Letture freudiane

Lettura II

La scoperta della psicoanalisi

«Per aderire alla teoria psicoanalitica bisognava avere una notevole disponibilità ad accettare un destino al quale nessun altro è avvezzo come un ebreo: è il destino di chi sta all'opposizione da solo»

                                                                      (Resistenze alla psicoanalisi, 1925)

«Poiché ero ebreo mi ritrovai immune dai molti pregiudizi che limitavano gli altri nell'uso del loro intelletto e, in quanto ebreo, fui sempre pronto a passare all'opposizione e a rinunciare all'accordo con la «maggioranza compatta»

                                                                      (Discorso ai membri della Associazione B'nai B'rith, 1926)

 

Indice
Dal laboratorio all’osservatorio psicoanalitico
L’incidente
Freud tra integrazione sociale e individuazione
Il continuum psicopatologico e l’angoscia
Il principio del piacere e l’Edipo
Controvolontà e scissione dinamica
L’isteria oggi
Dal laboratorio all’osservatorio psicoanalitico

In età matura, Freud scrive:

“Dopo quarantun anni di attività medica, la conoscenza che ho di me stesso mi dice che non sono mai stato un medico nel vero senso della parola. Lo sono diventato dopo essere stato spinto a deviare dai miei propositi originari, ed il più grande successo della mia vita consiste per me nell'esser tornato sui miei primi passi dopo un viaggio lungo e tormentato. Non mi risulta che da giovane io abbia avuto un sincero desiderio di aiutare l'umanità sofferente. Le mie tendenze sadiche innate non erano molto forti, e perciò non ho avuto bisogno di coltivare la medicina, che ne è una derivazione. Non ho mai giocato "ai dottori" perché evidentemente la mia curiosità infantile aveva scelto altre vie. Invece nella mia gioventù ho sentito un bisogno prepotente di capire qualcosa degli enigmi del mondo in cui viviamo, e forse anche di contribuire un poco alla loro soluzione. Il mezzo più opportuno per raggiungere questo fine mi sembrò quello di iscrivermi alla facoltà di medicina. Anche allora mi cimentai - senza successo - con la zoologia e la chimica, finché alla fine, sotto l'influenza di Brücke, la cui enorme autorità mi influenzò più di ogni altra nella vita, mi dedicai alla fisiologia, che però a quei tempi era troppo strettamente limitata all'istologia.

A quell'epoca, pur avendo già superato tutti gli esami, nessuna branca della medicina mi aveva particolarmente attratto. Finalmente il maestro che rispettavo così profondamente mi fece capire che, date le mie ristrette possibilità materiali, non avrei mai potuto intraprendere una carriera teorica, e così passai prima dall'istologia del sistema nervoso alla neuropatologia e quindi, sollecitato dalla novità, cominciai ad occuparmi delle nevrosi. In ogni modo non credo che la mia mancanza di un temperamento medico genuino abbia procurato molti danni ai miei pazienti, poiché non torna molto a vantaggio dei malati che l'interesse terapeutico del medico abbia un accento emotivo troppo marcato. I risultati sono molto migliori se egli svolge il suo lavoro freddamente e, nei limiti del possibile, con precisione."

E. Jones, autore di una monumentale biografica (Vita e Opere di Freud, il Saggiatore, Milano 1962) che, in realtà, è un’agiografia, commenta la citazione in questi termini:

“Una curiosità di questo genere si può concentrare sugli enigmi dell'esistenza e dell'origine dell'uomo, o viceversa estendersi alla natura dell'intero universo: per Freud si trattava evidentemente del primo caso. Inoltre questa curiosità può essere soddisfatta attraverso la speculazione filosofica oppure la ricerca scientifica. Sappiamo quale di queste due vie Freud abbia effettivamente seguito.” (vol. 1, p. 58)

Jones aderisce, dunque, alla stessa convinzione freudiana di aver affrontato lo studio dei fenomeni mentali con una metodologia scientifica. In realtà, la cosa è piuttosto controversa. Ne fanno fede alcune citazioni tratte dall’Autobiografia del 1924:

“[Da giovane] non sentivo alcuna particolare predilezione per la professione medica, come del resto neppure in seguito. Piuttosto ero mosso da una specie di brama di sapere che si riferiva però più ai fenomeni umani che agli oggetti naturali, e che inoltre non aveva ancora riconosciuto il valore dell'osservazione come suo principale mezzo di appagamento. Lo studio precoce e approfondito della storia biblica, iniziato appena ebbi imparato a leggere, ha avuto, come potei riconoscere molto tempo dopo, un peso considerevole nel determinare l'indirizzo dei miei interessi.”

“Nei lavori dei miei ultimi anni (Al di là del principio del piacere, Psicologia collettiva e analisi dell'Io, L'Io e l'Es) ho dato libero corso alla mia tendenza alla speculazione, così a lungo contenuta.”

“Non vorrei aver suscitato l'impressione che in questi miei ultimi lavori abbia voltato le spalle all'osservazione paziente per dedicarmi completamente alla speculazione. È vero piuttosto che sono sempre rimasto in intimo contatto con il materiale analitico e non ho mai smesso di occuparmi di temi ben precisi, di natura clinica o tecnica. Anche quando mi sono allontanato dall'osservazione ho sempre evitato con cura di avvicinarmi alla filosofia vera e propria. Un'incapacità costituzionale mi ha reso molto più facile questa astensione...”

I primi passi di Freud avvengono, dunque, sul terreno dello studio della Bibbia e dei testi classici, rivolto a risolvere gli enigmi dell’esistenza. Ad essi Freud ritorna negli ultimi anni di vita dando libero corso alla sua tendenza alla speculazione. Tale speculazione, però, a suo avviso, è supportata da dati empirici tratti dall’interazione comunicativa con i pazienti, tal che egli è convinto di non allontanarsi troppo dal piano scientifico.

Sul rapporto tra Psicoanalisi e Scienza ritornerò ulteriormente.

A questo punto, per andare al di là dell’agiografia di Jones, piuttosto fastidiosa nel suo intento di costruire un mito (all’ombra del quale esaltare il proprio narcisismo: pratica oltremodo diffusa tra gli analisti ancora oggi), o meglio per valutare l’effettiva grandezza di Freud, occorre partire da qualche nota biografica.

Sigmund Freud nasce nel 1856 a Freiberg (ora Příbor), in Moravia (che attualmente fa parte della Repubblica ceca).

La famiglia di Freud, di antica tradizione ebraica (il bisnonno e il nonno paterno sono rabbini) ha una composizione un po’ particolare. Il padre Jacob, un modesto commerciante di lana, che ha già figli grandi ed è nonno, contrae a quarant’anni un secondo matrimonio con Amalie Nathanson, che ne ha appena venti. Quando nasce, Sigmund è zio di un nipote che ha alcuni mesi più di lui.

Primogenito di Amalie, egli ne diventa subito il beniamino, e tale rimarrà per tutta la vita.

Le condizione della famiglia non sono agiate e, nel corso degli anni, tendono a peggiorare in conseguenza della crisi dell’industria tessile e dell’antisemitismo crescente in Moravia. Per questi motivi, la famiglia di Freud decide di trasferirsi a Vienna.

Sigmund eccelle negli studi e consegue a 17 anni il diploma con una nota di merito. Ha una buona preparazione umanistica, è un assiduo lettore della Bibbia (anche se il padre non è praticante) e avverte un forte interesse per le scienze, soprattutto per la biologia darwiniana. E’ questo interesse che lo induce a iscriversi a medicina anziché a giurisprudenza. Sorprendentemente, però, gli studi vanno a rilento. Freud giustifica questo con l’insoddisfazione per un insegnamento che egli ritiene piuttosto noioso. In realtà comincia a soffrire in questo periodo di una serie di disturbi psicosomatici che lo accompagneranno fino all’età di quaranta anni.

Le cause di tali disturbi sono complesse. Una di esse è, di sicuro, la dolorosa scoperta della sua condizione di ebreo:

“Mi feriva l'idea che per il fatto di essere ebreo dovessi sentirmi inferiore e straniero rispetto agli altri. Rifiutavo assolutamente l'idea d'inferiorità. Non ho mai capito perché avrei dovuto vergognarmi della mia origine, o, come già allora si cominciava a dire, della mia razza. Rinunciai anche, senza gran dispiacere, alla nazionalità, che mi veniva negata. Pensavo che un lavoratore instancabile, pur privo di una identità nazionale, avrebbe trovato comunque un posticino all'interno dell'umanità. Ma queste prime impressioni dei tempi dell'università ebbero in seguito la conseguenza importante di abituarmi fin da principio al destino di stare meglio nelle file dell'opposizione e all'ostracismo della "maggioranza compatta".”

Un’altra scoperta riguarda i limiti attitudinali che mortificano la sicurezza nei suoi mezzi accumulata nel corso degli studi inferiori:

“Dovetti rendermi conto che la peculiarità delle mie doti naturali e la loro limitatezza mi impedivano di ottenere qualsiasi successo in molte materie scientifiche sulle quali mi ero gettato con giovanile e presuntuoso entusiasmo.”

Riesce a laurearsi solo nel 1881 a venticinque anni. Intende intraprendere la carriera del ricercatore universitario, ma ha bisogno di guadagnare. Frequenta l’ospedale prima in un reparto di chirurgia, poi di medicina interna, approdando infine a quello di psichiatria. Spera di sistemarsi colà e di dedicarsi all’attività privata. Ma non ottiene il posto di assistente, e il suo futuro rimane precario.

Nel 1885, conseguita la docenza in neuropatologia, ha un’illuminazione. Legge le ricerche sull’ipnosi che Charcot a Parigi sta portando avanti sull’isteria e, ottenuta una borsa di studio, vi si trasferisce.

Charcot lo affascina, gli schiude un mondo, ma Freud non è soddisfatto. Egli intuisce che dietro i fenomeni isterici ci sono idee, rappresentazioni, ricordi, affetti: contenuti psichici, insomma.

Tornato a Vienna incontra casualmente Joseph Breuer, che ha avviato esperienze di trattamento ipnotico fondate sulla convinzione che se il soggetto riesce a rievocare i ricordi traumatici che hanno prodotto i sintomi isterici, questi tendono a scomparire. Freud lo segue su questo terreno per alcuni anni, nel corso dei quali si convince che i ricordi traumatici sono sempre di natura sessuale. Prende atto però che l’effetto dell’ipnosi è transitorio. I sintomi, dopo qualche tempo, tendono a comparire di nuovo.

Si chiede se non sia possibile trovare un altro metodo per fare affiorare i ricordi traumatici senza realizzare uno stato di coscienza ipnotico. Alla fine decide di far sdraiare il paziente su di un lettino, di mettersi alle sue spalle e di sollecitarlo a comunicare qualunque cosa gli venga alla mente, senza adottare alcuna censura. Con il metodo delle libere associazioni, che Freud utilizza per ricostruire e interpretare la storia interiore del soggetto, e fargli rivivere il passato, e con la sollecitazione a lui rivolta di riferire i sogni, materiale che Freud ritiene particolarmente prezioso, in quanto viene dal “profondo”, nasce la psicoanalisi.

C’è indubbiamente nell’esperienza di Freud qualcosa che ha a che vedere con la serendipità. Questo termine si utilizza da qualche tempo per indicare scoperte che avvengono casualmente nel corso di una ricerca che ha un obiettivo diverso. Dalla scoperta della penicillina a quella dei neuroni specchio gli esempi abbondano. In casi del genere, la bravura del ricercatore sta nell’interpretare e nel valorizzare gli indizi che il caso gli offre costruendo, a partire da essi, una teoria. Applicare alla lettera questo termine alla scoperta freudiana dell’inconscio è forse eccessivo. E’ un fatto, però, che Freud si è trovato sul terreno che gli ha permesso di realizzarla per una serie di circostanze casuali legate alla biografia.

Se avesse avuto una situazione familiare agiata, probabilmente si sarebbe dedicato alla neuropatologia, come aveva cominciato a fare, e con un certo successo. Spostarsi sul terreno delle nevrosi è avvenuto non per vocazione, ma per necessità economica.

E’ vero, però, che il trovarsi casualmente di fronte a uno o più dati sorprendenti e significativi in un determinato ambito di ricerca non porta a nulla se il ricercatore non ne coglie il significato indiziario e non lo approfondisce. Per l’impegno che Freud ha posto nell’impresa di esplorare l’inconscio partendo dai sintomi, dai vissuti, dai sogni e dai comportamenti, il titolo di ricercatore gli spetta di diritto.

