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Giovanni Pascoli
Nasce a San Mauro di Romagna nel 1855 (quarto di dieci figli). Il
padre, amministratore di una vasta tenuta agricola dei principi
Torlonia, fu assassinato il 10 agosto del 1867 per motivi mai
chiariti, ma si pensa a rivalità sul piano professionale e
politico. Il Pascoli allora aveva 12 anni e si trovava a studiare
nel collegio dei padri Scolopi a Urbino, dove rimase fino al 1871.
Tra il 1868 e il 1871 gli moriranno anche la madre, una sorella e un
fratello. Questi lutti, soprattutto quello del padre, segnarono
profondamente la sensibilità del giovane Pascoli. Altre due
sorelle, Ida e Maria, nel 1874, entreranno come educante nel
convento delle Agostiniane di Sogliano sul Rubicone.
Nonostante ciò egli poté proseguire gli studi al liceo
di Rimini e poi dal '73, con una borsa di studio vinta dopo un esame
sostenuto alla presenza del Carducci, poté iscriversi alla
facoltà di Lettere dell'Università di Bologna. Qui si
avvicinò agli ambienti del socialismo emergente,
caratterizzato dall'anarchismo di Andrea Costa, e si iscrisse
all'Internazionale socialista. Privato della borsa di studio per
aver partecipato a una manifestazione contro il ministro
dell'Istruzione Ruggero Bonghi, vive in grande miseria e per ben
cinque anni (1875-80) è costretto a interrompere gli studi.
Nel '76 gli muore un altro fratello. Nel '79 viene coinvolto nelle
agitazioni che seguirono alla condanna a morte dell'anarchico
Giovanni Passanante, che attentò alla vita del re Umberto I a
Napoli: arrestato, per più di tre mesi resterà in
carcere. Verrà prosciolto con formula piena, anche per la
testimonianza scritta del Carducci.
Il carcere fu comunque un'esperienza che lo segnò,
interiormente, in maniera decisiva. Decise di abbandonare
l'attività politica e di laurearsi; con l'aiuto del Carducci
ottiene nel 1883 la cattedra di latino e greco al liceo di Matera.
L'anno dopo si trasferisce a Massa, ove si riunisce alle due sorelle
entrate in convento, di cui una, Maria, resterà con lui tutta
la vita. Nel 1887 passa a Livorno, dove rimarrà sette anni.
Nel corso di questi anni, per aumentare il magro stipendio si dedica
a vari incarichi intellettuali e a lezioni private. Nel 1895 la
sorella Ida si sposa contro il parere del Pascoli. Nelle stesso
anno, con la sorella Maria, si trasferisce a Castelvecchio di Barga
in provincia di Lucca, dove affitta una villetta di campagna che
diverrà la loro residenza definitiva.
Nel '91 (era ancora a Livorno) pubblica il suo primo volumetto di
poesie, Myricae, che resta la sua opera più famosa (l'altra
è Canti di Castelvecchio del 1903), mentre l'anno seguente
vince il primo premio al concorso internazionale di poesia latina ad
Amsterdam (lo vincerà per altre 12 volte!). La sua fama di
latinista gli permette nel '95 di abbandonare l'insegnamento liceale
per quello universitario. Diventa docente universitario incaricato
di latino e greco a Bologna; in questo anno prende la decisione di
fidanzarsi con la cugina Imelde Morri, ma è indotto a rompere
il fidanzamento per l'accanita resistenza della sorella Maria.
Nel 1897 non ritenendo dignitoso insegnare a Bologna, dove s’era
stabilito il fratello Giuseppe che conduceva una vita sregolata,
dà le dimissioni dall’università ed è nominato
professore di letteratura latina all’Università di Messina.
Nel 1903 è nominato professore di grammatica greca e latina
all'Università di Pisa. Nel 1905 è nominato titolare
della cattedra di letteratura italiana dell'Università di
Bologna, succedendo al Carducci, che aveva chiesto il collocamento a
riposo, e che aveva espresso parere favorevole riguardo a tale
successione, benché buona parte della stampa e dell'Ateneo
ritenesse preferibile il D'Annunzio. Il 16 gennaio del 1906 Carducci
muore e Pascoli gli subentra senza sostenere alcun concorso,
nonostante fosse un latinista e notoriamente migliore come poeta che
non come insegnante. Nel 1907 tiene la commemorazione ufficiale del
Carducci. (1)
Il 26 novembre del 1911 pronuncia a Barga un discorso in favore dei
feriti nella guerra libica. In questo discorso dal titolo “La grande
proletaria si è mossa” il Pascoli giustificava la guerra di
Libia in nome della povertà economica dell’Italia. Il 18
febbraio del 1912 si ammala di cirrosi epatica che lo costringe a
lasciare Castelvecchio per cercare cure più idonee a Bologna.
