treccani.it
enciclopedia libera
Rivarol, Antoine Rivaroli detto le Comte de.
Letterato francese (Bagnols, Linguadoca, 1753 - Berlino 1801).
Figlio di un oste di origine piemontese, studiò in diversi
seminarî, dove fu istitutore. Dopo aver tribolato nei mestieri
più varî raggiunse il successo a Parigi come avventuriero da
salotto, spacciandosi per conte. Polemista scintillante,
sensibilissimo nel cogliere ogni aspetto ridicolo della società
e della cultura, derise i Jardins di I. Delille in Le Chou et le
Navet (1782). Nel Discours sur l'universalité de la langue
française (1784) condensò lucidamente, in prossimità dell'epoca
romantica, le virtù della lingua consacrate dalla tradizione
classicista: la grazia ornata, il buon senso, la chiarezza ("ciò
che non è chiaro non è francese").
Nemico di Rousseau, fiducioso nel progresso della ragione, non
esitò tuttavia a tradurre per i Francesi (1785) quell'Inferno di
Dante che Voltaire aveva già condannato come un museo di
assurdità.
R. conquistò una fama scandalistica con un'operetta mordente:
Petit almanach de nos grands hommes (1788, in collab. con L. de
Champcenetz).
Scoppiata la Rivoluzione, pose al servizio della monarchia il
suo brio di polemista politico in una nuova galleria satirica:
Petit dictionnaire des grands hommes de la Révolution (1790).
Emigrò al seguito del Conte di Provenza che gli affidò diverse
missioni politiche.]
*
da
http://www.storialibera.it/epoca_contemporanea/ottocento/restaurazione/articolo.php?id=2693&titolo=Antoine%20de%20Rivarol%20%281753-1801%29
Alessandro MASSOBRIO
Antoine de Rivarol (1753-1801)
tratto da: Voci per un «Dizionario del pensiero forte».
1. Una curiosa analogia
La risposta a un quesito accademico accomuna gli esordi di uno
dei padri della Rivoluzione francese, Jean-Jacques Rousseau
(1712-1778), a un uomo che alla Rivoluzione si oppose prima
nella stessa Parigi, poi, dopo la forzata emigrazione, nelle
principali città d'Europa: Antoine de Rivarol (1753-1801).
All'Accademia di Digione, che nel 1753 [era scritto erroneamente
1781] proponeva un concorso, il cui tema era «Se il progresso
delle scienze e delle arti abbia contribuito a migliorare i
costumi», [Rousseau] rispondeva indicando nelle stesse scienze e
arti la causa della disuguaglianza civile, da cui nascono tutti
i mali, e proponendo il ritorno a uno stato di natura, in cui
sarà abolito quanto definisce "un animale depravato", ovvero
l'uomo che medita.
Trentadue anni dopo, nel 1785, all'Accademia di Berlino che
aveva proposto, quale argomento d'un concorso a premi, la
risposta ai quesiti: Che cosa ha reso universale la lingua
francese? Perché merita questo privilegio? C'è da presumere che
lo manterrà?, Rivarol risponde individuando nel linguaggio -
come avrebbe fatto Joseph de Maistre (1753-1821) e come aveva
già fatto Giambattista Vico (1668-1744) - uno dei principali
fattori di civilizzazione e dunque di progresso della società.
La nostra lingua - scrive - è "sicura, socievole, ragionatrice",
al punto che essa può definirsi non più francese ma, tout court,
umana.
Poco conta che ancora cartesianamente egli individui nella
clarté, nella chiarezza, la peculiarità di tale linguaggio. Il
fatto di vedere nella lingua un fattore d'incivilimento e
all'origine di essa non una convenzione, ma una sorta di
intuizione poetica, già delinea non solo la sfera d'interessi
dello scrittore ma, rendolo inattuale rispetto al suo tempo, ne
assicura l'attualità.
2. Una vita fra Antico Regime e Rivoluzione
Rivarol, primogenito di ben sedici fratelli, nasce a
Bagnols-sur-Cèze il 26 giugno 1753 da un locandiere di origine
piemontese. Il critico romantico Charles Augustin de
Sainte-Beuve (1804-1869) definisce la sua origine
«inextricable», cioè poco lineare per quanto riguarda la pretesa
ascendenza nobiliare, che Rivarol rivendicò sempre e che spesso
gli fu negata con ironia dagli avversari.
È comunque incontestabile che l'origine della sua famiglia fosse
italiana, Rivaroli, e che fu noto come il Comte de Rivarol.
Compiuti gli studi nel Mezzogiorno, probabilmente nel seminario
di Avignone, il mancato abbé, che pure - sempre secondo
Sainte-Beuve - indossò per qualche tempo il collare
ecclesiastico, poi fu soldato e precettore, compare, a partire
dal 1777, nelle cronache mondane parigine. Dove non fatica a
distinguersi.