Tra il ricercatore e lo scienziato, però, si dà una differenza. Scienziato è colui che organizza, interpreta e spiega i dati forniti dalla ricerca e formula una teoria che può essere verificata e falsificata da chiunque. In questo senso, Freud ha ben poco dello scienziato. Egli elabora sì di continuo teorie, ma è a tal punto convinto che esse si fondino su dati empirici da non sopportare alcuna contestazione.

Breuer è poco convinto che la genesi dei disturbi isterici sia da ricondurre univocamente a traumi sessuali. Per questo motivo la collaborazione con Freud ad un certo punto si chiude. Questi va per la sua strada, e si imbatte in un incidente estremamente significativo.

L’incidente

Un incidente, a dire il vero, già c’è stato nella carriera di Freud e gli ha fatto correre il rischio di screditarsi agli occhi dell’opinione pubblica e della corporazione medica.

Nei primi anni ’80, quando smania per affermarsi, in alcuni articoli egli ha decantato gli effetti miracolosi della cocaina, che ha somministrato anche a se stesso, ritenendola una sostanza innocua. Per fortuna, prendendone sempre dosi ridotte, non ha sviluppato una tossicodipendenza, ma è incorso in due infortuni. Un paziente a cui l’ha somministrata è morto. Un suo collega ed amico, a cui l’ha consigliata come antidoto alla morfina che quegli prendeva per lenire i dolori di un cancro, è andato avanti per alcuni anni, ma, avendo sviluppato un’assuefazione, è finito miseramente con i dolori cancerogeni e crisi di astinenza.

E’ sopravvenuta poi la scoperta degli effetti tossici della cocaina (senominata rapidamente da alcuni autori come la "peste del secolo"), e Freud, dopo qualche vano tentativo di difesa, ha preso atto dell’errore di valutazione commesso e, in conseguenza di questo, è riuscito a “riabilitarsi”.

Il nuovo incidente, se possibile, è più serio.

Nell’Autobiografia, Freud lo ricostruisce in questi termini:

“Devo ricordare un errore del quale fui vittima per un certo periodo e che per poco non compromise definitivamente tutto il mio lavoro. Spinta dal procedimento tecnico che allora usavo, la maggior parte dei miei pazienti riproduceva scene della propria infanzia che avevano come contenuto la loro seduzione sessuale da parte di una persona adulta. Le donne attribuivano sempre il ruolo del seduttore al proprio padre. Facendo affidamento su tali comunicazioni dei miei pazienti, supposi di aver trovato l'origine delle successive nevrosi in questi episodi di seduzione sessuale risalenti all'età infantile. Alcuni casi, nei quali tali relazioni con il padre, lo zio, o un fratello maggiore, si erano protratte fino ad anni di cui il ricordo era rimasto vivo, rafforzarono il mio convincimento. Se qualcuno, di fronte alla mia credulità, scuotesse il capo in segno di diffidenza, non potrei dargli del tutto torto, ma vorrei far notare che tutto ciò accadeva in un'epoca in cui io stesso costringevo il mio senso critico ad essere imparziale e ricettivo di fronte alle molte novità che quotidianamente scoprivo. Quando, in seguito, dovetti riconoscere che tali scene di seduzione in realtà non erano mai avvenute, ma non erano altro che fantasie create dall'immaginazione dei miei pazienti, alle quali forse io stesso li avevo indotti, rimasi per un certo periodo del tutto disorientato.

La fiducia che riponevo nella mia tecnica e nei suoi risultati subì un duro colpo; avevo rintracciato quelle scene mediante un procedimento tecnico che ritenevo ineccepibile e il contenuto di esse era incontestabilmente legato ai sintomi da cui era partita la mia indagine. Non appena mi ripresi dalla scoperta, fui in grado di trarre dalla mia esperienza le giuste conclusioni: i sintomi nevrotici non erano direttamente collegati a episodi realmente avvenuti, ma a fantasie di desiderio; per la nevrosi la realtà psichica era più importante della realtà materiale…
Fu quella la prima volta che mi imbattei nel complesso d'Edipo, destinato ad assumere in seguito un'importanza capitale; ma non fui ancora in grado di riconoscerlo in quel travestimento fantastico.”

E’ importante capire meglio come sono andate le cose.

Il 2 maggio 1896 Freud alla Società di Psichiatria e di Neurologia di Vienna tiene una conferenza (Sull’etiologia dell’isteria) nel corso della quale espone le conclusioni cui è arrivato attraverso la pratica psicoanalitica. Egli muove dalla scoperta di Joseph Breuer secondo la quale “i sintomi dell'isteria (a prescindere dalle stigmate) sono determinati da talune esperienze del paziente, che hanno avuto un'azione traumatizzante e si riproducono nella sua vita psichica sotto forma di simboli mnemonici” e procede illustrando due conclusioni cui è pervenuto adottando il metodo delle libere associazioni.

La prima conclusione riguarda l’organizzazione delle memorie a livello inconscio. Freud scrive:

“Ho appreso che nessun sintomo può insorgere in seguito a una sola esperienza reale, ma che, in tutti i casi, il ricordo di esperienze antecedenti, associato a quella attuale, ha la sua parte nel determinismo dei sintomi.”

Anche laddove sembra che la rievocazione porti ad un singolo evento traumatizzante, come pensa Breuer, occorre andare al di là delle apparenze:

“Dispongo di validissime ragioni per supporre che, persino in questi casi, esista una catena di reminiscenze attive che si prolunga ben oltre il primo evento traumatizzante, anche se la sola rievocazione di quest'ultimo può essere in grado di eliminare il sintomo.”

Il metodo della libera associazione consente di approdare ad un universo di memorie organizzate in maniera molto diversa dalle memorie coscienti:

“Se prendiamo un caso che presenta diversi sintomi, partendo da ciascuno di essi arriviamo, per mezzo dell'analisi, a una serie di esperienze i cui ricordi sono collegati tra di loro per associazione. Inizialmente le catene di ricordi risalgono nel passato mantenendosi separate, ma, come ho detto, si ramificano. Partendo da un unico evento, si risale contemporaneamente a due o più ricordi, dai quali si distaccano a loro volta catene collaterali i cui singoli anelli possono nuovamente collegarsi per associazione con gli anelli facenti parte della catena principale. Invero, non è affatto fuori di luogo il confronto con l'albero genealogico di una famiglia i cui membri si siano anche sposati fra di loro. Un'altra complicazione dei collegamenti reciproci tra le varie catene sta nel fatto che un singolo avvenimento può essere rievocato parecchie volte nell'ambito di una stessa catena, in quanto la sua correlazione con un avvenimento successivo è multipla, presentando con questo sia un collegamento diretto, sia un collegamento stabilitosi tramite anelli intermedi. In breve, tale concatenazione è ben lungi dall'essere semplice e il fatto che le scene vengano rievocate secondo un ordine cronologico inverso - ciò che giustifica il confronto tra il nostro lavoro e l'escavazione di rovine disposte a strati - certamente non contribuisce affatto a rendere più rapida la comprensione di ciò che è accaduto.

Se l'analisi viene portata oltre, insorgono nuove complicazioni. Le catene associative, partenti dai diversi sintomi, cominciano ad assumere rapporti reciproci; l'albero genealogico si fa intricato. Per esempio, un determinato sintomo appartenente alla catena di reminiscenze legata al sintomo del vomito, non soltanto rievoca precedenti anelli, appartenenti alla sua propria catena, ma rievoca anche un ricordo facente parte di un'altra catena, correlata a un altro sintomo, quale la cefalea. Pertanto, questa esperienza appartiene a entrambe le serie e, in tal modo, viene a costituire un punto nodale. In ogni analisi si trovano parecchi punti nodali. La loro correlazione, nell'ambito del quadro clinico, può consistere nel fatto che, a partire da un determinato momento, i due sintomi appaiono insieme, simbioticamente, senza, di fatto, avere alcuna interdipendenza intrinseca. Risalendo ancora più oltre, giungiamo a punti nodali di natura differente. Qui convergono le catene associative separate. Troviamo delle esperienze dalle quali si sono sviluppati due o più sintomi: una catena si è collegata a un particolare della scena, la seconda catena a un altro particolare.”

Dove si arriva seguendo questo regressus ad infinitum? Freud non ha dubbi:

“La scoperta più importante, alla quale si giunge se l'analisi viene proseguita validamente fino a questo punto, è la seguente: quali che siano il caso o il sintomo che scegliamo come punto di partenza, alla fine entriamo immancabilmente nel campo dell'esperienza sessuale.”

Ma fin dove si estende questo campo, che la tradizione culturale ritiene originarsi con l’adolescenza? Anche a riguardo Freud non ha dubbi:

“Partendo dalla prima scena traumatizzante, attraverso le concatenazioni di ricordi che si trovavano dietro ad essa […] si arriva senza meno al periodo della prima infanzia, periodo antecedente allo sviluppo della vita sessuale.”

“Se avremo la costanza di spingerci con l'analisi fino alla più remota infanzia, fin dove è capace di arrivare la memoria umana, otterremo in tutti i casi dal paziente la rievocazione di esperienze che, sia per le loro particolari caratteristiche, sia per i rapporti con i sintomi della successiva malattia, devono essere considerate come la causa, che stavamo cercando, della nevrosi. Anche queste esperienze infantili hanno un contenuto sessuale, pur essendo di un tipo più uniforme rispetto agli avvenimenti della pubertà, già scoperti in antecedenza. Non si tratta più di impressioni sessuali suscitate da questa o quella sensazione, bensì di esperienze sessuali che coinvolgono la stessa persona del soggetto, di rapporti sessuali (nella più ampia accezione)”

Una prima conclusione è dunque questa:

“Io avanzo la tesi che alla base di tutti i casi di isteria vi sono uno o più casi di esperienze sessuali precoci, che risalgono ai primissimi anni dell'infanzia e che, pure, possono essere rievocate grazie al lavoro psicoanalitico, nonostante i decenni che sono trascorsi. Io penso che questa sia una scoperta importante, il ritrovamento di un caput Nili della neuropatologia.”

Riguardo al tipo di esperienze precoci in questione, Freud scrive:

“In tutti e diciotto i casi (casi di isteria pura e di isteria combinata con ossessioni, comprendenti sei uomini e dodici donne) sono riuscito a evidenziare, come ho detto, esperienze di questo tipo, relative all'infanzia. A seconda dell'origine della stimolazione sessuale, i miei casi sono classificabili in tre gruppi. Nel primo si tratta di assalti, ossia di casi unici, o almeno isolati, di violenza, perpetrata per lo più su bambine da adulti estranei, i quali peraltro, sapevano come evitare di provocare gravi danni materiali. In queste violenze il consenso del fanciullo era fuori causa, e il primo effetto dell'esperienza era prevalentemente lo spavento. Il secondo gruppo comprende quei casi, assai più numerosi, in cui un adulto, incaricato della sorveglianza del piccolo (assistenti d'asilo, governanti, tutori o, purtroppo, molto di frequente, parenti stretti) ha iniziato il bambino ai rapporti sessuali, mantenendo con lui una regolare relazione amorosa, dotata per di più di un aspetto psichico, durata a volte lunghi anni. Il terzo gruppo, infine, comprende i rapporti veri e propri tra bambini, ossia relazioni sessuali tra fanciulli di diverso sesso, per lo più fratello e sorella, che spesso si protraggono oltre la pubertà ed hanno le conseguenze più gravi per la coppia. Ho rilevato che, nella maggioranza dei miei casi, erano presenti due o più di questi fattori causali. In alcuni casi era veramente stupefacente il cumulo di esperienze sessuali di varia origine…

Nei casi di rapporti tra due bambini, a volte sono riuscito a scoprire che il maschietto, il quale, anche qui, aveva la parte dell'aggressore, era stato precedentemente sedotto da una donna adulta, e che, dopo di ciò, sotto l'impulso di una libido destatasi prematuramente e spinto dal ricordo, tentava di ripetere con la bambina le stesse pratiche apprese dalla donna, senza apportare, da parte sua, alcuna modifica al tipo di attività sessuale.

Ciò posto, siamo portati a ritenere che i bambini non sanno trovare il modo di compiere aggressioni sessuali, a meno che non siano stati a loro volta sedotti. Pertanto il seme della nevrosi sarebbe sempre gettato nei bambini dagli adulti, e gli stessi bambini si trasmetterebbero fra di loro la disposizione a contrarre, successivamente, l'isteria.”

La conclusione definitiva è la seguente:

“I sintomi isterici sono i derivati di ricordi che operano a livello inconscio.

