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Lucio Cecilio Firmiano Lattanzio
Lucio Cecilio Firmiano Lattanzio (in latino: Lucius Cæcilius
Firmianus Lactantius; Africa, 250 circa – Gallie, 327 circa)
è stato uno scrittore, retore e apologeta romano, di fede
cristiana, fra i più celebri del suo tempo.
Biografia
Nato da famiglia pagana, fu allievo di Arnobio a Sicca Veneria. Per
la propria fama di retore fu chiamato da Diocleziano, su consiglio
di Arnobio, a Nicomedia, in Bitinia, capitale della parte orientale
dell'Impero e residenza ufficiale dell'imperatore, come insegnante
di retorica (290 circa).
Fu costretto a lasciare il suo ufficio nel 303 a causa delle
persecuzioni contro i cristiani, alla cui religione si era
convertito. Lattanzio abbandonò quindi la Bitinia nel 306,
per farvi ritorno cinque anni dopo, in seguito all'editto di
tolleranza di Galerio. Nel 317 Costantino I lo chiamò a
Treviri, in Gallia, come precettore del figlio Crispo. Probabilmente
morì a Treviri qualche tempo dopo.
Per il suo stile elegante e il periodare articolato si
guadagnò il soprannome di "Cicerone cristiano" da parte dei
più importanti uomini del Rinascimento, come Angelo Poliziano
e Pico della Mirandola.
Opere
Le opere pervenute sono:
De opificio Dei (L'opera di Dio), sulla
Provvidenza divina in rapporto all'uomo;
De ira Dei (L'ira di Dio), contro la tesi
dell'impassibilità di Dio;
De mortibus persecutorum (Le morti dei
persecutori), sulla morte violenta degli imperatori persecutori del
Cristianesimo, da Nerone a Massimino Daia: pone le condizioni per la
nascita di una storiografia cristiana;
Divinarum institutionum Libri VII o Divinæ
institutiones (Istituzioni divine), in sette libri, delle quali
stese anche un'epitome (compendio): primo tentativo di sintesi
dell'insegnamento cristiano, alla confutazione del paganesimo segue
l'esposizione delle dottrine cristiane nel tentativo di delineare
una continuità tra sapere antico e moderno.
Sono perdute le opere del periodo pagano e le lettere, è
incerta l'attribuzione a Lattanzio del poemetto in ottantacinque
distici De ave phœnice (L'uccello fenice), dove il mito della fenice
è assimilato alla passione, morte e resurrezione di Cristo.
De opificio Dei
In quest'opera, composta negli anni 303-304 d.C., Lattanzio
polemizza con le tesi delle filosofie ellenistiche e soprattutto con
quelle degli epicurei, sostenendo la grandezza della Provvidenza
divina e l'intervento di Dio anche nella costituzione fisiologica
dell'uomo, che è sufficiente già di per sé a
mostrare la perfezione del disegno di Dio.
De ira Dei
Questo scritto, affine ai due precedenti per tono e argomento, fu
composto intorno al 313. In esso Lattanzio, contrapponendosi alla
tesi degli stoici e degli epicurei, sostiene che è
ammissibile la collera divina, come espressione di opposizione e
rifiuto del male, e che Dio punisce l'uomo colpevole e peccatore
dinanzi all'eterna giustizia divina, mirando attraverso ciò a
ripristinare l'ordine compromesso dall'insorgere e dal prevalere del
male.
De mortibus persecutorum
Di attribuzione incerta, scritto probabilmente tra il 318 e il 321,
affronta il problema delle persecuzioni da parte degli imperatori
contro i Cristiani. Gli imperatori si sono rivelati malvagi e poco
onorevoli anche per la storia di Roma, ma prima o poi tutti sono
stati colpiti dalla punizione divina e hanno concluso in modo
tragico od inglorioso la propria vita, costituendo per i posteri un
monito chiaro ed esemplare.
Divinæ institutiones
Il De divinis institutionibus adversus gentes, stampato a Subiaco
nel 1465 da Konrad di Schweinheim e Arnold Pannartz
Quest'opera, composta tra il 304 e il 313 in sette libri, da cui
più tardi egli stesso ricavò un'epitome in un solo
libro, polemizza con i pagani, confutando i fondamenti ed il culto
della loro religione ed espone in maniera sistematica la dottrina
cristiana. Al primo scopo Lattanzio dedica i primi tre libri del
trattato (De falsa religione, De origine erroris, De falsa
sapientia), all'altro suo intento i rimanenti quattro (De vera
sapientia et religione, De justitia, De vero cultu, De vita beata).
