Intervista immaginaria a Freud di Luigi Anepeta |
A. Egregio Prof. Freud, sono venuto a trovarla per portarle notizie sullo stato di salute della sua teoria. Alcune sono buone, altre meno. Da quali partiamo? F. Da quelle buone, naturalmente. Allevieranno la delusione per le altre. A. Le notizie buone sono recenti. Dopo un periodo di crisi profonda, nel corso della quale alcuni studiosi erano giunti a ritenere gran parte delle sue teorie infondate e prive di credibilità scientifica, la psicoanalisi sta tornando a nuova vita nel secolo XXI in conseguenza di una rivalutazione che muove dalle neuroscienze. F. La cosa non può farmi che piacere. Ho sempre pensato che i processi mentali avessero un fondamento biologico. Ho anche tentato prematuramente di illustrare questo nesso, ma i dati all'epoca erano troppo carenti. Cosa è stato scoperto di nuovo? A. Anzitutto che la dimensione mentale inconscia è smisuratamente più ampia rispetto alla coscienza. C'è qualcuno che ha tentato anche di quantificare questo rapporto. Sembra che la coscienza coinvolga solo il 5% dell'attività mentale. F. È un dato inquietante, ma non del tutto sorprendente. Le catene di memorie che ho scoperto attraverso l'analisi dei sogni me lo hanno fatto intuire. Ricordo ancora lucidamente l'emozione della scoperta. Si tira un filo e viene fuori una matassa che sembra non avere fine. A. Il dato non tiene solo conto dell'inconscio che in suo onore è definito freudiano, quello dovuto alla rimozione. La sua intuizione di un inconscio non rimosso si è estesa oltre misura. Essa concerne ormai un insieme indefinito di automatismi che, una volta appresi, funzionano senza l'intervento della coscienza. Un autore è giunto ad affermare che gran parte delle cose che sentiamo, pensiamo e agiamo, muovono sostanzialmente da processi che si svolgono a livello inconscio. Anche il parlare, per esempio, è ricondotto in questo ambito; almeno per quanto concerne la fluidità che associa al filo del pensiero le parole giuste. F. Ho intuito qualcosa del genere analizzando i lapsus verbali e i lapsus calami. A. La sua intuizione è del tutto confermata. I lapsus attestano che, al di sotto della soggettività cosciente, che intende esprimere un certo contenuto di pensiero, se ne dà un'altra che porta ad esprimere un contenuto diverso, in contraddizione o addirittura opposto. F. A dire il vero, io non ho mai parlato di una soggettività inconscia, ma di contenuti inconsci pulsionali che premono per esprimersi e devono fare i conti con il Preconscio. I lapsus attestano che la barriera della rimozione viene saltata. A. Penso di avere studiato a lungo le sue opere per non attribuirle cose che non pensa. Mi sono sempre chiesto perché, essendo giunto attraverso l'analisi dell'isteria, a identificare una scissione dinamica, che implica una doppia soggettività, l'abbia poi messa da parte. Penso perché risultasse in contrasto con la teoria delle pulsioni. Sarebbe stato imbarazzante per lei riconoscere che l'inconscio, anche nel suo strato più profondo, è depositario di motivazioni e di umani bisogni, che pensa e sente umanamente. F. Più che imbarazzante, impossibile. Gli stati di coscienza deliranti dei soggetti isterici, come anche le fantasie coatte degli ossessivi fanno affiorare inconfutabilmente il caos pulsionale, quello che non ricordo dove ho definito un inferno. A. È probabile, per non dire certo, che si tratti di un giudizio di valore. Per esempio, la nevrosi di di Bertha Pappenheim, reinterpretata alla luce della sua biografia (che è stata ricostruita nei dettagli) sembra celare, sotto un apparente caos pulsionale, una protesta cieca e rabbiosa, ma fondata, contro la cultura maschilista. La protesta si sarebbe