Luigi AnepetaAntropologia borghese e antropologia marxistaNatura umana, emozioni e bisogni intrinseci |
1. Una disavventura nella storia della cultura può essere ricondotta alla nascita tardiva delle scienze rispetto al sapere umanistico. Il ritardo è addirittura più marcato per quanto riguarda le scienze che hanno come oggetto l’uomo e i fatti umani: l’economia, la sociologia, l’antropologia culturale, la psicologia e la psicoanalisi, per non parlare della genetica e della neurobiologia, che si sono sviluppate solo da pochi decenni. Non intendo interpretare tale fatto, pur ritenendolo interpretabile e non casuale. Mi preme solo sottolineare che, se la scienza fosse nata prima, molte problematiche, affrontate dai pensatori umanisti senza dati adeguati, sarebbero state impostate meglio. Non intendo dire che la scienza ha la chiave della verità, perché, quanto più sono in gioco l’uomo e i fatti umani, essa stessa non si sottrae facilmente alla trappola dell’ideologizzazione. Indubbiamente, però, il suo metodo e il suo spirito riducono al minimo tale pericolo. Da quando le scienze si sono affermate, esse, con rare eccezioni, hanno esercitato un enorme fascino sui pensatori. Ciò è vero anche per Marx, che avvia la sua carriera come filosofo e poi, con un cambiamento più apparente che reale, si dedica all’economia. Certo egli la sottopone ad una critica ideologica, ma, per fare questo, deve costruire un sistema e dunque enuncia leggi, opera previsioni, ecc. In realtà il sistema di Marx implica una serie di presupposti che riguardano la natura umana, i bisogni che la caratterizzano, l’organizzazione della coscienza, il rapporto tra soggettivo e oggettivo: in breve, il funzionamento del cervello. Sono quei presupposti che consentono di definire un’antropologia marxista contrapposta a quella borghese incentrata, come noto sull’assunto per cui l’individuo, con i suoi diritti naturali, viene prima della società ed è d’emblée libero e indipendente. Il riferimento ad un ipotetico stato di natura si ritrova in Hobbes, in Locke, in Rousseau, viene fatta propria dalla Rivoluzione francese, con la Carta dei diritti dell’uomo e del cittadino, e refluisce, infine, nella Carta dell’ONU del 1947. E’ nota la critica di Marx ai presunti diritti naturali, che, ai suoi occhi, tenendo conto dell’inclusione tra essi della proprietà privata, “naturalizza” solo i diritti del cittadino borghese. In conseguenza di tale critica, egli, nonostante l’intuizione della fondatezza della teoria darwiniana, giunge a sostenere che la natura umana non esiste se non sotto forma di seconda natura, vale a dire delle sue espressioni condizionate dalla trasformazione materiale e culturale dell’ambiente. Il Marx “scientifico”, l’economista critico, nonostante le apparenze, non si distacca mai del tutto, però, dal Marx antropologo. Egli identifica un’evoluzione e un fine della storia proprio sulla base di una concezione dell’essere umano, la cui massima espressione è, forse, affidata ai Manoscritti del ’44, laddove scrive: “L'uomo in quanto è un ente oggettivo è un ente patiens, e poiché è un ente che avverte il suo patire esso è un ente appassionato. La passione è la sostanziale forza umana tendente con energia al suo oggetto.” Ente oggettivo, gettato nel mondo, affiorato dall’evoluzione come un azzardo; essere patiens, animale carente - consapevole, peraltro, di tale carenza – in quanto deprivato di moduli comportamentali istintivi capaci di promuovere un adattamento all’ambiente; essere, infine, appassionato in quanto rivolto, quasi ossessivamente, a colmare lo scarto tra la mancanza ad essere che lo caratterizza e gli infiniti bisogni che lo motivano ad agire. E’ uno strano animale l’uomo di Marx, quello intuitivamente delineato nei Manoscritti. A tal punto strano da avere indotto, come accennato, Marx a porre tra parentesi il problema antropologico e essersi dedicato quasi esclusivamente allo studio della seconda natura, vale a dire della storia.. E’ possibile riaprire un discorso sull’antropologia marxista sulla base dei dati scientifici di cui si dispone oggi sulla natura umana? Io penso di sì, a patto che quei dati non siano ideologizzati. Il pericolo c’è. La genetica, per esempio, che va considerata come la punta di diamante della biologia contemporanea, corre costantemente il rischio di essere utilizzata per enfatizzare il peso dei fattori biologici rispetto a quelli ambientali. C’è una genetica, per esempio, che convalida l’esistenza di un irriducibile egoismo primario, di un’aggressività competitiva senza limite, di una differente dotazione di potenzialità tra gli esseri umani che giustifica una diversa distribuzione della ricchezza, ecc. La neurobiologia contemporanea, a sua volta, è caratterizzata, con un’unica eccezione (che io sappia) da un errore di fondo, ideologico appunto, che governa le ricerche. Essa pretende di analizzare