Lattanzio chiarisce esplicitamente la finalità dell'opera
quando dice di scrivere:
« Ut docti ad veram sapientiam dirigantur
et indocti ad veram religionem »
Particolarmente apprezzabile è il suo tentativo di recuperare
e inglobare i valori della cultura e della civiltà antica, le
stesse speculazioni filosofiche, nella nuova verità
cristiana.
Stile
Dal punto di vista letterario, è stato osservato come
Lattanzio sia essenzialmente un retore: convertitosi anche a lui,
come Arnobio, in età adulta, al pari del suo maestro è
ancora strettamente legato a schemi argomentativi e teorici della
cultura classica, in particolare neoplatonica. Il suo stile è
comunque fluente e l'argomentare è stringente e segue sempre
un preciso filo logico, come vogliono i dettami della retorica. Il
tentativo di assimilazione della cultura pagana in quella cristiana
emerge anche nell'imitazione stilistica di Cicerone.
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Lattanzio
Lattànzio ‹-z-›, Firmiano (lat. Lucius Caecilius [meglio che
L. Caelius] Firmianus Lactantius). - Apologista cristiano
(3º-4º sec.), di origine africana (Firmianus non significa
"di Fermo"). Scrittore raffinato e dallo stile ciceroniano, sebbene
pensatore modesto, è figura di notevole importanza
soprattutto per il suo tentativo di compiere, in ambiente
latino, la fusione tra cultura classica e religione cristiana. Tra
le sue opere si ricordano le Divinae istitutiones, ampia opera
apologetica in cui la sistematica confutazione della religione
pagana si accompagna con un'esposizione della fede cristiana
piuttosto superficiale.
Vita
Forse scolaro di Arnobio, fu insegnante di retorica latina a
Nicomedia di Bitinia ove probabilmente si convertì; alcuni
studiosi ritengono che L. abbia abbandonato Nicomedia durante la
persecuzione rimanendone lontano dal 306, quando fu destituito, al
311 o 313. Nel 317 fu chiamato da Costantino come precettore del
figlio Crispo, in Gallia.
Opere e pensiero
Sono andati perduti alcuni scritti, probabilmente del periodo
d'insegnamento e anteriori alla conversione al cristianesimo
(Symposium, Hodoiporicon in esametri, sul viaggio da Cartagine a
Nicomedia, Grammaticus, due libri Ad Asclepiadem, quattro Ad Probum,
ecc.); secondo alcuni apparterrebbe a questo periodo il poemetto De
ave Phoenice, che altri (poiché la fenice è anche, nei
monumenti figurati, simbolo di Cristo) ascrive al periodo
successivo, ma che non tutti riconoscono come opera di L.; mentre
certo non sono suoi i carmi De pascha o De resurrectione (di
Venanzio Fortunato) e De passione Domini. Perduti sono pure gli
altri scritti menzionati da s. Girolamo (raccolta di lettere; due
libri Ad Demetrianum de providentia, due Ad Severum); un solo
frammento ci è pervenuto del De motibus animi. Delle opere a
noi giunte, il De opificio Dei (303-304) esalta la perfezione
dell'organismo umano, composto di anima e corpo; le già
citate Divinae institutiones ("manuale di religione": il titolo le
contrappone alle "istituzioni" giuridiche e oratorie) in 7 libri (vi
è anche una Epitome, rifacimento compendioso, posteriore al
314) combattono scritti di un filosofo (difficilmente Porfirio) e di
un magistrato (Ierocle), dimostrando che la vera filosofia è
quella di Gesù Cristo e, per convincere di ciò i non
credenti e istruirli, L. si fonda soprattutto sull'etica, e ricorre
frequentemente ad autori pagani (specie Virgilio e gli Oracoli
Sibillini), mentre nello stile imita Cicerone ("Cicerone cristiano"
fu chiamato da G. Pico della Mirandola). Ma permangono in lui
elementi di millenarismo, mentre certi passi dualistici e fortemente
elogiativi di Costantino hanno dato origine a discussione tra chi
sostiene trattarsi di interpolazioni posteriori e chi invece li fa
risalire allo stesso autore. Il De ira Dei (circa 313-315), contro i
filosofi che parlano di un Dio apatico o atarassico, mostra che Dio
non è malvagio o iracondo, ma giusto, quando punisce i
malvagi. In relazione con questo, appare logico riconoscere a L.
anche il De mortibus persecutorum (di autenticità contestata
da varî studiosi, ma di attendibilità storica
generalmente riconosciuta entro certi limiti), posteriore alla morte
di Diocleziano ma anteriore al 321 (per il silenzio sulla
persecuzione di Licinio, che vi è invece lodato), in cui
appare chiaramente la tesi che i sovrani persecutori del
cristianesimo sono stati duramente castigati da quel Dio che con la
sua provvidenza regge la storia.