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Demagogia
Nel mondo antico e moderno
di Luciano Canfora
Nel mondo antico e moderno Invano si cercherebbe una chiara e
univoca indicazione del significato negativo del termine 'demagogia'
e dei suoi derivati (δημαγωγόϚ, δημαγωγεῖν), passato di peso dal
greco classico al linguaggio politico moderno. La prima attestazione
di 'demagogia' (δημαγωγία) è in Aristofane, Cavalieri, 191.
La commedia fu rappresentata nell'anno 424 a.C.: è dunque
un'attestazione precedente Tucidide, VIII, 65, dove si parla della
demagogia (nel senso di leadership) di Androcle, un esponente
democratico ucciso da sicari oligarchici nel 411 a.C. Sia in un caso
che nell'altro il termine indica semplicemente la guida politica
della città, ovvero il far politica in un ruolo in vista.
"Ormai - dice il servo A in Cavalieri, 191-194 - la guida del popolo
(δημαγωγία) non tocca più a persone bene educate e perbene,
è andata a finire nelle mani di un ignorante
schifoso".È stato notato (v. Lossau, 1969, p. 84) che in
Aristofane manca invece del tutto 'demagogo', che in Tucidide figura
una sola volta (IV, 21, 3) a proposito di un politico, Cleone, che
Tucidide non considera certo con favore. Circostanza che non
dovrebbe indurre a pensare che, perciò, il valore del termine
sia senz'altro negativo.
L'espressione adoperata ("Cleone che in quel periodo era ἀνὴϱ
δημαγωγόϚ") fa quasi pensare a un ruolo formale. Inducono a pensarlo
sia l'indicazione di tempo ("in quel periodo") sia la iunctura (ἀνὴϱ
δημαγωγόϚ) equivalente per esempio ad ἀνὴϱ στϱατηγόϚ (Tucidide I,
74, 1) che significa 'persona in carica come stratego'. Sembra
difficile sostenere (v. Lossau, 1969, p. 87) che l'epiteto abbia
significato negativo perché riferito a Cleone, ed è
probabilmente una sovrainterpretazione testuale suggerire che il
sintagma ἀνὴϱ δημαγωγόϚ sia un conio ironico su ἀνὴϱ στϱατηγόϚ in
quanto allusivo a una 'carica inesistente'.
Né deve ingannare un altro passo dei Cavalieri (213-219,
nell'ambito del medesimo dialogo tra il servo A e il Salcicciaio,
dove il servo così incita il Salcicciaio a fare politica per
contrastare Paflagone (personaggio dietro cui è adombrata la
figura dell'odiato Cleone): "Conquista il popolo con gustosi
manicaretti di parole; tutti gli altri requisiti per la δημαγωγία li
hai: una voce repugnante, origini basse, volgarità; hai tutto
quello che ti serve per fare politica (πϱὸϚ πολιτείαν)". Poco prima
il servo aveva detto che tanto, ormai, la δημαγωγία era passata dai
bene educati alle persone "ignoranti" e "schifose". Qui c'è
dunque una identificazione tra δημαγωγία e attività politica.
E poiché c'è stata una mutazione nella politica, nel
personale politico, dai "bene educati e perbene" agli "ignoranti
schifosi", la δημαγωγία è caduta nelle mani di questi ultimi;
se dunque questo è ormai il personale politico, il
Salcicciaio può senz'altro far politica essendo dotato di
quei requisiti che, oggi, sono peculiari del δημαγωγεῖν. Non
è dunque il δημαγωγεῖν come tale un disvalore: gli è
che oggi - così opina Aristofane nel 424 a.C. - lo si deve
praticare con mezzi bassi. E infatti nell'omonima commedia i
cavalieri ateniesi, la classe più cara ad Aristofane per il
suo conservatorismo, l'educazione all'antica, ecc., si schierano
senz'altro per il Salcicciaio, e suo tramite sconfiggono
Paflagone-Cleone e favoriscono la rinascita del popolo (Demo, che
è personaggio della commedia, ringiovanisce e ritorna fulgido
com'era "al tempo di Temistocle e Aristide"). Ciò significa
che anche il ceto dei cavalieri sa che, ormai, si fa politica con
quel personale, dedito a quei metodi e che dunque c'è solo da
individuare, tra quei politici, uno strumento da utilizzare per
δημαγωγεῖν. Termine neutro, dunque, che si riempie di tratti
negativi per il modo in cui i nuovi politici, provenienti dai ceti
bassi, praticano la δημαγωγία.
