avvenimenti, eroi; le congiunture, il succedersi di episodi ci aiutano a comprendere la funzione particolare di certi avvenimenti e di certi personaggi nella storia delle civiltà.
Visto da vicino, ogni episodio si scompone in una serie di atti, gesti, funzioni. In effetti, le civiltà sono formate da uomini, con i loro infiniti movimenti, le loro azioni, i loro entusiasmi, i loro "impegni", ed anche i loro voltafaccia. Tuttavia, in questa serie di atti, di opere, di biografie, è necessario operare una scelta; gli avvenimenti e gli uomini che hanno segnato una "svolta", o una nuova fase storica balzano in evidenza senza difficoltà; più importante è l'annunzio, piiI è necessario un segno che lo distingua.
La scoperta della gravitazione universale ad opera di Newton nel 1687, è un avvenimento di importanza, gravido, cioè, di conseguenze. La rappresentazione del Cid nel 1636 o dell'Ernani nel 1830 furono avvenimenti incisivi.
Così, anche gli uomini emergono dalla storia nella misura in cui la loro opera preannunziò una nuova stagione o riassunse un episodio. Questo vale sia per un Joachim du Bellay (152266), l'autore della Défense et illustration de la langue francaise, sia per un Leibniz (16461716) ii padre del calcolo infinitesimale, sia per un Denis Papin (1647-1714) l'inventore della macchina a vapore.
Ma i nomi che dominano veramente la storia delle civiltà sono quelli che riescono a superare una serie di congiunture, come una nave può attraversare numerose ternpeste. Nei momenti di sutura fra periodi storici si levano spesso alcuni spiriti privilegiati in cui si incarnano in una sola volta parecchie generazioni: Dante (1265-1321) alla fine del Medioevo "latino", Goethe (1749-1832) alla fine della prima età moderna d'Europa; e poi Newton sulle soglie della fisica classica, oppure Albert Einstein (1879-1955) una personalità che è però resa ancor più gigantesca dalle mostruose dimensioni della nuova scienza dei nostri tempi.
A questa categoria eccezionale appartengono i fondatori dei grandi sistemi del pensiero; Socrate o Platone, Confucio, Cartesio o Karl Marx, figure dominatrici lungo un arco di parecchi secoli. Fondatori di civiltà, appena meno importanti di quegli astri di prima grandezza, sono i fondatori di religioni; Buddha, Cristo, Maometto, che brillano ancora di una vivida luce.
In poche parole, la misura secondo la quale si giudicano e si classificano per ordine di importanza, la massa confusa degli avvenimenti e quella non meno confusa degli uomini, è il tempo che essi impiegano a sparire dalla scena del mondo. Soltanto coloro cui appartiene la durata e che si confondono con una realtà lungamente vissuta, contano veramente nella grande storia della civiltà. Di là da una storia familiare, si ritrovano così, quasi controluce, le coordinate segrete del tempo lungo, verso il quale dobbiamo ora rivolgere la nostra attenzione.
Questo discorrere di epoche ci ha offerto soltanto immagini mutevoli, brevi apparizioni sulla scena delle civiltà. Se cerchiamo di cogliere quello che nel corso dello spettacolo quasi non varia sullo sfondo della scena, vedremo emergere altre realtà, più semplici e di maggior interesse. Alcune durano per due o tre spettacoli, altre per qualche secolo, altre ancora hanno cosI lunga durata da apparirci immutabili. A torto, naturalmente: anch'esse in realtà si muovono, ma lentamente, impercettibilmente.
1.
Di questo tipo sono le realtà di cui si è parlato nel capitolo precedente: le costrizioni del sito geografico, le gerarchie sociali, le mentalità collettive, le necessità economiche, sono tutte forze profonde ma difficili da discernere a prima vista, specialmente per chi vive insieme con loro e le considera cose ovvie, prive di problemi. Il linguaggio odierno designa tali realtà con il termine "strutture".
Lo stesso storico non vede apparire queste realtà nel suo racconto cronologico tradizionale, costruito su un ritmo troppo veloce. Per comprenderle, per seguirle nella loro lentissima evoluzione è necessario percorrere lunghi spazi di tempo. Allora i movimenti di superficie, di cui abbiamo fin qui parlato, gli avvenimenti e gli uomini stessi scompaiono davanti ai nostri occhi, mentre emergono davanti a noi alcune grandi realtà permanenti o semipermanenti, coscienti e incoscienti ad un tempo. Sono queste le "fondamenta" o meglio le "strutture" delle civiltà: i sentimenti religiosi, ad esempio, l'immobilità del mondo rurale, l'atteggiamento davanti alla morte, al lavoro, al piacere, alla vita familiare...