le funzioni psichiche superiori (pensiero, emozioni e coscienza) considerandole espressive dell'attività di un cervello isolato; del cervello, insomma, di un individuo. Si tratta di un difetto sorprendente se si tiene conto del fatto che molti neuroscienziati danno per scontato che il salto dall'attività mentale degli animali superiori a quella umana sia dovuta al linguaggio. Ora, l'invenzione del linguaggio non è riconducibile ad un uomo ma ad un gruppo. E’ un codice convenzionale il quale postula l'accordo di più persone nell'assegnare ad un determinato significante un determinato significato. Sembra una banalità, e invece è un nodo di fondo epistemologico. Un cervello isolato, quello a cui fanno riferimento i neuroscienziati, è un'astrazione: non esiste, e se esistesse sarebbe un cervello dotato di potenzialità inespresse e, forse, atrofizzate. Un cervello strutturalmente umano, ma funzionalmente infraumano. La coscienza e le funzioni psichiche superiori non affiorano solo dalla complessità strutturale del cervello ma dall'interazione del cervello con altri cervelli e dalla necessità sociale di comunicare. Forse non è azzardato dire che la coscienza è anzitutto coscienza dell'altro e/o della relazione tra io e altro. L’eccezione cui ho fatto riferimento è quella legata alle ricerche di Rizzolati sui neuroni specchio, che privilegia l’intersoggettività come dimensione necessaria alla strutturazione delle funzioni psichiche superiori. Sarebbe importante soffermarsi su queste ricerche che, tra l’altro, per la prima volta nella storia della neurobiologia, privilegiano l’azione rispetto al pensiero. Il discorso però diventerebbe specialistico. Se si deve parlare della natura umana, occorre necessariamente risalire alle origini: interrogarsi cioè su come è affiorato, nel corso dell’evoluzione naturale, il cervello umano con le sue particolari caratteristiche strutturali e funzionali. Ritenere questo, come hanno fatto in passato molti marxisti, un problema astratto in nome del fatto che il funzionamento dell’organo si intreccia indissolubilmente con la produzione della cultura, tal che si è data un’interazione tra natura e cultura che ha inciso su di esso è un errore di prospettiva. Se è fuor di dubbio, infatti, che l’evoluzione culturale è di solito più veloce di quella biologica, non è detto che questo sia stato o sia vero sempre e comunque. C’è un dato che a riguardo vorrei citare. Quando compare l’uomo biologicamente moderno – l’homo sapiens sapiens -, circa centomila anni fa, egli ha un cervello più evoluto rispetto ai Neanderthal e all’homo sapiens arcaico. Ciò non di meno, egli usa lo stesso strumentario delle altre specie, estremamente povero e poco differenziato. Il cambiamento, vale a dire lo sviluppo di un’attrezzatura tecnica più ricca e adeguata alle nuove potenzialità del cervello, avviene solo 50000 anni dopo. In questo caso, è evidente che la biologia si è modificata prima della cultura. Com’è possibile, però, ricostruire la nascita della specie umana disponendo di reperti ancora molto scarsi? Per fortuna, si può seguire un tragitto abbastanza probante partendo dal presente, da alcune caratteristiche anatomiche e funzionali di grande interesse. 2. Un dato specie-specifico ormai accreditato da tutti i biologi concerne un fenomeno che è stato posto in luce da Louis Bolk, un anatomista olandese, e valorizzato da A. Gehlen, fondatore dell’antropologia filosofica, vale a dire di una corrente di pensiero che organizza i dati della scienza nella cornice di una riflessione filosofica sull’uomo. Gehlen ha sottolineato la “sprovvedutezza” della specie umana identificabile nella perdita di strumenti naturali di difesa (le zanne, gli artigli, la pelliccia, ecc.) e nel critico allentamento degli istinti che, negli altri animali, innescano moduli di comportamento automatici di adattamento all’ambiente. L’uomo è, dunque, un essere carente, “spoglio e indifeso, timido e inerme e per colmo di sventura defraudato di tutte le guide dell’esistenza”, vale a dire del valido apparato istintuale che favorisce l’adattamento all’ambiente degli altri animali. E’ evidente che questa condizione di “sprovvedutezza” ha avuto un ruolo centrale nel promuovere la cooperazione e nell’aguzzare l’ingegno tecnologico. Già solo questo dato rende sostanzialmente criticabile l’antropologia borghese, che, in tutte le sue versioni (da Hobbes a Locke e, ahimé, a Rousseau) fa riferimento all’individuo libero e indipendente che viene prima della società. Louis Bolk, invece, ha messo a fuoco un fenomeno che non può essere minimizzato: il ritardo dello sviluppo. Secondo Bolk, l’uomo è l’essere ritardato per eccellenza. Egli non solo nasce prematuro (e tale rimane per il primo anno di vita), ma evolve con una lentezza straordinaria rispetto a tutti gli altri animali, tal che la fase evolutiva occupa un quarto della sua