Letture freudiane

Lettura V

Ciò che è vivo e ciò che è morto di Freud
Indice
Ideologia e Psicoanalismo
Successo, declino e rinascita della psicoanalisi
Psicoanalisi e Neurobiologia
Il post-evoluzionismo e l’inconscio freudiano
L’inconscio sociale
Per una teoria struttural-dialettica della personalità
Il rivoluzionario conservatore
La crisi della ragione e il nuovo umanesimo

 

Ideologia e Psicanalismo

La lettura finora fornita dellle teorie freudiane si è ispirata, per alcuni aspetti, alla Critica dei fondamenti della psicologia di G. Politzer, il primo pensatore marxista che ne ha colto con lucidità il carattere contraddittorio, culturalmente rivoluzionario e, al tempo stesso, ideologicamente conservatore.

Lo spirito critico di Politzer è superbamente espresso dai due aforismi posti come exergo della prima conferenza:

"La psicologia non detiene il segreto dei fatti umani, semplicemente perché questo segreto non è di ordine psicologico."

"Freud è altrettanto astratto nelle sue teorie quanto è concreto nelle sue scoperte."

Per quanto riguarda il primo, non si può non riconoscere che la psicoanalisi ha indubbiamente esteso la conoscenza dell’uomo sul suo mondo interiore, fino al punto di identificare nell’Io cosciente una variabile dipendente dal flusso ridondante dei contenuti inconsci. La comprensione dei contenuti inconsci, nella misura in cui è possibile, indubbiamente ha consentito di ha consentito e consente di spiegare una serie indefinita di fenomeni - a partire dai sintomi psicopatologici - che, in precedenza, erano ritenuti semplicemente irrazionali

La pretesa di Freud, però, è di interpretare tutta la realtà umana, dal livello soggettivo a quello collettivo, alla luce della psicologia individuale. In Psicologia collettiva e analisi dell’Io, egli scrive:

“La contrapposizione tra la psicologia individuale e quella sociale o collettiva si rivela, quando la si consideri più attentamente, ben meno profonda di quanto non appaia a prima vista. Indubbiamente la prima ha come oggetto l'individuo e ricerca i mezzi di cui questi si serve e le strade che segue per ottenere la soddisfazione dei suoi desideri e bisogni; tuttavia, ben di rado ed in casi assolutamente eccezionali essa riesce, in questa ricerca, a fare astrazione dai rapporti tra l'individuo ed i suoi simili. Nella vita dell'individuo l'altro rappresenta sempre un modello, un oggetto, un amico od un nemico, e sin dall'inizio la psicologia individuale è anche, sotto un certo aspetto, una psicologia sociale, in un senso lato, ma perfettamente legittimo, della parola.

L'atteggiamento dell'individuo nei confronti dei genitori, dei fratelli, della persona amata, del suo medico, insomma tutti i rapporti che sono stati finora l'oggetto delle ricerche psico-analitiche, possono senz'altro essere considerati fenomeni sociali, in contrapposizione con determinati altri processi che abbiamo definito narcisistici in quanto caratterizzati dal fatto che la soddisfazione di bisogni e desideri viene parzialmente o totalmente ricercata al di fuori ed indipendentemente da altre persone.

Così, la contrapposizione tra gli atti psichici sociali e quelli narcisistici (autistici, secondo la terminologia di Bleuler) non si pone fuori dell'ambito della psicologia individuale e non giustifica una separazione tra questa e quella sociale o collettiva.

Nel suo atteggiamento nei confronti dei genitori, dei fratelli, della persona amata, dell'amico e del medico, l'individuo subisce l'influenza di una sola persona o di un numero limitato di persone ciascuna delle quali ha acquisito per lui un'importanza di primo piano. In genere, quando si parla di psicologia sociale o collettiva, si fa astrazione da questi rapporti per considerare solo l'influenza simultanea che sull'individuo esercita un gran numero di persone che, sotto molti aspetti, possono essergli estranee, ma alle quali egli è legato da certi rapporti. Così, la psicologia collettiva prende in considerazione l'individuo in quanto membro di una tribù, di un popolo, di una casta, di una classe sociale, di un'istituzione, o in quanto elemento di una moltitudine umana che ad un certo punto ed in vista di un determinato fine si è organizzata in collettività.

Dopo aver spezzato i legami naturali di cui abbiamo parlato prima, si fu portati a considerare i fenomeni che si verificano in queste condizioni come espressioni di una particolare, irriducibile tendenza che in altre situazioni non si manifestava. Tuttavia, noi ci rifiutiamo di attribuire tanta importanza al fatto numerico e di ammettere che questo sia in grado da solo di far sorgere nella vita psichica dell'uomo un nuovo istinto che in altre condizioni non si manifesta. Piuttosto noi prospettiamo altre due possibilità, cioè che questo istinto non sia certo primario ed irriducibile e che esso sia già presente, non foss'altro che allo stato di abbozzo, in cerchie più ristrette, come la famiglia.”

La pretesa di ridurre la psicologia collettiva alla somma di singole esperienze soggettive che si costruiscono sulla base dell’interazione con le figure genitoriali - questa pretesa che si può definire Psicologismo o più propriamente Psicoanalismo - non sembra fondata. Indipendentemente dal fatto che la personalità si costruisce a partire da una Natura umana che non è più, come vedremo, riconducibile alle pulsioni, essa, attraverso il Super-io, deve fare i conti con tutte le tradizioni culturali veicolate e trasmesse dal gruppo di appartenenza. Per questo aspetto, ogni soggettività, anche se evolve per un lungo periodo nell’interazione con contesti ambientali locali (la famiglia, la rete della parentela e degli amici di famiglia, la scuola, gli insegnanti, i coetanei, ecc.), appartiene a pieno titolo alla storia sociale, come peraltro ad essa appartengono quegli stessi contesti.

Non è un caso che le opere meno riuscite di Freud siano proprio quelle dedicate a fenomeni collettivi come per l’appunto Psicologia collettiva e analisi dell’Io, L’Avvenire di un illusione, Il disagio della civiltà.

Se esiste, dunque, un segreto dei fatti umani, esso non può essere ricondotto al livello dell’esperienza psicologica soggettiva, ma a quello dell’interazione tra Natura e Cultura che sulla base di un determinato corredo genetico e di un determinato ambiente sociale riconosce la soggettività come sua espressione.

Per quanto riguarda il secondo aforisma, abbiamo visto di fatto che Freud costruisce il suo sistema sulla base dell’assunto, per cui, al fondo della mente umana, si dà l’Es, la più antica delle province o istanze psichiche il cui “contenuto è tutto ciò che è ereditato, congenito, stabilito per costituzione, soprattutto dunque le pulsioni che derivano dall'organizzazione corporea e che trovano qui una prima espressione psichica in forme a noi sconosciute.”.

Rappresentando l’unica e vera realtà psichica, l’Es consente a Freud di escludere che, nella natura umana, si dia un qualsivoglia bisogno sociale. Sia l’Eros che la pulsione distruttiva tendono semplicemente a scaricarsi all’esterno per raggiungere un appagamento egoistico. L’inconscio, in Freud, è radicalmente incentrato sui bisogni del singolo individuo; esso non ha alcun riguardo e alcuna considerazione degli altri.

Freud è convinto che queste conclusioni sono confermate dai dati empirici tratti dalla pratica analitica. In realtà esse fanno capo ad un’ideologia radicalmente pessimistica inerente la natura umana, le cui ascendenze bibliche e borghesi sono evidenti. E’ alla luce di questa ideologia che Freud interpreta i dati clinici, commettendo però un errore fatale per chiarire il quale occorre ricondursi al mito della caverna di Platone.

E’ indubbiamente vero che, nelle esperienze psicopatologiche, attraverso i sintomi, i sogni, i vissuti, affiorano desideri e fantasie “sfrenati” di carattere erotico e ancora più di carattere aggressivo. Freud li assume come espressione immediata e trasparente dell’inconscio, dell’Es. In realtà, si tratta dei riflessi, sulla parete della caverna, di un universo di bisogni frustrati, repressi e, di conseguenza ridondanti. Si tratta, insomma, come ho accennato nella conferenza precedente non di pulsioni innate, ma di compulsioni, vale a dire di spinte motivazionali riferite ai bisogni intrinseci che, in conseguenza della repressione, assumono una configurazione smodata e anarchica.

Ho riportato già tre casi clinici molto significativi a riguardo. Ne cito ancora un altro.

G. è una ragazza di ventitre anni di buona famiglia, dominata da una figura materna affetta da un perfezionismo morale e sociale a tal punto eccessivo da impedire alla figlia e al marito di sdraiarsi sul divano del salotto perché non sopporta atteggiamenti di mollezza e meno ancora che di questi atteggiamenti rimangano le impronte sui cuscini. All’ombra di una madre rigidamente direttiva, che diventa pericolosamente intollerante e minacciosa quando la figlia accenna ad una sia pur minima opposizione, G. ha avuto un’evoluzione del tutto lineare fino a 20 anni, allorché ha cominciato a sperimentare fantasie coatte di far male agli altri tenute a freno da rituali rigidissimi (abluzioni, sistemazione di oggetti, preghiere, ecc.).

Le fantasie coatte la terrorizzano, perché sembrano attestare una distruttività allo stato puro. Per strada G. sente l’impulsione a colpire le persone, in Chiesa a sfasciare la testa di coloro che sono nel banco davanti al suo, all’Università a infilare la penna nell’occhio degli insegnati e dei compagni.

Per questo motivo, deve abbandonare l’Università, ma, dato che la madre non sopporta che rimanga senza fare nulla, viene inserita nella redazione di un giornale per fare gavetta. Qui i fenomeni coatti si intensificano. La riunione di redazione del mattino è un incubo: G. sente che da un momento all’altro può perdere il controllo sulle impulsioni ed uccidere qualcuno.

A questa aggressività, che sembra veramente selvaggia, corrisponde, però, un atteggiamento di acquiescenza nei confronti del Redattore-capo, che, preso atto della sua disponibilità, ne approfitta, imponendolo di fare cose che vanno molto al di là delle sue mansioni di tirocinante e costringendola talvolta a lavorare fino alla chiusura del giornale, cioè fino all’una di notte.

E’ in conseguenza di questa esperienza che G. scopre, in virtù dell’analisi, che non è mai riuscita in tutta la sua vita a dire un solo no alla madre, agli amici e, ora al capo e ai colleghi di lavoro. Medita a lungo su questo aspetto, poi prende coraggio e, nonostante il sudore che le scorre lungo la schiena, in un’occasione riesce ad una richiesta eccessiva del Capo. Questi rimane sorpreso, e reagisce autoritariamente, ma G. non si impaurisce. La cosa è fatta.

Uscendo dall’ambiente di lavoro, G. sperimenta dopo anni un netto affievolimento delle fantasie parassitarie. Prende coraggio e comincia a regolare tutte le relazioni significative (con la madre e con gli amici) sulla base del non fare ciò che le viene chiesto su cui non è d’accordo. Per un certo periodo, i rituali si incrementano, ma, entro un anno, sia essi che le fantasie parassitarie si dissolvono.

Date le ottime qualità umane di G., che è sensibile, intelligente, colta e socialmente impegnata, Freud avrebbe letto nei sintomi l’espressione di una pulsione di morte costituzionalmente molto intensa. E’ evidente, invece, che essi rappresentavano i riflessi sulla parete della caverna dell’inconscio di un bisogno di opposizione/individuazione rimasto completamente represso.

Politzer, dunque, ha perfettamente ragione. Le teorie di Freud sono ideologiche, nonostante esse si fondino su intuizioni straordinarie riconducibili all’esistenza di processi inconsci che consentono di spiegare ciò che, sul piano fenomenologico, sembra assurdo, irrazionale e al limite mostruoso.

Nonostante la gabbia ideologica della teoria delle pulsioni, che fa gravare sull’uomo il peso di un passato ancestrale, e lo psicoanalismo, che riconduce i fatti umani ai processi inconsci che si realizzano nei singoli individui, la scoperta da parte di Freud dell’inconscio, la sua attenta esplorazione di questa nuova dimensione psichica, il tentativo di definirne le logiche del tutto diverse rispetto alla coscienza, l’analisi dei meccanismi difensivi e, infine, la formulazione di ipotesi sulla sua struttura funzionale mantengono un significato assolutamente rivoluzionario.

Da questo punto di vista, assegnare a Freud il ruolo di Grande Demistificatore è del tutto legittimo, anche se, come abbiamo visto, il suo pensiero non comporta alcun riferimento all’alienazione sociale e culturale, che costringe l’uomo a normalizzarsi, vale a dire ad organizzare un’esperienza cosciente necessariamente non autentica.

Riconosciuto questo ruolo, le intuizioni freudiane, per essere valorizzate appieno, devono essere inserite in una nuova cornice di riferimento.

Nell’ultima conferenza, ho illustrato il modello della mente che ho ricavato da Freud ponendo al posto dell’Es un cervello che, nel passaggio dagli altri animali all’uomo si è deistintualizzato, in virtù del comparire di due bisogni - di appartenenza e individuazione - che sono specificamente umani, al posto del Super-Io freudiano, erede del conflitto edipico, una funzione superegoica il cui fine è favorire la trasmissione e l’interiorizzazione dei valori del gruppo di appartenenza, e al posto della Controvolontà una funzione che ho definito Io antitetico il cui fine è di contrastare l’omologazione culturale e di consentire al soggetto di raggiungere uno statuto almeno relativamente autonomo e differenziato.

Si tratta dunque di un modello che utilizza le scoperte freudiane inserendole però in una nuova cornice che, per un verso, valorizza la natura umana affrancandola da ogni riferimento ad una presunta “bestialità”, per un altro dà il giusto peso all’interazione tra natura umana e ambiente storico-culturale, rappresentato in ogni personalità dal Super-io, per un altro ancora assegna all’Io la funzione di mediare tra le due logiche che lo sottendono: la logica dell’appartenenza e quella dell’individuazione.

Essendo stato tratto questo modello, che ho definito struttural-dialettico, dalla pratica psicoterapeutica, e quindi da una pratica empirica, è giusto chiedersi se esso risulti compatibile o possa essere corroborato dai dati prodotti di recente delle discipline che hanno come oggetto l’uomo e i fatti umani, e in primis dalla neurobiologia.

Un recente movimento, che raccoglie psicoanalisti, psichiatri e neuroscienziati, e ha assunto il nome di Neuropsicoanalisi, sta promuovendo la rinascita di Freud. Io mi riconosco in questo movimento, ma, in riferimento all’esigenza di integrare in un modello i diversi saperi che fanno capo all’uomo, comprese le discipline storico-sociali, preferisco parlare di Panantropologia.

Questa conferenza è dedicata ad illustrare la possibilità che tale esigenza si realizzi. prima di entrare nel vivo della conferenza, è opportuno, però, illustrare la singolare parabola del pensiero freudiano.

Successo, declino e rinascita della Psicoanalisi

Come tutte le imprese demistificanti analizzate sinora (Darwin, Marx, Nietzsche), anche quella di Freud ha innescato, alla sua epoca, ogni genere di resistenze da parte della società e della cultura corrente.