Limpida riprova di ciò la testimonianza di Aristotele nella
Costituzione di Atene: "In principio erano le persone perbene che
facevano i demagoghi" (28, 2). Segue, nello stesso capitolo, la
lista dei demagoghi del tempo andato, da Solone a Pisistrato, da
Temistocle ad Aristide "il giusto". La lista è divisa tra
"capi del demo" e "capi dei nobili", tutti 'demagoghi' dunque: non a
caso lo stesso Aristotele nella Politica (1305 b 23) precisa che si
può avere δημαγωγία anche all'interno delle oligarchie, e
cita Caricle come demagogo dei Trenta e Frinico come demagogo dei
Quattrocento. "Dopo la morte di Pericle - seguita Aristotele - a
capo dei signori stava Nicia, a capo del demo Cleone, al quale
sembra che spetti la massima responsabilità nella corruzione
del popolo per quel che riguarda il modo di far politica (28, 3).
Infine, "a partire da Cleofonte la δημαγωγία fu esclusivamente nelle
mani degli sfacciati desiderosi solo di compiacere la massa" (28,
3).C'è dunque, per Aristotele, una parabola discendente
dall'ottima demagogia dell'età arcaica (fino a Pericle
incluso) alla totalmente pessima demagogia da Cleofonte in avanti.
Dove collocare il punto di passaggio non era, forse, stabilito in
modo convincente per tutti. Anche Tucidide, che sicuramente ha
influenzato le idee di Aristotele sulla storia interna di Atene,
poneva una cesura nel trapasso da Pericle ai suoi successori (II,
65). E l'anonimo autore della Costituzione degli Ateniesi
(tramandata come di Senofonte ma attribuibile all'oligarca socratico
Crizia) tende a presentare un quadro totalmente negativo del
personale politico ateniese, ma non è detto che non includa
anche Pericle tra le figure deteriori.
Nella scena finale dei Cavalieri di Aristofane il buon tempo,
l'età sicuramente positiva, è quello di Aristide e
Temistocle (v. 1325). Infatti per Aristofane, come per i comici
più anziani di lui, Pericle è già un politico
impregnato di cattiva demagogia, tanto da portare la città
alla dissennata avventura della guerra (Acarnesi, 515-537). E in
questa periodizzazione Aristofane e i comici non sono soli:
c'è Platone nel Gorgia, e ci sono gli intellettuali delle
città alleate-suddite, che odiano i capi della democrazia
dominatrice e mettono tra i demagoghi tutti: da Temistocle a Cimone
a Pericle (Stesimbroto di Taso).L'idea sottesa a questa visione di
progressiva decadenza è che, col farsi avanti sulla scena
politica del popolo (cioè dei nullatenenti, tenuti ai margini
delle massime cariche politiche fino alla rivoluzionaria riforma di
Efialte, 456 a.C.), lo stile della politica necessariamente cambia
in peggio (è ciò che vuol dire Aristofane con la
parabola dei Cavalieri).
E poiché dal tardo V secolo a.C. all'età ellenistica,
salvo brevi parentesi di governi oligarchici o timocratici, il
soggetto della politica ateniese è appunto il popolo, la
massa dei non possidenti, si fa strada sempre più l'idea che
la politica come tale, in una città retta a democrazia, non
può che essere demagogia in senso deteriore: appunto come la
descrive al Salcicciaio il servo A dei Cavalieri. Questo spiega il
perdurare di una certa incoerenza semantica nell'uso di 'demagogia'.
Senofonte l'adopera in senso nettamente deteriore nell'ambito di un
discorso di Crizia (Elleniche, II, 3, 27), ma come semplice
equivalente di πϱοστάτηϚ τοῦ δήμου in un altro passo della stessa
opera (V, 2, 7). Gli oratori attici evitano quasi sempre il termine,
e comunque non lo caricano di valenze negative (in Demostene
c'è una sola volta δημαγωγοῦντεϚ in Chersoneso, 34, detto
degli avversari). Platone non fa distinzioni terminologiche,
poiché, coerentemente con le sue premesse, colloca sul
versante negativo tutti coloro che fanno politica in democrazia, e
perciò usa indifferentemente demagogo o 'capo popolare'
(πϱοστάτηϚ) entrambi come disvalori.