[…] Le esperienze sessuali infantili sono la condizione preliminare basale dell'isteria, poiché costituiscono effettivamente la predisposizione ad essa; ... sono esse a creare i sintomi isterici, ma non in maniera immediata, in quanto dapprima sono prive di effetto ed esercitano un'attività patogena solo più tardi, quando, dopo la pubertà, si riaffacciano sotto forma di ricordi inconsci.”

Con la sua consueta scrupolosità, Freud pone a se stesso prevedibili obiezioni:

“Taluni diranno che atti illeciti sessuali di questo genere, praticati su bambini o tra bambini, sono troppo rari per essere considerati la causa determinante di una nevrosi comune come l'isteria. Altri, forse, obietteranno che, al contrario, dette esperienze sono frequentissime, troppo frequenti per attribuire loro un significato etiologico. Essi sosterranno, inoltre, che, facendo qualche inchiesta, è facile trovare persone che ricordano scene di seduzioni sessuali e abusi sessuali risalenti agli anni dell'infanzia, ma che, ciò non pertanto, non sono mai state isteriche. Infine ci verrà detto, quale argomentazione di un certo peso, che negli strati inferiori della popolazione l'isteria non è certo più diffusa che in quelli superiori, mentre tutto tende a dimostrare che l'imperativo di salvaguardare l'infanzia dal punto di vista sessuale è trasgredito molto più spesso nel caso di bambini appartenenti al proletariato.”

Egli tenta di articolare risposte, in verità poco pregnanti. Rimane poi perplesso di fronte ad un problema ultimo:

“Non possiamo non domandarci come mai il ricordo di un'esperienza, che fu innocua al tempo in cui accadde, dovrebbe produrre, a posteriori, l'effetto abnorme di portare un processo psichico, quale la difesa, a un risultato patologico, mentre esso stesso rimane inconscio.”

La risposta è degna di nota:

“La reazione degli isterici è esagerata solo in apparenza; essa necessariamente ci sembra esagerata perché conosciamo soltanto una piccola parte dei motivi che la provocano. In realtà, tale reazione è proporzionata allo stimolo eccitatorio e, pertanto, è normale e psicologicamente comprensibile. Ce ne accorgiamo, non appena l'analisi aggiunge ai motivi evidenti, dei quali il paziente è conscio, quegli altri motivi, che hanno agito senza che egli se ne rendesse conto, di modo che non può comunicarceli.

Non è l'ultima offesa, in sé insignificante, che provoca la crisi di pianto, l'attacco di disperazione o il tentativo di suicidio, in spregio all'assioma che l'effetto deve essere proporzionato alla causa. Lo sfregio attuale ha risvegliato e attivato il ricordo di moltissimi fatti, più importanti, del passato, dietro ai quali si trova inoltre il ricordo della grave offesa subita nell'infanzia e che non è mai stata superata.”

Nella sua denuncia degli abusi sessuali subiti dai bambini, Freud riserva ai genitori un ruolo semplicemente negligente:

“Mi sembra certo che i nostri bambini sono soggetti agli attacchi sessuali molto più spesso di quanto non ci aspetteremmo in base alle poche precauzioni prese dai genitori.”

Già questo basterebbe a capire le reazioni scandalizzate prodotte dalla Conferenza, tanto più se si pensa che i pazienti di Freud appartengono tutti a famiglia alto-borghesi. Tra le righe, però, si intuisce che le responsabilità dei genitori forse sono maggiori di una semplice negligenza. Egli in pratica accredita la testimonianza di numerose pazienti isteriche che accusano esplicitamente il padre di violenza.

Demistificando il mito dell’innocenza sessuale infantile, Freud, quasi senza rendersene conto, denuncia di fatto lo statuto sostanzialmente ipocrita e perbenistico della società borghese.

Trascinato dal suo amore per la verità, egli non ha messo in conto che quella denuncia potrebbe azzerare la sua carriera professionale. Quale famiglia borghese o quale soggetto isterico adulto potrebbe affidarsi a lui sapendo che l’analisi va alla ricerca di abusi sessuali infantili realizzatisi in gran parte tra le mura domestiche?

Si tratta di rimediare. Secondo Freud in nome della scienza, ma in realtà, almeno come si può capire a posteriori, in nome della sopravvivenza. Il rimedio, però, se riabilita Freud socialmente, è peggiore del male sotto il profilo scientifico.

Nel 1898 Freud pubblica un lavoro su La sessualità nell’etiologia delle nevrosi nel quale egli per un verso ribadisce la necessità di approfondire lo studio della sessualità infantile, ma, per un altro, pur senza smentirla, non fa alcun cenno alla teoria della seduzione infantile. Già alcuni mesi prima, però,, egli comunica all’amico Fliess “il grande segreto”, la “terribile verità che - non tutte - ma la maggior parte delle seduzioni infantili che i suoi pazienti gli avevano rivelato e sulle quali egli aveva edificato per intero la sua teoria dell’isterismo, non erano mai accadute.” (E. Jones, op. cit., vol. 1, p. 319)

Jones trasforma questo ripensamento in un formidabile atto di onestà scientifica:

“La lettera del 21 settembre 1897, in cui dette a Fliess quella notizia è forse la più preziosa di tutta quella preziosa raccolta tanto fortunatamente conservata. In essa Freud dava quattro ragioni dei suoi crescenti dubbi. Prima di tutto il disappunto, spesso ripetutosi, di non esser riuscito a condurre le sue analisi ad una vera e propria conclusione : i risultati erano imperfetti sia dal punto di vista scientifico che da quello terapeutico. In secondo luogo il suo stupore per essere chiamato a credere che tutti i padri dei suoi pazienti fossero dediti a perversioni sessuali; un comportamento del genere avrebbe dovuto essere molto più frequente dell'isterismo, dato che vari fattori concomitanti sono necessari per produrre quest'ultima malattia. In terzo luogo egli aveva chiaramente percepito che nell'inconscio non esistono criteri di realtà, e perciò la realtà non può esser distinta dalla finzione emotiva. In quarto luogo infine veniva la considerazione che quei ricordi non emergevano mai nei deliri, neanche nelle psicosi più gravi.

Sebbene nei mesi precedenti Freud si fosse messo a studiare intensamente le fantasie sessuali riguardanti la fanciullezza, egli si era contemporaneamente riconfermato nella sua fede nella realtà delle seduzioni. Rinunciare a questo concetto dev'esser stato un grande sforzo, ed è oltremodo probabile che il fattore decisivo sia stato proprio la sua autoanalisi, che aveva intrapreso nel giugno di quello stesso anno. Non c'è da meravigliarsi del fatto che egli abbia dovuto correre a Berlino ad abboccarsi con il suo mentore, sia pure per ventiquattro ore appena.

La lettera a Fliess continua su un tono di sincera eccitazione, anche se Freud riflette tristemente sul fatto che, dovendo ormai rinunciare alla chiave per forzare i segreti dell'isterismo, le sue speranze di fama e di successo professionale sono crollate. «Invece di dire come Amleto "Essere pronto", ecc., dirò "Essere contento è tutto". Mi dovrei sentire molto insoddisfatto. La speranza di una fama durevole, la certezza del benessere e di una completa indipendenza, il pensiero di risparmiare ai miei figli le dure preoccupazioni che mi hanno privato della mia giovinezza : era un gran bel miraggio. Tutto dipendeva dalla risoluzione dei problemi dell'isterismo. Ora posso tornare tranquillamente una volta di più alle preoccupazioni quotidiane e alle economie.»

Nel 1914 Freud descrive così il momento di questa scoperta: «Quando questa etiologia cadde per la sua improbabilità e per la sua incompatibilità con circostanze esattamente precisabili, mi trovai sulle prime disperatamente disorientato. L'analisi mi aveva condotto, attraverso un cammino corretto, fino a quei traumi sessuali, e ora si scopriva che non erano veri. Sentivo la realtà sfuggirmi sotto i piedi e avrei molto volentieri lasciato cadere ogni cosa, proprio come aveva fatto il mio stimato predecessore, Breuer, dopo la sua spiacevole scoperta. Perseverai forse solo perché non avevo scelta e non potevo ricominciare in nessun altro campo. Infine pensai che, dopo tutto, non si ha diritto di protestare perché si è stati delusi nelle proprie aspettative: bisogna piuttosto rivederle. Se gli isterici riportano i loro sintomi a traumi inesistenti, questo fatto nuovo significa che essi creano simili scene nella fantasia, e che la realtà psichica deve essere presa in considerazione accanto alla realtà effettiva.»

Questo in verità, che suggerisce a Freud l’esistenza del conflitto edipico, è il vero caput Nili della ricerca freudiana in quanto comporta la presa d’atto che la mente umana non recepisce passivamente le circostanze, ma le interpreta e dà ad esse significati soggettivi che, spesso, non coincidono con la realtà.

Il viraggio dal determinismo ambientale, che identifica le cause delle nevrosi in traumi psichici reali, al determinismo intrapsichico, che le riconduce ad esigenze pulsionali soggettive che non cedono al principio di realtà, è l’evento decisivo nella storia della costruzione della teoria psicoanalitica freudiana, che segnerà tutti gli ulteriori sviluppi.

Non è inopportuno, a questo punto, fa presente che la teoria della seduzione infantile, sia pure inserita in un più vasto contesto di violenze (umiliazioni, sculacciate, botte, derisione, disattenzione, ecc.) è stata ripresa nella seconda metà del Novecento da A. Miller, che ne ha fatto il caposaldo della sua denuncia di quella che ha definito la pedagogia nera, vale adire di un orientamento educativo sistematicamente sull’abuso di potere che, al limite, può giungere alla violenza sessuale.

La rivendicazione da parte della Miller delle matrici esperienziali reali e interattive del disagio psichico l’ha costretta nel 1988 a dissociarsi dalla Associazione Psicoanalitica Internazionale che, a suo avviso, è rimasta ferma all’originario pensiero freudiano.

Per capire a pieno questo evento, occorre insistere prima sulla personalità e sulla cultura di Freud e, poi, valutare criticamente la sostanziale inadeguatezza del codice interpretativo edipico che egli ritiene di ricavare dalle esperienze terapeutiche, ma che, in realtà, applica ad esse.

Freud tra integrazione sociale e individuazione

Alla luce dell’incidente che ho ricostruito, cerchiamo di approfondire l’ossimoro - conservatore rivoluzionario - che ho utilizzato come titolo per la prima conferenza

Al di là delle ipotesi che Freud ne ricava, ritengo che gli Studi sull’isteria rappresentino uno dei momenti più elevati della sua riflessione sulla condizione umana e sul disagio psichico. In virtù di essi infatti egli stabilisce che: primo, la nevrosi riconosce sempre una matrice esperienziale, riconducibile ad un’interazione negativa con l’ambiente sociale, che comporta un blocco o una distorsione dello sviluppo evolutivo; secondo, la nevrosi insorge in alcuni soggetti e non in tutti i soggetti che hanno sperimentato un’interazione negativa con l’ambiente; terzo, i sintomi nevrotici, pur dovuti a traumi infantili, si manifestano ulteriormente, a livello adolescenziale e giovanile, come se ciò attestasse un fallimento della crisi adolescenziale; quarto, l’eccesso dei sintomi in rapporto alle cause è più apparente che reale; quinto, la sintomatologia viene subita dall’io cosciente perché esso non è in grado di dare valore e senso al patrimonio delle memorie che la sottendono e che attraverso di essa si esprimono.

Se Freud fosse rimasto fedele a queste intuizioni, che oggi, mutatis mutandis, possono essere confermate, il destino dell’analisi sarebbe stato quello di una scienza deputata a sondare i rapporti reciproci e interattivi tra determinati soggetti, con il loro corredo genetico, e determinati ambienti di sviluppo socio-culturali: in breve, l’interazione tra Natura e Cultura mediata dalla storia.

Di fatto, avviandosi in questa direzione, Freud ha immediatamente scoperto lo scarto tra l’immagine che la società alto-borghese ha di se stessa e una pratica di allevamento dei bambini che, quando non comporta la seduzione da parte dei genitori e dei parenti, è incentrata sull’affidamento del loro corpo a governanti e inservienti che, oltre ad essere frustrati, dacché si impone loro un regime di vita astinente e morigerato, hanno i loro motivi per odiare i figli dei padroni e per abusare di loro.

Egli, però, per quanto abbia gettato uno sguardo dietro le quinte del perbenismo borghese, non ha il coraggio di procedere in quella direzione. Non solo, preso atto delle reazioni di scandalo che suscitano le sue ipotesi, fa marcia indietro, ma lo fa in una maniera clamorosa: negando l’evidenza dei fatti e passando rapidamente dal determinismo ambientale al determinismo intrapsichico, che contrassegnerà tutti gli sviluppi ulteriori del suo pensiero.