Nella Storia del movimento psicoanalitico (1914), Freud ricostruisce in questi termini il suo originario isolamento e l’accoglienza scettica dei suoi scritti:

“Mi presentai, ignaro, alla Società viennese di psichiatria e neurologia, allora presieduta da von Krafft-Ebing, come un oratore che si aspetta di essere ricompensato con l'interesse e la riconoscenza dei colleghi per i danni materiali che si è procurato volontariamente. Consideravo le mie scoperte normali apporti alla scienza e lo stesso mi attendevo dagli altri. Furono il silenzio che si levava alla fine delle mie conferenze, il vuoto che si faceva intorno alla mia persona, le allusioni che mi venivano riportate che gradualmente mi fecero capire che dichiarazioni sulla funzione della sessualità nell'eziologia delle nevrosi non potevano attendere l'accoglienza concessa ad apporti scientifici di diverso tipo. Mi resi conto che da allora in poi sarei rientrato tra quelli che «hanno scosso il sonno del mondo», secondo l'espressione di Hebbel, e che non mi era lecito fare affidamento né su obiettività né su indulgenza. Ma poiché la mia convinzione sull'esattezza, in linea di massima, delle mie osservazioni e deduzioni via via cresceva, e poiché la fiducia nel mio giudizio e il mio vigore morale non era niente affatto misera, l'esito di questa situazione non poteva essere incerto. Mi convinsi a pensare che mi era spettata la fortuna di rivelare nessi particolarmente significativi, e mi ritrovai disposto ad addossarmi la sorte che è talvolta collegata a simili scoperte.

Mi raffiguravo questo destino nel modo seguente: probabilmente sarei riuscito a mantenermi in virtù dei successi terapeutici del nuovo trattamento, ma la scienza non si sarebbe accorta di me finché fossi restato in vita. Dopo qualche decennio un altro si sarebbe inevitabilmente imbattuto nelle stesse cose per le quali, oggi, i tempi non sono maturi, ne avrebbe ottenuto il giusto riconoscimento, elevandomi così agli onori come predecessore necessariamente fallito. Nel frattempo, come un Robinson, mi stabilii nella mia isola solitaria nel modo più confortevole possibile. Se, dai turbamenti e dagli affanni del presente, mi volgo a guardare quegli anni di solitudine, quello mi appare un periodo bello ed eroico; la splendici isolation non era priva di vantaggi e di attrattive. Non dovevo leggere pubblicazioni, né ascoltare avversari male informati, non ero soggetto ad alcun condizionamento, non subivo alcuna pressione. Appresi a frenare le tendenze speculative e, seguendo il consiglio indelebile del mio maestro Charcot, ad osservare continuamente le stesse cose fino a quando non cominciavano a parlare da sé…

I miei scritti non erano recensiti nella letteratura specializzata, oppure venivano rifiutati con altezzosa o compassionevole superiorità se straordinariamente ciò si verificava. Al momento opportuno un collega non si esimeva dal rivolgermi, in una sua pubblicazione, un apprezzamento molto breve e non eccessivamente lusinghiero, come testardo, estremista, molto bizzarro.”

Ciò nonostante, Freud non è stato perseguitato come è accaduto a Marx. Egli ha trascorso gran parte della sua vita a Vienna in una condizione di relativa agiatezza (sottesa peraltro da un vissuto costante di precarietà). La persecuzione è sopravvenuta solo tardivamente, in conseguenza dell’avvento e dell’ascesa del nazismo, ma ha riguardato, più che le sue teorie peraltro giudicate decadenti dai critici nazisti la sua condizione di ebreo.

A differenza di Nietzsche, e delle sue stesse aspettative, Freud non ha dovuto aspettare la morte per conseguire il successo desiderato. Il successo è stato prima di nicchia e, in virtù dell’adesione di un certo numero di studiosi e simpatizzanti, ha dato luogo alla nascita dell’Associazione psicoanalitica internazionale, poi, soprattutto dopo il viaggio negli Stati Uniti, è divenuto ampio, sia pure in riferimento prevalente al mondo degli intellettuali.

Nel 1930 gli viene conferito Il Premio Goethe, che egli definisce la vetta più alta che, nel corso della vita, è riuscito a raggiungere nel mondo della cultura. Allo stesso periodo, e fino alla sua morte, risalgono numerosi tentativi di fargli assegnare il Premio Nobel.

In occasione dell’ottantesimo compleanno, Ludwig Binswanger si reca a trovarlo personalmente. Einstein gli manda una lettera che attesta quasi una dichiarazione di adesione alla psicoanalisi.

Anche Thomas Mann si reca a visitarlo, e in questa occasione scrive una vibrante allocuzione, firmata pure da Romain Rolland, da Jules Romains, da H.G. Wells, da Virginia Woolf e da Stefan Zweig.

Il messaggio augurale viene sottoscritto, inoltre, da numerosi scrittoli e artisti (centonovantuno in tutto), fra i quali Hermann Broch, Fritz Busch, Salvador Dali, Alfred Dòblin, Andre Gide, Knut Hamsun, Hermann Hesse, Aldous Huxley, James Joyce, Paul Klee, André Maurois, Robert Musil, Gunnar Myrdal, Pablo Picasso, Bruno Walter, Franz Werfel, Thornton Wilder.

In breve, il fior fiore dell’intelligentsia dell’epoca.

Dopo la morte, sopravvenuta nel 1939, il pensiero di Freud si diffonde anche a livello di pubblico, entra a far parte del senso comune (che acquisisce per sentito dire alcuni concetti teorici: il lapsus, il complesso edipico, ecc.), diventa infine egemone. Basta pensare che la prima edizione del DSM, il famigerato manuale diagnostico pubblicato dall’Associazione Psichiatrica Americana, ha un’impostazione dichiaratamente psicoanalitica.

Poi, a partire dalla fine degli anni Settanta del Novecento, sopravviene la crisi e il declino.

Vari sono i fattori che concorrono a produrla: la cristallizzazione dell’ortodossia psicoanalitica che, nell’intento di serbare fedeltà al Maestro, non affronta i nodi contraddittori del suo pensiero e, in un certo senso, li occulta sotto il tappeto; la proliferazione di scuole analitiche che vanno ciascuna per la propria strada e creano edifici estremamente precari (basta pensare a J. Lacan e al lacanismo); l’egemonia del pensiero marxista, che identifica tout court nella psicoanalisi una disciplina borghese; l’avvento del cognitivismo, che, sottolineando il suo scarso interesse per la coscienza e le sue funzioni, giunge a trattare Freud come un cane morto; la critica implacabile di K. Popper, che nega alla psicoanalisi una qualunque dimensione scientifica; ecc.

Da ultimo, occorre considerare anche la durata del trattamento psicoanalitico freudiano e la sua sostanzialmente scarsa incidenza terapeutica.

Riguardo a questo aspetto ho scritto:

“In che consiste la guarigione? Sostanzialmente nella presa d'atto da parte dell'Io di albergare una quota di pulsioni erotiche e aggressive che non possono essere del tutto liberate, ma che almeno in parte vanno affrancate dalla rigida repressione superegoica. L'Io insomma deve pervenire a dare una qualche spazio e una qualche soddisfazione alle pulsioni represse compatibilmente con le esigenze della vita sociale.

Che cosa c'è di criticabile in questo obbiettivo? Il fatto che l'Io, per accedere al principio di realtà, deve prendere coscienza di albergare spinte pulsionali che, in sé e per sé, sono caotiche, irrazionali e pericolose. La conseguenza di questo è che, anche laddove, in virtù del lavoro analitico e della comprensione dell'analista, si danno dei miglioramenti, i soggetti rimangono comunque convinti di convivere con una natura che è una bomba ad orologeria e non riescono mai a superare la diffidenza e la paura nei confronti dell'inconscio. Essi hanno fatto proprio il presupposto pulsionale, che è ideologico, e ne rimangono in qualche misura segnati.

Più volte ho rilevato che Freud ha scambiato come prova delle pulsioni una fenomenologia, che affiora attraverso i vissuti, le fantasie, i sogni, che può essere interpretata in termini del tutto diversi se si fa riferimento al principio di ridondanza. Tale principio porta immediatamente a comprendere che, laddove i bisogni intrinseci di appartenenza sociale e d'individuazione, la cui realizzazione sola dà luogo ad un appagamento dell'essere umano, vengono ad essere frustrati nell'interazione con l'ambiente, essi inesorabilmente s'infinitizzano, si disordinano e regrediscono. La teoria pulsionale è dunque un equivoco interpretativo.”

Essa, in pratica, come ho già detto, scambia per manifestazioni pulsionali quelle che sono manifestazioni compulsive di bisogni frustrati, ridondanti e alienati.

La conseguenza di questo è che i soggetti, pur acquisendo consapevolezza di alcune dinamiche conflittuali, rimangono comunque affetti da una sorta di fobia del mondo interiore, che continua a d essere percepito come una sorta di terreno minato.

I fattori citati hanno prodotto, a partire dalla fine degli ’80 del Novecento, un lento ma progressivo declino della psicoanalisi, che è stata quasi messa in un angolo dalla cosiddetta risoluzione cognitivista, dichiaratamente antagonista ad essa.

Da alcuni anni, le cose stanno cambiando, nonostante alcuni libri pubblicati nell’ultimo decennio (come Assalto alla verità di Jeffrey Moussaieff Masson e Il crepuscolo di un idolo di Michele Onfray) hanno tentato di demolire dalle fondamenta la credibilità di Freud e della sua teoria.

L’alterna parabola del pensiero freudiano è ricostruita sinteticamente da Mark Solms, uno dei più accesi fautori della rinascita freudiana, in un articolo del 2004 in questi termini:

“Per tutta la prima metà del Novecento, le idee di Sigmund Freud hanno dominato le spiegazioni del funzionamento della mente umana. La sua tesi di fondo era che le nostre motivazioni rimangono quasi sempre nascoste nell’inconscio e che inoltre una forza repressiva le occulta alla coscienza. L’apparato esecutivo della mente (l’Io) reprime qualsiasi pulsione proveniente dalla parte inconscia (l’Es) che potrebbe innescare comportamenti incompatibili con l’idea di noi stessi come esseri civilizzati. Una repressione indispensabile perché le pulsioni si esprimono sotto forma di passioni incontrollate, fantasie infantili e istinti sessuali e aggressivi.

Freud ha sostenuto fino alla sua morte, avvenuta nel 1939, che la malattia mentale scaturisce dal fallimento della rimozione. Le fobie, gli attacchi di panico e le ossessioni sono provocati da intrusioni delle pulsioni nascoste nel comportamento volontario. Di conseguenza, l’obiettivo della psicoterapia sarà risalire alle radici inconsce dei sintomi nevrotici e sottoporre queste radici a un giudizio maturo e razionale, privandoli così della loro forza compulsiva.

Tuttavia, a partire dagli anni cinquanta, quando gli studi sulla mente e sul cervello sono divenuti via via più sofisticati, è diventato sempre più evidente che i dati forniti da Freud a sostegno delle sue teorie erano piuttosto esili. Il suo principale metodo di indagine non era la sperimentazione controllata, ma semplici osservazioni di pazienti in ambito clinico, intrecciate a deduzioni di natura teorica. A poco a poco, i trattamenti a base di farmaci e l’approccio biologico alla malattia mentale hanno quindi guadagnato terreno, relegando la psicoanalisi in secondo piano.

Se Freud fosse ancora vivo, forse avrebbe accolto con soddisfazione questa evoluzione degli eventi. Stimatissimo neuroscienziato della sua epoca, espresse più volte la considerazione che «le carenze della nostra descrizione forse svanirebbero se ci trovassimo già nella condizione di sostituire i termini psicologici con altrettanti di tipo fisiologico e chimico». Freud, però, non disponeva della scienza e della tecnologia necessarie per sapere come era organizzato il cervello di una persona, normale o nevrotica che fosse.

Negli anni ottanta, i concetti di Io e di Es hanno cominciato a essere considerati irrimediabilmente antiquati persino in alcune cerchie psicoanalitiche. Freud era un retaggio del passato. Per la nuova psicologia, i depressi non erano più così infelici perché qualcosa aveva turbato i loro primi affetti nel corso dell’infanzia, ma perché vi era uno squilibrio nella chimica del loro cervello.

La psicofarmacologia, però, non è riuscita a produrre una teoria alternativa della personalità, delle emozioni e della motivazione, un nuovo modello interpretativo di «che cosa ci fa funzionare». Senza questo modello, le ricerche dei neuroscienziati sono diventate fatalmente più anguste, e hanno dovuto lasciare da parte il grande disegno generale.

Ma questo disegno oggi sta tornando al centro dell’attenzione, ed ecco la sorpresa: non è molto diverso da quello tracciato un secolo fa da Freud. L’unanimità dei consensi è ancora ben lontana, eppure sono sempre di più i neuroscienziati di diversa estrazione che stanno giungendo alla stessa conclusione di Eric Kandel, della Columbia University, premio Nobel per la medicina nel 2000. Ovvero, che la psicoanalisi «è ancora la concezione della mente più coerente, e quella intellettualmente più soddisfacente».

Freud è ritornato, e non solo in teoria. Praticamente in ogni metropoli si vanno formando gruppi di studio interdisciplinare in cui neuroscienze e psicoanalisi, prima divise e spesso antagoniste, si fondono assieme. Questi gruppi si sono riuniti a loro volta nella International Neuro-Psychoanalysis Society, che organizza un congresso annuale e pubblica la rivista «Neuro-Psychoanalysis». A testimoniare il rinato rispetto per le idee di Freud è il Comitato di direzione della rivista, che annovera il meglio dei neuroscienziati del comportamento di oggi, tra cui spiccano nomi come Antonio Damasio, lo stesso Kandel, Joseph Le-Doux, Benjamin Libet, Jaak Panksepp, Vilayanur Ramachandran, Daniel Schacter e Wolf Singer.

Insieme, questi ricercatori stanno dando forma a quella che Kandel definisce «una nuova cornice intellettuale per la psichiatria». Una cornice in cui lo schema complessivo di organizzazione della mente abbozzato da Freud sembra destinato a ricoprire un ruolo simile a quello della teoria dell’evoluzione di Darwin nella genetica molecolare: l’impalcatura entro cui si possono disporre in modo coerente i dettagli che vanno via via emergendo. Nel frattempo, i neuroscienziati stanno anche dimostrando alcune teorie di Freud e chiarendo i meccanismi a monte dei processi mentali descritti dal padre della psicoanalisi…

Non si tratta di stabilire se Freud aveva torto o ragione, ma di completare la sua opera.”

La Neuropsicoanalisi non è un orientamento del tutto nuovo. Essa ha riconosciuto due precursori in D. MacLean e G. Benedetti. Il primo, in Evoluzione del cervello e Comportamento umano (1973), ha tentato di integrare la psicoanalisi nella cornice della teoria neurobiologica del cervello uno e trino. Il secondo, in Neuropsicologia (1969), ha dedicato un intero capitolo ad una valutazione critica della psicoanalisi in rapporto ai dati neurobiologici disponibili all’epoca, cercando di illustrare quali aspetti della psicoanalisi si potevano ritenere confutati dalla scienza e quali corroborati.