Queste realtà, queste strutture, sono in generale antiche, di lunga durata e sempre caratteri distintivi e originali; esse dànno alle civiltà un volto particolare, una particolare natura, che non viene mutata perché ritenuta di valore insostituibile. Naturalmente, queste permanenze, queste scelte ereditarie o questi rifiuti opposti contro altre civiltà sono per lo più elementi incoscienti per la grande massa degli uomini. Per riuscire a isolarli chiaramente è necessario allontanarsi, per lo meno idealmente, dalla civiltà in cui si è immersi.
Prendiamo come esempio molto semplice ma capace di attingere a strutture profonde, la posizione 'della donna nella società europea del secolo xx. I suoi caratteri peculiari - "naturali", per noi - ci appariranno soltanto se confrontati con la posizione della donna in altre società, ad esempio la donna musulmana, o, all'estremo opposto la donna americana degli Stati Uniti. Se vogliamo capire il perché di questa situazione sociale, dovremo risalire lontano nel passato, almeno fino al secolo XII, al tempo dell'"amor cortese", così da poter tratteggiare la storia della concezione dell'amore e della coppia in Occidente. Sarà poi necessario ricorrere a tutta una serie di altre spiegazioni: il cristianesimo, l'accesso della donna alla scuola e all'università, l'idea che l'europeo si fa dell'educazione dei figli, le condizioni economiche, livello di vita, lavoro femminile in casa e fuori, ecc.
La funzione della donna si rivela una tipica struttura di civiltà, un test, poiché in ogni civiltà è una realtà di lunga durata, capace di resistere agli urti esterni, difficile da modificare dall'oggi al domani.
2.
A una civiltà ripugna in generale l'adozione di beni culturali capaci di mettere in pericolo le sue strutture profonde. Questi rifiuti, queste ostilità segrete sono relativamente rare, ma introducono sempre al cuore stesso di una civiltà.
Una civiltà prende di continuo a prestito dai propri vicini beni che verranno poi "reinterpretati" e assimilati. A prima vista ogni civiltà assomiglia a uno scalo-merci, che riceve e spedisce di continuo i bagagli piii eterogenei. Tuttavia, può avvenire che una civiltà rifiuti testardamente una particolare offerta proveniente dall'esterno. È un fenomeno rilevato da Marcel Mauss: non esiste civiltà degna di questo nome che non abbia certe ripugnanze, certi rifiuti. Ed ogni volta il rifiuto giunge al termine di una lunga serie di esitazioni e di esperienze. Meditato, deciso con ponderazione, esso assume sempre un'estrema importanza.
Un caso tipico potrebbe essere la conquista di Costantinopoli da parte dei Turchi nel 1453. Uno storico turco contemporaneo ha sostenuto che la città si era data, era stata presa dall'interno, prima dell'assalto ottomano. Per quanto esagerata, la tesi non è inesatta. In realtà la Chiesa ortodossa - e potremmo dire la civiltà bizantina - preferI all'unione con i Latini, che sola avrebbe potuto saivaria, la sottomissione ai Turchi. Ovviamente non parliamo di una "decisione" presa all'ultimo momento, di fronte all'urgere dell'avvenimento. Fu la conclusione naturale di un lungo processo durato quanto la decadenza di Bisanzio, che accentuò sempre píú la ripugnanza dei Greci a un riavvicinamento con quei Latini, da cui li separava tutta una serie di divergenze teologiche.
L'unione, peraltro, era possibile. L'imperatore Michele Paleologo l'aveva accettata al concilio di Lione nel 1274.
Nel 1369 l'imperatore Giovanni V aveva fatto professione di fede cattolica a Roma. Nel 1439 ii concilio di Firenze mostrò nuovamente la possibilità dell'unione. I piii eminenti teologi greci - Giovanni Bekkos, Demetrios Lydones, Bessarione - dispiegarono a favore dell'unione una dottrina e un talento che gli avversari non seppero poi eguagliare. Tuttavia, fra Turchi e Latini, i Greci preferirono i Turchi. "La Chiesa bizantina, gelosa della propria indipendenza, chiamò il nemico e pose nelle sue mani l'impero e la cristianità", poiché, come già nel 1385 scriveva a papa Urbano VI il patriarca di Costantinopoli, esso avrebbe lasciato alla Chiesa greca "piena libertà .d'azione": e questo fu il motivo decisivo. Fernand Grenard, lo autore da cui traiamo queste spiegazioni, aggiunge: "l'asservimento di Costantinopoli da parte di Maometto II, fu il trionfo del patriarca antiunionista". L'Occidente, d'altronde, conosceva molto bene questi sentimenti di antipatia nei suoi confronti: "questi scismatici - scriveva Petrarca - ci hanno temuto e odiato con tutto il loro cuore».