Per spiegare tale viraggio, la spiegazione di Jones, che fa riferimento ad un’onestà intellettuale sottesa da uno spirito critico scientifico, è semplicistica. Ugualmente semplicistica, per quanto più vicina alla verità, è la spiegazione di Jeffrey Mousaieff Masson che, divenuto direttore dei Freud’s Archives, in un libro divenuto rapidamente famoso (Assalto alla verità. La rinuncia di Freud alla teoria della seduzione) «basandosi principalmente sull'esame di documenti riservati ai quali solo lui aveva accesso (soprattutto certe lettere tra Freud e Fliess fino ad allora non pubblicate), ha sostenuto che l'abbandono della teoria della seduzione fu un grave errore, fatale per lo sviluppo e la fecondità della psicoanalisi. Freud - secondo Masson - avrebbe abbandonato questa teoria in realtà non con un atto di coraggio, mosso dall'interesse per lo sviluppo della disciplina, ma "per codardia", perché gli era difficile sostenerla di fronte al mondo accademico di allora, e soprattutto per una difesa inconscia, rivolta a proteggere se stesso,, la sua teoria e la sua carriera professionale.

L'abbandono della teoria della seduzione, confessato da Freud nel 1897 in una lettera a Fliess, e reso pubblico solo nel 1905, viene considerato invece dalla tradizione psicoanalitica come un evento che segna la data di nascita stessa della psicoanalisi, il momento in cui questa giovane scienza incominciò a riconoscere l'importanza delle fantasie, e in genere della vita psichica inconscia, e non semplicemente della realtà esterna. Secondo Masson sarebbe vero esattamente il contrario: l'abbandono della teoria della seduzione segnerebbe invece la fine della psicoanalisi, non la sua nascita, perché dando enfasi al mondo della fantasia, anziché a quello della realtà, inevitabilmente avrebbe impresso una svolta alla storia della psicoanalisi per aver fatto distogliere l'attenzione dalla realtà della vita del paziente e dagli eventi traumatici che in definitiva sono i veri responsabili dei problemi psichici.

La verità, che sta più dalla parte di Masson che di Jones, ma che nessuno dei due ha colto pienamente, è che in Freud convivono due diversi orientamenti: un bisogno prepotente di integrazione sociale e un bisogno non meno intenso di individuazione. Capire il conflitto tra questi bisogni, che ha accompagnato Freud per tutta la vita senza che egli riuscisse a venirne a capo, è fondamentale per un’analisi critica del suo pensiero.

Freud, come si è accennato, è un ebreo. All’epoca in cui vive, nella cattolicissima Austria, gli ebrei non sono perseguitati né emarginati. Alcuni di essi riescono a raggiungere uno status rilevante nell’ambito delle libere professioni, della carriera pubblica (funzionari di Stato) e addirittura nell’Esercito, che pure favorisce la nobiltà di sangue antico. E’ fuori di dubbio, però, che in Austria circola un antisemitismo sottile, strisciante, per cui l’affermazione sociale di un ebreo è notevolmente più problematica rispetto a quella dei “gentili”.

Oltre ad essere ebreo, Freud appartiene ad una famiglia il cui status economico è piuttosto precario. Non sperimenta certo la povertà, ma la restrizione sì, e ciò incide un marchio permanente nella sua anima. Un suo assillo costante sarà sempre, oltre al successo professionale e scientifico, l’agiatezza.

Un terzo fattore, difficile da minimizzare, riguarda il rapporto con la madre. Primogenito maschio, con quattro sorelle e un fratello che morirà in età precoce, egli è stato sempre il “beniamino” della madre, che ha sempre riposto in lui grandi speranze. Le aspettative materne concernono la possibilità che il figlio estremamente dotato risollevi le sorti di una famiglia vissuta sul registro della precarietà; che egli, dunque, superi il padre. Interiorizzate da Freud, tali aspettative, associate agli altri fattori di cui si è detto, permettono di comprendere forse gli “incidenti” - di presunzione - in cui egli incorre in età giovanile.

Oggi sappiamo con certezza quello che realmente significa il legame di attaccamento di una madre con un figlio maschio, tanto più se primogenito. Esso implica inesorabilmente un rapporto inconsapevolmente morboso, vale a dire l’elezione del figlio da parte della madre ad “amante segreto”. Dietro questo rapporto si dà spesso una condizione di frustrazione, legata ad un’esperienza adolescenziale povera di esperienze con l’altro sesso e/o ad una situazione coniugale insoddisfacente (o vissuta come tale).

Quando si dedica all’autoanalisi, per venire a capo di una sintomatologia nevrotica piuttosto spiccata, Freud non tarda a scoprire il “suo” complesso edipico. Non solo rievoca di aver visto da bambino la madre nuda e di aver provato un’intensa emozione, ma analizza alcuni sogni che sono inconfutabilmente edipici. All’epoca, egli ha lasciato alle spalle la teoria della seduzione parentale, che ovviamente si può realizzare senza che intervenga minimamente alcuna pratica incestuosa da parte del genitore. In conseguenza di questo, egli non può interpretare il suo Edipo che come espressione della natura selvaggia dell’Eros.

Questo aspetto ci aiuta a capire meglio l’evoluzione del bisogno di individuazione di Freud. A riguardo occorre dargli atto di avere sempre rifiutato, senza alcuna falsa modestia, di essere un genio. Riteneva solo di avere utilizzato al meglio le potenzialità medie che la sorte gli ha dato. C’è un fondo di verità in questa autovalutazione.

Freud, di fatto, non è un genio, e la portata delle sue opere è di sicuro non omologabile a quelle di Darwin, Marx e Nietzsche. Al tempo stesso, è assolutamente vero che le sue scoperte hanno aperto prospettive straordinariamente importanti allo sviluppo del sapere dell’uomo su se stesso.

Si è già fatto cenno al fatto che Freud ha scelto la facoltà di medicina senza una chiara vocazione per la pratica clinica. Nutrito di studi umanistici, egli è stato sempre interessato a capire il senso ultimo dell’esperienza umana e a penetrare i segreti dell’apparato psichico.

Spostandosi sul terreno dei disturbi psichici, egli ha dato spazio a tale motivazione di ricerca scientifica, filosofica e intellettuale. E’ superfluo affermare che una vocazione del genere implica l’intuizione che il senso comune e la cultura corrente, con la loro tendenza a soddisfare le esigenze dell’Io cosciente, hanno delle lacune.

Per alcuni aspetti, si può riconoscere che Freud appartiene alla categoria degli spiriti liberi e critici, la cui vocazione è di andare al di là delle apparenze. Di fatto, mettendo tra parentesi gli aspetti “ideologici” della teoria freudiana, la contestazione dello statuto e del ruolo sostanzialmente mistificante della coscienza, è un colpo mortale assegnato ad una tradizione culturale che si è edificata sul potere della Coscienza e della Ragione e che, nel seno della Civiltà borghese, è stata ulteriormente accreditata.

Sotteso da uno spirito critico indubbio, il bisogno di individuazione di Freud è tipicamente demistificante. Esso tende con estrema naturalezza a trascendere le apparenze, ma se ciò che Freud scopre è poco o punto compatibile con le sue esigenze di integrazione sociale, egli è inconsapevolmente spinto ad interpretarle in maniera tale da renderle, almeno per alcuni aspetti, compatibili con la cultura corrente.

Per questo motivo, egli non se la sente di portare a fondo la critica dell’istituzione familiare borghese, con le sue ipocrisie perbenistiche, la sua privacy (che consente ai panni sporchi di essere lavati tra le pareti domestiche) e la sua organizzazione innaturale, per cui il corpo dei bambini è affidato alle governanti e lo spirito ai genitori.

La nevrosi però è un fatto, come pure che la sua diffusione diventa epidemica in seguito all’avvento della società e della famiglia borghese. Come interpretare questa diffusione prescindendo da pratiche incestuose che mettono sotto accusa gli adulti? Vedremo tra poco la soluzione cui Freud è pervenuto. Prima però occorre soffermarsi sullo sforzo che egli fa di mettere un po’ di ordine nella classificazione corrente dei disturbi psichici e la scoperta dell’angoscia come matrice comune ad essi.

Il continuum psicopatologico e l’angoscia

Il termine nevrosi già esiste all’epoca di Freud, ma fa riferimento a disturbi provocati da malattie del sistema nervoso. Freud è il primo ad adottarlo in riferimento a disturbi psicopatologici di natura psicologica. Il termine non è felice: il suffisso -osi in medicina designa comunemente un processo degenerativo (come nel caso, per esempio, della steatosi, l’accumulo di grasso nelle cellule soprattutto epatiche, che può produrne la morte). L’averlo adottato è presumibilmente riconducibile alla volontà freudiana di mantenere la psicoanalisi agganciata alla medicina e di qualificarla come una una teoria scientifica finalizzata a guarire i pazienti.

Al di là del termine, l’uso che Freud ne fa è originale. All’epoca domina il riferimento alla neurastenia (calderone nel quale si riversavano un’infinità di sintomi che oggi attribuiremmo alla depressione), sono riconosciuti i sintomi isterici, le fobie e le ossessioni, e sono già state identificate dalla psichiatria organicistica due malattie mentali gravi (psicosi maniaco-depressiva, schizofrenia). Sulle cause si dibatte, ma nel complesso prevale l’opinione che i disturbi psichici siano dovuti a cause ereditarie o a disfunzioni cerebrali.

Nei primi anni di attività clinica, Freud giunge ad una classificazione estremamente semplice. In Studi sull’isteria egli scrive:

“Trovai che la nevrastenia presentava un quadro clinico monotono in cui, secondo quanto dimostrava la mia analisi, non entrava in gioco un «meccanismo psichico». Vi era una netta distinzione tra nevrastenia e «nevrosi ossessiva» (nevrosi con idee ossessive propriamente detta). In quest'ultima potei individuare un complesso meccanismo, un'etiologia simile a quella dell'isteria e una grande possibilità di ridurlo mediante la psicoterapia. D'altro canto, mi parve assolutamente necessario separare dalla nevrastenia un complesso di sintomi nevrotici che dipendevano da un'etiologia del tutto differente, addirittura agli antipodi. I sintomi costituenti questo complesso sono accomunati da una caratteristica già riconosciuta da Hecker. Infatti essi sono o sintomi o equivalenti di manifestazioni di ansia, e, per tale ragione, ho dato a questo complesso, che dev'essere distinto dalla nevrastenia, il nome di «nevrosi d'angoscia» e ho sostenuto che essa insorge per accumulo di tensione fisica...

Neppure questa nevrosi ha alcun meccanismo psichico, ma esercita immancabilmente un'influenza sulla vita mentale, di modo che l'«attesa ansiosa», le fobie, l'ipersensibilità al dolore, ecc., sono tra le sue abituali manifestazioni. Questa nevrosi ansiosa, nel senso che io do al termine, senza dubbio coincide in parte con la nevrosi che, sotto il nome di «ipocondria», trova posto in molte trattazioni a fianco dell'isteria e della nevrastenia. Ma non posso considerare i limiti, assegnati all'ipocondria in nessuno di questi lavori, come definiti, e l'applicabilità di questo nome mi sembra pregiudicata dal rapporto fisso tra questo termine e il sintomo della «paura della malattia».

Dopo aver fissato in questo modo i semplici quadri della nevrastenia, della nevrosi d'ansia e delle idee ossessive, ho proseguito col prendere in considerazione i casi di nevrosi che comunemente si riuniscono sotto la diagnosi di isteria. Ho riflettuto che non era giusto etichettare come isteria una nevrosi nel suo insieme, solo perché nel complesso dei suoi sintomi si stagliavano alcuni segni isterici. E’ un modo di fare che posso ben capire, dato che l'isteria, di tutte le nevrosi allo studio, è la più antica, la meglio conosciuta e la più impressionante; ma si tratta di un abuso perché attribuisce all'isteria tanti segni di perversione e di degenerazione. Ogni qualvolta un segno isterico, come un'anestesia o una crisi tipica, era osservato in un caso complesso di degenerazione psichica, la condizione nel suo insieme veniva descritta come attinente all'«isteria», per cui non è sorprendente se sotto questa etichetta si trovavano riunite insieme le cose peggiori e più eterogenee. Ma come era sicuro che tale diagnosi fosse errata, era altrettanto sicuro che noi dovevamo distinguere tra di loro l'isteria e le varie nevrosi; e poiché ci sono familiari la nevrastenia, la nevrosi d'ansia, ecc., in forma pura, non vi era più bisogno di confonderle in un quadro composito.