La neuropsicoanalisi attuale dispone, però, di un bagaglio di conoscenze sul funzionamento del cervello e sulla psicologia evolutiva di gran lunga maggiore rispetto ad alcuni decenni fa. Il problema, però, a mio avviso, è che gli psicoanalisti che partecipano all’impresa sono quasi tutti più realisti del re. Essi, in breve, cercano di dare fondatezza neurobiologica alla teoria freudiana senza sottoporla ad una critica rigorosa che la affranchi dalla gabbia ideologica di cui abbiamo più volte parlato.

Nei suoi libri, peraltro interessanti, Solms, per esempio, fa di continuo riferimento alla sessualità e alla distruttività negli stessi termini in cui le ha teorizzate Freud.

I neuropsicoanalisti, inoltre, sembrano impegnati ad integrare la psicoanalisi e la neuorobiologia senza alcun interesse per la dimensione storico-culturale in cui si iscrivono le esperienze umane. E’ il tenere conto di questa dimensione che consente di procedere verso la Panantropologia.

Completare l’opera di Freud significa, a mio avviso, valorizzare i dati forniti dalle scienze neurobiologiche, organizzare una teoria dell’inconscio affrancata dal problema delle pulsioni, ma che, al tempo stesso, mantenga l’orientamento materalistico di Freud, recuperare il concetto di Super-io che crea un nesso tra soggettività e storia sociale, approfondire la dialettica tra appartenenza e individuazione, e, infine, portare alle estreme conseguenze il problema della tendenza della coscienza alla mistificazione.

Si tratta di un’impresa piuttosto ambiziosa, che qui può essere solo tratteggiata. Occorre, a tal fine, partire dalla neurobiologia, procedere sul terreno dell’evoluzione e della strutturazione della personalità e giungere, infine, a valutare adeguatamente il peso dei fattori storico-culturali.

Psicoanalisi e Neurobiologia

Freud ha organizzato il suo modello partendo dal presupposto che il cervello è un organo prodotto dalla selezione naturale, che, in conseguenza del suo vincolo con il corpo, ha ereditato dagli animali un corredo pulsionale ed è dotato, a livello profondo, di un’energia libera che viene poi legata in virtù dell’interazione con il mondo esterno, da cui si origina alla coscienza.

Di questi assunti praticamente solo il primo è stato confermato, ma esso, come vedremo meglio ulteriormente, ha un significato diverso da quello assegnatogli da Freud

Che l’uomo, per quanto riguarda il suo organismo, cervello compreso, appartiene al mondo della natura, è oggi quasi universalmente accettato, come pure che cervello e mente rappresentano le due facce di una stessa medaglia.

E’ certo, dunque, che il cervello umano, che condivide con i suoi parenti più prossimi - gli scimpanzé - il 98% circa per cento di geni, ha una continuità evolutiva con quello degli animali che lo hanno preceduto.

Già nel 1926, però, un anatomista olandese, Louis Bolk con un breve e denso saggio (Il problema dell’ominazione), e nel 1940 A. Gehlen, nel suo capolavoro (L’uomo. La sua natura e il suo posto nel mondo) avanzano l’ipotesi che il passaggio dall’animale non umano all’uomo sia avvenuto sulla base di un critico allentamento degli istinti, vale a dire dei moduli di comportamento innati che permettono agli altri animali di adattarsi senza sforzo all’ambiente.

Gehlen deriva da questo che l’uomo è un essere incompiuto, carente, sprovveduto, che ha bisogno della cultura per incanalare le sue energie e per sopravvivere.

Bolk riconduce il critico allentamento degli istinti ad un ritardo nello sviluppo della struttura cerebrale che ha reso l’uomo neotenico e, di conseguenza, ha costretto gli adulti ad organizzare la società sulla base della necessità di investire molte risorse nell’allevamento e nella cura degli infanti, che nascono prematuri e crescono molto lentamente. La neotenia allunga i tempi della maturazione, conservando un’elevata plasticità, e potenzia i meccanismi di apprendimento.

Assicurando una relazione intima e duratura tra gli adulti e i bambini, la neotenia ha assicurato anche un ingentilimento affettivo della specie umana sulla base dell’empatia che induce i neonati a sintonizzarsi in rapporto a mondi di esperienza adulti già in qualche misura strutturati e gli adulti ad “infantilizzarsi” quanto basta a permettere di comunicare con essi.

L’empatia dei bambini, in breve, aggancia il cervello al mondo umano e gli consente di definire un minimo di sicurezza emozionale che produce un’esplorazione e una progressiva scoperta del mondo esterno nei suoi aspetti naturali e culturali.

Essa, sottesa da una tendenza ad idealizzare gli adulti, rende inoltre i bambini estremamente influenzabili e quindi educabili, capaci cioè di interiorizzare i valori culturali trasmessi dal gruppo di appartenenza.

Nonostante Freud abbia sottolineato la lunga dipendenza evolutiva dell’infante dagli adulti, la scoperta della neotenia pone di fronte al fatto che, nel passaggio dall’animale non umano all’uomo, il cervello si è deistintualizzato e socializzato in misura radicale. L’Es freudiano, come peraltro il cervello rettiliano di MacLean, non sembrano avere alcun fondamento.

Per quanto influenzabile in fase evolutiva, la struttura cerebrale, però, non è una tabula rasa, non è, insomma, totalmente dipendente dagli stimoli esterni. Essa ha due sistemi che attestano la sua partecipazione attiva all’interazione con il mondo. Il primo è il sistema attivante esteso reticolare (ERTAS), che assicura un livello di stimolazione endogena, al cui interno si dà un sottosistema di nuclei che si irradiano in tutte le aree cerebrali e secernono i neuropetidi (dopamina, serotonina, acetilcolina, ecc.).

La scoperta del sistema reticolare e di un ventaglio biochimico che mantiene uno stato di attivazione cerebrale del tutto indipendentemente dagli stimoli interni invalida la teoria della pulsione di morte freudiana, il cui assunto è che la mente umana tende verso uno stato di equilibrio originario e regressivo che la rende intollerante nei confronti di tutti gli stimoli, a partire ad quelli sociali, che tendono ad alterarlo.

L’Ertas rappresenta l’anello di congiunzione tra il corpo e il mondo esterno. La sua attività e quelle modulate dei suoi nuclei determinano uno stato di coscienza emotivamente qualificato, al di sotto del quale si danno molteplici stati di coscienza inconsci.

In un saggio (Il cervello e il mondo interno), che rappresenta una sorta di introduzione alla neuropsicoanalisi, Solms e Turnbull definiscono nei seguenti termini il rapporto tra la coscienza e l’inconscio:

“La coscienza non è solo intrinsecamente introspettiva ma è anche, per la sua stessa natura, valutativa, cioè essa attribuisce un valore a una determinata esperienza. La coscienza ci dice se qualcosa è "buono" o "cattivo": svolge questo compito attraverso delle sensazioni che rendono determinate cose buone o cattive (o aventi una qualità intermedia). E’ appunto a questo che servono la coscienza e i sentimenti (ed è per questo motivo che gli psichiatri sono così interessati alle modificazioni delle emissioni chimiche prodotte da questi nuclei profondi del tronco encefalico).

La funzione valutativa data dal nostro "stato" conscio trova le sue radici nelle strutture di monitoraggio viscerale della parte più profonda del cervello. Questa funzione della coscienza è pertanto sostanzialmente di natura biologica.”

La coscienza, peraltro, come ha intuito Freud, è solo un aspetto parziale dell’attività psichica umana.

Gli stessi autori scrivono:

"Vi sono diversi modi per rispondere al quesito circa la parte della vita mentale che è cosciente, e ciascuno di questi porta a risposte piuttosto divergenti. Allo stesso tempo, tutte le risposte convergono però alla conclusione che la coscienza rappresenta una porzione molto limitata della mente…

Considerando la miriade di elementi informazionali che elaboriamo in ogni istante, questo modo di misurare la capienza della coscienza rivela che essa è davvero molto limitata. La grande quantità di informazioni che necessitiamo costantemente di trattare deve quindi essere elaborata dalla parte inconscia della mente. Un altro modo di stimare la "dimensione" della coscienza è di misurare l'entità della sua influenza sul nostro comportamento: in che proporzione le nostre azioni sono consciamente determinate?

In una rassegna degli esperimenti progettati per effettuare un controllo di questo aspetto (e di altri punti a esso collegati), Bargh e Chartrand (1999) hanno concluso che il 95% delle nostre azioni sarebbe determinato in modo inconscio. Pertanto, la coscienza sarebbe in grado di spiegare solo il 5%. del nostro comportamento.

Tralasciando i molti modi in cui si può "misurare" la coscienza, gli scienziati cognitivi di spicco sono oggi concordi con Freud almeno su un punto; la proprietà della coscienza riguarda solo una parte estremamente ridotta della nostra vita mentale.”

Si pone, dunque, il problema di capire come è organizzato l’inconscio. A riguardo ci sono due dati di particolare importanza.

Il primo fa capo ai sistemi peptidergici (acetilcolinergico, dopaminergico, serotoninergico, endorfinico, istaminico). Il loro carattere pervasivo e il loro intreccio con le emozioni fa pensare che, a livello inconscio, l’emozionalità abbia un ruolo assolutamente predominante rispetto alla coscienza.

Le emozioni alle quali sembrano corrispondere quei sistemi sono secondo Pansek: il sistema del panico (che, forse, sarebbe più giusto denotare come sistema dell'ansia), il sistema di ricerca (un cui sottosistema è quello del piacere o della ricompensa), Il sistema della paura, il sistema della rabbia.

Il sistema dell’ansia, che viene sedato dal mantenersi di una relazione significativa con il mondo sociale e si attiva laddove si dà una minaccia di separazione o di esclusione, sembra avere un intreccio profondo con il bisogno di appartenenza. Il sistema della ricerca, comportando una spinta motivazionale costante verso l’esplorazione del mondo esterno e di quello simbolico alla ricerca di oggetti o di pratiche di vita appaganti, sembra intrecciarsi con il bisogno di individuazione. Il sistema della paura e della rabbia sono riconducibili alle motivazioni primarie di evitamento dei pericoli e di disposizione a lottare e ad agire. Nell’uomo essi assumono un significato particolare, che va molto al di là delle funzioni di base che essi svolgono negli altri animali. La paura, infatti, sembra riconoscere un suo acme nella perdita del legame sociale, mentre la rabbia viene evocata dalla percezione dei propri diritti quando essi sono conculcati o violati.

Scrivono Solms e Thurnbull:

“Non basta avere (soltanto) quattro spinte emozionali - ricerca, rabbia, paura, panico - abbinate a una serie di comportamenti stereotipati e automatici, per gestire e affrontare l'enorme complessità della vita quotidiana dei mammiferi. Il mondo è incommensurabilmente imprevedibile; quindi, risulta necessario modulare e regolare di conseguenza sia noi stessi sia le nostre risposte.

E' per questo che tutti i sistemi di comando delle emozioni di base sin qui discussi sono (in gradi variabili nelle diverse specie ma a un livello molto elevato negli esseri umani) aperti all'influenza dei meccanismi di apprendimento. In altre parole, sebbene questi sistemi siano innati, non sono "predeterminati" (hard-wired) al punto da essere immodificabili. Al contrario, sembrano essere espressamente predisposti con dei "vuoti" che possono essere riempiti dall'esperienza della vita (in particolare dalle esperienze precoci).

Il controllo delle emozioni, sulla base dell’apprendimento, dipende essenzialmente dai lobi frontali, e in particolare dalle aree ventromesiali e orbitale: “l'entità dello sviluppo del lobo frontale è il fattore che distingue noi umani dalla maggior parte degli altri mammiferi. Tale fattore è anche quello che differenzia in modo fondamentale il cervello dell'uomo adulto da quello del bambino. I lobi frontali si sviluppano rapidamente durante i primi anni di vita e continuano a svilupparsi velocemente fino alla tarda adolescenza. Questi fatti neuroanatomici ci spiegano le enormi differenze, in rapporto alla flessibilità e al grado di controllo emozionale, che sussistono tra l'uomo adulto e il bambino, nonché tra gli umani e gli altri mammiferi.”

Al di là di questi aspetti, c’è da considerare l’importanza assoluta che nell’uomo assumono le emozioni che discendono dall’interazione tra Io e Altro. Tale importanza è attestata dalla scoperta dei neuroni specchio.

Nell’introduzione a Neuroni specchio, il libro più completo publicato sinora a riguardo, M. Iacoboni scrive:

"Per secoli i filosofi si sono scervellati sulla capacità umana di capirsi reciprocamente. Uno sconcerto più che comprensibile, il loro, non avendo di fatto dati scientifici a disposizione. Negli ultimi centocinquanta anni, psicologi, scienziati cognitivi e neuroscienziati ne hanno avuti abbastanza, di dati scientifici su cui lavorare (e negli ultimi cinquant'anni, moltissimi), eppure per lungo tempo ancora hanno continuato a scervellarsi. Nessuno era in grado di fornire delle spiegazioni soddisfacenti su cos'è che ci permette di capire quello che gli altri fanno, pensano e provano.

Oggi siamo in grado di fornirle, queste spiegazioni: la nostra capacità penetrante di capire gli altri è dovuta a cellule cerebrali chiamate neuroni specchio. Queste sono le cellule che creano i piccoli miracoli della nostra quotidianità, che sono alla base del modo in cui governiamo le nostre vite, che ci legano gli uni agli altri, sul piano mentale e su quello emotivo..."

"Quando vediamo qualcun altro che soffre o sente dolore, i neuroni specchio ci aiutano a leggere la sua espressione facciale e a farci provare la sofferenza o il dolore di quell'altra persona. Simili momenti, come argomenterò nel libro, sono la base fondante dell'empatia, e probabilmente anche del senso morale, un senso morale profondamente radicato nella nostra biologia..."

"Senza dubbio i neuroni specchio forniscono, per la prima volta nella storia, una spiegazione neurofisiologica plausibile per forme complesse di cognizione e di interazione sociale. Nell'aiutarci a riconoscere le azioni delle altre persone, i neuroni specchio ci aiutano anche a riconoscere e comprendere le ragioni più profonde che stanno dietro a quelle stesse azioni, le intenzioni degli altri individui. Lo studio empirico dell'intenzione è sempre stato considerato pressoché impossibile, in quanto le intenzioni erano ritenute troppo «mentali» per essere studiate con strumenti empirici. In che modo, poi, sappiamo che gli altri hanno degli stati mentali simili ai nostri? Per secoli i filosofi si sono arrovellati sul cosiddetto «problema delle altre menti», compiendo scarsi progressi. Ora hanno a loro disposizione dei dati scientifici reali su cui lavorare. La ricerca sui neuroni specchio offre loro, e a chiunque sia interessato a come ci si capisce reciprocamente, un considerevole alimento per la riflessione..."

