Bertrand Russell

Storia della filosofia ccidentale

TEA, Milano 1992

Capitolo decimo (pp. 746-753)

Karl Marx

Karl Marx è considerato di solito come l'uomo che affermava di aver reso scientifico il socialismo, e che più di ogni altro operò per creare quel potente movimento che, per attrazione o repulsione, ha dominato la recente storia d'Europa. Non rientra negli scopi di questo libro considerare la sua economia o la sua politica tranne che sotto un certo aspetto generale; è solo come filosofo, e come orientatore della filosofia altrui, che mi propongo di esaminarlo. Sotto questo aspetto, è difficile classificarlo. Da una parte è un prodotto, come Hodgskin, dei filosofi radicali, un continuatore del loro razionalismo e della loro opposizione ai romantici. Sotto un altro aspetto è un ravvivatore del materialismo, del quale dà una nuova interpretazione ed un nuovo legame con la storia umana. Sotto un terzo aspetto, è l'ultimo dei grandi costruttori di sistemi, il successore di Hegel, credente, come lui, in una formula razionale in cui si assommi tutta l'evoluzione dell'umanità. Insistere su uno di questi aspetti a spese degli altri, offrirebbe un panorama falso e distorto della sua filosofia.

Gli avvenimenti della sua vita spiegano in parte questa complessità. Nacque nel 1818 a Treviri, come Sant'Ambrogio. Treviri aveva subito profondamente l'influenza francese durante il periodo rivoluzionario e napoleonico, ed aveva idee molto più cosmopolite della maggior parte della Germania. Gli antenati di Marx erano stati rabbini, ma i suoi genitori divennero cristiani quando lui era ancora bambino. Sposò una aristocratica non ebrea, a cui rimase devoto per tutta la vita. All'università venne influenzato dall'ancor prevalente hegelismo, e poi, dalla rivolta di Feuerbach contro Hegel, verso il materialismo. Tentò il giornalismo, ma la Rheinische Zeitung, di cui era editore, fu soppressa dalle autorità per il suo radicalismo. Nel 1843, andò in Francia per studiare il socialismo. Là incontrò Engels, che era amministratore di una fabbrica di Manchester. Così venne a conoscenza delle condizioni del lavoro in Inghilterra e dell'economia inglese. Acquistò in tal modo, prima della rivoluzione del 1848, una eccezionale cultura internazionale. Per quanto riguardava l'Europa occidentale, non mostrò preferenze nazionali. La stessa cosa non può dirsi per l'Europa orientale, perché disprezzò sempre gli slavi.

Prese parte sia alla Rivoluzione francese che a quella tedesca del 1848, ma la reazione lo costrinse a cercar rifugio in Inghilterra nel 1849. Passò il resto della sua vita, tranne pochi e brevi intervalli, a Londra, agitato per la povertà, la malattia e la morte dei suoi bambini, ma ciò nonostante scrivendo ed accumulando infaticabilmente il sapere. Lo stimolo al lavoro era sempre per lui la speranza della rivoluzione sociale, se non durante la sua vita, almeno in un futuro non molto lontano.

Marx, come Bentham e James Mill, non vuole aver nulla a che fare con il romanticismo; la sua intenzione è sempre quella di essere scientifico. La sua economia è un prodotto dell'economia britannica classica, di cui cambia solo la forza motrice. Gli economisti classici, consciamente od inconsciamente, miravano al benessere del capitalista, anziché a quello del proprietario terriero o del salariato. Marx, al contrario, lavorava per gli interessi dei salariati. In gioventù possedeva (come appare dal Manifesto dei Comunisti del 1848) il fuoco e la passione occorrenti ad un nuovo movimento rivoluzionario, come il liberalismo aveva avuto al tempo di Milton. Ma era sempre ansioso di rifarsi all'esperienza e non fece mai assegnamento su intuizioni extrascientifiche.