espressa sotto forma nevrotica prima di trovare un canale di scorrimento adeguato e significativo. La Controvolontà che l'ha fatta ammalare le ha permesso poi di realizzare un suo modo di essere originale e significativo sia sotto il profilo personale che sociale. F. Ho parlato di Controvolontà in riferimento alle spinte pulsionali che boicottano la coscienza nella misura in cui essa tenta di adottare il principio di realtà. Quando usai il termine, presumibilmente, avevo in mente Schopenhauer. Pulsione, mi è sembrato un termine più proprio, più scientifico. Non ho mai ignorato che l'Io può giungere a controllare la spinta pulsionale. A. Nel caso di Bertha, si direbbe che l'Io risolve la nevrosi nel momento in cui si fa carico e realizza una motivazione significativa in sé e per sé. Del resto, analizzando gli esempi che lei fornisce in Psicopatologia della vita quotidiana, l'impressione è che l'inconscio si dia un gran da fare per esprimere, più che una spinta pulsionale, un contenuto autentico laddove la coscienza tende a mentire. Se le cose stanno così, è difficile non pensare che sia in azione una soggettività. F. L'ipotesi mi disturba abbastanza. I contenuti in questione non sono solo soggettivamente sgradevoli; lo sono anche socialmente e moralmente. A. Ma molti dei suoi lapsus, riportati nel libro e analizzati, attestano semplicemente che, accettando di fare cose che non gradiva, dimenticava di farle. È evidente che, nella vita, non si può fare solo e sempre ciò che si vuole. È possibile però fare (o non fare) qualcosa di poco gradevole rendendosene conto, senza delegare all'inconscio il compito di esprimere l'emozione spiacevole. F. Forse ha ragione. Il problema, valutandolo a posteriori, è che le mie reazioni di rabbia, quando incontravo degli ostacoli, quando qualcuno mi imponeva qualcosa di sgradevole o quando qualche allievo criticava le mie teorie, sono state sempre a tal punto violente da sconcertarmi. Non mi sorprende che esse siano state rimosse. Se mi fossi abbandonato alla rabbia, sarei divenuto presumibilmente un essere del tutto asociale. A. Ma Lei era protetto da un Super-io formidabile. In due occasioni, quando si è arrabbiato a morte con Jung per la riottosità nei confronti della sua teoria della libido, è semplicemente svenuto. Di sicuro ha avuto una fantasia di eliminazione nei suoi confronti: una fantasia figlicida, oserei dire, perlatro innocua. Mi chiedo, però, perché lei non ha mai considerato le colpe dei padri, ma sempre e solo quelle dei figli. A riguardo, mi preme dirle che uno psichiatra ha approfondito la storia di Schreber padre, che lei ha giudicato un'ottima persona, e ha trovato che il trattamento pedagogico cui egli aveva sottoposto i figli, pur fondato su buone intenzioni, era di un sadismo repressivo tale da giustificare il fatto che un figlio sia morto suicida e un altro sia diventato pazzo. F. Questo spiega forse perché Schreber, riferendosi a Dio, afferma che egli non capisce nulla degli esseri umani. È difficile però mettere in dubbio che, nell'inconscio di Schreber, Dio rappresentasse il padre, e che la punizione temuta (che egli vive come un sacrificio necessario) fosse una castrazione. A. Dato che il modello pedagogico di Schreber padre era fin troppo evidentemente un modello maschilista e militarista, non pensa che si potrebbe ammettere che Schreber, attraverso il delirio, protestasse contro tale modello, che gli aveva reso impossibile coltivare la sua sensibilità, la sua umana debolezza e, forse, la parte femminile di sé? F. Per questa via, si giunge ad assegnare all'inconscio una sorta di saggezza che mi riesce incredibile. A. Qui entriamo in medias res. La sua convinzione che la natura umana non contenga