È Aristotele che sistematizza e distingue, e accanto all'uso
neutro del termine (di cui s'è già detto) adotta anche
la nozione negativa di demagogo (Politica, 1292 a 7-15, 23-28)
riferendola a coloro che "coi decreti" esercitano il loro dominio
contro le (o al di sopra delle) leggi. Perciò - deduce -
è dal demagogo che discende il tiranno (1308 a 22). Per
Platone, com'è chiaro da quel che si è ora detto, il
tiranno proviene in genere "dai capi popolari" (Repubblica 565 d).
In Polibio ormai i termini 'demagogo', 'demagogia', 'demagogico'
(II, 21, 8; III, 80, 3; XV, 21, 1) hanno unicamente significato
deteriore: si tratta di persone e metodi che cercano, per fini
perversi, di catturare il favore delle masse adulandole.Via via che
si impone questa nozione deteriore, si fa chiaro che il veicolo
privilegiato della demagogia è la parola. È latente,
ma ben si coglie, negli sforzi definitori sin qui descritti
l'identificazione tra demagogo e abile parlatore. Giova ancora una
volta il richiamo al servo A dei Cavalieri: lo strumento che
suggerisce per δημαγωγεῖν sono i "gustosi manicaretti di parole", e
il primo requisito che richiede è la voce (beninteso
"repugnante"). Repugnante è Odisseo, buon parlatore, nella
tragedia euripidea: nell'Ecuba strappa Polissena a sua madre, nelle
Troadi fa prevalere il consiglio di massacrare il piccolo figlio di
Ettore. Repugnante è Drance, l'oratore-demagogo dell'Eneide
(XI, 343-375), "l'unico fra i personaggi umani [del poema]
assolutamente negativo" (cfr. A. La Penna, Drance, in Enciclopedia
virgiliana, vol. II, Roma 1985, pp. 138-140).
E anche nella Costituzione di Atene di Aristotele, i segni esterni
dello scadimento della δημαγωγία consistono appunto nel modo di
parlare in assemblea: Cleone si presenta con la veste stretta
intorno al corpo, come in abito da lavoro - laddove prima si parlava
"in ordine", immobili e con la tunica cadente fino a terra -, "alza
la voce e offende" gli avversari (28, 3); Cleofonte, per fare
impressione e imporre il rifiuto della pace, si presenta
all'assemblea ubriaco e con indosso la corazza (34, 1). Del resto
tutta la polemica socratica e poi platonica contro la retorica come
pseudoscienza del politico mira appunto a denunciare il carattere
ingannevole della parola politica in generale (corrispettivo della
condanna del mestiere di politico come tale). Sintomatica è,
in questo senso, la divergenza tra Tucidide e Platone nel giudizio
su Pericle. Per Tucidide Pericle è colui che "tiene a freno
il demo e lo trascina anziché esserne trascinato", colui che
rifugge dal parlare "per compiacere" (II, 65, 8). Per Platone
Pericle è colpevole come corruttore del demo, per averne
sollecitato le peggiori inclinazioni (Gorgia, 515 d-e). E infatti
tutta la rappresentazione dell'oratoria periclea in Tucidide
è quella di un oratoria contro corrente. Pericle è
contro corrente quando impone la scelta della guerra e quando impone
la strategia dell'arroccamento dentro le mura, e "si aspetta", per
questo, l'ostilità del pubblico (II, 60, 1), e parla
essenzialmente per ammonire ed educare, non per adulare o
sollecitare facili riflessi condizionati.