"Solide prove empiriche indicano che il nostro cervello è in grado di rispecchiare gli aspetti più profondi della mente degli altri (e l'intenzione è certamente uno di tali aspetti) al sottile livello di una singola cellula cerebrale. Ciò è oltremodo notevole, e altrettanto notevole è la spontaneità di questa simulazione: non abbiamo bisogno di trarre inferenze complesse né di elaborare complicati algoritmi. Semplicemente, usiamo i neuroni specchio." (p. 14)

La scoperta dei neuroni specchio, insomma, prova in maniera indubbia che si dà un tessuto di intersoggettività precognitiva e preriflessiva che consente agli esseri umani di comprendersi e di identificarsi reciprocamente; un canale di comunicazione intuitivo e immediato, di tipo empatico, che sembra attivo soprattutto in rapporto allo stato di sofferenza dell'altro.

Alla luce della scoperta dei neuroni specchio, l’evoluzione della personalità avviene per lungo tempo e per molti aspetti sulla base dell’imitazione:

"I neuroni specchio ci consentono di capire le intenzioni degli altri."

Questa capacità è il fondamento dei comportamenti imitativi, che nell'uomo hanno un rilievo e un'importanza particolari:

"La nostra spinta a imitare sembra essere presente in maniera molto forte sin dalla nascita, senza in seguito mai venire meno. Tramontata la vecchia visione ottocentesca secondo cui la facoltà di imitare sarebbe diffusa pressoché in tutto il regno animale, «scendendo » fino alle api di Darwin, la tendenza oggi prevalente è proprio quella opposta: attualmente quasi tutti gli studiosi ritengono infatti che la vera imitazione sia propria solo degli umani e forse delle scimmie antropomorfe, come ad esempio gli scimpanzé. Di fatto, l'imitazione è considerata una caratteristica talmente pervasiva del comportamento umano che molti autori hanno elaborato teorie in cui essa assume un ruolo centrale."

Il suo ruolo a livello di fasi precoci dello sviluppo è ovvio:

"Dato che il cervello dei neonati non possiede capacità cognitive molto sofisticate, il fatto che essi siano in grado di imitare suggerisce che l'imitazione dipenda da un meccanismo neurale relativamente semplice."

Essa prosegue nel corso di tutta l'evoluzione della personalità, ma non viene meno nell'adulto:

"Da adulti, non abbiamo perso la nostra infantile attrazione per l'uso dell'imitazione. Al contrario, il comportamento imitativo è una presenza forte nell'età adulta, tanto che, nel trasmettere di generazione in generazione le pratiche sociali, ha prodotto l'estesa gamma di differenti culture di tutto il mondo. Ha anche dato origine, nel corso di decine di migliaia di anni, alle migliaia di lingue esistenti, e sta tuttora alimentando i vari accenti regionali, nel momento stesso in cui tutti noi parliamo."

E' difficile minimizzare l'importanza della capacità imitativa nell'esperienza umana:

"È dunque certo che nei bambini piccoli l'imitazione sia, a un tempo, orientata all'obiettivo ed eseguita «come davanti a uno specchio». Ora si trattava di capire in che modo unire concettualmente questi due aspetti dell'imitazione. In sostanza, qual è la finalità di imitare come se si fosse di fronte a uno specchio? Possiamo partire dall'osservare che due persone faccia a faccia che si imitano reciprocamente come davanti a uno specchio, nel far ciò, usano la stessa porzione di spazio: quando tu e io siamo l'uno di fronte all'altro e ci imitiamo, la mia mano destra è nella stessa porzione di spazio della tua mano sinistra; noi due «condividiamo» uno spazio e in questo modo ci rendiamo più vicini. Credo che uno dei principali obiettivi di questa imitazione possa in realtà configurarsi proprio nel facilitare un'«intimità» concreta tra il sé e l'altro durante le relazioni sociali. La tendenza dell'imitazione e dei neuroni specchio nel riuscire a ricreare questo tipo di intimità potrebbe rappresentare una forma originaria, primordiale, di intersoggettività da cui si sono modellati il sé e l'altro (aspetto che sarà approfondito in seguito)...

Ha senso ipotizzare l'implicazione dei neuroni specchio nello spontaneo «rispecchiarsi» delle persone, specialmente alla luce dei dati di neuroimaging in nostro possesso relativi all'imitazione orientata allo scopo e agita «come davanti allo specchio». L'intimità del sé con l'altro che l'imitazione e i neuroni specchio rendono più facile può costituire il primo passo verso l'empatia, un elemento fondamentale della cognizione sociale...

Lo studio dell'età evolutiva umana mostra anche come l'imitazione sia strettamente legata allo sviluppo di importanti abilità sociali, come ad esempio il comprendere che altre persone hanno i loro pensieri, le loro credenze, i loro desideri. Se l'imitazione è così determinante nello sviluppo di queste abilità sociali, devono esserlo anche i neuroni specchio che quell'imitazione consentono."

Il rapporto tra neuroni specchio e i sistemi delle emozioni è scontato. Ma come possono comunicare tra loro sistemi per molti aspetti diversi?

La comunicazione avviene in virtù di una piccola struttura denomina tecnicamente "insula", com’è risultato chiaro a livello sperimentale:

"Le aree dei neuroni specchio, l'insula e le aree emozionali del cervello site nel sistema limbico, in particolare l'amigdala, una struttura limbica molto reattiva ai volti, si attivavano mentre i soggetti osservavano le facce, e l'attività si incrementava in quei soggetti che, in aggiunta, imitavano quel che vedevano. Questi risultati avvaloravano chiaramente l'idea che le aree dei neuroni specchio ci aiutano a comprendere le emozioni altrui attraverso una qualche forma di imitazione interna. Secondo questa «ipotesi di empatia dei neuroni specchio», i neuroni specchio si attivano quando vediamo gli altri esprimere le proprie emozioni come se fossimo noi stessi a porre in atto quelle espressioni facciali. Per mezzo di questa attivazione, i neuroni inviano anche dei segnali ai centri cerebrali emozionali del sistema limbico, facendo sì che noi stessi proviamo quel che provano le persone che abbiamo davanti."

La presenza nel cervello umano dei neuroni specchio, dunque, ha un immediato rilievo per la concezione della natura umana e per le origini stesse della specie. Essa, infatti, fa della socialità una dimensione primaria, in difetto della quale l'io non assumerebbe consapevolezza di sé, e porta a pensare che il legame empatico tra esseri originariamente sprovveduti e consapevoli della loro comune vulnerabilità e precarietà sia stato lo "strumento" principale di sopravvivenza e di adattamento attraverso la solidarietà e la cooperazione all'interno del gruppo (e presumibilmente, alle origini, anche tra gruppi limitrofi).

Questo è il contenuto informativo della scoperta che più prontamente si è diffuso presso l'opinione pubblica e gli studiosi di scienze umane. E' superfluo che faccia presente l'entusiasmo intellettuale con cui l'ho accolta, avendo lavorato per oltre venti anni a costruire una teoria della natura umana e un modello psicopatologico che la implicava, facendo riferimento ad un bisogno si appartenenza e di integrazione sociale primario, geneticamente determinato, e all'empatia, come emozione intuitiva correlata a tale bisogno, universale ma più spiccata in alcuni soggetti (gli introversi) che spesso pagano questa ricchezza in termini di disagio.

L'entusiasmo, però, non è mai stato tale da accecarmi teoricamente. Per quanto si possa valutare il legame sociale, rimane il fatto che esso, nonché un fattore di umanizzazione, promuove l'omologazione culturale, vale a dire la trasmissione e l'interiorizzazione di codici normativi che, nel loro insieme, determinano, all'interno di ogni cultura, il cosiddetto senso comune. C'è insomma nel legame sociale un'intrinseca pericolosità, legata al fatto che esso tende a ridurre la varietà dei modi di sentire, di pensare e di agire individuali, e le componenti culturalmente innovative in essa presenti.

La storia dell'uomo non sarebbe concepibile se non si ammettesse che la spinta verso l'omologazione e il "conformismo", che oggi riconosce un fondamento neurobiologico, è stata compensata da una spinta di segno diverso verso la differenziazione.

A riguardo, Iacoboni avanza un’ipotesi singolare, quella dei neuroni specchio super:

"Se i neuroni specchio sono elementi neurali tanto potenti da aiutarci a ricostruire nel nostro cervello ciò che le altre persone fanno, cosa di cui sono convinto, il processo evoluzionistico che ha creato un simile meccanismo neurale deve anche aver previsto qualche forma di controllo su di esso. In fondo, per noi sarebbe molto poco efficiente imitare tutte le azioni che osserviamo. Inoltre, l'imitazione assume molte forme, alcune delle quali altamente complesse. A. Dijksterhuis, uno psicologo sociale olandese, traccia una distinzione tra le forme complesse di imitazione, che rientrano in quella che chiama «via alta», in opposizione alla «via bassa», costituita da imitazioni motorie semplici e dirette (afferrare la tazza, ad esempio). In merito alla sua «via alta», Dijksterhuis ha raccolto una serie impressionante di dati comportamentali che confermano svariate forme di imitazione complessa nel comportamento umano...

[L’]imitazione della «via alta» spesso include una serie di comportamenti piuttosto complessi e sottili, ed è difficile credere che dei comportamenti complessi possano essere implementati da cellule come quelle scoperte a Parma, che sembrano maggiormente adatte a forme di imitazione più semplici. Sebbene alcuni neuroni specchio di questi animali mostrino una forma più sofisticata di attivazione (ricordiamo le cellule «logicamente correlate» che scaricano non per la stessa azione osservata ed eseguita, ma per altre logicamente correlate, come posare del cibo sul tavolo e afferrano per portarlo alla bocca), si ha la sensazione che anche questo tipo di attività neurale non sia sufficiente per l'imitazione di aspetti complessi del comportamento umano.

Ritenevo che la raffinata imitazione di comportamenti complessi che noi esseri umani compiamo in continuazione richiedesse molto probabilmente un concetto più ampio di sistema specchio, in grado di includere cellule il cui ruolo fosse il controllo e la modulazione dei più semplici neuroni specchio classici: un ordine superiore di neuroni specchio definibili «neuroni specchio super», non perché siano dotati di superpoteri, ma perché potrebbero concepirsi come uno strato neuronale funzionale posto «al di sopra» dei neuroni specchio classici, per controllarne e modularne l'attività. Dopo aver sviluppato queste prime idee sui neuroni specchio super, mi domandai, come qualsiasi imperterrito esecutore di mappe cerebrali avrebbe fatto, in quale punto del cervello questi neuroni specchio super potevano trovarsi. Optai per tre regioni cerebrali del lobo frontale (la parte anteriore del cervello) che sono connesse con l'area frontale contenente neuroni specchio, e si chiamano: corteccia orbitofrontale, corteccia anteriore del cingolo e area presupplementare motoria...

Finora abbiamo ottenuto registrazioni di circa sessanta neuroni che mostrano proprietà tipiche dei neuroni specchio, situati nelle aree in cui si supponeva un'attività dei neuroni specchio super. Alcune di queste cellule mostrano uno schema di attivazione neuronale molto interessante: aumentano la loro attività mentre il paziente esegue l'azione, come nelle scimmie; però, in netto contrasto rispetto ai neuroni specchio delle scimmie, cessano interamente di scaricare quando il paziente osserva l'azione. Un tale schema di attivazione lascia ipotizzare che queste cellule possano svolgere un ruolo inibitorio durante l'osservazione dell'azione. Con il loro disattivarsi, potrebbero «dire» ai più classici neuroni specchio, come pure ad altri neuroni motori, che quell'azione osservata non deve essere imitata. Inoltre, questa codifica differenziale per le azioni compiute in prima persona (aumento di attività) e le azioni di altri (riduzione di attività) potrebbe rappresentare una distinzione neurale, straordinariamente semplice, fra il sé e l'altro implementata da questo tipo speciale di neuroni specchio super.

In chiusura del capitolo 5, ho ipotizzato che i neuroni specchio possano consentirci di ricavare, staccandolo dal primario senso intersoggettivo del «noi», un proprio adeguato senso del sé e dell'altro: un processo molto verosimilmente implementato da questi particolari neuroni specchio super. In effetti, le aree cerebrali nelle quali abbiamo registrato queste cellule sono le meno sviluppate nella prima infanzia e dimostrano cambiamenti radicali in fasi successive dell'età evolutiva..."

Per quanto l’ipotesi dei neuroni specchio super richiederà ulteriori conferme, essa ha una particolare importanza, perché potrebbe fornire una delle chiavi che spiegano la differenziazione della personalità a partire da un coinvolgimento originario che, condizionando il soggetto all’imitazione, potrebbe letteralmente impedirla. I neuroni specchio super, inibendo l'imitazione dettata dall'empatia, potrebbero essere correlati al bisogno di opposizione/individuazione che io ho ammesso far parte della natura umana e al sistema funzionale psichico dell'Io antitetico che si costruisce sulla base di esso.

Fino a questo punto, sembra che la scoperta dei neuroni specchio comporti solo aspetti positivi. Le cose, però, secondo Iacoboni, non stanno così. Egli scrive:

"Purtroppo, non tutte le forme complesse di comportamento imitativo si rivelano positive per noi (intendendo la società nel suo insieme). E’ quindi giunto il momento di indagare il rispecchiamento come fenomeno sociale che può indurre quelli che in gergo scientifico sono chiamati «comportamenti problema»."

Il problema dei problemi è, ovviamente, la tendenza al conformismo e all’omologazione culturale come conseguenza dell’attività dei neuroni specchio. Tale tendenza pone in discussione il problema del libero arbitrio.

Scrive Iacoboni:

"Molte concezioni a lungo vagheggiate in merito all'autonomia umana sono chiaramente messe in discussione dalla minuziosa indagine neuroscientifica delle radici biologiche del comportamento umano. La nozione di «libero arbitrio» è fondamentale nella nostra visione del mondo, tuttavia, più cose scopriamo sui neuroni specchio, più ci rendiamo conto di non essere degli agenti perfettamente razionali che agiscono in modo completamente libero. I neuroni specchio producono nel nostro cervello delle tendenze all'imitazione di cui spesso non siamo consapevoli, e che limitano la nostra autonomia con potenti condizionamenti che agiscono sul piano sociale. Noi esseri umani siamo animali sociali, ciò nonostante la nostra socialità ci rende agenti sociali con autonomia limitata.”

Su questa tematica del libero arbitrio si sta organizzando una disciplina che si definisce Neuroetica, riguardo alla quale ho scritto:

“Gran parte dei neuroeticisti sembra orientato se non a negare il libero arbitrio a ridurlo ad un potere minimale dell’io cosciente rispetto a ciò che si pensava in passato. Questa negazione, però, non poco problematica, è già presente in Nietzsche e traspare con evidenza nel pensiero di Freud, soprattutto per quanto concerne la sostanziale schiavitù dell’Io rispetto alla spinta motivazionale delle pulsioni e alle esigenze sociali di controllo delle stesse.

Se si ammette che il comportamento è governato e per molti aspetti determinato da una serie di motivazioni significative che pervadono l’inconscio e possono essere dinamicamente in conflitto tra loro, la possibilità che un comportamento sia promosso all’insaputa della coscienza da un’attività cerebrale è fuori di dubbio. In questo caso, però, occorre ammettere che l’attività cerebrale sia imprescindibilmente legata ad una motivazione. Il comportamento, di conseguenza, appare espressivo di una medaglia a due facce: l’una è il funzionamento del cervello, l’altra la motivazione che l’attiva.