Un altro rifiuto formulato molto lentamente (in Francia, dove maggiore fu l'esitazione, sarà necessario quasi un secolo), fu quello che chiuse alla Riforma l'Italia e la penisola iberica, poi la Francia, campo di battaglia a lungo contrastato fra i due modi di credere in Cristo.
Un ultimo esempio di natura non esclusivamente politica è quello offerto dal rifiuto che separa l'Occidente evoluto e l'America anglosassone - compreso il Canada - sia pure in modo non unanime, dal marxismo e dalle soluzioni totalitarie delle Repubbliche socialiste. Il no è categorico da parte dei paesi germanici e anglosassoni; molto meno netto e definitivo da parte della Francia, dell'Italia e degli stessi paesi iberici. Si tratta probabilmente di un rifiuto opposto da una civiltà a un'altra. Potremmo dire meglio che se l'Europa occidentale adottasse il comunismo, lo organizzerebbe probabilmente in modo diverso, come essa ha già fatto per il capitalismo, costituitosi in forme diverse da quelle ad esempio degli Stati Uniti.
3.
Il lavoro richiesto per l'assorbimento o il rifiuto di beni culturali provenienti dall'esterno viene compiuto da una civiltà anche nei confronti di se stessa con estrema lentezza. Quasi sempre questa scelta è poco cosciente o addirittura incosciente. Grazie ad essa, però, una civiltà si trasforma a poco a poco, "dividendosi" da una parte del proprio passato. Nella massa di beni e di atteggiamenti, che il passato, con i suoi successivi sviluppi, sospinge verso una civiltà, trasmettendoglieli, essa opera lentamente una selezione, scartandone o accettandone, e con tale scelta ricompone un volto che non è mai interamente nuovo, ma non è neppure più quello di prima.
Questi rifiuti interni possono essere recisi o sfumati, duraturi o transitori. Soltanto quelli duraturi sono essenziali in questi settori, progressivamente illuminati da studi di storia psicologica, estesi all'ambito di un paese o di una civiltà. Ricordiamo così i due lavori, pionieri in questo campo, di Alberto Tenenti, dedicati al senso della morte e all'amore della vita nel Quattro e Cinquecento, il lavoro di R. Mauzi su L'idée de bonheur en France au XVIII siècle, ed il libro avvincente di Michel Foucault sulla storia della follia nell'età moderna.
In tutti e tre questi casi si tratta del lavorio compiuto da una civiltà su se stessa, un lavorio che raramente appare in piena luce. Tutto, infatti, si svolge con un ritmo così lento che i contemporanei non vi prestano mai attenzione. Le eliminazioni - e le aggiunte complementari che spesso ne derivano - avvengono ogni volta con lentezza secolare, superando divieti, ostacoli, cicatrizzazioni difficili, spesso imperfette, sempre lunghissime. Michel Foucault, nel suo linguaggio particolare, usa l'espressione "dividersi" per definire l'atto di una civiltà che respinge determinati valori di là dalle proprie frontiere oltre i termini della propria esistenza. E spiega: "Si potrebbe fare la storia dei limiti, dei gesti oscuri che, in generale, appena compiuti, dimentichiamo, mediante i quali una civiltà respinge qualcosa che sarà poi per essa l'Esterno. Per tutto il corso della sua storia, il vuoto che si è cosI scavato, lo spazio bianco con cui si isola, la definisce non meno dei suoi valori. Questi, infatti, sono da essa accolti e conservati attraverso la continuità della propria storia; ma nella regione limite di cui ci proponiamo di parlare, essa esercita le proprie scelte essenziali, opera la "divisione" che dà l'espressione della sua positività; qui risiede lo spessore originale in cui essa si forma". questo un passo che merita di essere letto e riletto. Una civiltà raggiunge la propria vera personalità respingendo nell'oscurità delle terre limitrofe e già straniere tutto ciò che la disturba. La sua storia è costituita dalla decantazione secolare di una personalità collettiva presa, come ogni personalità individuale, fra un destino chiaro e cosciente e un destino oscuro e incosciente, che è la base e la ragione essenziale del primo, pur rimanendo sempre ignorato. t evidente che questi studi di psicologia retrospettiva sono stati chiaramente segnati dalle scoperte della psicanalisi.