esistenza. Oggi l’intuizione di Bolk non solo è confermata, ma arricchita dalle scoperte neurobiologiche. Il ritardo nella maturazione cerebrale è evidenziato dal confronto con l’animale più simile all’uomo, con il quale condivide il 97% circa di geni: “Prima della nascita, il cervello del feto della scimmia aumenta rapidamente in dimensioni e in complessità. Quando l’animale nasce, il cervello ha già raggiunto il settanta per cento delle sue dimensioni definitive di adulto. Il rimanente trenta per cento della crescita viene completato rapidamente durante i primi sei mesi di vita… Nella nostra specie, invece, alla nascita il cervello è solo il 23% delle sue dimensioni adulte. Per altri sei anni dopo la nascita continua una crescita rapida e l’intero processo di accrescimento non è completo sino al ventitreesimo anno di vita. [Nell’uomo, dunque], la crescita del cervello continua per circa dieci anni dopo che abbiamo raggiunto la maturità sessuale, mentre per lo scimpanzé termina sei o sette anni prima che l’animale diventi attivo dal punto di vista della riproduzione” (Desmond Morris, La scimmia nuda, Mondadori). La nozione di ritardo dello sviluppo si può applicare, però, anche all’uomo adulto. Bolk infatti ha scoperto che nella struttura anatomica adulta sono reperibili indizi che attestano la persistenza di caratteristiche fetali o infantili quali il volume della testa rispetto al corpo, la pelle glabra, le ossa fragili, i denti piccoli, ecc. L’uomo è dunque un animale fetalizzato e pedomorfo sotto il profilo strutturale. Per definire tale aspetto è ormai invalso l’uso di utilizzare il termine neotenia. Ci si può chiedere quale interesse possa avere questo discorso anatomico in rapporto alle caratteristiche psichiche umane. L’interesse è enorme. La neotenia sembra, infatti, comportare cambiamenti correlati della struttura del cervello e del comportamento Si può arrivare a capirlo solo attraverso un rapido excursus, che concerne uno straordinario esperimento di selezione naturale prodotto dall’uomo - l’addomesticamento degli animali – e in particolare di quello che ha prodotto i maggiori cambiamenti nell’assetto fisico e comportamentale di una specie: il cane. Il cane domestico è, infatti, un animale “neotenizzato”. Il processo di addomesticamento del cane è partito dal suo progenitore, il lupo, animale sociale ma non socievole, non incline a familiarizzare con l’uomo. E’ probabile che l’uomo abbia catturato alcuni esemplari meno aggressivi o meno timorosi nei suoi confronti. Incrociando questi esemplari sono venuti fuori prima dei cani che seguivano i cacciatori nomadi, nutrendosi dei resti dei loro pasti, poi cani selvatici che gravitavano intorno alla comunità umana fungendo da “spazzini”, infine cani capaci di stabilire con l’uomo un rapporto affettivo. L’addomesticamento ha prodotto lentamente la comparsa di mutazioni fisiche (riduzione del volume cranico, accorciamento dei denti, orecchie pendule, code arrotolate), che sono riconducibili alla neotenia, e di mutazioni caratteriali (socievolezza, giocosità, affettività, ecc.) che mantengono in età adulta caratteristiche proprie dei cuccioli. La neotenia e il pedomorfismo che caratterizza la specie umana attesta che qualcosa del genere è avvenuto nel corso dell’ominazione. Numerosi dati attestano questo, il più significativo dei quali è anche il meno noto. L’evoluzione della specie umana viene ricondotta solitamente alla crescita di volume del cervello. In realtà questo dato è vero solo per quanto riguarda la frontalizzazione della struttura cerebrale, il rilievo assunto dal lobo frontale. Globalmente, invece, il volume del cervello dell’homo sapiens sapiens è diminuito rispetto a quello di altre specie (homo sapiens arcaico, homo neanderthalensis) di uno o due etti. 3. S. J.. Gould ha sintetizzato spendidamente il significato della neotenia scrivendo: “Il bambino è il padre dell’uomo.” La frase significa che l’uomo è diventato homo (sapiens sapiens) proprio in virtù del ritardo nello sviluppo, che ha prodotto l’organizzazione sociale e ha modificato la psicologia umana. Sotto il profilo filogenetico, la neotenia ha determinato, infatti, due conseguenze. Per un verso, infatti, ha costretto la specie umana ad organizzarsi sulla base della necessità di allevare i piccoli per un periodo sterminatamente lungo, determinando un rapporto intimo e prolungato tra le generazioni. Tale rapporto, ponendo costantemente gli adulti a contatto con i bambini, ha intenerito e ingentilito la specie (come sa chiunque oggi sperimenta, a contatto con un infante, un’inesprimibile tenerezza), dando ad essa la piena consapevolezza di una condizione esistenziale di vulnerabilità e di precarietà drammaticamente rappresentata da un essere dipendente e impotente quant’altri mai. In secondo luogo, rallentando il processo di adattamento al mondo esterno, che negli altri animali