Presenza accattivante, un modo tutto aristocratico di portare
eretta la bella testa, un'eleganza da dandy e, soprattutto, la
battuta sempre pronta e salace: queste le caratteristiche che,
anche quanti gli sono più ostili, devono riconoscergli. Del
resto Rivarol - che fin dai primi fermenti rivoluzionari prende
posizione per la monarchia - non è per niente il tipico cicisbeo
settecentesco, incipriato come una bella dama, ma povero di
sostanza. Le testimonianze del tempo lo descrivono dedito allo
studio, nel corso del quale si cimenta con Dante Alighieri
(1265-1321), con l'antica lingua francese e con la storia
romana. Lo affascina Cornelio Tacito (55/55-120 ca.) per la
concisione dello stile - "il Tacito della Rivoluzione", lo
avrebbe definito un ammiratore d'oltre Manica, il pensatore
contro-rivoluzionario Edmund Burke (1729-1797) -, ma lo
affascina ancor più il mondo dei salotti, dove una sola battuta,
rapida e pungente come una saetta, può conquistare a un uomo
gloria e odio inestinguibili. Scrive a questo proposito Ernst
Junger, lo scrittore tedesco che di Rivarol ha curato una
raccolta di massime: "La finezza, a cui era giunto lo spirito
francese alla fine dell'Ancien Régime, doveva sprofondare con il
suo depositario, la vecchia società [...]. Quanto a Rivarol
bisogna dire che, rispetto alla forma, egli partecipava sì di
questa eredità e tuttavia andava più a fondo. Per questo, in un
tempo in cui la Rivoluzione era al massimo della sua potenza,
egli potè volgere la parola contro di essa".
E non soltanto la parola. Due riviste, il «Journal politique
national» e gli «Actes des Apotres», lo vedono, a partire dal
1790, collaboratore puntuale e ironico. Ma l'attività
giornalistica era complementare in Rivarol a quella di autore di
pamphlet traboccanti di sarcasmo. Nel 1788 viene pubblicato
anonimo, con dedica «Dis ignotis», «Agli dei sconosciuti. Il
piccolo almanacco dei nostri grandi uomini». A esso fa seguito,
due anni dopo, «Il piccolo dizionario dei grandi uomini della
Rivoluzione», dove, fra motti di spirito, scintillio d'ingegno e
frecciate velenose, passano in rassegna Maximilien de
Robespierre (1758-1794), Jean-Paul Marat (1743-1793) e
Georges-Jacques Danton (1759-1794). Questa volta, lo scritto non
è anonimo e le conseguenze non si fanno attendere. Per quanto
consapevole di combattere una battaglia perduta, Rivarol si
ostina a rimanere a Parigi fino al 10 giugno 1792. Come egli
stesso scrive, re Luigi XVI di Borbone (1754-1793) in persona lo
invita ad abbandonare la capitale per continuare la lotta
all'estero, dove la sua vita non sarebbe più stata in pericolo.
Appena in tempo. Pochi giorni dopo, la plebe dei sobborghi fa
irruzione alle Tuilléries, costringendo il re a indossare il
berretto frigio. Quando gli uomini del Terrore bussano alla
porta di Rivarol, chiedendo "Dov'è il grand'uomo? Lo vogliamo
accorciare un pò", quello stesso grand'uomo ha già da tempo
raggiunto la prima tappa del suo esilio, Bruxelles.
Gli anni di esilio sono caratterizzati da un lento declino.
L'inattività forzata per un uomo che era sempre vissuto nel
cuore della mischia, la ‘pigrizia' - gliela attribuisce
Sainte-Beuve - di chi sente d'aver perduto lo scopo per cui
vivere, l'isolamento dai circoli più blasonati degli emigrée
spingono lo scrittore a vagabondare di città in città, alla
ricerca di una stabile occupazione editoriale. Da Bruxelles fino
a Londra. Poi ad Amburgo, nel piccolo sobborgo di Hamm. Infine a
Berlino, dove un'infreddatura conclude, il 5 aprile 1801,
un'esistenza che i piaceri e un'incessante attività
intellettuale avevano consumato, come - per dirla con Junger -
"una candela che brucia dalle due estremità".
3. Alla scuola dei fatti, verso il romanticismo
Oltre alle opere citate, Rivarol lascia la versione francese
dell'Inferno di Dante, realizzata dal 1783 al 1785; il «Discours
Préliminaire» al «Nouveau Dictionnaire de la Langue Française»,
mai portato a compimento, del 1784; e la «Lettre à la Noblesse
Française», scritta nei primi anni d'esilio a Bruxelles.
Proprio a Bruxelles, se dobbiamo credere alle coincidenze di cui
è disseminata la storia, si verifica una sorta di «passaggio
delle consegne» fra questo superstite dell'Ancien Régime,
Rivarol per l'appunto, e colui che l'idea legittimista avrebbe
sostenuto nel corso del primo romanticismo francese, François
Auguste René de Chateaubriand (1768-1848).