alcun bisogno sociale è stata sempre ferma. Prima di affrontare questo aspetto, vorrei comunicarle l'altra buona notizia, legata al lavoro dei neuroscienziati. Essa conferma che i processi mentali inconsci sono sempre significativi. È solo il non riuscire a comprenderne il significato che li fa ritenere irrazionali. Il suo incessante sforzo di illuminare i significati che sottendono i contenuti mentali inconsci viene ritenuto, oggi, un contributo scientifico di indefinito valore. F. Il culto della Dea Ragione, di fatto, ha danneggiato l'umanità. Ci sono sempre ragioni dietro quello che l'uomo sente, pensa o fa. A. Il problema è di stabilire di quali ragioni si tratta. A posteriori, non pensa che la teoria pulsionale sia a riguardo alquanto riduttiva? Essa, in fondo, sostiene che l'inconscio è animato da sole due motivazioni: quella di stabilire legami con il mondo esterno per soddisfare l'Eros, e quella di sciogliere legami per mantenere o recuperare uno stato di equilibrio inerziale, per mettersi, cioè, al riparo da ogni stimolo che possa turbarlo. F. Nella sua semplicità ed eleganza, mi sembra ancora una teoria perfetta. A. Il problema, però, (e qui cominciano le cattive notizie, che io peraltro non ritengo tali) è che le neuroscienze hanno confutato definitivamente il principio di inerzia o di stabilità su cui lei ha costruito la teoria della pulsione di morte. I neuroscienziati hanno scoperto che il cervello è dotato di un'attività intrinseca: funziona, insomma, autonomamente rispetto agli stimoli esterni, cercando di mantenere un optimum tra assenza di tensione e tensione eccessiva. Esperimenti famosi hanno dimostrato che, messo in condizione di più o meno totale isolamento sensoriale, il cervello umano sta male e, nel giro di due-tre giorni, vicaria l'assenza di stimoli producendo allucinazioni. F. Questo è veramente incompatibile con la mia teoria della pulsione di morte, ma mi porta a pensare, a maggior ragione, che l'aggressività sia una motivazione primaria nell'inconscio umano. A. Anche questa ipotesi è stata confutata. Due psicologi, non certo ostili nei suoi confronti, hanno dimostrato il rapporto che c'è tra frustrazione e aggressività. Ma la frustrazione in questione negli esprimenti non sembra avere rapporto con pulsioni smodate bensì, più semplicemente, con bisogni e diritti umani. F. Questo potrebbe significare che i soggetti sottoposti ad esperimenti non avevano un bagaglio pulsionale particolarmente spiccato. Io ho tratto le mie conclusioni partendo dalla pratica clinica. Che le persone affette da un disagio psichico convivano con un mondo di pulsioni sfrenato penso che non si possa mettere in dubbio. A. L'esempio di Bertha e forse anche quello di Schreber lo mettono in dubbio. La sua risposta mi induce a parlare di una contraddizione costante nelle sue opere. Più volte lei ha rilevato che i pazienti avevano qualità umane (di intelligenza, sensibilità e cultura) fuori dell'ordinario, ma non è mai rimasto sorpreso che tali qualità potessero associarsi ad un corredo pulsionale particolarmente intenso. Ho cercato di interpretare questa contraddizione presumendo che lei attribuisse le qualità alla persona e il corredo ad un'eredità filogenetica. F. In effetti varie volte sono rimasto perplesso per quell'associazione. La conclusione cui sono giunto è proprio quella cui ha fatto riferimento. A. Il problema è che non sembra sostenibile più di tanto. Se c'è un dato che accomuna i soggetti nevrotici (e ancor più quelli psicotici) è una sensibilità sociale originariamente molto elevata, che li rende in fase evolutiva facilmente preda delle influenze sociali e delle aspettative altrui, che interiorizzano sotto forma di Super-io. Il conflitto