Perciò il suo epitafio liquida (II, 36) i luoghi comuni del
più demagogico dei generi oratori qual è l'epitafio,
vera recitazione collettiva dei presupposti (anche razziali e
imperialistici) della democrazia attica, e si effonde invece in una
esaltazione piuttosto anomala, che è quasi una
re-interpretazione del meccanismo democratico (II, 37), e in una
definizione del ruolo storico di Atene non già in termini di
destino imperiale ma di predominio intellettuale sul mondo greco
(II, 40). Naturalmente anche Pericle sa toccare i tasti della
retorica seduttiva, ma preferisce il franco smascheramento dei veri
rapporti, fino alla dura dichiarazione, nel suo ultimo discorso (II,
63, 2-3), che l'impero è tirannide, ma per gli Ateniesi
è anche una condanna: e rinunciarvi significa correre
pericoli immensi, molto più gravi della guerra.Nasce, con il
Pericle tucidideo (che forse rassomiglia non poco a quello vero),
l'oratoria politica severamente pedagogica: il politico che
rimprovera il demo anziché blandirlo. È il modello cui
si attiene costantemente Demostene, per quel che possiamo giudicare
dai discorsi assembleari superstiti. È notevole però
che anche Cleone, nel suo più impegnativo discorso (Tucidide,
III, 37), parli come Pericle in tono duramente educativo e per nulla
adulatorio nei confronti dell'uditorio. Addirittura riprende da
Pericle la nozione dell'impero-tirannide e dell'impero-condanna; e
le sue parole sull'incapacità degli Ateniesi a serbare
l'impero sono riprese da Demostene, Chersoneso, 42 (il che significa
che non è del tutto esatta la consolidata veduta secondo cui
Tucidide raffigurerebbe Cleone unicamente come un banale demagogo.
I moderni confondono spesso il Cleone di Aristofane con quello
tucidideo, che invece ha tratti periclei e sollecita Demostene).
Naturalmente, anche quando contiene forti elementi pedagogici e di
contrapposizione al demo, la parola pubblica, destinata
all'assemblea, è protesa alla ricerca dell'assenso, non
può prescindere dagli elementi da 'comizio': il richiamo agli
antenati e alla passata grandezza da emulare, l'insistenza sul
destino di guida rispetto alle altre città, la polemica
strumentale verso altre comunità rivali (Tebe) sono tutti
ingredienti che in vario dosaggio rispuntano, mescolati alle
formulazioni più impopolari, anche nell'oratoria demostenica,
pur capace di sottrarsi alla spirale, tipicamente demagogica,
adulazione/consenso. E perciò la critica dell'oratoria, se
condotta con spietato rigore come è il caso di Platone, non
risparmia nessuno, accomuna tutti nel mucchio dei parlatori
ingannevoli.
Aristotele sa invece che quella comunicazione ingannevole è
la parola politica: e quindi ne fa oggetto di studio anche teorico,
la accetta, non la demonizza, scrive egli stesso tre libri di teoria
retorica. Ma l'accomodamento empirico di Aristotele nulla toglie
alla pertinente scoperta platonica del carattere intimamente
demagogico della parola politica. Parola di persone educate
(Pericle, Demostene) che hanno messo a disposizione del demo la loro
capacità tecnica (la parola) in nome di un compromesso col
popolo su cui si fonda il loro potere. Platone contesta quel
compromesso, Aristotele no.
La critica socratica e poi platonica coglie in realtà un
punto centrale: l'antitesi tra discorso scientifico e discorso
politico (complice del quale è la retorica). E perciò
finisce con l'includere nella demagogia (di cui il discorso non
scientifico ma seduttivo è lo strumento) l'intera sfera della
politica. È difficile sottrarsi a questa critica radicale del
discorso politico. Fuori di essa resta l'impossibilità di
definire uno statuto teorico della nozione di demagogia, oggetto di
accusa reciproca (e reversibile) tra forze che si contendono il
consenso.
Non a caso il termine stenta a rinascere dopo l'epoca (Grecia
classica) della sua formulazione e originaria diffusione. Non
è senza significato che il linguaggio politico romano non lo
abbia ricalcato, come ha fatto con altri termini del lessico
politico greco. E nella stessa Grecia moderna la rinascita moderna
del termine non sembra aver avuto vitalità: la Μεγάλη
῾Ελληνιϰὴ ᾽Εγϰυϰλοπαιδεία, la grande enciclopedia nazionale
neogreca, registra, alla voce δημαγωγία, unicamente l'uso e gli
esempi (Demostene, Eschine, Iperide, ecc.) e i teorici (Platone,
Aristotele) di età classica. Ancora nel Seicento Bossuet
(Histoire des variations des Églises protestantes, 1688)
esita ad adoperare il termine démagogue per definire i
detestati predicatori luterani: "Il povero Melantone - scrive - si
considera, nel bel mezzo dei luterani, come circondato da nemici o,
per servirmi delle sue parole, tra vespe scatenate (guêpes
furieuses)"; "vorrei - seguita Bossuet - che mi fosse consentito
adoperare il termine demagogo", e subito spiega: "erano, ad Atene e
negli Stati greci retti dal popolo, alcuni oratori che si rendevano
onnipotenti sul popolaccio adulandolo" (V, § 18). In Melantone
l'immagine delle vespe verrà, probabilmente, dall'omonima
commedia aristofanea, dove i vecchi Ateniesi "bravi democratici",
maniaci dei processi e devoti di Cleone (come il protagonista della
commedia, di nome appunto Filocleone), appaiono in scena travestiti
da vespe, perché col pungiglione del voto infilzano coloro
che vengono trascinati in giudizio.