Il libro di Michel Foucault studia un caso particolare: la separazione tra ragione e follia, tra folli e savi, ignota al Medioevo europeo, al quale il folle, come ogni miserabile, appariva più o meno misteriosamente inviato da Dio. Il desiderio di ordine sociale che caratterizzò il Seicento, condusse alla reclusione, inizialmente dura e perfino brutale, dei pazzi, considerati come relitti da eliminare dal mondo, come ne sono rigettati i delinquenti e gli oziosi inveterati. Con maggiore dolcezza, con un certo amore li trattò l'Ottocento che scorse in loro dei malati. Ma, nonostante la differenza tra questi due atteggiamenti, il problema centrale rimase sempre lo stesso: a partire dal secolo XVII fino ai nostri giorni l'Occidente si è "diviso" dalla pazzia, ha proscritto il suo linguaggio, ha rifiutato la sua presenza. Così, il trionfo della ragione procede insieme, in profondità, con una tempesta lunga e silenziosa, un'azione quasi incosciente, quasi ignorata che, tuttavia, è in certo qual modo sorella di questa vittoria riportata in piena luce, frutto del razionalismo e della scienza classica.
Potremmo fornire altri esempi di queste "divisioni" parziali o totali. Il libro di Alberto Tenenti segue pazientemente le fasi del processo per cui l'Occidente si è "diviso" dalla morte cristiana quale l'aveva concepita il Medioevo, e cioè come semplice passaggio della creatura dall'esilio terreno alla vera vita dell'al di là. Nel Quattrocento la morte diventa "umana", la prova suprema per l'uomo, in tutto l'orrore della decomposizione del corpo. Ma in questa nuova concezione della morte l'uomo trova la nuova-concezione della vita, che riacquista il suo pregio, il suo valore umano. L'ossessione della morte scompare nel Cinquecento, che almeno ai suoi inizi è il secolo della gioia di vivere.
4.
Vi sono, poi, gli urti violenti di civiltà. Il nostro ragionamento presuppone finora civiltà libere delle loro scelte, in rapporto pacifico fra loro. In realtà i rapporti violenti sono stati spesso la regola: sempre tragici, a lungo termine si sono rivelati per lo più inutili.
Alcuni successi come la romanizzazione della Gallia e di gran parte dell'Occidente si spiegano soltanto con la lunghezza dell'impresa e anche - nonostante quello che se n'è detto - con il basso livello dei popoli romanizzati, con l'ammirazione provata per il vincitore e insomma una certa connivenza. Successi del genere, però, sono rari, eccezioni che confermano la regola.
Nel corso di simili contatti violenti fra civiltà i fallimenti sono stati molto più frequenti dei successi. Se il colonialismo ieri ha potuto trionfare, oggi il suo fallimento è fuori dubbio; e colonialismo significa proprio sommersione di una civiltà da parte di un'altra. I vinti cedono sempre al più forte, ma la loro sottomissione è provvisoria, quando vi sia conflitto di civiltà.
Questi lunghi periodi di coesistenza obbligata, comportano concessioni e intese, prestiti culturali importanti e spesso fruttuosi, ma non giungono mai oltre un certo limite. Il più bell'esempio di interpenetrabilità culturale ci è offerto dallo studio di Roger Bastide, Les religions americaines au Brésil (196o), in cui viene affrontata la storia degli schiavi negri, catturati nelle diverse regioni africane e proiettati nella società patriarcale e cristiana del Brasile coloniale. Pur adottando il cristianesimo, essi reagirono contro di essa. Molti fuggiaschi formarono repubbliche indipendenti, i quilombos, fra cui quello di Palmeira, nel retroterra di Bahia, che cedette soltanto davanti a una guerra in piena regola. Che questi uomini, spogliati di tutto, siano riusciti a conservare le antiche pratiche religiose africane e le danze rituali di possessione, fino ad amalgamare, nelle loro candomblés o macumbas, riti africani e riti cristiani, così che oggi il loro "sincretismo" è culturalmente vivo, e addirittura trionfante, non costituisce forse un esempio sorprendente? I vinti hanno ceduto, ma nel contempo sono sopravvissuti.
Questo vagabondare attraverso tante resistenze, cedimenti, permanenze e lente deformazioni di civiltà permette di formulare un'ultima definizione, quella che restituisce alle civiltà il loro volto particolare, unico: le civiltà sono continuità, interminabili continuità storiche.
La civiltà è dunque la più lunga delle storie di lunga durata. Verità che lo storico non conquista di primo acchito, ma solo dopo una serie di osservazioni successive, come in un'ascensione quando a poco a poco il panorama si estende.
1.