Pertanto l'ipotesi seguente ci sembrava la più attendibile. Le nevrosi che più comunemente si osservano, per lo più devono essere considerate «miste». La nevrastenia e le nevrosi d'ansia si trovano facilmente anche in forma pura, soprattutto nei giovani. Le forme pure di isteria e di nevrosi ossessiva sono rare; di regola queste due nevrosi sono combinate con la nevrosi d'ansia. La ragione per cui le nevrosi miste sono tanto frequenti è che i loro fattori etiologici sono assai commisti, talora solo per caso, talora in ragione di rapporti causali tra i processi da cui derivano i fattori etiologici delle nevrosi. Non vi sono difficoltà nell'evidenziare questo fatto e dimostrarlo particolareggiatamente.”

Freud distingue dunque la neurastenia, la nevrosi d’angoscia, la nevrosi isterica e la nevrosi ossessivo-fobica. In un lavoro del 1895, egli aggiunge:

“Casi più genuini di nevrosi d'angoscia sono anche i più marcati. Si osservano in soggetti giovani, sessualmente potenti, e hanno un meccanismo etiologico unico, con disturbi di data recente. Ma più spesso i sintomi d'angoscia compaiono contemporaneamente, o in combinazione, con segni di nevrastenia, isteria, ossessioni o melancolia.”

E’ difficile minimizzare l’importanza di queste parole. Anche se occorrerà ancora del tempo perché Freud riconosca l’angoscia come sintomo comune a tutte le esperienze di disagio psichico, l’intuizione già c’è. Da essa ne discende un’altra, non meno importante, secondo la quale il campo dei disturbi psicopatologici è un continuum, nel quale ogni sintomo che dovrebbe essere specifico di una nevrosi può intrecciarsi con altri sintomi di qualsivoglia altra nevrosi.

La psichiatria ha impiegato più di cento anni a riconoscere questa verità. Essa, soprattutto a partire dagli anni 1980, che segnano la restaurazione del pensiero nosografico tradizionale, posto in crisi dall’antipsichiatria, si è letteralmente isterilita nel tentativo di differenziare sindromi psichiatriche pure. Il DSM IV è, sotto questo profilo, esemplare di questa tendenza. E’ la realtà clinica, che comporta quasi sempre forme miste, ad avere imposto il concetto di co-morbidità, vale a dire l’espressione nello stesso paziente di sintomi appartenenti a varie sindromi. Alla fine il continuum psicopatologico è stato riconosciuto, anche se esso continua ad essere ricondotto a cause organiche. Quanto tempo occorrerà perchè sopravvenga il riconoscimento che, al fondo di ogni esperienza di disagio psichico, si dà l’angoscia è difficile dirlo.

Ma cos’è l’angoscia? Freud la definisce in questi termini:

“Attesa angosciosa. Non posso dare una migliore descrizione della condizione a cui mi riferisco se non definendola con questo termine e aggiungendo alcuni esempi. Così, una donna affetta da attesa angosciosa penserà alla polmonite influenzale tutte le volte che il marito raffreddato fa un colpo di tosse e ne vedrà passare, con l'occhio della mente, il funerale; se, mentre torna a casa, vede due persone in piedi davanti alla porta, non può fare a meno di pensare che uno dei suoi figli è caduto dalla finestra; quando sente suonare il campanello, è qualcuno che porta notizie di morte, e via dicendo, mentre, in tutte queste occasioni, non vi sono ragioni particolari per esagerare una semplice possibilità.

Naturalmente l'attesa angosciosa si verifica anche nei soggetti normali e comprende tutti quegli stati che il linguaggio ordinario definisce ansietà, ossia la tendenza ad avere un atteggiamento pessimistico, ma nei soggetti nevrotici essa travalica questi limiti di plausibilità e, spesso, lo stesso paziente la riconosce come una sorta di compulsione. Riserviamo il vecchio termine di ipocondria a una forma di attesa angosciosa, quella che si riferisce alla salute del soggetto stesso. Il livello raggiunto dall'ipocondria non va sempre di pari passo con una generica attesa angosciosa, in quanto occorre la condizione preliminare rappresentata da parestesie e sensazioni corporee penose. Pertanto l'ipocondria è la forma favorita dai veri nevrastenici quando, come spesso accade, sono colpiti da nevrosi d'angoscia.

Un'altra espressione dell'attesa angosciosa si rileva indubbiamente nella tendenza all’angoscia morale, alla scrupolosità e pedanteria, tendenza tanto spesso presente nelle persone dotate di sensibilità morale superiore alla media, e che può andare da una forma comune fino alla forma esagerata della mania del dubbio.

L'attesa angosciosa è il sintomo fondamentale della nevrosi. Inoltre esso conferma manifestamente parte della teoria della nevrosi. Forse potremmo dire che qui si ha una certa quantità di angoscia allo stato libero, che, quando vi sia una condizione di attesa, dirige la scelta delle idee ed è sempre pronta a legarsi a qualsiasi contenuto ideativo idoneo.

Però l'angoscia, che, anche se per lo più è allo stato latente rispetto alla coscienza, è sempre in agguato nel sottofondo, ha anche altri mezzi per esprimersi. Può irrompere all'improvviso nella coscienza senza essere suscitata da un'associazione di idee, provocando in tal modo un attacco di angoscia. Questo attacco può consistere in una sensazione di angoscia, da sola, senza alcuna idea concomitante, oppure accompagnata dalla prima interpretazione che capita, come l'idea della morte improvvisa, o di un colpo, o di incipiente pazzia. Altre volte il senso di angoscia è accompagnato da una determinata parestesia (come per l'aura isterica), o, infine può ricollegarsi a una o più funzioni organiche, come il respiro, il battito cardiaco, le afferenze vasomotorie o l'attività ghiandolare. Il paziente sceglie da questo complesso ora questo ora quel fattore. Accusa «spasmi al cuore», «difficoltà a respirare», «accessi di sudorazione», «fame divorante» e così via e, nella sua descrizione, la sensazione di angoscia spesso viene respinta nel sottofondo, oppure viene definita vagamente come un senso di «malessere», di «disagio», ecc.

E' interessante, e importante sotto l'aspetto diagnostico, il fatto che la proporzione in cui tali elementi sono mescolati tra di loro in un attacco di angoscia varia molto sensibilmente e che quasi tutti i sintomi concomitanti possono rappresentare, ognuno da solo, l'attacco allo stesso modo dell'angoscia stessa.”

Freud ha dunque scoperto che l’angoscia, fattore comune a tutte le nevrosi (e oggi potremmo dire, a maggior ragione, anche alle psicosi) fa riferimento ad una minaccia che incombe sull’integrità psico-fisica di un soggetto o di altre persone (soprattutto, ma non solo, sulle persone care). E’, dunque, null’altro che l’aspettativa del male, che sembra attivarsi a livello inconscio senza apparenti motivazioni o cause reali.

Se Freud a questo punto si fosse chiesto perché un soggetto si aspetta il male, e spesso addirittura la morte, senza aver fatto male a nessuno, la psicoanalisi avrebbe preso un’altra piega. L’aspettativa del male, infatti, è univocamente l’aspettativa di una punizione che il soggetto sente incombere in quanto, a livello inconscio, alberga gravi sensi di colpa. Ma perché un soggetto soffre di sensi di colpa senza aver fatto del male a nessuno? Perché lo ha desiderato - è la risposta freudiana. Non è necessario, in questa ottica, pensare che egli lo abbia desiderato coscientemente. Di fatto il desiderio stesso, come espressione della natura pulsionale umana, è colpevole, soprattutto se esso non si piega al principio di realtà.

Dopo l’incidente di cui si è parlato, Freud è proteso a trovare nell’inconscio del soggetto, vale a dire nella natura umana, le cause del senso di colpa. Le trova nel principio di fissazione pulsionale.

Il principio del piacere e l’Edipo

Nel 1898, dunque, Freud pone da parte la teoria della seduzione, ma è sempre più convinto che le nevrosi riconoscano esclusivamente cause sessuali.

Egli scrive (La sessualità nell’etiologia delle nevrosi):

“Esaurienti ricerche, condotte durante gli ultimi cinque anni, mi hanno portato a riconoscere che le più immediate e, per scopi pratici, le più importanti cause di ogni forma di malattia nevrotica si trovano nei fattori determinati della vita sessuale.”

Questa verità riguarda, secondo Freud, la neurastenia, la nevrosi isterica e la nevrosi ossessiva, che si distinguono perché, nel primo caso, le cause sono attuali (astinenza), negli altri due (accomunati nella categoria della nevrosi di angoscia) risalgono all’infanzia.

Freud è a tal punto convinto di questo da contestare qualunque ipotesi alternativa, e in particolare il riferimento alle condizioni oggettive di vita create dallo sviluppo sociale. Egli scrive:

“Lo stato della nostra civiltà è […] qualcosa che non può essere modificato dall'individuo.

Per di più questo fattore, essendo comune a tutti i membri della stessa società, non può mai spiegare il fatto della selettività nell'incidenza della malattia. Il medico non nevrastenico è esposto alla stessa influenza di una civiltà presumibilmente nociva alla quale è esposto il paziente che egli deve trattare. Pur essendo soggetti a queste limitazioni, i fattori dell’«esaurimento» conservano la loro importanza. Ma l'elemento del «superlavoro» che i medici sono così propensi a considerare la causa della nevrosi dei loro pazienti, è troppo spesso male adoperato. È vero che chiunque a causa delle noxae sessuali sia predisposto alla nevrastenia mal sopporta il lavoro intellettuale e le esigenze psichiche della vita; ma nessuno può mai diventar nevrotico attraverso il lavoro o l'eccitamento soltanto. Il lavoro intellettuale è anzi una protezione contro la possibilità dì ammalarsi di nevrastenia; sono proprio i lavoratori intellettuali più assidui a restare esenti dalla nevrastenia, e ciò che i nevrastenici lamentano come «superlavoro che li fa ammalare» di regola non merita affatto di essere chiamato «lavoro intellettuale» né per qualità né per quantità. I medici dovranno abituarsi a spiegare a un impiegato che si è «affaticato» dietro una scrivania o a una casalinga per la quale le attività domestiche sono divenute troppo pesanti, che essi si sono ammalati non perché abbiano cercato di compiere doveri che in verità possono essere facilmente eseguiti da un cervello civilizzato, ma perché in tutto questo tempo hanno pericolosamente trascurato e danneggiato la propria vita sessuale.”

Non si può non rimanere perplessi di fronte ad asserzioni così dogmatiche. Che l’equilibrio psichico e il benessere derivino principalmente se non esclusivamente da una “sana” vita sessuale appare oggi, dopo la cosiddetta rivoluzione degli anni ’70 del secolo scorso, ben poco credibile. Quella rivoluzione ha liberalizzato i costumi fino al punto che oggi gli adolescenti avviano precocemente la loro iniziazione sessuale. A livello adulto, poi, sia a livello maschile che femminile, la sessualità sta diventando un’ossessione e una pratica compulsiva. Non sembra, però, che questa liberalizzazione abbia attenuato l’incidenza delle nevrosi, che crescono di continuo.

Occorre riconoscere a Freud il merito di aver squarciato il velo di ipocrisia che, alla sua epoca, vigeva sulla sessualità. Laddove egli scrive: “Molte cose andrebbero cambiate. La resistenza di una generazione di medici che non possono più ricordare la loro giovinezza deve essere abbattuta; l'orgoglio dei padri che non vogliono scendere a livello umano agli occhi dei figli deve essere superato; e l'irragionevole pudore delle madri deve essere combattuto: le madri, che oggi considerano un incomprensibile e immeritato colpo del destino il fatto che «proprio i loro figli siano diventati dei nevrotici». Ma soprattutto si deve far posto, nell'opinione pubblica, alla discussione dei problemi della vita sessuale. Dovrà diventare possibile parlare di queste cose senza essere tacciato di agitatore, o di persona che si compiace degli istinti più bassi. E perciò, anche qui, c'è lavoro sufficiente per i prossimi cent'anni, durante i quali la nostra civiltà dovrà imparare a venire a patti con le rivendicazioni della nostra sessualità”, non stentiamo a cogliere il significato storico di queste affermazioni e a riconoscere il coraggio di averle espresse.

Ciò nondimeno, l’insistenza di Freud sull’importanza assoluta della sessualità per l’equilibrio psichico (importanza che, tra l’altro, la cultura popolare non ha mai negato), sembra celare qualcosa.