Nel marzo dello stesso anno vince per l'ultima volta la XII Medaglia
d'oro al concorso di poesia latina di Amsterdam in Olanda. Il 6
aprile muore a Bologna assistito dalle sorelle e da Falino, il
fratello che esaudisce la volontà di non ricevere esequie
religiose. Il 9 aprile del 1912, per volontà della sorella
Maria, Pascoli viene sepolto nel cimitero di Barga. L’inseparabile
sorella Maria continuò ad abitare nella casa comune, dove
custodì gelosamente le carte del poeta fino a quando
morì nel 1953.
Nota
(1) Quando trattava il tema della letteratura italiana, Pascoli era
solito passare da Dante a Leopardi, saltando a piè pari
quanto stava in mezzo. Inoltre non aveva approfondite cognizioni di
filologia romanza e germanica. Gli si preferiva il D'Annunzio
perché questi aveva resuscitato il romanzo (spentosi col
Manzoni), superato nel lirismo epico il Carducci, migliorata di
molto la novella e creato il teatro italiano moderno. Tuttavia
D'Annunzio non fu mai interessato alla cattedra bolognese. Lo stesso
Pascoli sapeva di non essere apprezzato né per la sua critica
dantesca, né per i Poemi conviviali. Eppure quando vennero
fuori i Futuristi, l'unico tra i "grandi" loro contemporanei
meritevole d'essere salvato, fu proprio il Pascoli, a motivo del suo
sperimentalismo linguistico.
IDEOLOGIA E POETICA
Pascoli si è formato fuori del Risorgimento, è
cresciuto cioè in un periodo in cui alle contraddizioni della
società borghese si stava cercando una soluzione nel
socialismo emergente, che in Italia si presentava nella variante
anarchica, mentre la grande borghesia, alleata con gli agrari del
Sud, la cercava in un governo forte e reazionario.
Quando il Pascoli rinuncia alle idee del socialismo anarchico
(politicamente impegnato), approda progressivamente alla convinzione
che il mondo e la nuova società borghese sono dominati da
forze negative troppo superiori per essere vinte. Al massimo -pensa
il Pascoli- è possibile attenuare l'impatto di queste forze
sugli uomini, mediante una sorta di socialismo umanistico e
filantropico (nel senso che tutte le classi sociali devono trovare
ai loro conflitti una relativa conciliazione, nella consapevolezza
di sentirsi reciprocamente indispensabili), e mediante una sorta di
patriottismo-nazionalistico, per il quale le classi oppresse hanno
il diritto a un'espansione coloniale verso l'Africa e di conquistare
le terre irredente del nord-Italia, al fine di dimostrare le loro
grandi capacità lavorative e civilizzatrici: in tal modo il
Pascoli sperava di attenuare le forti tensioni sociali che erano
scoppiate in tutta la nazione. Il suo discorso La grande proletaria,
pronunciato nel 1911, al tempo dell'impresa libica, destò
grandi entusiasmi nella stampa e nei teatri.
Il Pascoli eredita chiaramente la fine delle illusioni del secondo
Ottocento nelle capacità della
scienza-tecnica-industrializzazione di superare il dolore, la
sofferenza, le contraddizioni degli uomini. Tutte queste cose non
hanno tolto ma hanno anche creato nuovi dolori (la scienza - per il
Pascoli - è solo servita a togliere le illusioni della
religione). Il male, per lui, non è generato dalla natura
(che anzi è "madre dolcissima") ma dall'uomo sociale
(ritenuto assai diverso dall'uomo primitivo, "buono per natura").
Unico rimedio al male consiste nel fuggire tutto ciò che
è prodotto di civiltà, rifugiandosi nel puro
sentimento, nella solitudine, in un contatto più stretto con
la natura, vista esteticamente ma anche come fonte di consolazione,
come luogo simbolico in cui poter rievocare un passato, un'innocenza
perduta definitivamente.
La natura è anche un luogo in cui si può meditare sul
problema del dolore, della morte, della sofferenza degli uomini in
maniera distaccata, cioè senza cercare nel conflitto delle
classi una soluzione alle contraddizioni sociali. La meditazione sul
dolore e sul mistero di una vita che ci fa nascere felici e ci fa
diventare infelici, deve portare l'uomo ad avere pietà del
suo simile. Il dolore infatti ha qualcosa di sacro e di necessario e
per renderlo più sopportabile occorre la fraternità
universale. Quella del Pascoli viene chiamata "poetica
decadentistica della consolazione".
Egli però definì la propria poetica con l'espressione
"poetica del fanciullino". Il poeta cioè è un
fanciullo che sogna e vede cose che gli altri non vedono né
possono vedere, essendo abituati ai nessi logici, razionali delle
cose. Il "fanciullino" privilegia l'intuizione alla ragione, il
sogno al vero, l'invenzione alla riproduzione, l'arbitrarietà
della parola alla normalità comunicativa (grandissimo, in
questo senso, fu il contributo stilistico del Pascoli).