sembra animarsi in loro allorché, in virtù della crescita, intuiscono, spesso inconsapevolmente, che i loro desideri e i loro bisogni vanno al di là della normalità prescritta. Se non riescono a rendersene conto e a realizzarsi, il loro mondo interiore viene lacerato tra i richiami normativi e quelli vocazionali. I sensi di colpa che sviluppano sembrano una prova della loro sensibilità, piuttosto che della loro natura primitiva e selvaggia. D'altro canto, come lei ben sa, si tratta di persone che in genere non fanno male a nessuno. Perché mai dovrebbero soffrire tanto in un mondo nel quale altri soggetti agiscono comportamenti egoistici, strumentali, aggressivi e distruttivi senza sviluppare rimorso alcuno? F. Se mi riconosce un'onestà intellettuale di cui meno vanto, lei non avrà difficoltà a capire che problemi del genere me li sono posti più volte. Ma non ho trovato alcuna altra soluzione che non quella cui sono pervenuto. L'ho difesa – è vero – con le unghie e con i denti. Se dovessi rendermi conto, però, che è sbagliata, non avrei difficoltà a riconoscerlo. Vorrei capire, in tale caso, come è possibile che una mente aperta al dubbio e alla ricerca possa incorrere in fraintendimenti del genere. A. La risposta forse c'è. Da decenni è nata una disciplina – l'epistemologia – che si interessa di come procede e si realizza il sapere scientifico. Una delle conclusioni unanimemente condivise è che in genere, e in particolare per quanto riguarda le scienze che hanno come oggetto l'uomo, nessuno scienziato è una tabula rasa. In altri termini, ogni ricercatore si pone sul terreno empirico partendo da alcune convinzioni di fondo sulla natura umana che fanno parte del suo bagaglio culturale o esperienziale. C'è da pensare che lei sia giunto a studiare l'essere umano partendo da una concezione preesistente profondamente pessimistica sulla natura umana: una concezione mutuata in parte dalla sua appartenenza ebraica e in parte dall'adesione alla civiltà borghese. F. I miei studi sulla Bibbia sono ormai noti a tutti. Per quanto riguarda la civiltà borghese, ho nutrito sempre nei suoi confronti una profonda ambivalenza. L'ho ritenuta, in particolare, una civiltà ricca di valori, ma ipocrita più di tante altre esistite in precedenza. A. L'ambivalenza è evidente nella sua opera. Sia pure da un'angolatura psicologica, lei ha demistificato la civiltà borghese così come hanno fatto Marx e Nietzsche. Non sembra essere stato capace, però, di liberarsi della suggestione di Hobbes e di Schopenhauer. F. Lei intende dire che ho sovrapposto alla scienza idee filosofiche? A. Non lo affermo io. Lo ha affermato uno dei suoi più profondi studiosi: G. Politzer. Si trattava di un marxista di grande onestà intellettuale il quale ha scritto: “Freud è altrettanto astratto nelle sue teorie quanto è concreto nelle sue scoperte.” In breve, Politzer le attribuisce una capacità di intuizione psicologica che ha pochi confronti, ma che è stata sistematicamente piegata al fine di fare rientrare le sue scoperte nella cornice del suo modo di vedere il mondo. F. Stento a capire cosa significa questa distinzione. Se essa fosse vera, però, cosa rimarrebbe del lavoro cui ho dedicato la mia vita? A. Più di quanto basta a definire la sua impresa geniale. Almeno tre scoperte sono destinate a rimanere per sempre patrimonio del sapere dell'uomo su se stesso. Mi permetta di elencarle. La prima è che la coscienza nella sua pretesa di unità, continuità nel tempo, coerenza e potere decisionale inganna più o meno sistematicamente l'uomo. La seconda è che l’attività mentale umana è indefinitamente più complessa, ricca e ridondante di quanto i singoli individui, la cui esperienza è confinata a livello