La verità è che Freud, fin dal momento in cui si dedica alle nevrosi insegue il sogno “di capire la vita mentale dell’umanità”, vale a dire di trovare la chiave che apre tutte le porte.

Il problema è che la chiave egli già ce l’ha dentro di sé a livello inconscio. Ce l’ha culturalmente perché la tradizione ebraica arrivata sino a lui (e che da ragazzo ha coltivato dedicandosi intensamente a letture bibliche) comporta l’iscrizione della vicenda umana all’insegna della colpa. Ce l’ha anche in rapporto alla storia interiore personale sotto forma di una seduzione materna che ha indotto in lui una “fissazione” edipica.

Elaborando la teoria della seduzione, è giunto molto vicino alla verità. Ma, al di là delle conseguenze sociali di tale teoria, essa è soggettivamente intollerabile perché implica colpevolizzare una madre che egli, fino alla fine, adorerà.

Non essendo in grado di sfuggire alla categoria morale della colpa, Freud è costretto ad attribuirla a se stesso, vale a dire ai figli, o meglio all’Eros che, attraverso essi, fa i suoi giochi spingendoli ad amare appassionatamente il genitore dell’altro sesso e ad odiare mortalmente quello del proprio sesso.

Con l’assunzione dell’Eros come una pulsione primaria che tende a soddisfare se stessa senza alcun riguardo per la realtà, a scaricarsi dunque anarchicamente, il problema, soggettivo e filosofico, è risolto.

La cieca insistenza di Freud sul complesso edipico è un leit motiv costante della sua opera. Egli lo ritiene il contributo maggiore che l’analisi ha apportato alla cultura umana, e sulla base dell’Edipo ricostruisce addirittura (in Totem e tabù) il passaggio primordiale dallo stato di Natura a quello di Cultura.

Oggi si può sostenere quasi con certezza che l’Edipo freudiano non esiste. E’ fuori di dubbio che i bambini attraversano fasi di intenso innamoramento nei confronti dei genitori, e che esse sono in genere riferite maggiormente al genitore del sesso opposto. Tali fasi sembrano però funzionali a promuovere lo sviluppo di un’identità psicologica consonante con quella biologica. La logica dello sviluppo non sembra comportare in sé e per sé il pericolo di una fissazione edipica. Quando questo si realizza, esso dipende dal rapporto inconsciamente “morboso” che il genitore intrattiene con il figlio. Un rapporto del genere, poi, sembra incentivato dalla nuclearizzazione della famiglia.

Ma se questo è vero, come spiegare l’universalità del tabù dell’incesto che Freud, in Totem e Tabù, adduce come una prova della sua teoria? L’ipotesi più semplice l’ha avanzata Lévi-Strauss facendo presente che le regole dell’esogamia sono diverse da gruppo a gruppo e a tal punto complesse da trascendere di gran lunga il rapporto tra genitori e figli o tra sorelle e fratelli. La complessità sembra funzionale solo a costringere i gruppi umani ad imparentasi, vale a dire a scambiare le donne al fine si stabilire tra essi rapporti cooperativi e di solidarietà piuttosto che conflittuali.

Occorre aggiungere un dato etologico di particolare interesse. Lunghe osservazioni presso gruppi di scimpanzé - gli unici animali presso i quali il riconoscimento parentale si mantiene per tutta la vita - hanno dimostrato che le pratiche incestuose sono infinitamente più rare che tra gli esseri umani. Il dato è singolare perché l’istinto sessuale negli animali è spiccato, ma evidentemente negli scimpanzé la sua regolazione non necessita di un ordine culturale.

Lo si spiega in rapporto al fatto che un’assidua intimità fisica in fase evolutiva, come si realizza negli scimpanzè tra genitori/figli e fratelli /sorelle, inibisce l’istinto. Una conferma di questo deriva dagli studi di antropologia. Nelle comunità primitive, presso le quali si realizza, grazie alla povertà dell’abbigliamento, la stessa intimità non solo il tasso di incesti è incredibilmente basso, ma fratelli e sorelle vivono reciprocamente una sorta di indifferenza sessuale.

Perché, dunque, - c’è da chiedersi - Freud rimane vincolato al tabù dell’incesto? Per motivi personali, certo, legati alla scoperta del suo Edipo, ma anche per motivi ideologici. Posto, infatti, che egli si avvia sul terreno della pratica analitica sulla base di una preesistente concezione pulsionale della natura umana, e che, dopo l’incidente si cui si è parlato, pone tra parentesi l’influenza dell’ambiente, per avviare la costruzione di una teoria psicoanalitica, ha la necessità di identificare nel corso dell’evoluzione della personalità il passaggio-chiave tra l’ordine della natura, che non riconosce legge alcuna, e l’ordine della cultura, che postula l’acquisizione del principio di realtà.

Nel conflitto edipico, egli trova ciò che cerca: una legge universale che affranca l’uomo dalla schiavitù delle pulsioni in nome della sottomissione alla Norma sociale.

Nello stesso periodo in cui procede verso la costruzione della teoria edipica, Freud, però, sul piano della pratica clinica, si imbatte in indizi di tutt’altro segno, che egli registra ma non riesce ad interpretare adeguatamente: indizi che attestano una protesta rabbiosa, per quanto inconscia, contro un ordine culturale repressivo. Una protesta, tra l’altro, che affiora nell’inconscio di soggetti femminili che ammalano nonostante abbiano doti fuori dal comune.

Su questo aspetto, ora, dobbiamo soffermarci attentamente.

Dissociazione e controvolontà

Pochi psicoanalisti hanno dato importanza ad un termine - controvolontà - che ricorre più volte in Freud fino al 1901. Egli lo utilizza in due dei suoi primi lavori (Un caso di guarigione ipnotica, meccanismo psichico dei fenomeni isterici), lo riprende più volte nel capitolo sugli atti mancati di Psicopatologia della vita quotidiana e lo cita infine un'ultima volta nella quarta lezione dell'Introduzione allo studio della psicoanalisi.

In Un caso di guarigione ipnotica Freud riferisce la vicenda di una giovane madre che, nonostante un vivo desiderio di allattare i figli, sviluppa tre volte consecutivamente (in rapporto a tre bambini nati nel giro di cinque anni) una difficoltà di realizzare quel desiderio per via di sintomi (latte scarso, suzione dolorosa, ripugnanza nei confronti dei cibi, vomito, nervosismo, insonnia) che glielo impediscono. Analizzando il meccanismo psichico dei disturbi, Freud parte dal presupposto che in ogni soggetto cosciente si diano rappresentazioni che esprimono i suoi propositi e le sue aspettative volontarie. Tali rappresentazioni sono sottese da uno stato affettivo riferito all'importanza dei fatti cui si rivolgono i propositi e le aspettative, e al grado di sicurezza soggettivo di potere fare fronte ad esse. Laddove il grado di sicurezza è basso è facile che si produca "una somma di rappresentazioni che possiamo designare come "penose rappresentazioni di contrasto".

Nell'isteria "la rappresentazione di contrasto si erige per così dire come "controvolontà", mentre il malato è cosciente, con stupore, di una volontà decisa ma priva di forza".

Questo meccanismo, secondo Freud, può spiegare non solo isolati attacchi isterici ma una considerevole parte del quadro sintomatico dell'isteria: "Se riteniamo stabilito che proprio le moleste rappresentazioni di contrasto, represse e inibite dalla coscienza normale, hanno prevalso nel momento della disposizione isterica, trovando la strada dell'innervazione corporea, allora possediamo anche la chiave per la peculiarità degli attacchi isterici deliranti. Non a caso i deliri isterici delle monache nelle epidemie medioevali consistevano in gravi bestemmie e erotismo sfrenato, così come non è per caso che ragazzi a modo, beneducati - come rileva Charcot - presentano attacchi isterici in cui ogni monelleria, ogni birbonata e sgrabatezza viene attuata con estrema facilità. Sono le serie di rappresentazioni represse, e a stento represse, che, in conseguenza di una specie di controvolontà, vengono convertite in azione".

E aggiunge:

“Di solito, è per questo imporsi della controvolontà che l'isteria presenta quell'aspetto diabolico che tanto spesso l'accompagna e che è costituito dal fatto che ai malati è precluso proprio ciò che essi desidererebbero più intensamente, e nel modo che vorrebbero, e che devono calpestare ed oltraggiare proprio ciò che è loro più caro. Chi ha una certa conoscenza degli isterici sa che la perversione temperamentale dell'isteria, il desiderio di fare ciò che è male, di dover essere malati mentre si desiderava ardentemente essere sani, tutte queste coazioni, colpiscono assai spesso i caratteri più normali, che siano rimasti per un certo tempo senza protezione di fronte alle loro rappresentazioni di contrasto.”

In un altro articolo (Meccanismo psichico dei fenomeni isterici), Freud allude ad un caso singolare:

“In un'altra paziente ho osservato uno «schiocco» caratteristico della lingua simile al verso del gallo cedrone, che interrompeva continuamente i suoi discorsi. Mi ero occupato di questo sintomo per dei mesi, e lo consideravo un tic. Fu soltanto dopo averla interrogata, mentre era sotto ipnosi, sull'origine di quel sintomo che scoprii che il rumore era apparso inizialmente in due occasioni. In entrambe le occasioni essa aveva deciso fermamente di mantenere il silenzio più assoluto. Accadde una volta mentre stava curando uno dei suoi figli gravemente ammalato (il fatto di curare persone ammalate ha spesso una parte nell'etiologia dell'isteria). Il bambino si era addormentato e lei era ben decisa a non fare alcun rumore che potesse svegliarlo. Ma la paura di poter fare rumore, la portò a farne realmente uno - un esempio di «controvolontà isterica»; strinse le labbra e schioccò la lingua. Molti anni dopo lo stesso sintomo si era presentato per la seconda volta ed anche questa in un'occasione in cui lei aveva deciso di conservare il più assoluto silenzio, ed in seguito era cessato.”

Freud intuisce che questo meccanismo non è esclusivo dell'isteria, ma, a prova di ciò, cita solo il tic convulsivo nel quale le smorfie, la coprolalia, l'ecolalia, i pensieri coatti oggettivano le rappresentazioni di contrasto. In realtà fenomeni del genere si ritrovano quasi costantemente nel corso delle esperienze ossessive, sotto forma di pensieri e di fantasie coatte che spingono ad agire comportamenti assolutamente rifiutati dalla coscienza.

Il problema viene ripreso nella Psicopatologia della vita quotidiana, soprattutto in riferimento alle dimenticanze e alle omissioni: "Io ho raccolto i casi osservati su me stesso di omissione per dimenticanza, e ho cercato di spiegarli, e ho trovato che quasi tutti potevano farsi risalire all'interferenza di motivi ignoti o non confessati oppure, come si può anche dire, a una controvolontà. In parecchi di questi casi mi trovavo in una situazione simile a un rapporto di servitù, sotto una costrizione contro la quale non avevo del tutto cessato di essere riluttante, cosicché protestavo contro di essa con la dimenticanza".

Analizzando i motivi delle dimenticanze, Freud giunge alla conclusione che esse fanno capo a situazioni sociali che impongono di manifestare formalmente, e in maniera esagerata, sentimenti non provati autenticamente, e commenta: "Da quando ho riconosciuto di avere spesso scambiato in altri per simpatia sincera quel che era soltanto finzione, mi trovo in uno stato di ribellione contro queste dimostrazioni convenzionali, pur riconoscendone l'utilità sociale… là dove la mia attività sentimentale non ha più nulla a che fare con i doveri sociali, la sua espressione non è mai inibita dalla dimenticanza".

Nella stessa opera, Freud riferisce del piacere chiestogli dal fratello di prestargli delle illustrazioni scientifiche, che evidentemente non è gradito. Egli si impone di rispondere comunque alla richiesta, ma incorre in una serie di atti mancati, che attestano che sta forzando la sua volontà personale in nome del dovere parentale.

Nella lezione quarta dell'Introduzione allo studio della psicoanalisi, dedicata agli atti mancati, Freud, in riferimento alla dimenticanza di propositi, non fa altro che ribadire la conclusione cui è in precedenza pervenuto: "la tendenza che perturba il proposito è ogni volta una controintenzione, un non volere, di cui ci resta solo da sapere perché non si manifesti diversamente e in modo non dissimulato. La presenza di questa controvolontà è comunque indubbia" .

E' difficile minimizzare questi riferimenti. Se, analizzando i fenomeni isterici, Freud si ritrova di fronte ad una controvolontà che, per il modo in cui si esprime, può fare pensare ad un'interferenza meramente negativa, espressiva di un fondo pulsionale irrazionale, analizzando i suoi atti mancati (e, a dire il vero, anche quelli di altri riportati nel libro) si trova invece di fronte ad una volontà oppositiva che boicotta quella cosciente in nome non già di pulsioni, bensì di bisogni di libertà personale rispetto a doveri sociali coercitivi o a convenzioni comportamentali non sentite come autentiche.