è precoce, la neotenia ha plasticizzato la struttura cerebrale, impedendo che essa venisse rapidamente catturata percettivamente dall’ambiente esterno. Quest’ultimo aspetto va specificato perché il suo rilievo non è immediatamente evidente. Ormai tutti riconoscono che il cervello non è una tabula rasa. Non tutti sanno, però, che esso ha un’attività intrinseca, vale a dire che comincia a funzionare a partire dal quarto mese di vita fetale. L’attività è così intensa che non sembra in alcun modo riconducibile agli stimoli ambientali (utero, organismo materno). Essa prosegue con analoga intensità anche nel corso del primo anno di vita. La registrazione durante il sonno attesta che si tratta di un’attività omologabile a quella onirica, che, in termini di ritmi cerebrali, è quasi tempestosa. Che cosa significano questi dati? Né più né meno che esiste un mondo interno che ha una sua relativa autonomia rispetto a quello esterno. Non sappiamo, ovviamente, se si diano contenuti psichici in rapporto all’attività intrinseca nelle fasi primarie dello sviluppo. Sappiamo, però, che nelle fasi ulteriori dello sviluppo e nell’adulto tale attività dà luogo alla produzione dei sogni, vale a dire ad una produzione di contenuti ricca di valenze emozionali, creative e simboliche. Togliendo all’uomo le difese naturali e allentando il bagaglio dei moduli di comportamento istintivi, la natura ha creato una specie “sperimentale” la cui unica preoccupazione sarebbe dovuta essere quella di rapportarsi al mondo esterno per difendersi da infiniti pericoli e per procurarsi i mezzi del suo sostentamento. In realtà, il ritardo dello sviluppo evita che la mente umana venga catturata e irretita precocemente dal mondo esterno e mantiene per un certo tempo il primato del mondo interno su quello esterno. Anche se non ce ne rendiamo conto, tale primato persiste nel soggetto adulto. Per quanto, infatti, egli tenda a pensare che la sua visione cosciente del mondo sia oggettiva si tratta pur sempre del prodotto di un’incessante attività interpretativa sottesa dalle memorie e dalle emozioni (oltre ovviamente che dai condizionamenti dell’ambiente culturale). Date le controverse filosofiche che incombono sul rapporto tra soggettività e oggettività e sul loro stesso statuto, non mi addentro in questo ginepraio. Preferisco semplicemente sottolineare la distinzione tra questi due mondi, che, dalla nascita in poi, sono perpetuamente in interazione. Il perdurare dell’attività intrinseca nel corso di tutta la vita si manifesta nello stato d’animo, che è l’elemento continuo del campo di coscienza. Lo stato d’animo, con le sue fluttuazioni, può essere più o meno decifrabile da parte del soggetto. Rimane il fatto che, in virtù di esso, tutti sappiamo (anche senza rendercene conto) che la coscienza letteralmente galleggia e naviga su di un flusso di contenuti psichici che hanno una forte carica emozionale. Lo stato d’animo è l’indizio del fatto che la coscienza convive con un mondo sottostante, il mondo interno, ricco di valenze emozionali, immaginarie e simboliche. 4. L’emozionalità è il continuum dell’esperienza umana, il mare sul quale ogni soggettività galleggia e su cui scorre. Il continuum emozionale dà all’esperienza soggettiva una “qualità” unica e irripetibile. Tutti i fatti della vita assumono un senso, un colore, un peso perché essi sono qualificati emotivamente. Ciò vale per il dolore vivo che si prova in conseguenza di un lutto come per l’ebbrezza che si sperimenta quando si ama, si guarda la luna piena, ci si appassiona ad un’attività – studio, lavoro, hobby, ecc. L’emozionalità è uno spettro le cui polarità estreme sono intimamente correlate. Non si potrebbe provare gioia se non esistesse anche la capacità di provare dolore, non si potrebbe sperimentare la quiete e l’estasi se non fosse possibile provare ansia, ecc. Ciò significa, né più né meno, che le persone più ricche di emozionalità sono capaci di sperimentare in maniera più intensa rispetto alla media le indefinite qualità intrinseche al registro della sensibilità. Queste osservazioni avrebbero poco senso se non si entrasse nel merito dell’emozionalità umana, che è del tutto particolare. L’uomo ha ereditato dagli animali la capacità di sperimentare le emozioni. La tavolozza di base delle emozioni, organizzata su registri bipolari (quiete/allarme, piacere/dolore, paura/rabbia, amore/odio), è comune a tutti gli animali superiori. L’emozionalità umana, però, ha caratteristiche sue proprie: è una tavolozza molto più ricca rispetto a quella di qualunque altro animale. Si danno, infatti, nel patrimonio umano, almeno tre emozioni specie-specifiche: l’empatia, il senso di dignità e di giustizia e l’intuizione dell’infinito. Faccio presente, per onestà intellettuale, che, mentre l’empatia è riconosciuta ufficialmente dalle scienze psicologiche, l’attribuzione al corredo emozionale