Vie della terapia psicoanalitica

1918

 

Signori colleghi,

come voi sapete, non ci siamo mai gloriati del carattere concluso e completo delle nostre conoscenze e delle nostre potenzialità; anche adesso, come sempre in passato, siamo pronti ad ammettere le imperfezioni del nostro sapere, a imparare cose nuove e a mutare il nostro modo di procedere laddove esso può essere migliorato.

Ora che ci siamo nuovamente radunati dopo un lungo, difficile periodo di separazione, mi attira l'idea di riesaminare la situazione della nostra terapia, alla quale comunque dobbiamo la nostra posizione nella società umana, e di considerare le nuove direzioni in cui essa potrebbe svilupparsi.

Abbiamo affermato che il nostro compito terapeutico consiste nel portare il nevrotico a conoscenza degli impulsi inconsci e rimossi che esistono in lui, e nel rendere palesi a tal fine le resistenze che si oppongono a questa estensione della sua conoscenza in merito alla propria persona. La scoperta di tali resistenze assicura anche il loro superamento? Non sempre, certamente; eppure noi speriamo di raggiungere questa meta utilizzando la traslazione del malato sulla persona del medico, per indurlo ad adottare la nostra convinzione dell'inopportunità dei processi di rimozione che hanno avuto luogo nell'infanzia e dell'impossibilità di vivere secondo il principio di piacere. I rapporti dinamici del nuovo conflitto attraverso cui guidiamo il malato, e che in lui provochiamo al posto del conflitto patologico precedente, sono stati illustrati altrove. Al momento non ho nulla da cambiare in merito.

Abbiamo dato il nome di psicoanalisi al lavoro con cui portiamo il malato a prendere coscienza dei suoi contenuti psichici rimossi. Perché "analisi", che significa scomposizione, dissezione, e fa pensare a un'analogia col lavoro che il chimico compie sulle sostanze che trova in natura e porta nel suo laboratorio? Perché, in un punto importante, una tale analogia esiste davvero. I sintomi e le manifestazioni patologiche del paziente — come tutte le sue attività psichiche — hanno un carattere altamente composito; gli elementi di questa composizione sono in definitiva motivazioni, moti pulsionali. Ma il malato o non conosce affatto questi fattori, o li conosce solo in modo assai insufficiente. Ebbene, noi gli insegnamo a capire la composizione di queste formazioni psichiche complicatissime, riconduciamo i sintomi ai moti pulsionali che li hanno originati, dimostriamo come nei sintomi stessi siano presenti questi fattori pulsionali che il malato ha finora ignorato; ci comportiamo cioè come il chimico, il quale isola la sostanza semplice, o "elemento" chimico, dal sale in cui è diventata irriconoscibile essendo combinata con altri elementi. Allo stesso modo noi procediamo con le manifestazioni psichiche che non sono ritenute patologiche, al fine di mostrare al malato come egli sia solo parzialmente consapevole delle loro motivazioni, come esse siano state determinate anche da altri fattori, da fattori pulsionali di cui è rimasto all'oscuro.

Anche l'impulso sessuale degli uomini l'abbiamo spiegato analizzandolo nelle sue componenti, e quando interpretiamo un sogno il nostro procedimento consiste nell'ignorare il sogno come totalità, e nel far partire le associazioni dai suoi elementi singolarmente presi.

Orbene, questa legittima analogia tra la terapia psicoanalitica e il lavoro del chimico potrebbe sollecitarci a imprimere una nuova direzione alla nostra attività terapeutica. Abbiamo analizzato il malato, cioè abbiamo scomposto la sua attività psichica negli elementi che la costituiscono, abbiamo illustrato in lui uno alla volta e isolatamente questi elementi pulsionali; a questo punto, cosa c'è di più naturale dell'esigenza che il nostro aiuto si esprima anche nel far si che questi stessi elementi si combinino in lui in un modo nuovo e migliore? Come sapete, questa esigenza è stata effettivamente avanzata. Ci è stato detto che all'analisi della vita psichica del nevrotico deve assolutamente far seguito la sua sintesi. E, poco dopo, si è aggiunta la preoccupazione che nel nostro lavoro ci possa essere un eccesso di analisi e un difetto di sintesi, e si è instaurata la tendenza a spostare tutto il peso dell'attività psicoterapeutica su questa sintesi, che sarebbe una sorta di ripristino di ciò che era stato in certo qual modo distrutto dalla vivisezione.