Ben si comprende dunque perché, dall'immagine aristofanea di
Melantone, Bossuet sia indotto a pensare ai demagoghi ateniesi. Ma
la parola (che figura, ovviamente, nella traduzione francese della
Politica di Aristotele curata, alla metà del Trecento, da
Nicola d'Oresme) gli appare tuttavia un calco sul greco, un
impossibile neologismo.Anche Hobbes adopera il termine e subito lo
spiega. Ed è interessante osservare che per lui 'demagogo'
è senz'altro l'equivalente di "oratore efficace" (powerfull
oratour): "Considera, in una democrazia, quanti demagoghi,
cioè quanti efficaci oratori, hanno a che fare col popolo"
(Philosophical rudiments concerning government and society, London
1651, cap. X, par. 6, traduzione inglese, curata dallo stesso
Hobbes, del De cive, 1646, dove la frase si presentava in forma
lievemente diversa: "Sed in democratia quot sunt demagogi, id est
potentes apud populum oratores [...]").
Che la democrazia sia appunto il regno dei demagoghi, per Hobbes
è assodato: ciò corrisponde alla sua più
generale veduta secondo cui la duplicazione delle forme politiche
codificata da Aristotele non ha senso, e dunque neanche la
distinzione tra buona e cattiva democrazia (cioè tra
democrazia e demagogia). Nella sua prima opera, la prefazione alla
traduzione inglese di Tucidide (1628), Hobbes manifesta il suo
entusiasmo per le idee politiche antidemocratiche dello storico
ateniese: infatti - osserva - "in più occasioni sottolinea
l'emulazione e rivalità tra i demagoghi [the emulation and
contention of the demagogues] anche a costo di opporsi l'uno ai
pareri dell'altro, con danno del pubblico" (English works, vol.
VIII, London 1843, p. XVI). Funzionamento del governo popolare e
demagogia, cioè attività degli oratori, sono per lui
sinonimi: la democrazia consiste nell'esplicarsi di quella
(deleteria) attività oratoria. Ancora nell'autobiografia in
versi (postuma) spiega di aver tradotto Tucidide "per mettere in
guardia gli Inglesi dagli oratori, quando dovessero affrontare
decisioni politiche" (consultaturi rhetoras ut fugerent, in Opera
philosophica quae latine scripsit, vol. I, London 1839, p.
LXXXVIII).L'identificazione tra demagogo e "leader in a popular
State" vale anche per Jonathan Swift: "Demostene e Cicerone sembrano
differire l'uno dall'altro [come oratori], sebbene ciascuno dei due
fosse a leader (or, as the Greeks called it, a demagogue) in a
popular State" (Letter to a young clergyman [in origine: gentleman]
lately enter'd into Holy Orders, 1721, in Satires and personal
writings, Oxford 1932, p. 277).
Entrambi sono demagoghi, cioè "capi in città
democratiche" (il che costituisce - sia detto tra parentesi -
un'interessante, soggettiva, interpretazione di Roma come
città democratica); la differenza è nel tipo di
oratoria: più ragionativa e volta a persuadere l'intelletto
quella di Demostene, più patetica perché indirizzata a
una "nazione meno colta" quella di Cicerone. Ancora una volta
demagogia e tecnica della parola sono elementi strettamente
intrecciati. Questo testo di Swift ha avuto una singolare vicenda.
Tradotto in tedesco, esso appare a Zurigo, nel 1757, nel volume
Moralische Beobachtungen und Urteile, in forma anonima, come
epistola di un illustre teologo a un prete: in questa forma esso
venne utilizzato da Lessing nel XIII Literatur-Brief (1°
febbraio 1759), scritto in polemica con C. Wieland e con la sua
esortazione a imitare l'oratoria francese (Bossuet, Massillon,
Trublet, ecc.). Lessing segnala di aver appena ricevuto dalla
Svizzera quello scritto ma - soggiunge - "ho l'impressione di aver
letto già altrove tali pensieri" (forse aveva avuto modo di
conoscere lo scritto di Swift, che comunque nella sua prima edizione
recava come firma la semplice sigla 'A.B.').