umano di un senso di dignità e di giustizia e di un’intuizione emozionale dell’infinito sono un prodotto della mia personale riflessione (che io sappia). L’empatia è la capacità di un soggetto di identificarsi con l’altro, di mettersi nei suoi panni e di ricostruire la sua esperienza dentro di sé. Dato che l’empatia, nella misura in cui si dà, funziona automaticamente, a livello inconscio, raramente capita di soffermarsi a riflettere su di essa. In realtà si tratta di una capacità intuitiva complessa che permette di sentire ciò che l’altro sente: il suo stato d’animo, le aspettative, i desideri, le paure. Nonostante ciò che pensano gli psicologi, l’empatia non è necessariamente una capacità benevola. In sé e per sé, essa può essere utilizzata anche per manipolare e strumentalizzare l’altro. Ciò si ricava facilmente dal fatto che i corsi per manager tenuti da psicologi, pomposamente rivolti a facilitare l’impiego migliore delle risorse umane, in realtà cercano di valorizzare le capacità empatiche dei manager stessi al fine di consentire loro di “sfruttare” quelle risorse. C’è però una modalità empatica che sembra in assoluto la più naturale, la più intrinseca al corredo genetico umano. E’ la pietas di Rousseau, che merita una citazione: "Lasciando tutti i libri scientifici, che non ci apprendono che a vedere gli uomini quali si sono fatti, e meditando sulle prime e più semplici operazioni dell'anima umana, credo di scorgervi due principi anteriori alla ragione: uno dei quali ci interessa ardentemente al nostro benessere e alla conservazione di noi stessi, e l'altro c'ispira una ripugnanza naturale a veder perire o soffrire ogni essere sensibile, e principalmente i nostri simili." Da ciò discende che l'uomo "fin che non resisterà all'impulso interno della compassione, non farà mai del male ad un altro uomo" e che "se io sono obbligato a non fare alcun male al mio simile, ciò sia non tanto perché egli è un essere ragionevole, quanto perché è un essere sensibile" (Discorso sull’origine della disuguaglianza, in Rousseau, Opere, Sansoni 1972, p. 40); “E’ dunque ben certo che la pietà è un sentimento naturale, che, moderando in ogni individuo l’attività dell’amor di se stesso, concorre alla mutua conservazione di tutta la specie. Essa ci porta impulsivamente in aiuto di quelli che vediam soffrire; essa, nello stato di natura, tien luogo di leggi, di costumi e di virtù, con questo vantaggio, che nessuno è tentato di disobbedire alla sua dolce voce; […] essa, in nome di quella sublime norma di giustizia ragionata :”Fa agli altri quello che vuoi fatto a te stesso”, ispira a tutti gli uomini quell’altra massima di bontà naturale assai meno perfetta, ma più utile forse della precedente: “Fa il tuo bene col minor male altrui possibile”. In questo sentimento naturale, in una parola, più che negli argomenti sottili, bisogna cercare la causa della ripugnanza che ogni uomo proverebbe a far del male, anche indipendentemente dalle norme dell’educazione.” (op. cit. p. 56) Si può rimanere sorpresi che Rousseau, nonostante questa “scoperta”, sia rimasto fermo all’ipotesi di uno stato di natura caratterizzato dal fatto che l’uomo, libero e indipendente, viveva senza manifestare alcun bisogno dei simili. Il discorso a riguardo porterebbe lontano, ma non è questo che qui interessa. E’ evidente che la pietas produce naturalmente un legame di solidarietà sociale tra individui che condividono una sorte comune, tanto più se essi si sentono minacciati ed esposti al dolore. Alle origini, tutti gli esseri umani si sentivano precari perché, a differenza di quanto ipotizzato da Rousseau, la solitudine e l’isolamento dal gruppo significavano morte certa. Se si assume come primario il bisogno di legame e di solidarietà sociale, riesce evidente che la libertà non può esserlo. Essa è subordinata al primo e vincolata al principio per cui il bene comune, la sopravvivenza e la riproduzione del gruppo, è più importante del grado di scelta di cui dispone l’individuo. Si tratta, dunque, non già di un diritto naturale, ma di un bisogno affiorato nel corso della storia via via che l’individuo ha sperimentato l’oppressione di una struttura sociale gerarchica. Il senso di dignità e il senso di giustizia, profondamente radicati nel corredo genetico umano, rappresentano il fondamento della percezione innata che l’individuo ha di sé come persona dotata di pari diritti rispetto agli altri. Che tali emozioni siano innate è comprovato da molteplici circostanze inerenti l’evoluzione della personalità umana. E’ in nome di esse, infatti, che un bambino di tre anni, quando ancora non sa concettualmente cosa siano la dignità e la giustizia, si arrabbia (talora tremendamente) quando viene, consapevolmente o inconsapevolmente, maltrattato o quando si trova di fronte a comportamenti altrui che egli sente come ingiusti, arbitrari, prepotenti, ecc. E’ in