Si definiva un materialista, ma il suo materialismo non era analogo a quello del XVIII secolo. La sua posizione che, sotto l'influenza hegeliana, chiama «dialettica», differiva in modo notevole dal materialismo tradizionale, ed aveva più a che fare con ciò che oggi è chiamato strumentalismo. Il vecchio materialismo, diceva Marx, considerava a torto la sensazione come passiva, ed attribuiva così l'attività inizialmente all'oggetto. Secondo l'opinione di Marx, ogni sensazione o percezione è un'interazione tra il soggetto e l'oggetto; il puro oggetto, a parte l'attività del percepiente, è pura materia prima, trasformata attraverso il processo con cui diviene nota. La conoscenza, nel vecchio significato di contemplazione passiva, è un'astrazione irreale; il processo che veramente ha luogo è il processo con cui si affrontano e si trasformano le cose. «Il problema se la verità obiettiva appartenga al pensiero umano non è un problema di teoria, ma di pratica», dice Marx. «La verità, cioè la realtà e la forza del pensiero, deve esser dimostrata in pratica. La disputa sulla realtà o non-realtà di un pensiero che è fuori della pratica è una questione puramente scolastica... I filosofi hanno solo interpretato il mondo in vari modi, ma il loro vero compito è di cambiario». (Undici tesi su Feuerbach, 1845)

Credo che Marx voglia dire che il processo che i filosofi hanno chiamato «ricerca della conoscenza» non è, così come è stato pensato, un processo in cui l'oggetto è costante, mentre ogni adattamento avviene da parte di colui che conosce. Al contrario, sia il soggetto che l'oggetto, sia colui che conosce sia la cosa conosciuta sono in un continuo processo di mutuo adattamento. Egli chiama tale processo «dialettico», perché non è mai completamente ultimato.

E’ essenziale, per questa teoria, negare la realtà della «sensazione» com'era concepita dagli empiristi inglesi. Quel che più si avvicina a ciò che essi intendono per «sensazione», sarebbe meglio chiamarlo «rilevazione», il che implica un'attività. Infatti, così avrebbe detto Marx, noi notiamo le cose solo come parte del processo del nostro agire in rapporto ad esse, ed ogni teoria che non considera l'azione è un'astrazione che induce in errore.

Per quanto ne so io, Marx fu il primo filosofo che criticò la nozione di «verità» da un simile punto di vista pragmatico. Queste critiche in lui non sono molto accentuate, e quindi non ne parlerò più, rinviando l'esame della teoria ad un prossimo capitolo.

La filosofia della storia di Marx è una miscela di Hegel e della economia inglese. Come Hegel, Marx pensa che il mondo si sviluppi secondo una formula dialettica, ma non è affatto d'accordo con Hegel riguardo alla forza motrice di questo sviluppo. Hegel credeva in una entità mistica chiamata «Spirito», la quale fa in modo che la storia umana si sviluppi secondo gli stadi della dialettica così come è fissata nella Logica di Hegel. Perché poi lo Spirito debba attraversare questi stadi non è chiaro. Si è tentati di supporre che lo Spirito stia cercando di capire Hegel, e che ad ogni stadio vada oggettivando inconsciamente ciò che è andato leggendo. La dialettica di Marx non ha nessuna di queste qualità, eccezion fatta per una certa ineluttabilità. Per Marx, la materia, e non lo spirito, è la forza motrice. Ma è materia in quel senso particolare che abbiamo considerato, e non la materia, completamente disumanizzata, degli atomisti. Ciò significa che, per Marx, la forza motrice è realmente la relazione dell'uomo con la materia, relazione in cui la parte più importante è il modo di produrre. In questo modo il materialismo di Marx, in pratica, diventa economia.

La politica, la religione, la filosofia e l'arte di ogni epoca della storia umana sono, secondo Marx, un portato dei suoi metodi di produzione e, in maniera minore, di distribuzione. Non credo che Marx sostenga che ciò si applichi a tutti gli aspetti della cultura, ma solo alle sue linee generali. Questa teoria è chiamata « concezione materialistica della storia ». una tesi molto importante; e riguarda in particolare lo storico della filosofia. Personalmente non accetto la tesi così com'è, ma penso che contenga elementi molto importanti di verità, e mi rendo conto di come essa abbia influenzato le mie vedute sullo sviluppo della filosofia esposte nel presente lavoro. Per cominciare, consideriamo la storia della filosofia in rapporto alla dottrina di Marx.

Soggettivamente, ogni filosofo si considera impegnato nella ricerca di qualcosa che si può chiamare « verità ». I filosofi possono essere in disaccordo sulla definizione della « verità », ma in ogni modo questa è qualcosa di oggettivo, qualcosa che, in un certo senso, ognuno dovrebbe accettare. Nessun uomo si darebbe alla ricerca filosofica se pensasse che tutta la filosofia è puramente espressione di pregiudizi irrazionali. Ma ogni filosofo affermerà che molti altri filosofi sono stati influenzati da pregiudizi e che motivi extra-razionali, di cui normalmente non erano consci, hanno concorso alla formazione di molte delle loro opinioni. Marx, come gli altri, crede nella verità delle proprie dottrine; e le considera null'altro che una espressione dei sentimenti naturali in un ebreo tedesco ribelle, appartenente alla classe media, nel mezzo del XIX secolo. Cosa può dirsi di questo conflitto tra l'aspetto soggettivo e oggettivo di una filosofia?