Se si ammette che ogni comportamento umano è motivato, dalle più semplici azioni della vita quotidiana che si realizzano automaticamente alle scelte più complesse, il discorso neuroetico non può prescindere dall’analisi delle motivazioni. Ma le motivazioni non traspaiono a livello cerebrale, nonostante le raffinate tecniche neurodiologiche, se non sotto forma di attivazione di determinate aree che innescano o si associano ad un determinato comportamento. La loro storia e il loro peso dinamico, che rappresentano il patrimonio dell’esperienza soggettiva, affondano le loro radici nell’intera vicenda dell’interazione tra un determinato individuo e un determinato contesto socio-storico.

Le ricerche neuroetiche assumeranno un maggior significato allorché esse si fonderanno con un approccio psicoanalitico e storico alla tipologia della personalità e alla sua organizzazione dinamica.

L’integrazione della neuroetica con la psicoanalisi e la storia sociale può favorire un approccio più integrato al problema della complessità umana.

Un esempio può essere fornito in rapporto proprio al problema del libero arbitrio, la cui importanza è difficile da minimizzare.

Porre il discorso in termini di ammissione o negazione del libero arbitrio sembra piuttosto sterile. In ogni personalità si dà, presumibilmente, uno spettro motivazionale che in minima parte è rappresentato a livello cosciente, e dunque definisce un certo grado di libertà, e in massima parte scorre al di fuori della coscienza. Non è detto che questo scorrimento azzeri la libertà umana. Se non consapevolezza, infatti, ci può essere sintonia tra il mondo delle motivazioni inconsce e l’organizzazione della coscienza. Se non lo azzera, però, lo riduce di certo di gran lunga, e, al limite, può comportare la realizzazione di comportamenti che si impongono alla coscienza, anche laddove essi sono giudicati come sbagliati dall’individuo.

Non è certo azzardato ipotizzare che la libertà umana non è un dato positivo inerente la coscienza, ma una conquista che avviene a partire dalla consapevolezza che l’individuo stesso riesce a raggiungere in rapporto ai condizionamenti ambientali e storico-culturali cui è andato incontro nel corso della sua esperienza di vita.”

Eccezion fatta per l’ipotesi pulsionale, tutti questi dati risultano in accordo con la teoria freudiana dell’apparato mentale.

Occorre però aggiungerne un altro di grande importanza.

Il postevoluzionismo e l’inconscio

Nei suoi scritti, Freud cita raramente Darwin, ma è del tutto evidente che egli accetta implicitamente la natura animale dell’uomo e il suo essere un prodotto dell’evoluzione naturale, anche se, in conseguenza della sua ideologia pessimistica, rifiuta l’attribuzione darwiniana all’uomo di un potente istinto sociale.

Esplorando l’inconscio sulla base della teoria delle pulsioni, Freud ha buon gioco nel dimostrare che l’inconscio, nel suo strato più profondo, coincide con l’Es, una dimensione caotica nella quale esistono solo spinte pulsionali che la civiltà prima e la coscienza individuale poi deve tenere a freno. Al tempo stesso, come abbiamo visto analizzando L’interpretazione dei sogni, egli si trova di fronte ad un universo mentale infinitamente ricco e complesso, che adotta sì logiche estranee alla coscienza (condensazione, spostamento), ma al tempo stesso sembra dotato di una sottigliezza e di una creatività del tutto particolari.

Interessato solo a definire la genesi e la dinamica dei conflitti psichici, Freud non si sofferma più di tanto su questo aspetto, che oggi invece appare sommamente importante.

Perché mai l’inconscio, la cui attività, come si è detto, concerne oltre il 90% dell’apparato mentale, se fosse solo un deposito di pulsioni, dovrebbe essere dotato di potenzialità così ampie e singolari?

La dissidenza di Jung muove essenzialmente dal tentativo di rispondere a questo quesito. La teoria junghiana, però, travalica il rigoroso materialismo freudiano, attribuendo all’inconscio un misterioso principio di trascendenza, che non può non avere esiti spiritualistici.

Un tentativo ortodosso di rispondere a questo quesito, anch'esso inficiato dallo spiritualismo, è stato fornito dallo psicoanalista Matte Blanco sulla base di un’implacabile critica alla psicoanalisi corrente:

“Egli scrive nell'Introduzione: "Credo risponda a verità dire che nel momento attuale gran parte degli analisti tende ad evitare la teorizzazione per concentrarsi - come frequentemente si sente dire - sui fatti clinici. Questo atteggiamento mi sembra ingenuo e quelli che lo adottano sembrano essere inconsapevoli che di fatto stanno campando di rendita: la rendita di qualcun altro. Non sembrano in effetti rendersi conto che i fatti che scoprono non sono precisamente altro che quelli che le teorie cui aderiscono permettono loro di scoprire".

Appartenendo a pieno titolo alla corporazione psicoanalitica, la critica di Matte Blanco, per quanto radicale, suona come sfumata in rapporto alla pratica psicoanalitica, che è, ormai, un esercizio piuttosto sterile, configurandosi come un tragitto autoconoscitivo che mira costantemente, sulla scia di Freud, ad imporre al paziente verità ideologiche che, se non tributano un ridicolo omaggio all'Edipo, fanno capo all'aggressività primaria e ai suoi effetti distorsivi nell'interpretazione della realtà.

La critica di Matte Blanco si limita a rilevare l'allontanamento della pratica da una preoccupazione teorica per quell'oggetto misterioso che, ancora oggi, rimane l'inconscio: "Si può in tutta onestà dire che la psicoanalisi ha trascurato considerevolmente il suo proposito iniziale di esplorare la psicologia dell'inconscio e di quel misterioso mondo dove ogni cosa è così differente da ciò che vediamo nella vita cosciente; è difatti del tutto evidente che gli approcci strutturale e dell'oggetto interno descrivono la mente in termini tali che le caratteristiche del sistema inconscio diventano non necessarie o sono rese insignificanti. Nel corso del suo sviluppo la psicoanalisi è diventata meno psicoanalitica nel senso che, sebbene continui a trattare con i cosiddetti contenuti inconsci, tende a trattare questi come se fossero regolati dalle stesse leggi che si vedono in opera nella coscienza e si applicano nello studio di tutte le altre scienze. La psicoanalisi si è allontanata da se stessa" (pp. 12-13).

L'intento di Matte Blanco è di restaurare la portata originaria della scoperta freudiana, che riguarda un'attività mentale - quella appunto inconscia - le cui leggi e le cui logiche sono radicalmente diverse rispetto a quelle che vigono a livello cosciente.

Non entrerò nei particolari del pensiero di Matte Blanco se non per rilevare che esso introduce nell’analisi il concetto di infinito. Si tratta, però, di un infinito regressivo che comporta, secondo diversi livelli di profondità, l’indistinzione di tutte le cose e la loro riduzione all’Uno.

Un’alternativa alla singolare teoria di Matte Blanco per spiegare le potenzialità del cervello, che sembrano irriducibili alla teoria pulsionale e a semplici finalità adattive, si può ricondurre al post-darwinismo. Il termine è improprio, ma fa riferimento ai biologi evoluzionisti - S. J. Gould e N. Eldredge - i quali, rifiutando l’iperadattamentismo darwiniano, hanno ipotizzato che il cervello umano sia nato sulla base di un processo che ha selezionato una serie di potenzialità funzionali necessarie per l’adattamento di una specie complessa, ma ne ha prodotte, attraverso la crescita del cervello neotenico, un’altra serie che non avevano all’origine alcuna finalità adattiva. Per distinguere tali potenzialità, Gould e Eldredge parlano di exaptation.

Il concetto è esposto da T. Pievani in questi termini:

“La selezione naturale rafforza novità evolutive emerse attraverso dinamiche non necessariamente selettive, che coinvolgono non soltanto i geni e gli individui, ma anche le popolazioni e le specie intese come totalità integrate.

Adottando la terminologia proposta dai paleontologi Stephen J. Gould ed Elisabeth Vrba in un saggio del 1982 dal titolo Exaptation, a Missing Term in the Science of Form, potremmo allora affermare che qualsiasi novità evolutiva emersa nel contesto di cause e di livelli sovrapposti dell'evoluzione, e resasi in qualche modo utile, sia un attamento (una specie di "attitudine"). Fra tutti gli "attamenti" o "attitudini" possibili vi saranno alcuni caratteri che avevano la stessa funzione attuale fin dalla loro origine e che sono stati quindi fissati all'interno della specie nello stesso contesto in cui sono adoperati oggi: essi sono stati plasmati dalla selezione naturale per la funzione attuale. Si parlerà in tal caso di normali adattamenti.

Quando invece un carattere è emerso in una specie per nessuno scopo utile iniziale o per una certa utilità adattativa e successivamente, al mutare del contesto ecologico, viene riutilizzato per una funzione completamente diversa si parlerà di exattamento, cioè di un carattere adatto a una nuova funzione in virtù della sua forma preesistente. Gli exattamenti (o exaptations) sono dunque quei caratteri nati con una certa funzione e opportunisticamente cooptati per una funzione diversa nel corso dell'evoluzione (attamenti "ex forma", cioè a partire da una struttura precedente) (Gould, Vrba 1982; Vrba, Gould 1986).

Con questa semplice idea, erede del preadattamento darwiniano e in verità già introdotta lateralmente in alcune trattazioni della Sintesi Moderna, si opera una scissione fra la forma e la funzione di un organo: la funzione non precede sempre la forma, determinandola. Le funzioni adattative possono variare a parità di forma e di struttura. Così, l'evoluzione non appare più come il regno della necessità e di un'ottimalità adattativa di tipo finalistico, ma come il risultato polimorfo e imprevedibile di percorsi contingenti, di adattamenti secondari e subottimali, di bricolage imprevedibili. L'impiego adattativo attuale (più o meno soddisfacente) di una struttura non implica che questa sia stata costruita gradualmente e selettivamente per quell'impiego: l'utilità attuale e l'origine storica di un organo devono essere distinti...

La nozione di exaptation, cogliendo il nesso fra potenzialità morfologica e produzione della novità funzionale attraverso una sorta di "assemblaggio" opportunista, per cui l'imperfezione diventa il segno dell'azione dell'evoluzione, introduce nella storia naturale un importante principio di ridondanza come fondamento della creatività. L'evoluzione è un processo straripante di ridondanza e l'adattamento più che un'ottimizzazione diretta è spesso un effetto collaterale.”

Se questo è vero, ci si può chiedere quale sia la parte del cervello più straripante di ridondanza, e quindi potenzialmente creativa. La risposta è fuori di dubbio: si tratta proprio dell’inconscio, la cui inesausta creatività Freud ha scoperto attraverso i sogni, gli atti mancati e l’analisi dei sintomi.

Con l’identificare nell’inconscio la parte della mente più ricca di potenzialità exattate, si valorizza al massimo grado la scoperta freudiana e ci si sorprende molto poco del fatto che esso funzioni sulla base di logiche estranee alla razionalità. Sono, infatti, le stesse logiche a partire dalle quali, nonché i sintomi, si realizzano le invenzioni creative nell’ambito dell’arte, della letteratura, ecc.

L’inconscio è dunque un enorme serbatoio di potenzialità culturali depositato in ogni singolo cervello: un attributo specie-specifico che, in conseguenza dell’interazione con l’ambiente, assume una certa configurazione più o meno funzionale sotto il profilo adattivo ad un determinato contesto socio-storico.

Se si fa eccezione, forse, per alcune immagini archetipiche (il Padre, la Madre), l’inconscio, come insieme di potenzialità ridondanti, non è strutturato. Esso, però, è predisposto ad una strutturazione in virtù di un corredo di bisogni intrinseci che agganciano l’esperienza soggettiva alla relazione con l’Altro e fanno della dialettica tra appartenenza e individuazione il tema univoco su cui l’esperienza si declina.

Dedicandosi alle nevrosi, Freud ha scoperto - attraverso i sintomi, i sogni, gli atti mancati - le conseguenze di una strutturazione conflittuale. Non essendo in grado di valorizzare gli effetti alienanti della cultura, egli è stato indotto a ricondurre tale strutturazione ad un’opposizione irriducibile tra Natura e Cultura.

Oggi si può dire che tale opposizione non esiste se non nella misura in cui la Cultura non riesce a fornire al singolo individuo adeguate possibilità di sviluppare le sue potenzialità.

Su questa base è possibile recuperare la psicoanalisi, affrancata dalla teoria pulsionale e corroborata dal concetto di ridondanza funzionale e dalla teoria dei bisogni intrinseci, nella cornice di un nuovo sapere sull’uomo e sui fatti umani.

La scoperta maturata nell’ambito delle discipline storiche di un inconscio sociale fornisce, a questo sapere un contributo di estrema importanza.

L’inconscio sociale

Nel delineare la teoria del Super-io Freud ha intuito l’esistenza dell’inconscio sociale. Come si ricorderà, egli ha scritto:

"Di solito i genitori e le autorità analoghe seguono, nell'educazione del bambino, i precetti del proprio Super-Io… Così, in realtà, Il Super-Io del bambino non viene costruito secondo il modello dei genitori, ma su quello del loro Super-Io; si riempie dello stesso contenuto, diventa il veicolo della tradizione, di tutti i giudizi di valore imperituri che per questa via si sono trasmessi di generazione in generazione… L'umanità non vive interamente nel presente: il passato, la tradizione della razza e quella del popolo, che solo lentamente cedono alle influenze del presente, a nuovi cambiamenti, sopravvivono nelle ideologie del Super-Io e, finché agiscono per mezzo di esso, hanno nella vita umana una parte possente."

Leggendo questo brano, è difficile non rievocare uno dei più profondi aforismi marxiani secondo il quale il passato di tutte le generazioni esistite pesa come un incubo sul cervello dei viventi.”

L’intuizione freudiana è stata praticamente abbandonata dalla psicoanalisi, ma, per fortuna, è stata raccolta dagli storici de Les Annales, che hanno tratto da essa spunto per mettere a fuoco il concetto di mentalità o inconscio sociale.

La definizione dell'inconscio sociale è fornita in maniera estremamente precisa da Philippe Ariès: "Cos'è l'inconscio collettivo? Sarebbe meglio dire il non cosciente collettivo. Collettivo: comune a tutta una società in un dato momento. Non-cosciente: non percepito o scarsamente percepito dai contemporanei, in quanto spontaneo, facente parte dei dati immutabili della natura, delle idee ricevute o che sono nell'aria, luoghi comuni, norme di convenienza e di morale, conformismi o proibizioni, espressioni ammesse, imposte o escluse dei sentimenti e dei fantasmi."

