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Sanfedisti furono i componenti di un movimento fondato nel
1799 dal Cardinale Fabrizio Dionigi Ruffo in difesa della dinastia
Borbonica e della tradizione cattolica minacciata dalle idee
rivoluzionarie. Il movimento della Santa Fede coinvolse masse di
insorgenti in tutto il Regno di Napoli; si organizzò col nome
di «Esercito della Santa Fede in Nostro Signore Gesù
Cristo». Il movimento sanfedista si inserisce a pieno titolo
nei movimenti europei contro-rivoluzionari della fine del XVIII
secolo, come ad esempio quello sorto in Vandea, ed ebbe facile presa
sul popolo più umile, in difesa dei valori tradizionali
contro le idee rivoluzionarie e liberali.
Il movimento fu così rappresentativo della sua epoca che da
esso derivò il vocabolo italiano «sanfedismo».
Nel Regno di Napoli
Il 23 gennaio 1799 il Regno di Napoli cadde in seguito al fallimento
della spedizione dell'esercito borbonico, al comando del generale
austriaco Karl von Mack per liberare Roma dai francesi. La
controffensiva dei transalpini costrinse alla ritirata le truppe di
Ferdinando IV, il quale fuggì a Palermo imbarcandosi sul
Vanguard dell'ammiraglio Horatio Nelson con tutta la famiglia (21
dicembre 1798). Nella città fu creata la Repubblica
Napoletana ("sorella" di quella francese) e fu innalzato l'albero
della libertà.
Gli invasori furono largamente invisi agli strati popolari (per una
serie di ragioni tra cui l’ostentata irreligione, i saccheggi, le
depredazioni, le imposizioni fiscali e la leva militare), mentre
l'aristocrazia e la borghesia benestante videro con favore la loro
presenza.
I francesi furono anche protagonisti di episodi di crudeltà.
Nel Regno di Napoli l'elenco fu tristemente lungo: nel basso Lazio
avvennero le prime feroci stragi di civili: 1.300 persone furono
massacrate a Isola Liri e nei dintorni; Itri e Castelforte furono
devastate; 1.200 persone furono uccise a Minturno nel gennaio 1799,
più altre 800 in aprile; gli abitanti della cittadina di
Castellonorato furono tutti massacrati; 1.500 furono le persone
passate a fil di spada nella sola Isernia, 700 a Guardiagrele, 4.000
ad Andria, 2.000 a Trani, 3.000 a San Severo, 800 a Carbonara, tutta
la popolazione a Ceglie, ecc.[2].
Di fronte a queste violenze, la popolazione si sollevò in
ogni parte del Regno. Le masse popolari armate assunsero nelle
diverse regioni vari nomi: "lazzari" a Napoli, "montanari" in
Abruzzo, "contadini" nella Terra di Lavoro. La «monarchia
napoletana — come osserva Benedetto Croce —, senza che se lo
aspettasse, senza che l’avesse messo nei suoi calcoli, vide da ogni
parte levarsi difenditrici in suo favore le plebi di campagna e di
città, che si gettarono nella guerra animose a combattere e
morire per la religione e pel re, e furono denominate, allora per la
prima volta, "bande della Santa Fede"».
All'inizio della primavera, il cardinale Fabrizio Ruffo
annunciò la costituzione di un Esercito della Santa Fede.
Decine di migliaia di volontari accorsero da ogni parte del Regno.
Il nucleo dell'Armata sanfedista fu composto da contadini, borghesi,
ufficiali, finanche preti, pronti ad abbandonare famiglia, lavoro,
case, chiese, per difendere la monarchia e la santa fede (da cui il
nome sanfedisti), dalle truppe francesi rivoluzionarie. Guidata dal
cardinale, l'armata contribuì a mettere fine all'esperienza
della Repubblica Napoletana, con il conseguente ritorno della
dinastia Borbone (giugno 1799).
Nello Stato della Chiesa
Oltre che nel Regno di Napoli, il sanfedismo fu attivo anche nello
Stato della Chiesa, in particolare nella Romagna. In difesa della
tradizione cattolica, e contro la diffusione del liberalismo e della
carboneria, furono istituite squadre pontificie di sanfedisti,
milizie volontarie reclutate soprattutto tra la popolazione rurale.
I "volontari pontifici" godevano di alcuni privilegi: potevano
portare armi ed erano esentati dalle tasse municipali.
In ambito nazionale, lo sviluppo del sanfedismo assunse proporzioni
notevoli dopo la repressione dei moti del 1820-1821. Le cause
principali furono la perdita di potere del cardinale Ercole Consalvi
- dopo la morte di papa Pio VII - e la politica di intransigenza
avviata da papa Leone XII.
Nel giuramento che i sanfedisti erano chiamati a prestare, erano
contenute affermazioni che incitavano ad atteggiamenti di estrema
durezza nei confronti dei nemici:
« In presenza di Dio onnipotente Padre, Figliuolo e
Spirito Santo, di Maria sempre vergine immacolata, di tutta la Corte
celeste, io giuro di farmi tagliare la gola, di morire di fame, e
fra i più atroci tormenti, e prego il Signore Iddio
onnipotente che mi condanni alle pene dell'Inferno piuttosto che
tradire o ingannare uno degli onorandi padri e fratelli della
Cattolica Apostolica Società, alla quale in questo momento mi
iscrivo; o se io non adempissi scrupolosamente le sue leggi o non
dessi assistenza ai miei fratelli bisognosi. Giuro nel mantenermi
fermo nel difendere la santa causa che ho abbracciato, di non
risparmiare nessun individuo appartenente all’infame combriccola de'
liberali, qualunque sia la sua nascita, parentela o fortuna; di non
avere pietà né dei pianti de' bambini, né de'
vecchi; e di versare fino all'ultima goccia di sangue degl'infami
liberali, senza riguardo a sesso né a grado. Giuro infine
odio implacabile a tutti i nemici della nostra santa Religione
cattolica romana, unica e vera. »
Nella letteratura
Nella letteratura di parte giacobina i sanfedisti vennero dipinti
come bande di persone violente, senza nulla da perdere. Fu affermato
che i briganti del luogo si infiltrassero nelle formazioni e, dopo
una battaglia vinta, si lanciassero in crudeli vendette contro gli
sconfitti. In mancanza di giacobini e dei loro beni da saccheggiare,
si verificarono diversi casi di assalti a chiese e conventi, con
l’uccisione dei religiosi, come avvenne nell’Assedio di Modugno.
Carlo De Nicola, contemporaneo degli eventi narrati, scrisse nel suo
«Diario Napoletano» che i sanfedisti si diedero anche ad
atti di cannibalismo.
Riccardo Bacchelli nel suo Il mulino del Po, ha lasciato un vivido
ritratto di Virginio Alpi, sanfedista, poi funzionario pontificio,
che operò nel territorio tra Forlì e Faenza nella
prima metà del XIX secolo.