Pascoli nascosto
In certi manuali di storia della letteratura, generalmente,
trattando il Pascoli, si considera il suo periodo giovanile (quello
politicamente impegnato in direzione del socialismo anarchico) con
sfumature diverse ma di contenuto analogo: sprezzante, sarcastica,
ironica, paternalistica, patetica... E si usano espressioni
così superficiali e vergognose che, volendo, potremmo
tradurle nel modo seguente: "non avrebbe dovuto", "era un povero
illuso", "era giovane", "era spiantato", e via dicendo. Il che, in
sostanza, lascia ben capire come l'autore del manuale intenda
l'impegno politico rivoluzionario.
Ciò fa sì che di quel periodo lo studente non venga a
sapere praticamente nulla. Il silenzio (ma sarebbe meglio dire la
"censura") viene giustificata col dire che il vero "poeta", il vero
"artista" è maturato soltanto molti anni dopo,
allorché comprese la vanità dei suoi ideali giovanili.
Subito dopo, la censura viene ulteriormente rafforzata presentando,
del poeta, solo quei testi che unanimemente (cioè anche da
parte di molti altri manuali di letteratura), vengono considerati
più significativi: e qui la scelta cade ovviamente su quelli
che hanno un pregio estetico o stilistico rilevante, oppure su
quelli che confermano la necessità del superamento delle
istanze giovanili.
Alla fine, dopo aver ridotto il poeta a un fallito come "politico",
a uno che praticamente era sopravvissuto a se stesso, cioè
dopo aver rigorosamente circoscritto la sua originalità a
pochissimi testi poetici, si conclude, non senza compiacimento,
ch'egli era un decadente, cioè uno che né dal punto di
vista "borghese" né da quello "anti-borghese" aveva qualcosa
da dire.
Si badi: i manuali di letteratura italiana non plaudono
esplicitamente alla cultura borghese -meno che mai quelli orientati
a sinistra-; tuttavia, ogniqualvolta essi delimitano l'opposizione
alla società capitalistica nel ristretto ambito della mera
coscienza interiore, psicologica, il limite della loro ideologia
piccolo-borghese si evidenzia subito.
Naturalmente, per non apparire troppo sbrigativi, tali manuali
riconoscono al Pascoli dei meriti a livello linguistico, metrico,
formale, ecc., ma sul piano del contenuto ideale il giudizio resta
negativo: il Pascoli che aveva cercato di superare (si precisa:
"ingenuamente") le contraddizioni del capitalismo e che poi si era
accorto (si precisa: "realisticamente") che quelle contraddizioni
non potevano essere superate, va considerato, più o meno con
disprezzo, un decadente.
Detto altrimenti: il suo decadentismo è il frutto di una
posizione sbagliata assunta in gioventù. Egli s'era per
così dire "intestardito" a seguire una via che non aveva
sbocchi. Non che per questo egli dovesse allinearsi subito alle
esigenze della borghesia (come quando appoggiò nella
maturità il colonialismo in Africa). Sarebbe stato
sufficiente ch'egli avesse contestato la società borghese sul
piano morale, non politico: in tal modo, anche se alla classe
borghese del suo tempo egli non sarebbe apparso un "vincente", gli
odierni critici letterari borghesi forse non l'avrebbero messo tra i
decadenti. Il decadentismo, insomma, non viene colto come l'esito di
un dramma personale del poeta, ma come una sorta di punizione per
aver preteso cose ingiustificate.
In questi manuali, per concludere, non si vuole assolutamente
ammettere l'eventualità che un individuo si "rifugi" nella
letteratura allo scopo di superare le proprie tensioni accumulate in
sede politica. La letteratura italiana -così come viene
trattata nella maggior parte dei manuali- deve restare separata
dalla politica: laddove esiste un nesso, una qualche relazione, il
riferimento alla politica deve restare molto indiretto, molto
nascosto, altrimenti la letteratura diventa "mediocre". Il giovane
Pascoli, dunque, non solo era un illuso sul piano politico, ma aveva
anche perso del tempo prezioso per le esigenze della "vera"
letteratura.
Le opere poetiche
1) Myricae (1891–1903);
2) Primi poemetti (1897–1907);
3) Canti di Castelvecchio (1903–1912);
4) Poemi conviviali (1894-1904 );
5) Nuovi Poemetti (1909–1911);
6) Odi e Inni (1906–1913);
7) Le canzoni di Re Enzio (1908–1912);
8) Poemi del Risorgimento (incompiuta)
9) Poesie varie (incompiuta)
10) Traduzione e riduzioni (incompiuta)
Le ultime tre opere sono uscite postume a cura della sorella
La opere poetiche latine sono note con il titolo “Carmina”.
I saggi in prosa
1) Il Fanciullino (1897);
2) Minerva oscura, (1898);
3) L’era nuova (1899);
4) Sotto il velame (1900);
5) L’avvento (1901);
6) Miei pensieri di varia umanità (1903);
7) Pensieri e discorsi (1907)
8) La grande proletaria si è mossa (1911).