L'appartenenza della mentalità alla lunga durata apre un fronte di ricerca alla quale nessuna scienza dell'uomo può essere indifferente: quella della storia della mentalità. Che cosa appartiene a questa storia? I temi sono molteplici. Anzitutto occorre considerare i temi di frontiera tra il biologico e il sociale, la natura e la cultura: il lavoro, la famiglia, le età della vita, l'educazione, il rapporto tra uomo e donna e tra le generazioni, il sesso, la malattia, la morte. Dimensioni che, a coloro che vivono in un determinato contesto, appaiono naturali e che, invece, implicano un complesso reticolo di valori culturali storicamente fondati. Al di là di questo piano, si danno altri temi ancora più complessi: l'alimentazione, la malattia mentale, la delinquenza, la sociabilità tradizionale, la festa, il mito e le tradizioni popolari, i pregiudizi, la religione, ecc.

E' evidente, da quest'elenco sommario, che la storia della mentalità si distacca dai contenuti tradizionalmente ritenuti oggetto degli studi storici - i grandi eventi politici e militari - e s'interessa alla vita dei soggetti che vivono nel cono d'ombra della storia tradizionale, vale a dire le masse e all'interno di esse le singole persone. Essa dunque fornisce un contributo prezioso ad una psicosociologia individuale e collettiva che non intende negare l'unicità e l'irripetibilità dell'esperienza dell'individuo, ma non può ignorare che tale unicità si realizza a partire da un patrimonio comune di credenze, valori, norme, luoghi comuni, pregiudizi che appartengono per l'appunto all'inconscio sociale, ma, sia pure in misura diversa, sono rappresentati all'interno di ogni soggettività, e la vincolano ad una storia sociale transgenerazionale.

In un'ottica psicoanalitica, il riferimento alla mentalità è essenziale per capire la struttura e la funzione del Super-io che è, per l'appunto, l'istanza psichica che mantiene in vigore i valori culturali trasmessi attraverso la catena delle generazioni. In virtù di questo riferimento, il rapporto tra soggettività e storia sociale si pone immediatamente come un rapporto che definisce l'infrastruttura culturale della personalità.

Nella misura in cui la mentalità definisce un quadro normativo proprio di una determinata società o civiltà, essa definisce complementarmente i margini di tale quadro e ciò che cade al di fuori di esso - i fenomeni per l'appunto marginali o devianti: la povertà, la delinquenza, la malattia mentale.

La storia dei marginali è un'altra frontiera che la nuova metodologia ha aperto, sulla base di un principio che può apparire ovvio, ma che è infinitamente suggestivo: "L'ipotesi di partenza è che una società si rivela in modo completo nel modo in cui si comporta verso i propri margini. In teoria si danno due sole possibilità: quella di un'integrazione dei marginali e quella della loro esclusione." In ordine a quale criterio si realizza l'una o l'altra possibilità? Il criterio è quello dell'utilità sociale che "indica prima di tutto quale vantaggio materiale la collettività si attende dagli agenti sociali", "stabilisce inoltre il limite al di là del quale la sicurezza dei beni, delle persone e dell'ordine costituito sembra, a toro o a ragione, minacciata" e "indica infine un frontiera della conoscenza, al di là della quale si collocano coloro che sfuggono alle tassonomie sociali."

La Storia della follia di Foucault è un esempio magistrale dell'applicazione di questa nuova metodologia allo studio del rapporto tra normalità e anormalità psichica. Essa implica la costanza della spinta all'esclusione dei malati di mente dacché la civiltà occidentale ha assunto la razionalità astratta come metro di misura della normalità. Se ci si chiede oggi come stanno le cose, si giunge alla conclusione che quella spinta si è solo allentata senza essersi esaurita. Il problema sta nel capire quanto tempo si richiederà perché la normalità scopra nella follia il suo doppio, e ne recuperi il significato di denuncia di un ordine di cose inadeguato ai bisogni umani.

Un'ulteriore frontiera aperta dalla nuova storia, la più incerta e nello stesso tempo la più singolare, riguarda il campo dell'immaginario "costituito dall'insieme delle rappresentazioni che superano il limite posto dai dati dell'esperienza e dalle associazioni deduttive ad esse legate." Si tratta di una frontiera il cui interesse è innegabile per quanto sfiori l'azzardo. Infatti, "il limite tra il reale e l'immaginario si rivela variabile, mentre al contrario il territorio attraversato da questa linea di confine resta sempre e comunque identico, poiché non è altro che l'intero mondo dell'esperienza umana, dagli aspetti più collettivi e sociali a quelli più intimi e personali: la curiosità per gli orizzonti lontani nello spazio e nel tempo, per terre inconoscibili, per le origini egli uomini e delle nazioni; l'inquietudine e l'angoscia ispirate dalle incognite dell'avvenire e del presente, la coscienza del corpo e del vissuto,l'attenzione ricolta agli involontari moti dell'anima, ai sogni per esempio; gli interrogativi sulla morte; le alternanze tra il desiderio e la sua repressione; la costrizione sociale, generatrice delle manifestazioni di evasione o di rifiuto, per mezzo del racconto utopistico ascoltato o letto, per mezzo dell'immagine o del gioco, delle arti della festa e dello spettacolo."

In un articolo che ho citato più volte, G. Duby è ancora più pregnante scrivendo:

“E’ chiaro che la storia delle società deve fondarsi su un'analisi delle strutture materiali. L'organizzazione dei gruppi, delle comunità famigliari o di vicinato, delle associazioni, delle bande, delle compagnie, delle sette, la natura e la forza dei legami che li hanno raccolti, la posizione degli individui in questa rete di relazioni, la loro posizione all'interno di una complessa gerarchia di strati sovrapposti, la distribuzione dei poteri fra questi individui non possono essere messe chiaramente in luce senza che siano preliminarmente riuniti tutti gli elementi che permettono di ricostruire le componenti dello spazio che gli uomini hanno occupato, sistemato e sfruttato, di percepire il senso dei diversi movimenti che hanno determinato l'evoluzione demografica, di determinare il livello delle tecniche di produzione e di comunicazione, di intendere la maniera in cui erano ripartiti i compiti, le ricchezze e i profitti e in cui furono utilizzati i surplus. In effetti l'ampio sviluppo della ricerca storica durante gli ultimi trent'anni nei campi dell'economia, della demografia e, più recentemente, dell'ecologia, ha stimolato i primi progressi della storia sociale. Tuttavia non è meno evidente che la continuazione di questi progressi dipende dall'elaborazione di nuovi questionari, da una rilettura dei documenti e dall'utilizzazione di nuove fonti, dall'individuazione e dall'esplorazione di nuovi campi di ricerca.

Infatti per comprendere l'organizzazione delle società umane e per riconoscere le forze che le fanno evolvere occorre prestare ugualmente attenzione ai fenomeni mentali, il cui intervento indiscutibilmente non è meno determinante di quello dei fenomeni economici e demografici. Gli uomini infatti regolano il loro comportamento in funzione non della loro reale condizione, ma dell'immagine che se ne fanno e che non ne è mai il rispecchiamento fedele. Si sforzano di conformarla a modelli di comportamento che sono il prodotto di una cultura, e che, nel corso della storia, possono adattarsi più o meno bene alle diverse realtà materiali.

L'articolarsi dei rapporti sociali, il movimento che li fa trasformare si operano cosí nel quadro di un sistema di valori e la gente pensa comunemente che questo sistema orienti la storia di questi rapporti. Effettivamente esso governa il comportamento di ciascun individuo nei confronti degli altri membri del gruppo di cui fa parte. Su di esso si basano i condizionamenti che ciascuno accetta o tenta di trasgredire, ma di cui ciascuno sa bene che sono rispettati dagli altri. All'interno di questo sistema si sviluppa o si indebolisce la coscienza che la gente prende della comunità, del ceto, della classe di cui fa parte, della sua distanza nei confronti delle altre classi, ceti o comunità; una coscienza più o meno chiara, ma il cui disconoscimento ridurrebbe la portata di ogni analisi di una classificazione sociale e della sua dinamica. E ‘proprio questo sistema di valori a far tollerare, o a rendere intollerabili, le regole del diritto e i decreti del potere. Proprio in esso, infine, risiedono i principi di un'azione che pretende di animare il divenire del corpo sociale, in esso si radica il senso che ogni società attribuisce alla sua storia, e si accumulano le sue riserve di speranza. Esso dà alimento ai sogni e alle utopie, che esse siano proiettate nel passato, verso un'esemplare età dell'oro dalle attrattive illusorie, oppure nel futuro, in un avvenire che si auspica e per il quale accade di battersi. Esso alimenta le passività e le rassegnazioni, ma contiene in germe anche tutti i tentativi di riforma, tutti i programmi rivoluzionari, e la molla di tutti i bruschi mutamenti. Uno dei compiti principali che toccano oggi alle scienze dell’uomo è quindi quello di misurare, in seno a una totalità indissociabile di azioni reciproche, la rispettiva pressione delle condizioni economiche e, dall'altra parte, di un insieme di convenienze e di precetti morali, dei divieti che essi pongono e degli ideali che propongono. In questa impresa, si può considerare decisivo il contributo degli storici. Infatti i sistemi di valori, che i procedimenti educativi trasmettono in diversi modi senza cambiamento apparenti, da una generazione all'altra, non per questo sono immobili: hanno la loro storia, di cui l'andamento e le fasi non coincidono con quelli della storia della popolazione e dei modi di produzione. E’ proprio attraverso tali discordardanze che si possono discernere nella maniera più chiara le correlazioni tra le strutture materiali e le mentalità.

Si offre quindi allo studio degli atteggiamenti mentali, nella lunga come nella breve durata, un'area singolarmente vasta, senza la quale non si potrebbe scrivere la storia delle società. In questo campo, ancora mal esplorato e completamente aperto alle ricerche future, si inserisce necessariamente lo studio delle ideologie. Questo termine è vago, e l'uso che ne è stato fatto in politica ha reso ambiguo il suo significato. Lo storico deve prenderlo nel senso più ampio, liberandolo dalle connotazioni peggiorative di cui è spesso carico. Intendiamo per ideologia, alla maniera di Louis Althusser, «un sistema (che possiede una propria logica e un proprio rigore) di rappresentazioni (immagini, miti, idee o concetti a seconda dei casi) dotato di un'esistenza e di un ruolo storico in seno a una data società».

Così definite le ideologie presentano un certo numero di caratteristiche che è opportuno mettere subito in evidenza:

1. Appaiono come come sistemi completi e sono naturalmente globalizzanti, dal momento che pretendono di offrire della società, del suo passato, del suo presente, del suo futuro, una visione del mondo...

2. Le ideologie, che hanno come prima funzione quella di rassicurare sono, altrettanto naturalmente, deformanti. L’immagine che esse offrono dell’organizzazione sociale si
costruisce su un incastro coerente di inflessioni, di slittamenti, di deformazioni, su di una prospettiva, su un gioco di chiaroscuri che tende a velare certe articolazioni proiettando tutta la luce su altre, per meglio servire interessi particolari…

3. Ne consegue che, in una società data, coesistono molteplici sistemi di rappresentazioni, che, naturalmente, sono concorrenti. Queste opposizioni sono in parte formali e corrispondono all'esistenza di molteplici livelli di cultura. Esse riflettono soprattutto antagonismi che nascono talvolta dalla giustapposizione di etnie separate, ma che sono sempre determinati dalla disposizione dei rapporti di potere…

4. Totalizzanti, deformanti, concorrenti, le ideologie si dimostrano anche stabilizzatrici. È, ovviamente, il caso dei sistemi di rappresentazioni che mirano a conservare i vantaggi acquisiti dagli strati sociali dominanti; ma questa osservazione è ugualmente. valida per quelli, antagonisti, che riflettono, rovesciandoli, i primi. L'organizzazione ideale di cui fanno sognare le ideologie più rivoluzionarie è ancora effettivamente percepita, al termine delle vittorie che esse incitano a riportare, come qualcosa di stabile e definitivo: nessuna utopia chiama alla rivoluzione permanente.

Questa inclinazione alla stabilità deriva dal fatto che le rappresentazioni ideologiche partecipano alla pesantezza insita in tutti i sistemi, di valori. la cui ossatura è fatta di tradizioni. La rigidezza dei diversi organi di educazione, la permanenza formale degli strumenti linguistici, la potenza dei miti, l'istintiva reticenza nei confronti dell'innovazione che si radica nel più profondo dei meccanismi della vita ostacolano la possibilità che esse si modifichino sensibilmente nel corso del processo che le trasmette a ogni nuova generazione...”

Attraverso il Super-io, che interiorizza i valori e le ideologie di un determinato contesto sociale, si realizza la cattura della mente umana sul registro dell’appartenenza.

Ma sarebbe ingenuo rimanere fermi a questo aspetto e non considerare che, sotto la spinta di processi economico-sociali, la società evolve, sicché, fermo restando il lento scorrimento della mentalità tradizionale a livello di inconscio sociale, essa produce nuovi valori che possono entrare in conflitto con essa.

Abbiamo già visto in azione una situazione del genere analizzando i fenomeni isterici all’epoca di Freud e nel nostro tempo, accomunati dal riferimento ad una tradizione che non muore - quella per cui la donna si realizza solo attraverso il rapporto con l’uomo - e ad una protesta inconscia che finisce nel vicolo cieco della guerra tra i sessi.

Un’altra situazione, più recente, è legata al disagio adolescenziale contemporaneo, che è più intenso e pervasivo rispetto al passato. Per analizzare tale disagio, occorre tenere conto di molteplici fattori, ma qui mi limiterò a valutare quello che ritengo il più incisivo.

Come in ogni altra epoca della storia, bambini e adolescenti devono seguire una via evolutiva istituzionale per acquisire competenze che li mettano in grado di assumere ruoli e responsabilità da adulti. Nonostante i cambiamenti pedagogici facciano pensare che l’educazione è rivolta a promuovere una carriera evolutiva finalizzata alla produzione di soggetti liberi e autonomi, il realtà il tragitto istituzionale è normativo. Esso, in altri termini, assume lo studio istituzionale come strumento elettivo di emancipazione ed è finalizzato a promuovere l’integrazione sociale, vale a dire l’assunzione di un ruolo lavorativo che consenta all’individuo di raggiungere in primis l’autonomia economica.

Insistendo in questa direzione, le famiglie e gli insegnati si espongono al rischio di promuovere nei ragazzi una demotivazione allorché, essi, crescendo, scoprono che la promessa per cui lo studio porta all’autonomia è piuttosto aleatoria. Ma c’è di più.

Tra i 13 e i 18 anni, gli adolescenti scoprono che la vita degli adulti integrati che si barcamenano tra il lavoro e la famiglia è una vita sostanzialmente triste, sottesa dallo stress, dal nervosismo, da fluttuazioni continue dell’umore, da un inespresso ma percettibile malessere. Nel momento in cui si realizza questa scoperta, la sollecitazione a crescere e a diventare adulti viene vissuta come una spinta ad imboccare il tunnel di una vita sostanzialmente triste e frustrante. In alcuni casi, tale scoperta dà luogo ad un blocco repentino, che può assumere facilmente una dimensione psichiatrica. In molti casi, essa non modifica l’orientamento normativo acquisito, ma spinge l’adolescente verso i paradisi artificiali dell’eros, dell’alcol, della droga.

Freud avrebbe letto in questo fenomeno l’espressione del principio del piacere e il desiderio di recuperare l’onnipotenza narcisistica perduta.