Possiamo dire, in linea di massima, che la filosofia greca fino ad Aristotele esprime la mentalità propria della Città-Stato; che lo stoicismo è proprio di un dispotismo cosmopolita; che la filosofia scolastica è espressione della Chiesa come organizzazione; che la filosofia da Cartesio in poi, o ad ogni modo da Locke in poi, tende a impersonare i pregiudizi della classe media commerciale; e che il marxismo ed il fascismo sono filosofie proprie dello Stato industriale moderno. Ciò, mi pare, è molto vero e molto importante. Credo, tuttavia, che Marx abbia torto sotto due aspetti. Primo, le circostanze sociali di cui si deve tener conto sono tanto politiche quanto economiche; esse hanno a che fare col potere, di cui la ricchezza è solo una forma. Secondo, le cause sociali cessano ampiamente dall'avere influenza non appena un problema diviene dettagliato e tecnico. Ho esposto la prima di queste mie obiezioni nel mio libro Power, e quindi non dirò altro in proposito. La seconda riguarda più da vicino la storia della filosofia, e fornirò qui qualche esempio a questo riguardo.

Prendete il problema degli universali. Questo problema fu discusso prima da Platone, poi da Aristotele, dagli scolastici, dagli empiristi inglesi e dai logici più moderni. Sarebbe assurdo negare che qualche pregiudizio abbia influenzato l'opinione dei vari filosofi su questo problema. Platone fu influenzato da Parmenide e dall'orfismo; voleva un mondo eterno, e non poteva credere nella realtà ultima del flusso temporale. Aristotele fu più empirico, ed il mondo di ogni giorno non gli dispiaceva. Gli empiristi d'oggi hanno un pregiudizio che è l'opposto di quello di Platone: trovano spiacevole il pensiero di un mondo soprasensibile, e sono pronti ad andare in capo al mondo pur di evitare di doverci credere. Ma queste opposte specie di pregiudizi sono perenni, ed hanno solo qualche remota connessione con il sistema sociale. Si dice che l'amore dell'eterno è caratteristico di una classe agiata, che vive sul lavoro degli altri. Non credo che questo sia vero. Epitteto e Spinoza non erano persone agiate. Si potrebbe obiettare, al contrario che la concezione del cielo come di un posto dove non si fa nulla quella dei lavoratori stanchi che non vogliono altro che riposare. Una tale argomentazione può essere portata avanti indefinitamente, e non conduce a nessun risultato.

D'altra parte, quando giungiamo al dettaglio della controversia sugli universali, troviamo che ogni parte può addurre argomenti che l'altra parte riconoscerà validi. Alcune delle critiche di Aristotele a Platone su questo argomento sono state accettate quasi universalmente. In tempi del tutto recenti, benché qualcosa di definitivo non sia stato raggiunto, si è sviluppata una nuova tecnica, e molti problemi incidentali sono stati risolti. Non è irrazionale sperare che, prima che passi molto tempo, i logici possano raggiungere un accordo definitivo su questo argomento.

Prendete, come secondo esempio, l'argomento ontologico. Questo, come abbiamo visto, fu scoperto da Anselmo, respinto da Tommaso d'Aquino, accettato da Cartesio, confutato da Kant e ripreso da Hegel. Credo che si possa dire con tutta sicurezza che, come risultato dell'analisi del concetto di « esistenza », la logica moderna abbia dimostrato la non validità di questo argomento. Questa non è questione . puramente tecnica. La confutazione dell'argomento non fornisce certamente una base per concludere che non è vera l'esistenza di Dio: se così fosse è lecito supporre che Tommaso d'Aquino non avrebbe respinto l'argomento.

Oppure prendete il problema del materialismo. Questa è una parola che può avere molti significati; abbiamo visto che Marx ne alterò radicalmente il senso. Le accese e vivissime controversie sulla sua verità o falsità son dipese in gran parte della mancanza di una definizione. Una volta definito il termine, si troverà che, secondo alcune definizioni, si può dimostrare che il materialismo è falso; secondo certe altre, può esser vero, pur non essendoci una ragione positiva per pensare ciò; mentre secondo altre definizioni ancora, ci sono delle ragioni in suo favore, anche se non conclusive. E tutto ciò, ancora, dipende da considerazioni tecniche, e non ha nulla a che vedere con il sistema sociale.