Nell'additare a Wieland il modello dei due grandi demagoghi antichi,
Lessing non manca di osservare che la grande oratoria francese del
Seicento, proposta da Wieland come modello, si era sviluppata "sotto
un governo dispotico" (Gesammelte Werke, vol. IV, Berlin-Weimar
1968, pp. 120-121). Ciò rafforza l'impressione che, per
Lessing, la connessione dell'oratoria dei due grandi demagoghi con
le forme politiche democratiche delle loro città non
costituiva, come invece per Hobbes e forse per lo stesso Swift, un
aspetto negativo.È con la Restaurazione e con la persecuzione
antigiacobina che 'demagogo' diviene l'epiteto stabile con cui si
designano gli sconfitti della Rivoluzione e i loro ostinati seguaci.
Jean-Pierre Faye (v., 1978, pp. 523-524) in una recente voce
enciclopedica ha richiamato l'attenzione su di uno scritto di
modesta rilevanza, risalente al 1825 (cfr. A. Roche, Histoire de la
Révolution française, Paris 1825), dove sono, com'era
da attendersi, definiti in blocco demagoghi tutti i capi della
Rivoluzione, da Mirabeau ai girondini e ai giacobini, e quindi anche
Tallien, l'artefice della trama antirobespierrista del 9 termidoro
("il giovane demagogo - scriveva Roche, p. 253 - corse a casa di
tutti i nemici di Robespierre incitandoli a scuotere il giogo:
Riuniamoci e decidiamo l'arresto di tutti gli anarchici e
tiranni!"). In realtà questa terminologia, in quegli anni,
non presenta alcuna peculiarità. "Da un secolo - osserva nel
1870 l'appassionato autore della voce Démagogie nel Grand
dictionnaire universel du XIXe siècle diretto da Pierre
Larousse - i nemici della Rivoluzione hanno talmente abusato
[dell'epiteto di demagogo] che non ci si degna più nemmeno di
notarlo" (vol. VI, p. 386). Nella prosa giacobina sono demagoghi
invece i caporioni delle rivolte sanfediste. Ovviamente, data
l'esaltazione delle antiche repubbliche propria dei giacobini, anche
la riscrittura della storia antica nell'età della
Restaurazione (e dopo) calca la mano sul carattere demagogico della
democrazia radicale ateniese (Mitford, Curtius), trovando ampio
riscontro e alimento negli antichi critici (Platone soprattutto).
Tanto più perciò si apprezza, contro questo prevalente
orientamento, l'originalità contro corrente di un democratico
come George Grote, il quale, non senza un intento polemico,
riferisce la taccia di demagogia al benpensante e generalmente
stimato Cimone (History of Greece, vol. V, London 1849), e si spinge
a rivalutare la figura di Cleone, per esempio nella vicenda
dell'assedio di Sfacteria (cap. LII) ma anche nella valutazione
d'insieme della sua politica estera (cap. LIV) in opposizione alle
critiche di Tucidide e ovviamente alla caricatura aristofanea.
Il nesso tra la rinascita del termine demagogia e la demonizzazione
postuma della Rivoluzione francese giova a comprendere il diverso
trattamento del termine in alcune importanti enciclopedie nazionali.
Nell'Encyclopaedia Britannica manca del tutto la voce, vi è
solo una sommaria definizione di 'demagogo' come "agitatore senza
principî". Il termine non sembra dunque suscitare molto
interesse. Nella Brockhaus Encyclopaedie viene riservata speciale
attenzione al fenomeno delle "persecuzioni giudiziarie dei
demagoghi" (cioè dei gacobini), Demagogen-Verfolgungen, negli
Stati tedeschi, con particolare riguardo all'inasprimento di tali
persecuzioni dopo l'attentato a Kotzebue (1819).