Assumendo invece il codice della teoria dei bisogni, è facile interpretarlo come espressione di un bisogno di individuazione che non trova il giusto canale di scorrimento e finisce in vicoli per lo più ciechi.

Per una teoria struttural-dialettica della personalità

Utilizzando i dati forniti dalla psicoanalisi, dalla neurobiologia, dal post-evoluzionismo e dalla storia sociale, sembra possibile delineare una teoria della personalità dinamica e dialettica.

L’umanizzazione del cervello e le sue potenzialità ridondanti lasciano pensare ad una programmazione dello sviluppo evolutivo. tale programmazione è riconducibile, a mio avviso, ai bisogni intrinseci.

I bisogni di appartenenza/integrazione sociale e di opposizione/infdividuazione, che ho definito intrinseci, per sottolineare il loro fondamento genetico, sono forme affettivo-cognitive innate, riconducibili a programmazioni maturate nel corso dell’evoluzione della specie che, attivandosi in seguito all'interazione con l'ambiente, animano la coscienza "viscerale" di sé e dell'altro e, funzionando come attrattori psicobiologici, orientano lo sviluppo della personalità verso la definizione di un'identità personale capace di interagire dialetticamente con l'ambiente sociale sul registro dell'integrazione — che privilegia l'appartenenza dell'individuo al sistema —, e della differenziazione individuale — che privilegia la libertà personale (sia pur sempre relativa) in rapporto ad esso.

Invariante nella dotazione binaria, il corredo dei bisogni è rappresentato nei patrimoni genetici individuali secondo combinazioni le più varie riconducibili, forse, ad uno spettro ai cui estremi prevalgono tendenze "estroversive" all'integrazione sociale e tendenze "introversive" all'individuazione.

I bisogni intrinseci sono, dunque, programmi genetici, affettivamente connotati, il cui dispiegamento nel corso dell’evoluzione della personalità mira a promuovere l'appartenenza sociale, vale a dire l'acquisizione e la condivisione di un patrimonio comune di valori culturali, e l’individuazione, vale a dire la definizione di un’identità capace di rispondere alle richieste sociali in nome di valori appropriati e consentiti. Non è azzardato pensare che questo processo d’individuazione, che si realizza di fatto in virtù di strumenti cognitivi, si fondi su valori affettivi innati — quali la giustizia, la libertà, la pari dignità tra esseri umani — che configurano un codice psicobiologico di diritti naturali.

In quanto forme affettivo-cognitive, i bisogni fondamentali rappresentano gli assi di strutturazione della personalità e definiscono, in termini di equilibrio/squilibrio strutturale, i limiti funzionali di essa.

Dal punto di vista strutturale, i bisogni funzionano come “attrattori” che organizzano il caos dei flussi di informazione — di origine intrinseca ed estrinseca — in mappe cerebrali che, connettendo reciprocamente le strutture sottocorticali e le strutture corticali, consentono l'integrazione cognitiva della coscienza di sé e dell’altro. Dal punto di vista funzionale, che coincide con l'attività psichica, conscia e inconscia, tale integrazione promuove il definirsi di sistemi di significati che categorizzano il sé, l'altro e le configurazioni relazionali ago/antagonistiche — più o meno dialettiche — tra sé e altro.

La dinamica fasica dei bisogni — in perpetua tensione dialettica — e gli spazi sociali — dai livelli microsistemici interattivi agli orizzonti socioculturali — entro cui essi si dispiegano, fanno sì che le mappe cerebrali vadano incontro a processi di arricchimento e ristrutturazione, che esitano costantemente nella definizione di due sistemi di significati: l'uno concerne l'appartenenza sociale e il debito di appartenenza, il dover essere dell'individuo in quanto membro sociale, parte di un tutto; l'altro, l'identità personale, l'autocoscienza della differenziazione e della relativa autonomia rispetto al contesto sociale, il voler essere dell'individuo in quanto soggetto dotato di libertà.

Tali sistemi, sottesi dalla dinamica dei bisogni, che, come attrattori, continuano a funzionare al di là dell'epoca evolutiva, definiscono, con il loro grado di complementarietà e/o di conflittualità, la fenomenologia dell'esperienza soggettiva e della visione del mondo — interno ed esterno — su cui essa fonda la propria stabilità strutturale.

L’uomo, dunque, è un animale radicalmente sociale dotato della consapevolezza di avere un’identità individuale e di essere distinto da tutti gli altri. Egli ha dunque una doppia natura che comporta naturalmente un qualche grado di tensione tra appartenenza sociale e identità individuale. Tale tensione non solo implica che la doppia natura dell’uomo debba esser ricondotta a due bisogni intrinseci – d’appartenenza/integrazione sociale e d’opposizione/individuazione -, vale a dire a due diversi programmi depositati nel corredo genetico che presiedono all’evoluzione della personalità, ma anche che tali programmi siano riconducibili a due logiche diverse: la prima – sistemica – assume l’individuo come membro o parte di una totalità, la cui funzione è di assolvere i doveri inerenti i suoi ruoli all’interno del gruppo o della società; la seconda – differenziante – fa viceversa riferimento all’individuo come ente distinto da tutti gli altri e dotato di diritti suoi propri.

Compatibile con i dati neurobiologici, la teoria dei bisogni intrinseci lo è anche anche con i dati acquisiti nell'ambito della psicologia evolutiva, soprattutto per quanto riguarda le scoperte, in una certa misura rivoluzionarie, maturate nell'ambito della infant research. Sia la predisposizione sociale ormai universalmente riconosciuta al bambino a partire da Bolbwy (Attaccamento e perdita, Boringhieri, Torino 1976-1983) e Winnicott (Dalla pediatria alla psicoanalisi, Martinelli, Firenze 1958), sino a M. Mahler (La nascita psicologica del bambino, Boringhieri, Torino 1975), D. N. Stern (Il mondo interpersonale del bambino, Bollati Boringhieri, Torino 1987) e R. N. Emde (Gli affetti nello sviluppo del sé infantile, in Affetti, a cura di M. Ammaniti e N. Dazzi, Laterza, Bari 1990), attestata da una precocissima ricerca di relazione oggettuale e di sintonizzazione con i curanti; sia l'attribuzione al bambino, promossa soprattutto dagli studi di M. Mahler, di una "pulsione" alla separazione e all'individuazione, attribuzione più o meno esplicitamente confermata da tutti gli studiosi, e anticipata intuitivamente da Winnicott, rappresentano inconfutabili prove a favore della teoria dei bisogni.

Ciò detto, occorre riconoscere che la teoria dei bisogni, nonché compatibile con i dati della psicologia evolutiva sperimentale, sia ad indirizzo psicoanalitico, che cognitivo, si pone rispetto ad essi, e soprattutto alle teorizzazioni cui hanno dato luogo, in funzione critica e propositiva.

Due aspetti a riguardo vanno rilevati.

Se è vero che i dati, forniti da una sperimentazione che oggettiva i comportamenti infantili precoci e inferisce da ciò i processi costruttivi della personalità, consentono di integrare scientificamente e, per molteplici aspetti, di correggere le ricostruzioni ricavate dalla pratica psicoanalitica; se è vero, in altri termini, che il "bambino osservato" appare radicalmente diverso dal "bambino clinico", soprattutto per quanto concerne le ricostruzioni che, da Freud a M. Klein, vertono sulla pulsione aggressiva, non si può negare che quei dati comportano il rischio di un'ideologizzazione più o meno radicalmente ristretta all'interazione duale madre-bambino.

Come non vi può esser dubbio, ormai, che la sintonizzazione affettiva tra bambino e ambiente familiare rappresenti un fattore decisivo del processo evolutivo precoce che esita nella nascita dell’Io e nel riconoscimento della differenza “irrimediabile” tra Io e Altro, attribuire a questa nascita e a questo riconoscimento un significato fondamentale nella genesi delle esperienze psicopatologiche, costringe la teoria psicopatologica in un ambito angusto. Il riduzionismo pedomorfo, ideologicamente implicito nella teoria psicopatologica elaborata a partire dall'infant research, che assegna alle fasi precoci dello sviluppo un significato decisivo per il raggiungimento di un assetto di personalità normale (o anormale), enfatizzando il ruolo dell’affettività trascura l’importanza dell’acquisizione dei valori culturali e della necessità di una loro elaborazione ai fini del raggiungimento di una identità personale autentica. Trascura, insomma, il problema della doppia natura umana e delle diverse logiche che essa comporta.

In un’ottica che valorizza questo aspetto, il periodo decisivo nell’evoluzione della personalità non sono i primi anni, bensì l’adolescenza nel corso della quale la tensione tra il Super-Io e l’Io antietico può lentamente risolversi o esitare, a livello inconscio, in una scissione più o meno intensa.

Non si sottolineerà mai abbastanza questo aspetto che, al di là delle inverificabili interpretazioni fornite a partire dalla teoria delle relazioni oggettuali, consente di ricondurre tutte le esperienze psicopatologiche ad una crisi adolescenziale non risolta, inconseguenza o di un persistente predominio del Super-io o, più raramente, di una spinta da parte dell’Io antitetico che rimane attestata sul registro della negazione dei doveri sociali e della trasgressione. Un’adolescenza abortita o, viceversa, un’adolescenza “maligna, sono di fatto le circostanze che si ricostruiscono costantemente e dettagliatamente nel corso dell’analisi, quale che sia la fenomenologia psicopatologica.

Un secondo aspetto, correlato al primo, concerne l'isolamento del processo evolutivo della personalità e del contesto familiare e/o istituzionale (asili-nido, istituti d'infanzia) entro cui esso si realizza rispetto alla storia e al sistema sociale. La valorizzazione ideologica delle interazioni affettive, ristretta alla diade madre-bambino, nella pressoché assoluta ignoranza del significato storico che essa assume nel contesto della nuclearizzazione dell'istituzione familiare (sperimentazione prodotta dai cambiamenti sociali sociale, ma con rischi che, già oggi, appaiono superiori ai vantaggi), comporta il misconoscimento sia delle componenti biografiche e storico-sociali che incidono nel determinare il comportamento materno, e nel dare ad esso un significato più spesso proiettivo che "naturale", sia del fatto che l'allevamento del bambino, pur affidato giuridicamente dalla società alla famiglia, rientra inesorabilmente nell'ambito di un modo di produzione — la produzione antropologica — che, per quanto non programmato, è comunque determinato dalla logica dei processi sociali, e, attraverso la deriva dei gruppi di appartenenza, si rifrange inesorabilmente nelle strategie e negli obiettivi che le famiglie perseguono investendo le loro risorse — economiche, emozionali e culturali — nell'allevamento dei figli.

Da questo punto di vista, le interazioni affettive, pur fondamentali nel promuovere la nascita del Sé psicologico, risultano necessariamente funzionali, e, da una certa epoca dello sviluppo, subordinate alla costruzione di una personalità idonea e/o adattata al sistema sociale nel quale la famiglia si impegna, con il concorso attivo del soggetto, ad integrarla, vedendo in questo obiettivo l'esaurimento del suo compito istituzionale. Da questo punto di vista, i legami affettivi, che già di per sé indebitano, vanno considerati anche come canali di indebitamento ideologico. Il conflitto tra debito affettivo (che non esclude, in molte circostanze, un credito del soggetto) e debito ideologico appare un aspetto strutturale e dinamico specifico e essenziale a livello della psicopatologia adolescenziale e adulta. È un aspetto solo embrionalmente presente, e il più spesso sotto forma di interazioni viscerali del bambino con aspettative genitoriali eccessivamente coercitive e/o esattive riferite a valori culturali impliciti, nelle fasi precoci dello sviluppo sino a 2-3 anni.

Ciò significa che se i dati della psicologia evolutiva sperimentale possono essere facilmente integrati nella teoria dei bisogni, che essi corroborano, non è vero il contrario. La teoria dei bisogni, in quanto teoria dialettica della natura umana e dei rapporti tra natura e cultura, ha un'ottica di più ampio respiro rispetto alla infant research, e può forse contribuire, nonché a dare ai risultati da questa raggiunti un significato meno riduttivo, a mettere a fuoco ipotesi di ricerca, atte ad integrare neurobiologia e psicologia evolutiva, di grande interesse.

Il rivoluzionario conservatore

Arrivati a questo punto, riesce chiaro che completare l’opera di Freud significa scindere il nesso che si dà nel suo pensiero tra l’aspetto rivoluzionario e quello conservatore: l’ossimoro che ha dato l’avvio a queste letture.

Per operare tale scissione, occorre considerare che dei due aspetti più importanti della teoria freudiana – lo statuto mistificato della coscienza e la presenza, al fondo della natura umana, di un’eredità ancestrale “animalesca” - il secondo, più immediatamente comprensibile del primo, si integrava alla perfezione con l’ideologia borghese che già all’epoca era egemone. Dimostrando che l’uomo, senza colpa alcuna, viene al mondo con un bagaglio pulsionale caratterizzato da un cieco egoismo, dalla tendenza a perseguire il piacere individuale senza tener conto delle esigenze sociali e da una smodata aggressività, Freud in fondo, pur assegnando alla civiltà il compito di tenere a freno a natura umana, giustificava i presupposti di fondo del sistema socio-culturale cui apparteneva, già da tempo pervaso dagli “spiriti animali” sprigionati dal capitalismo.

Iconoclasta per un verso, in rapporto alla già declinante moralità vittoriana, il pensiero freudiano era fin troppo integrato con la concezione borghese dell’uomo per poter essere respinto da una società che si andava rapidamente conformando a quella concezione.

La sostanziale e relativamente rapida accettazione del pensiero freudiano è dunque avvenuta sulla base di un’enfatizzazione del suo aspetto più caduco – la concezione pulsionale della natura umana – e di una relativa rimozione, cresciuta nel corso del tempo, dell’aspetto più autenticamente rivoluzionario, identificabile nella mistificazione intrinseca al funzionamento della coscienza.

In realtà, il contributo più importante di Freud alla cultura consiste nell’avere illuminato la struttura complessa del mondo interiore, sottostante la coscienza, contestando le pretese certezze dell’Io di poterlo dominare attraverso la ragione.

Egli, però, in conseguenza della teoria pulsionale, è stato spinto a riconoscere la necessità del mantenersi di un certo grado di repressione. L’Io non è padrone in casa sua perché gran parte dei contenuti rimossi sono a tal punto allusivi alla sua cieca “pulsionalità” che, prendendone coscienza, egli rimarrebbe inorridito. Dovrebbe cioè prendere atto del suo essere schiavo delle pulsioni, e compensare questa consapevolezza accettando il principio di realtà, vale a dire le temibili conseguenze sociali di un suo abbandono ad esse, fino al punto di rassegnarsi alla frustrazione. L’unico rimedio, nell’ottica freudiana, alla schiavitù pulsionale, da ultimo, è il riconoscimento del controllo sociale, cioè del potere dei molti rispetto all’uno.