Se fosse stato in grado di cogliere in pieno il significato della controvolontà, Freud sarebbe pervenuto senz'altro ad intuire, se non a teorizzare, l'esistenza di un bisogno che fa riferimento ai diritti individuali e di una funzione - l'Io antitetico - che li rappresenta a livello inconscio e, laddove essi risultano frustati, non cessa, a modo suo, di rivendicarli.

Se, poi, avesse avuto una qualche consapevolezza della riorganizzazione della struttura familiare intervenuta con la nascita della società borghese e del ruolo estremamente coercitivo assegnata da essa alla moglie-madre-amministratrice domestica, non si sarebbe neppure sorpresa dei sintomi opposizionistici esibiti da giovani madri impegnate nella cura dei bambini.

Ciò però non è accaduto. A partire dal 1901 il tema della controvolontà viene abbandonato. Il cenno che risulta nella quarta lezione dell'Introduzione alla psicoanalisi, del 1915-17, è semplicemente una ripetizione di quanto già scritto nella Psicopatologia della vita quotidiana.

Spiegare questa "rimozione", il cui peso a livello di teoria e di pratica psicoanalitica è stato ed è assolutamente rilevante, non è difficile. Avendo ipotizzato precocemente che le nevrosi sono dovute a fissazioni pulsionali, Freud ha sistematicamente minimizzato i dati psicopatologici in contrasto con essa.

Quella che egli chiama la controvolontà, e che io ho definito io antitetico, può indubbiamente esprimersi anche sul terreno della sessualità, per esempio spingendo un soggetto isterico ad avere un atteggiamento perpetuamente seduttivo e apparentemente lascivo o un soggetto ossessivo ad avvertire impulsioni di violenza sessuale. Se si analizzano queste situazioni con un’ottica non freudiana, ciò che viene fuori non è la potenza selvaggia dell’istinto sessuale, bensì il fatto che la sessualità è irretita e distorta da una logica di potere tal che essa diventa non già uno strumento di piacere ma di una rivendicazione alienata di affermazione dei diritti dell’io.

Nell’analisi dei suo atti mancati, come abbiamo visto, Freud ha preso coscienza che essi esprimono una protesta contro un dovere sociale vissuto come coercitivo, ma visceralmente rifiutato. Se egli avesse tenuto conto di questa scoperta, avrebbe potuto facilmente giungere a capire che, a livello inconscio, i conflitti non si realizzano tra una Natura selvaggia e una Cultura civilizzante, ma tra richieste sociali, casomai interiorizzate sotto forma di doveri, e rivendicazioni di libertà personale che si oppongono ad esse in quanto eccessive, repressive o incompatibili con i bisogni personali.

Tale scoperta, invece, Freud l’ha abbandonata per corroborare l’ipotesi delle pulsioni.

Il tema della controvolontà rimane però importante perché esso è implicito nel concetto di scissione isterica. La scissione isterica fa riferimento al fatto che la coscienza, per effetto dell’attività dei conflitti dinamici, può passare facilmente da uno stato di apparente normalità ad un altro, “delirante” o simile all’ipnosi, nel corso del quale il soggetto si esprime e si comporta in una maniera opposta, di solito disordinata, volgare e cattiva.

Nel primo caso riportato negli Studi sull’isteria, scritto da Josef Breuer, si legge:

“Fräulein Anna O. era ventunenne all'epoca del manifestarsi della malattia (1880). Si può ritenere che ella avesse un'eredità neuropatica di modesta gravità, dato che casi di psicosi si erano verificati tra alcuni suoi lontani parenti. I genitori erano normali sotto questo aspetto. Ella stessa aveva in passato goduto buona salute né aveva presentato segni di nevrosi durante il periodo della crescita. Era notevolmente intelligente, dotata di capacità di comprensione sorprendentemente rapida e di profonda intuizione. Possedeva un intelletto aperto, pronto ad assimilare un sostanzioso nutrimento intellettuale, di cui sentiva il bisogno, non avendolo più ricevuto dopo il termine degli studi scolastici. Aveva grandi doti poetiche e di immaginazione, dominate però da un acuto senso critico, grazie al quale era del tutto refrattaria alle suggestioni, potendo essere influenzata solo dal ragionamento, mai da semplici affermazioni. La sua volontà era energica, tenace e persistente, giugendo in casi estremi all'ostinazione, che cedeva soltanto al suo senso di gentilezza e benevolezza nei confronti del prossimo.

Uno dei tratti essenziali del suo carattere era questo senso di gentile benevolenza, per cui, persino durante la malattia, trasse un notevole giovamento dalla sua attitudine ad assistere un gran numero di poveri e malati, riuscendo in tal modo a soddisfare un forte istinto in questo senso.”

La sua malattia consisteva nell’alternarsi di

“[…] due stati di coscienza totalmente distinti, che si alternavano con notevole frequenza e senza segni premonitori, e la cui diversità si fece sempre più marcata nel corso della malattia. In uno di questi stati ella riconosceva l'ambiente circostante, era depressa ed ansiosa, ma relativamente normale. Nell'altro stato era allucinata e «cattiva», vale a dire che era aggressiva, scagliava i cuscini contro le persone, nei limiti consentiti sporadicamente dalle contratture; con le dita ancora dotate di motilità strappava i bottoni della camicia da notte e della biancheria, e così via.”

E’ assolutamente evidente che il secondo stato di coscienza è l’espressione di una protesta rabbiosa, di una personalità o soggettività antitetica alla prima. E non ci vuole molto a capire il significato della protesta se teniamo conto di ciò che scrive Breuer:

“Questa ragazza, ribollente di vitalità intellettuale, conduceva un'esistenza quanto mai monotona in seno ad una famiglia dalla mentalità puritana. Soleva allietare la sua vita, in un modo tale che probabilmente ebbe una influenza decisiva sul carattere assunto dalla malattia, abbandonandosi sistematicamente al sogno a occhi aperti, che chiamava il suo «teatro privato».”

Anna O. è tenuta in gabbia dalla famiglia nell’attesa di un buon matrimonio. E’ singolare e significatico che, secondo Breuer, “in lei il fattore sessualità era sorprendentemente carente. Questa paziente, la cui vita mi divenne nota come raramente può essere la vita di un individuo conosciuta da un altro, non era mai stata innamorata, né l'amore entrò mai a far parte degli elementi della vita psichica ricorrenti nell'immagine congerie di allucinazioni che ebbe nel corso della malattia.”

Da Freud sappiamo che l’esito del trattamento non fu felice: "Berta Pappenheim (Anna O.) ebbe in seguito varie ricadute, fu ricoverata in una casa di cura, e nell' agosto 1883 era, come Breuer disse a Freud, completamente a pezzi. Anche anni dopo la paziente, che per un certo periodo si era data alla morfina, presentava ancora gli stati allucinatori serali".

Non è insignificante, a questo punto, leggere la storia di Bertha Pappenheim, estratta da Wikipedia:

“Bertha Pappenheim dedicò la propria vita al miglioramento della posizione sociale ed economica delle donne e dei bambini ebrei in Germania ottenendo sostegni nazionali ed internazionali per la causa delle donne ebree.

Nacque terza di quattro figli in una famiglia benestante, ebrea ortodossa, si confrontò molto precocemente coi privilegi riconosciuti al fratello più giovane del quale fu acerrima rivale e arrivò a detestare la condizione che la costringeva ad essere solo una ragazza, ritenendo che il suo intelletto fosse soffocato dalle attese della famiglia e dalla tradizione che la destinava al ruolo di moglie e madre. Perciò pretese di studiare e si laureò in una università cattolica con ottimi risultati in francese, italiano ed inglese, impegnandosi occasionalmente, già in quel tempo, in opere di solidarietà preludio al suo successivo occuparsi delle donne delle classi più trascurate in iniziative di giustizia sociale.

Poco dopo la morte del padre, alla cui assistenza si dovette dedicare per un lungo periodo a causa della grave malattia, iniziò a manifestare sintomi invalidanti, diagnosticati come isterici, in virtù dei quali divenne nota come Anna O. Per parecchi anni, anche dopo la conclusione del trattamento di Joseph Breuer, soffrì di ricadute gravi che causarono occasionali ricoveri; ciò fino al 1889 e al suo trasferimento a Francoforte dove, con l'aiuto di benefattori, iniziò a coltivare assiduamente il suo interesse per la giustizia sociale e nel 1890 con un libro scritto sotto lo pseudonimo di Paul Berthold dal titolo “In the Second Hand Shop”, una raccolta di brevi narrazioni, delineò la condizione dei bambini e dei poveri. Più tardi si lasciò attrarre dai lavori di Helen Lange nella sfera culturale e politica del femminismo tedesco e cercò di integrare tale nuova passione con le sue preoccupazioni per giustizia sociale e la propria identità di donna ebrea.

In tale contesto si colloca un suo lavoro del 1899, “I diritti delle donne” e la decisione di pubblicare in tedesco il testo di Mary Wollstonescraft “A Vindication of the Rights of Women”. Dopo un periodo di volontariato in un orfanotrofio di Francoforte, come cuoca, amministratrice della scuola materna e infine direttrice, pubblica nel 1910 due testi sulle modeste occasioni educative e l'indigenza delle ragazze ebree: “Il problema ebreo in Galizia” e “Sullo stato della popolazione ebrea in Galizia„. Nel 1902 fondò la “Weibliche Fuersorge” (Assistenza alla società delle donne), una lega destinata all'inserimento degli orfani in nuove famiglie, all'istruzione delle madri nella cura dei bambini e a fornire consigli e possibilità d'impiego professionali per le donne. Come rappresentante di tale lega viaggiò in Medio oriente, Europa e Russia interessandosi alla prostituzione e alla tratta della bianche e allora - raccogliendo il materiale poi divulgato nella più nota tra le sue pubblicazioni, “Sisyphus Work” (Fatica di Sisifo) - avvertì l'esigenza di una grande organizzazione dedita a iniziative sociali ed ai problemi delle donne ebree, che fosse indipendente e rivale dalle paragonabili istituzioni ebraiche istituite in funzione maschile.

Con altri attivisti, nel 1904 fondò il Juedischer Frauebund (lega delle donne ebraiche), di cui rimase presidente per vent'anni, un sodalizio che tra l'altro, conduceva la campagna contro la tratta delle bianche, particolarmente in Europa Orientale, contribuendo all'incremento delle tutele legali per le donne. Bertha Pappenheim definì “sisyphean” questa fase del suo lavoro, una fatica di Sisifo, in quanto spesso i progressi nella consapevolezza delle donne ebree sollevavano forti resistenze nelle stesse Comunità ebraiche che negavano l'esistenza di simili problemi nella loro popolazione. Ella più avanti dimostrò ironicamente come il nazismo usasse i suoi testi sulla tratta delle bianche tra gli ebrei come propaganda antisemitica.

Il Frauenbund ebbe inoltre la funzione di stabilire l'uguaglianza tra le donne e gli uomini in secolari questioni della Comunità: fu Bertha Pappenheim a promuovere l'accesso delle donne all'ambito altamente selezionato del Gemeinde, la Comunità ebrea tedesca. Un obiettivo del Frauenbund fu la formazione finalizzata alla carriera, promossa quale percorso di indipendenza finanziaria e di realizzazione personale per le donne, malgrado le difficoltà causata dalle condizioni e dai ruoli tradizionali, quali il governo della casa, la professione d'infermiera ed il lavoro sociale; in tale progetto Bertha Pappenheim si accertava comunque che la cultura delle tradizioni ebraiche, specie riguardo al rispetto dei ruoli nella famiglia e delle ricorrenze, restasse centrale nella formazione femminile.”

A posteriori, è agevole capire che la seconda personalità di Anna O., quella “cattiva”, esprimeva un potenziale di individuazione che è riuscito poi a dispiegarsi pienamente sul terreno del femminismo e della difesa dei diritti delle donne.

Bertha Pappenheim è morta nel 1936, tre anni prima di Freud. E’ difficile pensare che questi non sia venuto al corrente del ruolo pubblico e intellettuale da essa assunto. Non lo ha mai commentato, però, ed è probabile che, se lo avesse fatto, lo avrebbe interpretato come “sublimazione” di una sessualità frustrata, non essendosi la Pappenheim mai sposata.

Il dogmatismo pulsionale di Freud è, dunque, evidente fin dall’avvio della sua attività di ricercatore.