Eppure io non posso credere, Signori, che questa psicosintesi rappresenti per noi un nuovo compito. Se volessi permettermi di essere sincero e scortese, direi che si tratta di una frase priva di contenuto. Mi accontenterò di osservare che siamo solo in presenza di una similitudine che è stata estesa al punto da perdere qualsiasi significato o, se preferite, che siamo di fronte all'indebito sfruttamento di una denominazione. Un nome è solo un'etichetta che serve a distinguere una cosa da altre cose simili, non è né un programma, né l'indicazione di un contenuto, né una definizione. E le cose tra le quali si stabilisce un confronto possono benissimo coincidere solo in un punto, ed essere lontanissime tra loro per tutti gli altri. Lo psichico è qualcosa di cosi peculiarmente unico, che non c'è similitudine particolare che possa rendere la sua natura. Il lavoro psicoanalitico presenta delle analogie con l'analisi chimica, ma anche con l'intervento del chirurgo, con l'opera dell'ortopedico, o con l'influsso dell'educatore. L'analogia con l'analisi chimica trova il suo limite nel fatto che nella vita psichica abbiamo a che fare con correnti che tendono coattivamente all'unificazione e alla combinazione. Una volta che siamo riusciti a scomporre un sintomo, a liberare un moto pulsionale da un determinato contesto, esso non resta isolato, ma entra subito in un contesto nuovo. (A ben vedere anche nell'analisi chimica si verifica qualcosa di molto simile. Contemporaneamente all'isolamento dei diversi elementi che il chimico riesce a ottenere, si realizzano delle sintesi che non rientrano nelle sue intenzioni, grazie al liberarsi delle somiglianze e delle affinità elettive tra le sostanze).

In effetti, al contrario, il nevrotico ci presenta una vita psichica lacerata, incrinata da resistenze, e mentre noi l'analizziamo ed eliminiamo le resistenze, questa vita psichica tende a unificarsi, la grande unità che chiamiamo il suo Io raccoglie in sé tutti quei moti pulsionali che erano prima staccati da lui e slegati, separati. Nel soggetto trattato analiticamente la psicosintesi si compie cosi senza il nostro intervento, in modo automatico e inesorabile. Per essa abbiamo creato le condizioni scomponendo i sintomi ed eliminando le resistenze. Non è vero che nel malato qualcosa è stato scomposto nei suoi elementi costitutivi e attende ora tranquillamente che noi, in un modo o nell'altro, procediamo a una ricomposizione.

Lo sviluppo della nostra terapia seguirà dunque strade diverse, soprattutto quella che poco fa Ferenczi ha indicato come l'"attività" dello psicoanalista nel suo lavoro sulle Difficoltà tecniche nell'analisi di un caso di isteria.

Mettiamoci subito d'accordo sul significato che dobbiamo dare a questa "attività". Abbiamo detto che il nostro compito terapeutico è definito da due contenuti: dobbiamo rendere cosciente il rimosso e dobbiamo scoprire le resistenze. Cosi facendo siamo abbastanza attivi, certamente. Ma dobbiamo lasciare che il malato cerchi da solo di liquidare le resistenze che gli abbiamo mostrato? Non possiamo dargli ancora un altro aiuto, a parte l'impulso che egli riceve dalla traslazione? Non è invece evidente che dovremmo aiutarlo anche in un altro modo, trasponendolo in quella situazione psichica che è più favorevole all'auspicata risoluzione del conflitto? A ben vedere, i risultati che egli può ottenere dipendono anche da tutta una serie di circostanze esterne tra loro concatenate. Dovremmo esitare ad alterare questa costellazione esterna mediante un intervento appropriato? Ritengo che una siffatta attività dello psicoanalista sia ineccepibile e perfettamente legittima.

Vi sarete resi conto che si schiude qui un nuovo campo per la tecnica analitica, la cui elaborazione richiederà grande sforzo e impegno e darà luogo a prescrizioni ben precise. Oggi non cercherò di introdurvi a questa nuova tecnica, che è ancora in fase di sviluppo, e mi accontenterò invece di enunciare un principio fondamentale che probabilmente diventerà dominante in questo campo. Questo principio si può formulare cosi: "Nella misura del possibile, la cura analitica dev'essere effettuata in stato di privazione, di astinenza."2

Per dimostrare la validità di questa affermazione — ammesso che tale dimostrazione sia possibile — occorrerebbe una discussione particolareggiata. In ogni modo per astinenza non si deve intendere la privazione di ogni soddisfazione (che sarebbe ovviamente irrealizzabile), e neanche ciò che il termine significa nel linguaggio popolare, vale a dire l'astensione dai rapporti sessuali, bensì qualcosa di diverso, che ha molto pili a che fare con la dinamica della malattia e della guarigione.