cosciente, comunemente pensano. La terza è che in ogni soggettività si danno nuclei nevrotici e psicotici latenti. In conseguenza di questo, si realizza il superamento dell’antitesi tra normalità e anormalità psichica. Certo, queste tre grandiose iscoperte possono essere interpretate diversamente da come le ha interpretate Lei. Rimangono comunque affatto prodigiose e aprono un campo di ricerca smisurato. F. Mi riconosco in queste tre scoperte. Ma l'essenza della mia teoria è che l'inconscio, come contiene la chiave delle malattie mentali, così ha un'intrinseca pericolosità. A. È vero, ma è una pericolosità legata alla complessità dell'apparato mentale, che “dona” all'uomo l'angoscia della solitudine e dell'insignificanza della sua esistenza. Mi chiedo perché, pur avendo frequentato Binswanger, non ha mai tenuto conto della dimensione esistenziale dell'esperienza umana. I problemi più inquietanti l'uomo li incontra via via che cresce. Lo spettro dei destini individuali non dipende solo dall'infanzia, ma dalle circostanze di vita, dall'attrezzatura culturale di cui gli uomini dispongono e dall'uso che ne fanno. F. Questa è una visione un po' distante dalla mia. A. È una visione comunque compatibile con le sue scoperte, e che forse le arricchisce. F. In che senso? A. Nel senso che dà all'avventura umana il carattere di una sfida incentrata sul dovere fare i conti con l'indefinita complessità dell'esperienza interiore, oltre che con l'indefinita complessità del mondo storico-culturale. F. L'unica sfida che io ho preso in considerazione è la necessità, sul piano sociale, culturale e individuale, di arginare le pulsioni. Mi sembra già un'impresa estrema. A. Ma forse c'è di più. Nel passaggio dall'animale all'uomo, il cervello si è umanizzato. Le sue enormi potenzialità specie-specifiche sono depositate in ogni individuo, ma sono potenzialità della specie, non dell'individuo. Questi può utilizzarle nella misura in cui riesce a farlo, ma esse rimangono un patrimonio collettivo di umanizzazione. F. Non posso seguirla perché, come sa, nell'inconscio ho visto sempre e solo un radicale egoismo. A. Ma già Nietzsche, a modo suo, sosteneva qualcosa del genere. Oggi, peraltro, alcuni biologi e paleoantropologi, in riferimento al cervello, parlano di ridondanza funzionale, vale a dire di un insieme di potenzialità irriducibili all'adattamento dell'individuo, per quanto questi possa essere egoista. F. Non so a cosa possa tendere un individuo se non ad affermare se stesso competendo con gli altri e a godersi la vita. A. Già, ma c'è modo e modo di affermare se stessi e di godersi la vita. Dedicandosi ad un'infaticabile lavoro intellettuale, la ridondanza funzionale l'ha sperimentata di persona, anche se presumo l'abbia interpretata come una sublimazione. Con quale piacere avrebbe scambiato l'estasi che ha provato quando ha posto la parola fine all'Interpretazione dei sogni? F. Lei sa che ho sempre criticato Jung per la sua ossessione riferita ad un presunto bisogno di trascendenza. Gli ebrei sono educati a sublimare. A. La deriva spiritualista di Jung non ha mai convinto neppure me. Ma la ridondanza funzionale del cervello non ha nulla a che vedere con l'anima. È l'espressione di un organo nato dall'evoluzione naturale, di un frammento di materia che si è organizzato casualmente in un modo affatto singolare. È l'amministrazione di questo congegno la sfida cui l'uomo è chiamato. F. Ma questa sfida non comporta anche l'egoismo, lo sfruttamento, la violenza, la crudeltà, la tortura, la guerra? A. Marx ha detto che l'uomo vive ancora nella sua preistoria. F. Forse non ne uscirà mai. A. Non si può escludere. Se dovesse fuoriuscirne, comunque, sarà dovuto anche al suo contributo. F. Nel