Ciò nondimeno, mettendo a fuoco il concetto di scissione dinamica della personalità, egli ha offerto un contributo prezioso alla psicopatologia e, in senso lato, alla comprensione della mente umana.

Tornerò ulteriormente su questo aspetto. Qui è importante accennare al problema della disposizione alla nevrosi.

La descrizione della personalità fornita da Breuer riguardo ad Anna O. non fa riferimento ad una circostanza fuori del comune, per cui il disagio psichico si associa ad eccellenti qualità umane. Nello stesso libro, Freud fornisce un analogo giudizio nei confronti di altre pazienti. Riguardo a Emmy von N. scrive:

“Era di aspetto tuttora giovanile, con lineamenti fini, pieni di carattere…

Quanto mi diceva era perfettamente coerente e rivelava un livello non comune di istruzione e intelligenza…

Ha viaggiato parecchio e ha molti e vivi interessi...

Breuer e io la conoscevamo molto bene e da tanto tempo ed eravamo soliti sorridere quando confrontavamo il suo carattere con la rappresentazione della psiche isterica che si può dedurre, fin da tempi remoti, attraverso gli scritti e le opinioni dei cultori della medicina. Avevamo appreso dalle nostre osservazioni su Frau Cacilie M. che l'isteria del genere più grave può coesistere con doti intellettuali della più ricca e originale natura, conclusione, questa, che in ogni caso è resa certa, fuori di ogni dubbio, dalle biografìe di donne eminenti della storia e della letteratura. Allo stesso modo, Frau Emmy von N. ci fornì un esempio di come l'isteria sia compatibile con un carattere irreprensibile e con un ben ordinato tenore di vita.

La donna che noi avemmo la ventura di conoscere era ammirevole. La serietà morale con cui affrontava i suoi doveri, la sua intelligenza ed energia, non inferiori a quelle di un uomo, l'alto grado della sua istruzione e il suo amore della verità, ci impressionarono grandemente, mentre la sua benevola sollecitudine del benessere di tutti i suoi dipendenti, la sua umiltà intellettuale e la raffinatezza dei suoi modi rivelavano le sue qualità di vera signora. Descrivere questa donna come una «degenerata» significherebbe distorcere il senso di questa parola oltre ogni possibilità di riconoscimento. Faremo bene a distinguere tra i concetti di «disposizione» e «degenerazione» nell'applicarli alle persone. Altrimenti ci troveremo costretti ad ammettere che l'umanità è debitrice di una gran parte delle sue grandi conquiste agli sforzi di «degenerati».”

Su Elisabeth von R. Freud scrive:

“La malata sembrava intelligente e normale dal punto di vista mentale e sopportava i propri disturbi, che interferivano con la sua vita di società e i suoi divertimenti, con aria allegra, (la belle indifference di un'isterica, non potevo fare a meno di pensare)...

Era la minore di tre figlie, teneramente affezionata ai genitori, e aveva trascorso la giovinezza nel loro possedimento in Ungheria. La salute della madre era spesso scossa da una affezione oculare e da disturbi nervosi. Accadde quindi che ella fu portata ad avere rapporti particolarmente intimi con il padre, un brillante uomo di mondo, che era solito dire che questa sua figliola teneva il posto di un figlio e di un amico col quale scambiare le sue idee. Sebbene la mente della ragazza trovasse uno stimolo intellettuale in questi rapporti col padre, questi non mancava di osservare che la costituzione psichica di lei si differenziava sotto questo aspetto da quell'ideale che la gente ama veder realizzato in una ragazza. Scherzando egli le dava della «sfacciata» e «presuntuosa» e la metteva in guardia contro l'eccessiva sicurezza dei suoi giudizi e contro l'abitudine di dire alla gente la verità senza tanti riguardi, e spesse volte diceva che le sarebbe stato difficile trovar marito. Lei, difatti, era molto scontenta di essere una ragazza. Era piena di progetti ambiziosi. Voleva studiare o farsi una preparazione musicale e si ribellava all'idea di sacrificare, col matrimonio, le sue attitudini e la sua libertà di giudizio. In effetti, ella si alimentava dell'orgoglio riposto nel padre e del prestigio e posizione sociale della famiglia, per cui coltivava gelosamente tutto quanto era connesso con questi privilegi. Però il disinteresse con cui ella, presentandosene l'occasione, metteva al primo posto la madre e le sorelle, riconciliava interamente i suoi genitori con quel lato un po' aspro del suo carattere.”

E aggiunge:

“Ho descritto il carattere della paziente, i cui elementi sono di osservazione tanto frequente tra gli isterici, che non possono assolutamente essere considerati conseguenze della degenerazione: le doti mentali, l'ambizione, la sensibilità morale, l'eccessivo bisogno di amore, che dapprima trovava soddisfazione nella famiglia, l'indipendenza della sua natura che valicava i confini dell'ideale femminile e trovava espressione in una forte carica di ostinazione, combattività e riservatezza.”

Nonostante questi rilievi, che, come vedremo, Freud ripete, mutatis mutandis, anche per i pazienti maschi, non risulta che si sia mai chiesto come mai persone così dotate sviluppassero una nevrosi. O meglio, se lo è chiesto ma è sempre rimasto fermo al concetto di disposizione, per cui quelle persone, oltre che di potenzialità emozionali e cognitive eccellenti, sarebbero state dotate dalla natura anche di un bagaglio pulsionale particolarmente intenso.

Oggi non abbiamo difficoltà a capire che la disposizione cui fa riferimento Freud si può agevolmente ricondurre ad una ribellione conscia e inconscia contro un ordine socio-culturale che assegnava alle donne un ruolo subordinato al potere maschile e un destino legato alla necessità di realizzarsi attraverso il matrimonio e la maternità.

I soggetti isterici di Freud sono in pratica, a loro insaputa, proto-femministe.

Non c’è da sorprendersi di questo se si tiene conto che la rivendicazione di pari dignità delle donne rispetto agli uomini è estremamente attiva nel periodo in cui Freud porta avanti le sue ricerche sull’isteria. Preceduta da una lenta preparazione, che riconosce la sua prima espressione nella presentazione all’Assemblea rivoluzionaria francese del 1789 di un Cahier de doléances de femmes, quella rivendicazione si avvia in Inghlterra con il movimento delle suffragette nel 1872 e si estende rapidamente in Europa e negli Usa.

Facendo parte dell’aria dei tempi, trovarla espressa nell’inconscio di soggetti femminili appartenenti all’alta borghesia austriaca, patriarcale, conservatrice, cattolica e militarista, non è sorprendente.

Come ho avuto occasione già di rilevare, Freud, nonostante la sua vocazione alla ricerca, non ha il senso della storia e, quindi, nessuna capacità di analizzare la condizione femminile in termini storico-culturali. Egli, di conseguenza, non può arrivare a capire il significato della controvolontà presente nei soggetti isterici, che pure scopre lucidamente.

L’isteria oggi

L'isteria ottocentesca, descrittta vividamente da Charcot e da Freud, oggi è praticamente scomparsa (almeno nei Paesi occidentali). Nell’attuale classificazione del DSM-IV, il termine “nevrosi isterica” è stato sostituito dal disturbo di conversione e dal disturbo dissociativo di personalità (stati crepuscolari con episodi di sonnambulismo, fughe isteriche, personalità multiple, stati stuporosi, deliranti e allucinatori).

Dato che tali disturbi sono gli stessi che Freud ha identificato come specifici della nevrosi isterica, c'è da chiedersi se la frammentazione nosografica non oscuri un nucleo conflittuale ancora attivo e, se questo è vero, se tale nucleo non abbia un significato strutturale.

Com’è noto, per molti secoli l’isteria è stata associata all’universo femminile. Ne fa fede il termine stesso che fa riferimento all’utero. L’isterica maligna, vale a dire la strega, è ancora rappresentata a livello di immaginario collettivo. In realtà, i meccanismi isterici possono essere presenti anche negli uomini. Quell’associazione, però, non è priva di fondamento.

L’universo femminile paga ancora oggi un tributo sull’altare del disagio psichico che è in un rapporto di due a uno rispetto a quello maschile. Se si prescinde dal riferimento ad una vulnerabilità costituzionale delle donne, che si riconduce alla labilità emozionale legata alle vicissitudini ormonali, c’è da chiedersi il significato del dato epidemiologico.

La risposta non può prescindere da una considerazione storica.

Come accennato, la rivendicazione della pari dignità delle donne rispetto agli uomini si è avviata con la Rivoluzione francese ed è giunta, con il suffragio universale e con una serie di leggi promosse dal movimento femminista, ad un’affermazione che sul piano giuridico si può ritenere compiuta.

Si sa da tempo, però, che le leggi, spesso, anticipano i tempi, nel senso che esse non incidono se non lentamente sui recinti mentali culturali, posti in luce dagli storici francesi della scuola de Les Annales, propri di una determinata società.

Un recinto mentale di antica tradizione concerne il ruolo e il destino della donna, la cui realizzazione postula la subordinazione al potere maschile come passaggio necessario per entrare nel ruolo di moglie e di madre. Tale riferimento, la cui conseguenza è che se la donna non riesce a mettere su un rapporto di coppia valido e duraturo, corroborato dalla maternità, la sua vita è sterile e priva di senso, è del tutto ancora attivo nell’inconscio sociale e nell’inconscio soggettivo femminile.

In molte donne, però, consciamente o inconsciamente, non solo la subordinazione al potere maschile è visceralmente rifiutata, ma è sovrastata da una motivazione conflittuale e competitiva, che implica sia una rabbia vendicativa nei confronti dell’uomo (assunto come rappresentante di una categoria di esseri prepotenti e prevaricatori, se non addirittura violenti) sia la volontà di dimostrare che la donna è più forte e capace dell’uomo.

Il richiamo persistente alla subordinazione e il desiderio di riscatto competitivo spiegano l’intero spettro della condizione femminile nel nostro mondo. Ad un estremo, infatti si danno soggetti che ancora accettano una subordinazione totale al potere maschile, e ad un altro estremo soggetti che la rifiutano radicalmente operando la scelta di una vita da single spesso compensata dalla dedizione al lavoro (le donne in carriera). Si tratta, però, di due minoranze. Tra gli estremi si danno esperienze nelle quali le due motivazioni cui ho fatto cenno rimangono in conflitto per sempre. Le espressioni costanti di tale conflitto sono per un verso una perpetua paura dell’abbandono e della solitudine e, per un altro, una conflittualità permanente con il partner, che la donna tenta di contrastare o di assoggettare al suo potere.

Se si tiene conto che gran parte dei soggetti femminili che avanzano una domanda di cura psicoteraputica lo fanno sulla base di difficoltà relazionali con l’universo maschile e che, nel corso della terapia, il conflitto tra subordinazione e dominio viene sempre in luce, la conclusione cui si giunge è che l’isteria, intesa come espressione di esso, è quanto mai viva nel nostro mondo, a distanza di due secoli dall’avvio della rivendicazione della pari dignità.

E' scomparso, insomma, l'arco di cerchio, che, nel suo significato simbolico, si esprime ancora oggi in un certo numero di donne che sono inquietantemente seduttive e al tempo stesso assolutamente frigide, ma non è scomparso il travaglio dell'universo femminile.

Gettando lo sguardo nell’inconscio delle pazienti isteriche, Freud ha avuto sotto gli occhi queste verità. Il problema è che ideologicamente non poteva vederle.

La psicopatologia dinamica, inaugurata da Freud, è l'espressione di conflitti inconsci che vanno interpretati sulla base dell'esperienza soggettiva e della storia interiore, laddove le interazioni con l'ambiente vengono interpretate con gli strumenti culturali e cognitivi di cui i soggetti dispongono , che sono notoriamente carenti nel corso delle fasi evolutive e, spesso, tali rimangono anche successivamente. Tenendo conto, però, della storia dell'isteria e delle sue trasformazioni, che esprimono le potenzialità patoplastiche della cultura, non si può non considerare l'importanza della storia sociale (nei suoi aspetti superficiali e profondi). L'evoluzione della personalità avviene entro contenitori istituzionali (famiglia, scuola, ecc.) che fanno parte di un sistema più ampio, trasmettono le Tradizioni e, a modo loro, si aggiornano in conseguenza degli sviluppi storico-sociale e culturali.

Il paradosso di Freud è di avere cercato una chiave filogenetica della vicenda umana (che ha trovato nell'interazione tra una Natura umana fissa e immutabile e la Cultura), trascurando il fatto che gli esseri umani vivono nel temo, e ciascuno nel proprio tempo.