In realtà, la questione è semplice. Ciò che convenzionalmente si chiama « filosofia » consiste di due elementi molto differenti. Da una parte ci sono problemi scientifici o logici; questi sono riconducibili a metodi sui quali esiste un accordo generale. D'altra parte vi sono problemi d'appassionante interesse per un gran numero di persone., riguardo ai quali non ci son solide prove a favore o a sfavore. Tra questi ultimi ci sono dei problemi pratici dai quali è impossibile tenersi lontano. Quando c'è una guerra, debbo difendere il mio paese o accettare un doloroso conflitto sia con gli amici che con le autorità? In molte epoche non c'è stata alcuna via di mezzo tra il sostenere o il rifiutare la religione ufficiale. Per una ragione o per un'altra, poi tutti troviamo impossibile mantenere un'atteggiamento di scettico distacco su molte questioni per le quali la pura ragione nulla ci dice. Una « filosofia », nel senso più comune della parola, è un tutto organico composto anche ditali decisioni extra-razionali. Ed è riguardo alla « filosofia), in questo senso che l'affermazione di Marx è ampiamente vera. Ma, anche in questo senso, una filosofia è determinata da altre cause sociali non meno che da quelle economiche. La guerra, specialmente, ha la sua parte tra le cause storiche; e la vittoria in guerra non sempre va dalla parte che ha le maggiori risorse economiche.

Marx adattò la sua filosofia della storia in una forma suggeritagli dalla dialettica hegeliana, ma in realtà una sola triade lo interessava: il feudalesimo, rappresentato dai proprietari terrieri; il capitalismo, rappresentato dall'industriale, datore di lavoro; ed il socialismo, rappresentato dai salariato. Hegel pensava alle nazioni come agli strumenti del movimento dialettico; Marx vi sostituì le classi. Egli sconfessò sempre tutte le ragioni etiche od umanitarie per preferire il socialismo e mettersi dalla parte dei salariati; Marx non sosteneva che quella parte fosse eticamente migliore, ma che fosse la parte presa dalla dialettica nel suo movimento interamente deterministico. Avrebbe potuto dire che non sosteneva il socialismo, ma si limitava a profetizzarlo. Questo, tuttavia, non sarebbe stato del tutto vero. Senza dubbio Marx credeva che ogni movimento dialettico fosse, in senso impersonale, un progresso, e sosteneva che il socialismo, una volta stabilitosi, avrebbe procurato la felicità all'uomo più del feudalesimo o del capitalismo. Queste convinzioni, benché debbano aver assai influenzato la sua vita, rimasero, per quanto riguarda i suoi scritti, piuttosto nello sfondo. Occasionalmente, tuttavia, Marx abbandona la calma profezia per delle vigorose esortazioni alla ribellione, e la base emotiva del suo pronosticare ostentatamente scientifico è implicita in tutto ciò ch'egli scrisse.

Considerato unicamente come filosofo, Marx ha delle gravi manchevolezze. E’ troppo pratico, troppo coinvolto nei problemi del suo tempo. Le sue prospettive sono limitate a questo pianeta e, in questo pianeta, all'uomo. Fin da Copernico è stato evidente che l'uomo non ha l'importanza cosmica che prima si arrogava. Nessuno che non abbia tenuto conto di questo fatto ha diritto di chiamare scientifica la sua filosofia.

A questo limitarsi agli affari terreni si accompagna una pronta fiducia nel progresso come legge universale. Questa fiducia caratterizzò il XIX secolo, ed esisteva in Marx quanto nei suoi contemporanei. E solo per la convinzione della inevitabilità del progresso che Marx credette possibile fare a meno di considerazioni etiche. Se stiamo andando verso il socialismo, questo deve essere un miglioramento. Sarebbe stato pronto ad ammettere che questo non poteva sembrare un miglioramento ai proprietari terrieri od ai capitalisti, ma questo dimostrava solo che essi non erano in armonia con il movimento dialettico dell'epoca. Marx si professava ateo, ma aveva un ottimismo cosmico che solo il teismo protrebbe giustificare.

Parlando in senso lato, tutti gli elementi della filosofia di Marx che, derivano da Hegel non sono scientifici, nel senso che non c'è nessuna ragione per ritenerli veri.