senso che gli esseri umani sarebbero educati a regolare le pulsioni, senza reprimerle troppo e senza abbandonarsi ad esse? A. No, sarebbe inutile. Una cosa del genere è stata provata da sempre e non ha funzionato. F. E allora, quale contributo potrebbe dare la mia teoria? A. Il contributo non sarebbe dovuto alla sua teoria, ma alle sue scoperte. L'educazione dovrebbe aiutare i soggetti a non dare troppo credito alla propria coscienza e, al tempo stesso, a liberarsi dalla paura del proprio mondo interiore. L'inconscio non è un nemico, bensì il depositario di una contraddizione di fondo che è il nostro bene e il nostro male: la contraddizione per cui siamo esseri radicalmente sociali dotati della consapevolezza della nostra identità individuale. F. Mi sembra che più che un'intervista, mi sta impartendo una lezione. A. Mi dispiace, non ne ho alcuna intenzione. Mi considero suo allievo: senza le sue scoperte non sarei arrivato a determinate conclusioni. L'uomo ha una doppia natura: questo è il problema, ed è un problema tanto inquietante che, per molti aspetti, deve rimanere depositato a livello inconscio. Uscire dalla preistoria significa aiutare gli uomini ad accettare questa verità, e a coltivarla per tutta la vita cercando di raggiungere il massimo equilibrio possibile. F. Lei pensa ad un essere pienamente realizzato sul piano individuale e su quello sociale? A. Più o meno. Un uomo del genere non potrebbe non dedicarsi alla coltivazione dell'inconscio, e non potrebbe essere indifferente al destino dei simili. F. Sinceramente mi sembra un'utopia. A. Lo è, ma, forse, è più concretamente realizzabile della sua, che implica un universo di individui capaci di convivere con cieche pulsioni trovando un equilibrio tra esse e le esigenze della società. F. Sarà il futuro – presumo – a dire come stanno le cose. A. Senz'altro, però già oggi alcune verità sono acquisite. Quella, per esempio, per cui gli esseri umani sono dotati fin dalla nascita di un'empatia che li spinge a sintonizzarsi con gli adulti. F. I bambini si aggrappano agli adulti perché altrimenti non sopravviverebbero. La loro dipendenza si fonda su di un bisogno meramente strumentale, e dunque egoistico. A. C'è qualcosa di più. Uno psicologo ha scoperto che, nei brefotrofi, bambini perfettamente accuditi sotto il profilo del cibo e dell'igiene, morivano senza essere malati; morivano per difetto di calore, di affetto e di amore. Sembra che, al fondo del nostro essere, ci sia una tensione primaria verso l'umano. Lei comprende che, se le cose stanno così, le sue straordinarie scoperte vanno riformulate e inserite in una nuova cornice di riferimento, che non sarebbe azzardato definire Panantropologia dato che dovrebbe integrare almeno genetica, neurobiologia, psicoanalisi, sociologia e storia sociale. Il suo nome comunque rimarrà nella cerchia ristretta degli studiosi che hanno contribuito ad avviare un processo di demistificazione individuale e collettiva: Darwin, Marx e Nietzsche. F. Sono onorato di questa compagnia, anche se – lo confesso – non ho studiato a fondo nessuno di questi autori e a Nietzsche ho fatto qualche torto. A. Ho un'ultima domanda da farle. All'inizio della Prima guerra mondiale ha avuto un soprassalto patriottico, come se non si fosse reso conto di dove sarebbero andati a parare eserciti di leva dotati di attrezzature micidiali. Negli anni '30, poi, non ha colto il pericolo del nazismo e ha rimosso la predisposizione dell'Austria all'Anschluss. Come spiega questa scarsa previdenza storica? F. Forse, nonostante il pessimismo, non mi sono mai arreso al fatto che gli uomini potessero scendere così in basso. A. Era proprio questo che desideravo sentire da Lei. La ringrazio. |