Al contrario il Grand dictionnaire di Pierre Larousse affronta il
termine e il concetto in modo storico-analitico e con notevole
approfondimento. Il volume VI, in cui figura la voce, esce nel 1870;
con ogni probabilità è stato scritto prima del crollo
(settembre) di Napoleone III: peraltro l'orientamento
dell'articolista, fervente giacobino, in riferimento agli anni della
Grande Révolution non collide con il corredo
ideologico-propagandistico bonapartista; ma l'animus
antibonapartista che in questa voce non traspare (è latente
nei cenni al 1848) diventa chiarissimo nell'amplissima voce dedicata
a Napoleone III nel volume XI (1874), dove tutta l'ascesa e presa
del potere da parte di Luigi Bonaparte è descritta (e
stigmatizzata) come un capolavoro da grande demagogo.
La voce Démagogie si apre dunque con una polemica
osservazione sull'uso strumentale del termine: "Ecco un'espressione
tipica del linguaggio polemico, che si adopera senza attribuirvi un
significato preciso". Vi è poi una sorta di apologia del
ruolo del 'demagogo': "Il termine vuol dire semplicemente guida del
popolo; orbene, poiché i popoli non sono tuttora capaci di
guidarsi da sé, non vediamo cosa ci sia di criminale
nell'impegnarsi a dirigerli". Peraltro vi è una tragedia
individuale del demagogo: egli "crede di guidare le folle, ma in
realtà subisce il movimento piuttosto che imprimerlo: il che
è così vero che, generalmente, con demagogia s'intende
una situazione in cui il popolo, piuttosto che essere governato,
governa". È il caso, vien fatto osservare nell'ultima parte
della lunga voce, delle grandi figure della Rivoluzione: "Sono
trattati come demagoghi, e tuttora denunciati ogni giorno come tali
al giudizio dei posteri, tutti gli uomini di cuore che hanno preso
parte alla Rivoluzione: Robespierre, Danton, Vergniaud, Mirabeau e
persino Lafayette. Lo furono? Sicuramente. Non si conduce - seguita
l'articolista - il popolo all'assalto della Bastiglia, non lo si
lancia alle frontiere contro tutta l'Europa coalizzata senza
sovreccitare sino al parossismo le sue passioni, le buone come le
cattive. Ma una volta dato l'impulso, chi guiderà il
movimento, chi lo frenerà, chi lo conterrà nei limiti
della giustizia? Nessuno. I più forti vi si infrangeranno. A
seguire con lo sguardo la breve carriera dei grandi cittadini che si
posero alla testa della Rivoluzione, sembra di vedere dei fanciulli
appesi a una locomotiva. Tutti vi si sono stritolati. Ma loro se lo
aspettavano né si ripromettevano dai propri figli ingrati una
tardiva riabilitazione. Perciò dobbiamo ammirarne la
grandezza del sacrificio e l'immensità della dedizione".
Peraltro viene, nello stesso contesto, rifiutata la nozione di una
demagogia unicamente 'di sinistra': "Prima di mettere sotto accusa i
demagoghi di un'epoca a noi più vicina [rispetto al mondo
romano di cui ha prima parlato] gli storici monarchici e clericali
dovrebbero rileggersi i loro Annali. Ci furono mai demagoghi
più focosi che i nobili e i preti della Vandea o del
Midi?".Nonostante le premesse che mettevano in dubbio l'esistenza
stessa di un "significato preciso" del termine, nonostante la
ritorsione della taccia di demagoghi nei confronti dei preti
vandeani, anche l'articolista del Grand dictionnaire paga il suo
contributo alla visione tradizionale: e identifica la demagogia con
quella "frazione del popolo, la più turbolenta e la
più folle, che si arroga il diritto di parlare e di agire a
nome di tutti". Il riferimento è alla "minoranza faziosa" che
imponeva alla Convenzione la propria volontà, e alla
"miserabile frazione [la minoranza socialista] che il 15 maggio 1848
invase l'Assemblea Costituente e ne proclamò la
dissoluzione". È allora - conclude - che, contro la
demagogia, si incomincia a invocare il dispotismo di un capo. La
voce si ferma qui, ma il riferimento a Luigi Bonaparte non potrebbe
essere più chiaro: la sua ascesa viene presentata come il
frutto dell'eccesso "demagogico" del maggio-giugno 1848.
È la veduta ricorrente: demagogia come 'eccesso' di una
fazione popolare (il resto del corpo civico, impaurito, invoca il
despota). Essa coesiste con l'altra, non meno diffusa ma che sembra
invertire i termini del problema: demagogia è l'azione di
aspiranti despoti che strumentalizzano la massa popolare,
soprattutto la meno consapevole.