Forse l'abito filosofico che Marx dette al suo socialismo non aveva in realtà molto a che fare con le basi stesse delle sue idee. E facile riesporre la parte più importante di quanto Marx disse senza alcun riferimento alla dialettica. Marx fu colpito dalla terrificante crudeltà del sistema industriale quale era in Inghilterra cento anni fa, sistema che conobbe soprattutto attraverso Engels ed i rapporti delle Commissioni Reali. Vide che il sistema si sarebbe sviluppato, verosimilmente, dalla libera concorrenza verso il monopolio, e che l'ingiustizia di questo avrebbe prodotto un movimento di rivolta nel proletariato. Sosteneva che, in una comunità fortemente industrializzata, l'unica alternativa al capitalismo privato è il possesso da parte dello Stato della terra e del capitale. Nessuno di questi argomenti riguarda la filosofia; non discuterò quindi la loro verità o falsità. Il punto è che, se son veri, bastano a dare una base a ciò che vi è di praticamente importante nel suo sistema. Le bardature hegeliane potrebbero quindi esser lasciate cadere con vantaggio.

Molto strana è la storia della fama di Marx. Nel suo paese le sue dottrine ispirarono il programma del Partito social-democratico, che crebbe costantemente finché, nelle elezioni generali del 1912, si assicurò un terzo dei voti. Subito dopo la prima guerra mondiale, il Partito social-democratico fu per un certo tempo al potere, ed Erbert, il primo presidente della Repubblica di Weimar, ne era membro; ma in quel tempo il Partito aveva cessato di aderire alla ortodossia marxista. Nel frattempo, in Russia, dei fanatici credenti in Marx avevano conquistato il potere. All'Ovest, nessun gran movimento di classi lavoratrici è stato del tutto marxista; il Partito laburista inglese, talvolta, è sembrato muoversi in quella direzione, tuttavia ha finito con l'aderire ad un tipo empirico di socialismo. Un gran numero di intellettuali, tuttavia, è stato profondamente influenzato da lui, sia in Inghilterra che in America. In Germania ogni portavoce delle sue dottrine è stato soppresso con la forza, ma ci si può aspettare che rivivano quando i nazisti saranno rovesciati?

L'Europa e l'America moderne sono così rimaste divise, politicamente ed ideologicamente, in tre campi. Vi sono i liberali, che ancora, per quanto oggi si possa, seguono Locke o Bentham, ma con vari gradi di adattamento ai bisogni dell'organizzazione industriale. Vi sono i marxisti, che controllano il governo in Russia, ed è probabile che divengano sempre più influenti in vari altri paesi. Questi due campi d'opinione non sono molto divisi dal punto di vista filosofico; entrambi sono razionalisti, ed entrambi, in teoria, sono scientifici ed empiristi. Ma dal punto di vista della politica pratica la differenza è netta. Ciò appare già dalla lettera di James Mill citata nel capitolo precedente, che dice: « Le loro idee sulla proprietà sono orribili ».

Bisogna ammettere, tuttavia, che sotto certi aspetti il razionalismo di Marx è soggetto a limitazioni. Per quanto sostenga che la sua interpretazione dello sviluppo storico è esatta, e che sarà dimostrata dagli eventi, Marx crede che il suo ragionamento farà presa solo (tranne rare eccezioni) su coloro i cui interessi di classe coincidono con esso. Spera poco dalla persuasione, tutto dalla lotta di classe. Quindi, in pratica, egli si affida al potere politico, e alla dottrina d'una classe padrona, anche se non di una razza padrona. E’ vero però che, come risultato della rivoluzione sociale, la divisione in classi dovrebbe alla fine scomparire, dando luogo ad una completa armonia politica ed economica. Ma questo è un lontano ideale, come la Seconda Venuta; nel frattempo ci sono guerra e dittatura, ed insistenza sull'ortodossia ideologica.

Il terzo campo delle moderne correnti d'opinione, rappresentato politicamente dai nazisti e dai fascisti, differisce filosoficamente dagli altri due assai più profondamente di quanto essi non differiscano l'uno dall'altro. E’ antirazionale ed antiscientifico. I suoi progenitori filosofici sono Rousseau, Fichte e Nietzsche. Esalta la volontà di potenza; e crede che questa sia concentrata in certe razze di individui, che hanno quindi il diritto di dominare.

Fino a Rousseau, il mondo filosofico mantenne una certa unità. Questa al giorno d'oggi è stata spezzata, ma forse non per molto. Può rinascere mediante una riconquista razionalistica degli spiriti, ma non altrimenti, poiché le pretese di dominio possono produrre solo la discordia.