nome di esse che un bambino, investito da un’ansia genitoriale che gli impone un determinato comportamento, per esempio di mangiare, chiude la bocca e non cede né alle preghiere né ad alcuna minaccia. E’ in nome di esse che, anche in un ambiente familiare favorevole, l’evoluzione della personalità va incontro a crisi oppositive nel corso delle quali il bambino afferma la sua volontà in contrasto con quella dei genitori, avvertendo questo come un diritto inerente la sua dignità. La percezione di sé sottesa dalle emozioni in questione è in parte illusionale. In quanto essere naturale, l’uomo non ha, agli occhi della Natura, alcun valore particolare. Per quanto egli possa, nel suo intimo, percepire il diritto alla vita e ad essere trattato con dignità ed equità, ciò non toglie che una malattia o una catastrofe naturale non tengono conto alcuno di tale diritto. Come essere naturale, insomma, l’uomo è null’altro che una cavia della Natura. E’ evidente che il senso di dignità e il senso di giustizia hanno come referente l’altro, il simile. E’ dall’altro che l’uomo “pretende” di essere rispettato, e lo pretende in nome di un valore che sente naturalmente di avere. L’umanità ha dovuto fare un lungo percorso storico per sancire giuridicamente la pari dignità degli esseri umani e per riconoscere a ciascuno di essi diritti naturali inviolabili. Questo lungo percorso, esitato nella promulgazione sotto l’egida dell’ONU della Carta dei Diritti dell’Uomo è sorprendente se si pensa che quei diritti ogni essere umano se li porta dentro dal momento in cui viene alla luce. L’intuizione emozionale dell’infinito è misconosciuta dalla psicologia, ma ha un’importanza fondamentale. Essa, infatti, affiora lentamente nel corso dello sviluppo, ma giunge ad influenzare tutta l’esperienza soggettiva umana. C’è un passaggio evolutivo importante nella vita di ciascuno di noi che segnala l’avvento mentale dell’infinito emozionale. Tra i 5 e i 7 anni ogni bambino giunge a capire che esiste la morte, vale a dire che, nel corso del tempo, i genitori verranno meno ed egli stesso è destinato a finire. Tale consapevolezza non potrebbe sopravvenire se lo sviluppo mentale non evocasse il riferimento ad una dimensione – quella temporale – come successione di istanti che si succedono senza fine. Qualcosa di analogo avviene per lo spazio, anche se non è stato individuato a riguardo un momento critico dello sviluppo. Ciascuno di noi però può rievocare la prima volta che, di fronte alla volta del cielo stellato, ha avvertito un senso di smarrimento e di sgomento (associato o meno ad una sorta di vibrazione estatica). L’intuizione emozionale dell’infinito non riguarda, però, solo il tempo e lo spazio: essa, infatti, apre la mente umana sulla frontiera del possibile, dell’immaginabile, del fantasticabile, del simbolico, ecc. La presenza dell’infinito nel corredo emozionale umano è una medaglia a due facce. Essa, infatti. ha due conseguenze di rilievo. La prima è, appunto, quella di rendere l’uomo consapevole della sua realtà esistenziale, del suo essere vulnerabile, precario, finito e destinato a morire. Per questo aspetto, l’intuizione emozionale dell’infinito fa dell’uomo un animale naturalmente ansioso e bisognoso di protezione. A che serve questa consapevolezza? A mobilitare, come sostengono alcuni psicologi, le risorse e le energie umane nella direzione di ammortizzare il suo impatto? E’ senz’altro vero, ma non è tutta la verità. Per quanto, però, l’uomo darsi da fare per precedere e prevenire i pericoli che incombono su di lui, quella consapevolezza ansiogena rimane sullo sfondo della sua esperienza. Il destino mortale, poi, non ha alcun rimedio che non sia una prospettiva trascendente, il coraggio di esistere e la solidarietà sociale. In realtà, per quanto possa promuovere la trasformazione del mondo per adattarlo ai bisogni umani, quella consapevolezza costringe l’uomo ad interrogarsi sulla condizione umana e sul suo significato, a riflettere, a chiedersi che cos’è il bene, il male, il giusto, l’ingiusto, perché esiste il dolore, la malattia, la morte, perché gli uomini aggiungono ai mali naturali della condizione esistenziale altri mali, altri dolori, ecc. Per quanto poco gradevole, l’ansia esistenziale obbliga, insomma, l’uomo a filosofare e a prendere posizione. La seconda conseguenza fa da contrappeso alla prima. Alla luce dell’infinito, il finito, ciò che esiste, si relativizza. Il mondo reale, per quanto eserciti una cattura sulla coscienza, diventa un frammento di un insieme più vasto: al di là di esso, infatti, si dà il possibile, l’immaginario, il simbolico: una categoria aperta, appunto sull’infinito. La categoria del possibile è la matrice dell’utopia, dell’arte, della letteratura e della scienza. Non escluderei neppure (ma è un’ipotesi) che tale categoria abbia attivato e sottenda i processi cognitivi, se è vero che la capacità logico-astratta non potrebbe darsi senza di essa. L’intuizione emozionale dell’infinito, da questo punto di vista, sarebbe la matrice primaria del pensiero. Non si dà alcuna prova di questo? Almeno una se ne dà: qualunque poeta ispirato, qualunque ricercatore che freme sentendo di essere sulla pista giusta (vero o no che sia) può testimoniare che le parole affiorano sotto una spinta che viene dal profondo, la quale convoglia entro i canali della cognizione “qualcosa” che si intuisce venire da un altrove infinito. Che questo altrove sia nelle profondità del cervello è, al tempo stesso, confortante e inquietante. 