Vi sono diversi tempi nella storia. Essa procede su scale, su unità di misura spesso diverse: giorno per giorno, anno per anno, decennio per decennio e perfino secolo per secolo.
Il paesaggio varierà ogni volta a seconda dell'unità di misura utilizzata. Le contraddizioni osservate fra queste realtà, fra questi tempi di lunghezza diversa alimentano la dialettica propria della storia. Per semplificare, diciamo pure che lo storico lavora almeno su tre piani diversi. Il piano A è quello della storia tradizionale, del racconto consueto che passa rapidamente da un avvenimento all'altro, come il cronista di ieri o il giornalista d'oggi. Mille immagini sono in tal modo afferrate sul vivo, e compongono immediatamente una storia variopinta, ricca di peripezie come un romanzo a puntate. Tuttavia, questo tipo di storia che tende a cancellarsi appena letta, ci lascia insaziati nella nostra curiosità e incapaci di giudicare e di comprendere. Il piano B riflette gli episodi presi in blocco: il romanticismo, la Rivoluzione francese, la rivoluzione industriale, la seconda guerra mondiale, ecc. L'unità di misura adottata è in tal caso il decennio, il ventennio, spesso il cinquantennio, in funzione di tale assieme - chiamato periodo, fase, episodio, congiuntura si accostano gli uni agli altri e si interpretano i fatti, proponendone l'interpretazione. Questi sono, se vogliamo, avvenimenti lunghi, già sbarazzati dei loro particolari superflui. Il piano C infine, supera anche gli avvenimenti lunghi e tiene conto soltanto dei movimenti secolari o plurisecolari: è una storia in cui ogni movimento è lento e abbraccia grandi spazi di tempo, una storia che si attraversa soltanto con gli stivali delle sette leghe. Su questo piano, la Rivoluzione francese è solo un breve istante, indubbiamente essenziale, della lunga storia del destino rivoluzionano, liberale e violento dell'Occidente; Voltaire è una semplice tappa nell'evoluzione del libero pensiero... A questo ultimo stadio - che i sociologi, i quali hanno anch'essi le loro immagini preferite, chiamerebbero "piattaforma in profondità" appaiono le civiltà, di là dagli incidenti, dalle peripezie che ne hanno colorato e segnato il destino, nella loro longevità, o meglio nelle loro permanenze, nelle loro strutture, nei loro schemi quasi astratti e tuttavia essenziali.
2.
Una civiltà non è dunque né una data economia, né una data società, ma quello che, attraverso una serie di economie, attraverso una serie di società, continua la propria esistenza, lasciandosi appena flettere a poco a poco.
Una civiltà viene raggiunta soltanto nel tempo lungo, nella lunga durata, afferrando il filo di una matassa che non finisce più di svolgersi; è, in fondo, tutto ciò che un gruppo di uomini ha conservato e trasmesso di generazione in generazione come il proprio bene più prezioso, attraverso una storia tumultuosa e spesso tempestosa.
In tale situazione non possiamo accettare senza discussione che la storia delle civiltà sia "tutta la storia", come diceva il grande storico spagnolo Rafael Altamira (ii) e, molto prima di lui, François Guizot (1855). Senza dubbio è tutta la storia, ma, vista in una certa prospettiva, colta nella massima estensione cronologica compatibile con una certa coesione storica ed umana. Non è la storia delle rose, per riprendere la nota immagine di Fontenelle, quantunque belle esse siano, ma la storia del giardiniere, che le rose credono immortale. Anche alle società, alle economie, ai mille incidenti della vita breve della storia le civiltà sembrano immortali.
Questa storia di lungo respiro, questa telestoria, questa navigazione d'alto mare, condotta al largo dell'oceano del tempo e non lungo le coste come un prudente cabotaggio, questo procedimento storiografico qualunque sia la definizione o l'immagine attribuitagli, ha i suoi pregi e i suoi inconvenienti. I vantaggi sono che essa obbliga a pensare, a spiegarsi in termini inconsueti, a servirsi della spiegazione storica per comprendere il proprio tempo; gli inconvenienti o i pericoli, che può cadere nelle generalizzazioni facili di una filosofia della storia, o in una storia piùl immaginata che capita e documentata.
Non a torto gli storici diffidano di viaggiatori troppo entusiasti, come Spengler o Toynbee. Ogni storia, spinta fino alla spiegazione generale richiede un ritorno costante alla realtà concreta, alle cifre, alle carte, alle cronologie precise, in una parola, alla verifica dei dati.
Per comprendere cosa sia una civiltà è dunque utile rivolgersi piuttosto allo studio dei casi concreti, che a quello della grammatica delle civiltà.