E’ per sfuggire alla duplice consapevolezza di essere schiavo dell’Es per un verso e dell’ordine sociale per un altro che l’Io deve mantenere in una certa misura la mistificazione di essere padrone di sé. Certo egli può procedere verso un allentamento della mistificazione e uno stato di maggiore autenticità, ma solo al prezzo di riconoscere il peso, nel suo mondo interiore, di una selvaggia bestialità, e il peso, appena minore, della paura della rappresaglia sociale. Al limite estremo, l’autenticità implicherebbe il riconoscimento da parte del soggetto che, se fosse libero dal controllo sociale, egli non avrebbe alcun freno nel dare sfogo alle sue passioni e, da ultimo, alla sua autodistruttività.

Se si pone da parte il riferimento all’Es, vale a dire ad un fondo pulsionale del quale l’uomo non può prendere coscienza se non orripilando, il problema della mistificazione va evidentemente interpretato in maniera diversa rispetto a quanto ha fatto Freud. Esso infatti sembra ricondursi a diversi fattori sommati tra loro.

Un primo fattore è di ordine neurofisiologico. Nel produrre il cervello umano, la Natura sembra avere esagerato. Si tratta infatti di un organo che contiene circa cento miliardi di neuroni tra i quali si danno un numero di connessioni, e quindi di canali atti a far scorrere impulsi identificabili con sensazioni, percezioni, emozioni, fantasie, memorie, pensieri, emozioni, il cui numero è una potenza che eccede l’immaginazione. Questo ininterrotto e iperattivo lavorio della mente non potrebbe essere in alcun modo contenuto dalla coscienza,

Si danno dunque due difese che si possono ritenere semplicemente funzionali: la prima riguarda il bombardamento che il cervello subisce da parte del mondo esterno, misurabile all’incirca in ventimila stimoli al secondo, e si realizza attraverso l’estinzione selettiva automatica del 95% di essi; la seconda concerne il mondo interno e si identifica con un velo di rimozione, per cui essa non sa o sa ben poco di ciò che avviene al di sotto di esso.

C’è un parallelismo, che mi ha sempre suggestionato, tra mente e corpo. Se la natura ci avesse dotato di una pelle trasparente (alcuni animali ce l’hanno) noi avremmo potuto vedere direttamente o attraverso uno specchio tutto ciò che avviene normalmente nel nostro organismo, che, in maniera analoga all’apparato mentale, funziona ininterrottamente. Una situazione del genere ci avrebbe presumibilmente terrorizzati (e infatti terrorizza il solo pensarci). L’epidermide svolge, in rapporto al corpo, la stessa funzione che la rimozione svolge al confine tra coscienza e inconscio.

Questo aspetto è importante, ma non è forse il più importante. Si danno almeno altri tre fattori che alimentano la mistificazione.

Il primo è legato al fatto che la complessità del cervello umano comporta, a livello intuitivo prima ancora che cognitivo, una quota di ansia esistenziale dovuta alla consapevolezza della vulnerabilità, della precarietà, della finitezza e del destino mortale. Tale ansia, anche se non può mai essere del tutto rimossa, postula una repressione che la mantenga fuori o ai margini del campo di coscienza.

Il secondo è riconducibile al patrimonio delle memorie che si può ritenere smisurato. Ogni memoria è la registrazione di uno o più eventi significativi, associati dunque ad una carica emozionale. In quanto contenuti psichici, le memorie sono sempre presenti dentro di noi. Alcune possono essere richiamate dalla coscienza, ma si tratta di un numero minimo. Gran parte delle memorie si mantengono nell’ombra. Alcune di esse possono affiorare repentinamente e spontaneamente, altre, se anche si attivano, rimangono comunque al di fuori della coscienza.

E’ a queste ultime in particolare che Freud ha posto attenzione per un motivo molto semplice. Per quanto esclude dalla coscienza, sono proprio esse ad avere una grande incidenza sullo stato d’animo e su comportamento del soggetto. Perché dunque la coscienza non può riconoscerle e deve far “finta” che esse non esistano?

La risposta di Freud è inequivocabile. La rimozione è una difesa. Le memorie in questione, infatti, o fanno riferimento ad eventi dolorosi e traumatici che il soggetto preferisce dimenticare o si intrecciano con le vicissitudini pulsionali di cui egli si vergogna.

Se si pone tra parentesi la teoria delle pulsioni, è evidente che la paura e la vergogna, che costringono ogni soggettoa "ritoccare" l'immagine di sé, sono la conseguenza di determinati valori culturali che negativizzano e pregiudicano contenuti psichici che hanno un significato umano.

E’ facile portare un esempio a riguardo. Alcuni soggetti sono costretti a rimuovere le emozioni negative (rabbia, odio, vendetta) in virtù del fatto che, alla luce di valori morali spesso di origine religiosa o perbenistica, esse si configurano come colpevoli o mostruose. In quanto emozioni, quelle negative di fatto hanno la stessa dignità e naturalezza di quelle positive, Non si può essere innocenti fino al punto di non provarle: si può tutt’al più essere morali quanto basta ad esprimerle in maniera da non danneggiare troppo l’altro.

Il terzo fattore è, invece, più complesso, e del tutto estraneo al pensiero freudiano. L’ossessione dell’unità e della coerenza dell’Io urta costantemente contro un dato inerente la natura umana, che io penso di aver valorizzato al massimo grado. La verità è che l’uomo ha due nature: per un verso, quella di un animale radicalmente sociale, che ha bisogno di identificarsi con gli altri, di appartenere ad un gruppo e di essere riconosciuto e confermato dagli altri; per un altro, quella di un animale dotato della consapevolezza di essere distinto da tutti gli altri, di avere un’identità sua propria, e di avere un bisogno insopprimibile di agire liberamente, vale a dire in nome della volontà propria.

Queste due nature non sono irrimediabilmente incompatibili tra loro, non destinano l’uomo ad una scissione e ad un conflitto permanente. Esse però sono dotate di logiche loro proprie e di un potere dinamico tale per cui la loro integrazione richiede non solo una lunga evoluzione, ma anche uno sforzo costante da parte dell’Io per riconoscerle e per elaborarle.

In difetto di tale sforzo, che dipende in parte dalla programmazione sociale e in parte dagli strumenti culturali di cui il soggetto dispone, la tensione tra le due nature e le logiche ad esse intrinseche promuove facilmente la tendenza dell’io ad attribuirsi un’unità e una coesione che si fondano però sulla rimozione del problema.

Tra questi due fattori si dà un’intima relazione. Le vicissitudini interiori che Freud ha infatti ha attribuito alle pulsioni concernono infatti le due logiche in questione e i diversi bisogni che esse tendono a soddisfare.

La teoria dei bisogni assolve consente di interpretare la complessità dell’apparato mentale senza cadere nello smarrimento di una dimensione irriducibile al pensiero scientifico.

La complessità dell’apparato mentale si può ritenere una conseguenza della scoperta freudiana dell’inconscio. Tale scoperta porta a concepire l’inconscio come uno spazio mentale gravido di memorie, di emozioni, di fantasie e di contenuti di pensiero che interagiscono tra loro e si organizzano sotto forma di motivazioni le più disparate. Tra le motivazioni si dà un sottile gioco dinamico teso a dare ad esse un’organizzazione gerarchica tale che solo la più potente o una combinazione di motivazioni affini possa affiorare a livello cosciente fornendo all’Io la spinta per agire un determinato comportamento.

Il caos che vige a livello inconscio è, però, solo apparente perché, per quanto disparate, le motivazioni, che possono avere una loro autonomia per quanto concerne il rapporto che il soggetto intrattiene con il mondo delle cose, con la natura e con gli oggetti culturali, tendono, per quanto riguarda la relazione tra io e Altro o mondo sociale, a confluire nelle due logiche intrinseche ai bisogni.

Ponendo in luce l’importanza primaria della relazione tra Io e Altro, la teoria dei bisogni implica che gran parte dell’attività inconscia sia caratterizzata da una perpetua ricerca di equilibrio tra appartenenza e individuazione, doveri sociali e diritti individuali, volontà propria e volontà altrui, ecc.

Nella nuova cornice offerta dalla teoria dei bisogni intrinseci, gran parte del pensiero freudiano, depurato dei suoi presupposti pulsionali, può essere recuperato e valorizzato come una potente intuizione della logica motivazionale che sottende e anima l’apparato mentale umano. Mettendo tra parentesi quel presupposto, si giunge anche alla conclusione, estranea a Freud, che quella logica, che si fonda su di una doppia natura, spinge perpetuamente l’uomo nella direzione della ricerca di un equilibrio, che solo l’Io, però, aiutato dalla cultura e dal sistema sociale, può trovare.

Se questo è vero, se cioè Freud, senza rendersene conto, ha scoperto che l’uomo è un animale perennemente inquieto perché, data la sua doppia natura, non trova pace finché non raggiunge una condizione di equilibrio nel suo sviluppo individuale e sociale, c’è da chiedersi perché tale verità è rimasta a tal punto avulsa dal senso comune che ancora oggi nessuna società è programmata per favorire tale sviluppo, e le diverse culture esistenti sul pianeta possono facilmente essere distribuite su di uno spettro che va dalla polarità che privilegia il comunitarismo a quella opposta che esalta l’individualismo, e che riconosce una paurosa lacuna nella banda intermedia, laddove si darebbe una cultura integrata.

La risposta non è affatto semplice, poiché essa dovrebbe tenere conto di una serie indefinita di fattori storici, culturali, ambientali, ecc.

Non si va lontano dal vero però ipotizzando che, per quanto ogni individuo sappia di partecipare alla socialità e di avere una sua identità differenziata da tutte le altre, il riconoscere, alla base del suo essere una doppia natura, tale che l’Io e l’Altro sono, al limite, nella profondità dell’inconscio, una cosa sola, determini una sorta di rimozione primaria, avallata dalla cultura.

Tale riconoscimento, infatti, equivarrebbe ad accettare che l’uomo è il risultato di un azzardo dell’evoluzione, che ha prodotto un essere naturalmente “dissociato” il quale, per diventare “se stesso”, oltre ad essere aiutato dalla cultura, deve impegnarsi molto e pagare il prezzo di una qualche sofferenza per raggiungere una soglia minima di integrazione.

La difficoltà di accettare questa verità permette di comprendere che la coscienza continui ad alimentare la mistificazione che restituisce ad essa un’unità e una coesione che, di fatto, non si dà mai del tutto.

La crisi della ragione e il nuovo umanesimo

La grandezza di Freud sta nell’avere denunciato, sulla scia di Nietzsche, il carattere illusorio, precario e contraddittorio dell’Io cosciente con le sue pretese di unità, continuità nel tempo e coesione, e nell’avere dimostrato che, al di sotto di esso, si dà un universo mentale ridondante - l’inconscio - che, nonostante le singolari logiche che lo caratterizzano, contiene, con i contenuti rimossi con i quali l’Io non intende fare i conti, indefinite potenzialità “creative”.

Se si prescinde dal meccanicismo implicito nella teoria pulsionale, che comporta, sul piano terapeutico, semplicemente l’allargamento della sfera cosciente affinché essa riconosca ed elabori i contenuti rimossi e assuma una piena consapevolezza di quanto di “selvaggio” si dà nell’inconscio, il riferimento al cervello ridondante può consentire di intravvedere, al di là della crisi della Ragione, cui Freud ha contribuito in maniera rilevante, la possibilità di un nuovo umanesimo.

Occorre, a tal fine, distinguere nell’inconscio due aspetti.

In quanto programmato sulla base dei bisogni intrinseci, il cui sviluppo dà luogo alla costruzione del Super-io e dell’io antitetico, l’inconscio rappresenta il fondamento della strutturazione dell’Io, il cui ruolo è per l’appunto di mediare tra la logica dell’appartenenza e quella dell’individuazione. La mediazione dell’io accade spesso inconsapevolmente sotto forma di adesione spontanea e non riflessiva alla logica dominante nel contesto storico-sociale.

Allorché, nel corso dell’evoluzione della personalità, si realizza, tra Super-io e Io antitetico, un conflitto psicodinamico, si pongono le premesse per il prodursi di una sintomatologia psicopatologica. Come Freud ha intuito, i sintomi rappresentano formazioni di compromesso tra le polarità in conflitto, che l’io subisce ma alle quali contribuisce assumendo un atteggiamento di connivenza con una delle polarità.

Un conflitto psicodinamico crea una situazione di turbolenza interiore che coinvolge tutto l’inconscio, il quale investe tutte le sue potenzialità nel tentativo di risolvere il conflitto stesso.

Questo è l’inconscio che Freud ha esplorato: l’inconscio coinvolto nell’amministrazione di un conflitto e, spesso, letteralmente “intossicato” da esso.

Indipendentemente dai conflitti psicodinamici, però, l’inconscio ha una sua vitalità e creatività che va riferita alle potenzialità exattate di cui dispone. Ciò significa che, nel corso delle fasi evolutive, ma anche al di là di esse, esso opera una pressione costante nella direzioni di un dispiegamento sempre più ampio di quelle potenzialità, gran parte delle quali sembrano strettamente intrecciate con i bisogni intrinseci.

Per questo aspetto, l’inconscio si può ritenere depositario di un potenziale evoluzionistico che va al di là dell’adattamento. Questo aspetto è assolutamente evidente se si tiene conto della produzione artistica, che muove quasi sempre da una motivazione inconscia e si realizza sulla base dell’ispirazione, vale a dire di uno scorrimento di contenuti creativi entro i canali della Ragione.

Occorre considerare però che nell’inconscio sono radicati anche i bisogni intrinseci che veicolano valori che fanno capo alla libertà, alla dignità umana e al senso di giustizia.

Se questo è vero, una valorizzazione dell’inconscio dovrebbe comportare una programmazione sociale atta a promuovere uno sviluppo adattivo dell’individuo al mondo così com’è, ma anche uno sviluppo incentrato sul desiderio dell’individuo di migliorare perpetuamente se stesso sia sul piano della partecipazione sociale che dell’individuazione.

Occorrerebbe, insomma, programmare una società che, andando al di là del fine univoco dell’integrazione sociale, che sottende la nostra, restituisca agli esseri umani il dovere di vivere e di svilupparsi per godere della loro realizzazione, per ottenere sempre più ampi riconoscimenti sociali del loro valore umano e per porre le basi di un salto di qualità della civiltà umana sulla via dell’umanizzazione.

In questa ottica, un passaggio assolutamente necessario consisterebbe nell’istillare nelle persone, fin dalle fasi evolutive della personalità, una fiducia relativa nell’Io cosciente e una disposizione ad evolvere attraverso la scoperta delle contraddizioni che si esprimono a livello di comportamento. Si tratterebbe insomma di indurre la percezione dell’uomo come un essere perennemente in divenire attraverso la storia.

Affrancato dalla teoria pulsionale, l’inconscio ridondante scoperto da Freud sembra insomma recepire sia l’istanza darwiniana di un essere prodotto dall’evoluzione naturale, ma dotato di potenzialità mentali straordinarie, sia l’istanza nietzschiana di un’individuazione che libera gli esseri umani dall’omologazione e dall’anonimizzazione normativa, sia l’istanza marxiana dell’uomo totale che realizza al massimo grado la sua individualità riconoscendo, però, che ciò è possibile solo in nome dell’appartenenza sociale.

Mi sembra che questa conclusione, che va approfondita, dia senso al faticoso tragitto che abbiamo fatto in questi anni.