5. Non c’è bisogno di sottolineare in quale misura la concezione dell’emozionalità specificamente umana sia integrabile con il pensiero di Marx, che in qualche misura la implica. Suppongo che Marx avrebbe accettato volentieri di riconoscere nel senso di dignità e di giustizia un’emozione primaria, depositata nel corredo genetico umano, anziché un bisogno radicale prodotto dalla storia. Suppongo anche che egli non avrebbe avuto difficoltà a riconoscere la libertà individuale come una variabile dipendente dalle esigenze primarie di equilibrio e di coesione del gruppo di appartenenza. Sulla base di queste premesse, l’antropologia marxiana si può ritenere ancora oggi infinitamente più profonda e vicino alla natura dell’uomo rispetto a quella liberale. Si può fare però qualche ulteriore passo in avanti, chiedendosi se, sulla base delle premesse esposte, si può identificare sia pure in potenza un “progetto” di sviluppo della personalità intrinseco alla natura umana. In linea generale penso di sì. L’empatia implica che l’uomo viene al mondo con una capacità naturale di riconoscere nell’altro il simile (e, ovviamente, di essere riconosciuto da questi). Essa è dunque il fondamento di un bisogno di socialità radicale che può rimanere confinato nell’ambito del gruppo di appartenenza o estendersi a tutta l’umanità. Potenzialmente, l’empatia è di ordine universale: un bambino al terzo mese risponde con il sorriso a qualunque volto umano gli sia di fronte. Nella realtà, la capacità di identificazione con il simile viene poi canalizzata dagli affetti, che determinano legami significativi con il gruppo di appartenenza (famiglia, gruppo culturale, ecc.) e utilizzata come funzionaria di un bisogno geneticamente programmato – il bisogno di appartenenza/integrazione sociale – il cui dispiegamento rende il bambino influenzabile alla cultura dell’ambiente con cui interagisce e gli consente di interiorizzare i sistemi di valore (a partire da quelli linguistici) propri del gruppo di appartenenza. Non potrebbe essere diversamente. Rimane il fatto che l’acquisizione di un’identità culturale di appartenenza ad un gruppo può mortificare l’empatia scindendo l’universo in Noi e Voi e determinando il fenomeno dell’etnocentrismo. E’ evidente che, in questo caso, l’empatia rimane vincolata al gruppo di appartenenza (o in senso lato al familiare) e che la pietas viene mortificata dalla percezione della diversità culturale fino al punto di produrre l’estraneazione (che quasi sempre si associa ad un vissuto vagamente minaccioso e persecutorio). Si dà però anche un’altra possibilità. Allentandosi i vincoli all’interno del gruppo di appartenenza, per esempio in conseguenza di una crescita demografica, la pietas può essere mortificata anche in rapporto ai membri dello stesso gruppo linguistico e culturale. Ciò naturalmente è facilitato dal fatto che il soggetto giunga a percepire i suoi diritti individuali come privilegiati rispetto a quelli altrui. L’empatia e la pietas, insomma, sono altamente sensibili all’ambiente culturale e al modo in cui questo definisce l’individuo e i suoi doveri comunitari. La possibilità di sormontare le influenze ambientali, però, esiste ed è connaturata all’uomo. La valorizzazione della pietas comporta per ogni soggetto il sentirsi partecipe all’intera comunità dei simili e alla storia della specie. Il senso di dignità e di giustizia nell’uomo è il fondamento di un altro bisogno geneticamente programmato: il bisogno di opposizione/individuazione. Tale bisogno, come accennato, si dispiega nel corso dell’evoluzione della personalità sotto forma di crisi ricorrenti, in conseguenza delle quali il bambino oppone (anche in maniera apparentemente irrazionale) la sua volontà a quella degli adulti, ed è finalizzato all’integrazione, che dovrebbe sopravvenire alla fine dell’adolescenza, di una personalità autonoma, dotata cioè di una volontà libera, di un potere critico e della capacità di operare scelte significative in nome di valori vissuti come autentici ed espressivi della propria vocazione ad essere. In teoria, il bisogno di opposizione/individuazione comporta la percezione viscerale di sé come soggetto dotato di diritti e l’attribuzione agli altri degli stessi diritti. Oltre a ciò, esso