Secondo le «Memorie d'oltretomba», la monumentale autobiografia
del poeta francese [Chateaubriand], non si trattò di un incontro
felice. Chateaubriand, che distingueva l'emigrazione in due
grandi categorie, colloca Rivarol in quella dei «fatui» e, dal
suo punto di vista, non senza ragione.
Rivarol, infatti, è essenzialmente un uomo di transizione.
Condivide con l'età dei lumi un certo razionalismo, che dal
punto di vista conoscitivo lo lega ancora alle filosofie di
Étienne de Condillac (1714-1780) e di John Locke (1632-1704).
Perfino in ambito religioso non nasconde, sulle prime, quello
che Sainte-Beuve definisce "un alto epicureismo" e che si
identifica, in fondo, con quello spirito libertino
settecentesco, che si fa beffe di ogni valore. Scrive, a questo
proposito: "La devota crede ai preti, l'irreligiosa ai filosofi;
entrambe sono credulone". Oppure: "Le visioni hanno un istinto
felice: capitano sempre a coloro che devono crederci". Ma quando
la Rivoluzione comincia a compiere i primi passi, ecco che
Rivarol, con istinto sicuro, si rende conto che coloro i quali,
per primi, hanno posto mano alla disgregazione dell'edificio
sociale sono proprio quei ‘filosofi', a cui egli stesso aveva
rubato qualche motto di spirito. Allora comprende che il termine
‘fanatismo', che fino allora aveva creduto si adoperasse solo
per le credenze religiose, calza a pennello anche e soprattutto
alla nuova infatuazione analitica, che ogni venerabile
tradizione vuol frantumare sotto il rullo di un criticismo
esasperato. "Nel campo della fisica - scrive - codesti filosofi
hanno trovato solo obiezioni contro l'autore della natura, in
quello della metafisica solo dubbi e sottigliezze; la morale e
la logica hanno fornito loro solo declamazioni contro l'ordine
politico, le idee religiose e le leggi di proprietà; essi hanno
aspirato nientemeno che alla ricostruzione del tutto mediante la
rivolta contro tutto e, senza pensare che anch'essi erano nel
mondo, hanno rovesciato le colonne del mondo".
Rivarol scopre, invece, che quel Dio, che egli invoca a garanzia
dell'ordine costituito, non è soltanto un formidabile calmiere
delle passioni né la religione, che la Francia un tempo si
onorava di praticare, un «instrumentum regni», per assicurare
l'ordine pubblico. Esistono prove, magari desunte ancora con
spirito settecentesco dalla fisica newtoniana, che conducono -
per così dire - per mano verso il riconoscimento dell'esistenza
del Dio del cristianesimo, provvidenziale ordinatore del cosmo.
Sono sparse sia nell'infinitamente piccolo, "le sostanze e le
affinità dei corpi", sia nell'infinitamente grande, "gli astri e
le leggi dell'attrazione". Ma la prova più convincente è quella
che nasce «in interiore homine», dal bisogno, che Rivarol sente
acutissimo, di essere liberato "[...] dal caos e dall'anarchia
delle idee". Bisogno, questo, di ordine e di forma che non
avverte soltanto l'individuo ma l'intero corpo sociale. Sicché,
se "il popolo dà la forza", è il governo che gli conferisce la
ragione. "La sovranità - scrive ancora - è una potenza
conservatrice. Perché vi sia sovranità, occorre che vi sia
potenza. Ebbene la potenza, che è l'unione dell'organo con la
forza, non può risiedere che nel governo". Altrimenti "[...]
queste forze, quando sono disgiunte dal loro organo, ben lungi
dal conservare, tendono solo a distruggere".
L'equilibrio e il contemperamento dei poteri fa, dunque,
propendere Rivarol non tanto per una monarchia costituzionale,
meccanicamente fondata sul sistema di pesi e di contrappesi,
come sembrava proporre Charles de Secondat, barone di La Brède e
di Montesquieu (1689-1755), quanto piuttosto per il modello
britannico, che alimenta organiche libertà alla fonte di una
tradizione secolare. Sicché non può non rimpiangere, con parole
che ricordano da vicino a «La Rivoluzione francese del 1789 e la
Rivoluzione italiana del 1859. Osservazioni comparative» di
Alessandro Manzoni (1785-1873), il fatto che la Dichiarazione
del re nella seduta del 23 luglio 1789 non sia divenuta - con
qualche ritocco - la Magna Charta del popolo francese.
Risparmiando così alla nazione le carneficine del Terrore. Anche
se imperscrutabili permangono i disegni di quella Provvidenza,
per volontà della quale "[...] ogni stato è una nave misteriosa
ancorata al cielo".