rappresenta una spinta motivazionale verso l’autorealizzazione, il dispiegamento e l’oggettivazione delle proprie potenzialità nell’interazione con il mondo. Se il bisogno di opposizione/individuazione rimane agganciato all’empatia, è evidente che l’autorealizzazione individuale non può prescindere dal rispetto degli altri, e, essendo motivata intrinsecamente dalla vocazione ad essere personale, essa tende allo sviluppo appagante del soggetto su tutti i piani. Se questo è vero, si capisce facilmente in che senso l’individuo “borghese”, la cui realizzazione implica una certa anestetizzazione dell’empatia (che è un ostacolo in termini di competitività e di acquisizione di risorse) ed è univocamente orientata verso il prestigio sociale, lo status, la ricchezza quantificabile, non è un soggetto individuato, bensì mutilato nel suo essere, unidimensionale. Non è un caso che a questa stessa conclusione giunge anche uno dei padri nobili della teoria liberale e della democrazia, Alexis de Tocqueville. Nel secondo volume del suo capolavoro (La democrazia in America, Città Aperta, 2005), egli coglie il pericolo di un sistema che, a forza di privilegiare la libertà individuale, atomizza la società e estranea gli esseri umani, rendendoli univocamente piccoli borghesi. Basta una citazione a confermare in quale misura Tocqueville abbia anticipato la teoria critica marxista, pur definendo dispotismo quello che sarebbe stato poi identificato come conformismo di massa: “Provo ad immaginare con quale nuova fisionomia il dispotismo potrebbe manifestarsi nel mondo e vedo una folla innumerevole di uomini simili ed uguali che ruotano incessantemente su se stessi per procurasi piccoli e dozzinali piaceri, di cui si riempiono l’animo. Ciascuno di essi vive tenendosi in disparte, ed è come estraneo al destino di tutti gli altri. I figli e gli amici più stretti rappresentano per lui tutto il genere umano; quanto agli altri suoi concittadini, egli vive al loro fianco ma non li vede, li tocca ma non li sente, esiste soltanto in se stesso e per se stesso e, se ancora gli rimane una famiglia, si direbbe che non abbia più patria.” (p. 376) In quest’uomo prefigurato da Tocqueville, che abbiamo sotto gli occhi, non c’è più pietas, che vada al di là degli affetti familiari , non c’è più il senso della giustizia – se non nella forma della rivendicazione del diritto di proprietà -, non c’è alcuna apertura all’infinito, se si eccettua la compulsiva ricerca di beni di consumo, di status symbol e di piaceri dozzinali. Lo sviluppo storico ha dunque violentato la natura umana? Parlare di violenza è eccessivo. L’individualismo, l’egoismo, il culto del privato, il consumismo, ecc. sono anch’essi espressioni fenotipiche del corredo genetico. Alla luce di quanto si è detto, sembra possibile affermare che si tratta di manifestazioni che mortificano le potenzialità e i bisogni impliciti in quel corredo. Sono, insomma, manifestazioni che per un verso esprimono e per un altro mutilano quelle potenzialità. I due bisogni cui ho fatto cenno – di appartenenza/integrazione sociale e di opposizione/individuazione – sembrano rappresentare l’aspetto più specifico della natura umana, che risulterebbe dunque una doppia natura programmata, sulla base di una tensione intrinseca, per raggiungere, sia a livello collettivo che individuale, un utopistico punto di equilibrio. Perché questo punto di equilibrio non è stato finora raggiunto? La risposta più semplice è che, procedendo sulla base di tentativi ed errori, l’umanità finora è oscillata tra il privilegiare l’uno o l’altro dei due bisogni senza riuscire a permettere lo sviluppo di entrambi. Ancora oggi, sulla faccia del Pianeta, si danno culture prevalentemente comunitaristiche, nelle quali l’individuo è subordinato alla logica della totalità di cui fa parte, e culture individualistiche, nelle quali l’individuo è autorizzato a perseguire la sua realizzazione (reale o fittizia che sia) nel rispetto delle leggi, ma sulla base di una suprema indifferenza nei confronti dell’Altro. La verità, dunque, è che la natura umana non è vincolante come l’apparato degli istinti che regola la vita degli altri animali. Essa è predisposta all’umanizzazione, ma proprio per questo è esposta al rischio dell’alienazione e della disumanizzazione. L’uomo totale di Marx, vale a dire il soggetto pienamente sviluppato sul piano della partecipazione sociale e su quello dell’oggettivazione delle sue potenzialità individuali, non è un’utopia. O meglio lo è di fatto nel contesto della nostra società, ma è contenuto in potenza nel nostro corredo genetico e nella ricchezza del nostro mondo emozionale. Questo Marx non poteva saperlo, eppure qualcosa del genere è implicito nel suo pensiero. La “passionalità” di Marx e il suo amore per l’uomo non avrebbero altrimenti senso. Roma aprile 2007
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