Ricorderete che la causa della malattia del nevrotico è stata una frustrazione, che i suoi sintomi hanno la funzione di soddisfacimenti sostitutivi. Durante il trattamento si può osservare come ogni miglioramento delle sue condizioni rallenti il processo di guarigione e diminuisca la forza pulsionale che spinge verso di essa. Ma noi a questa forza pulsionale non possiamo rinunciare; una sua riduzione mette in pericolo il nostro scopo, il ristabilimento del malato. Quale conseguenza dobbiamo dunque trarre necessariamente da questo stato di cose? Per quanto crudele possa sembrare, è nostro dovere far si che la sofferenza del malato, quantomeno a un certo livello di intensità e di efficacia, non termini prematuramente. Se l'eliminazione e la svalutazione dei sintomi ha attenuato questa sofferenza, noi dobbiamo ripristinarla altrove, sotto forma di una privazione dolorosa; il rischio che corriamo altrimenti è di non ottenere mai più un miglioramento, se non modesto e transitorio.

Per quanto posso vedere, la guarigione è minacciata particolarmente da due lati. Da un lato il paziente, la cui condizione patologica è stata scossa dall'analisi, si sforza con la massima assiduità di procurarsi, al posto dei suoi sintomi, nuovi soddisfacimenti sostitutivi, che non hanno però pili il carattere della sofferenza. Egli si serve dell'enorme capacità di spostamento che è propria della libido parzialmente liberatasi, per investire libidicamente ed elevare al ruolo di soddisfacimenti sostitutivi le più diverse attività, preferenze, abitudini, non escluse quelle che esistevano già prima. Egli trova continuamente nuovi espedienti atti a deviare e disperdere l'energia che sarebbe indispensabile per la cura e la guarigione, e per un certo periodo di tempo riesce anche a tenerli celati. Lo psicoanalista ha il compito di scoprire tutte queste diversioni e di esigere che il malato vi rinunci, per quanto innocente possa sembrare in sé stessa l'attività che porta al soddisfacimento. Ma il nevrotico parzialmente guarito può anche seguire vie meno innocue; per esempio, se è un uomo, può cercare prematuramente di legarsi a una donna. Detto per inciso, un matrimonio infelice e l'infermità fisica sono le forme in cui più frequentemente si risolve la nevrosi. Tali vie soddisfano in particolar modo il senso di colpa (bisogno di punizione), che è il motivo per cui molti malati si attaccano cosi tenacemente alla loro nevrosi. Un'infelice scelta coniugale è il mezzo di cui costoro si avvalgono per punirsi; una lunga malattia organica è vista come una punizione del destino, e accade sovente che coloro che ne sono colpiti rinuncino a mantenere in vita la propria nevrosi.

In tutte queste situazioni l'attività del medico deve assumere la forma di un'energica opposizione contro i prematuri soddisfacimenti sostitutivi. Al medico è comunque più facile contrastare il secondo pericolo, che però non va sottovalutato, da cui è minacciata la forza pulsionale dell'analisi. Il malato cerca un soddisfacimento sostitutivo innanzitutto nella cura medesima, nel rapporto di traslazione col medico, e può persino cercare di risarcirsi per questa via di tutte le rinunce che gli sono state imposte. Qualche concessione gli dev'essere certamente fatta, maggiore o minore secondo la natura del caso e il carattere del soggetto. Ma non è bene concedergli troppo. Lo psicoanalista che per buon cuore e desiderio di soccorrere il malato gli fa dono di tutto ciò che un essere umano può sperare di ricevere da un altro, commette lo stesso errore economico di cui sono responsabili le nostre case di cura per malattie nervose che ignorano i metodi psicoanalitici. Il loro unico scopo è di creare un'atmosfera quanto più gradevole possibile, affinché il malato vi si senta a suo agio e sia lieto di trovarvi un rifugio alle difficoltà dell'esistenza. Cosi esse rinunciano a dare al malato una maggiore forza per affrontare meglio la vita e svolgere in maniera più adeguata quelli che sono i suoi veri compiti. Il trattamento analitico deve evitare tutti questi vizi. Per quanto concerne il rapporto del malato col medico, i desideri del primo devono restare in larga misura insoddisfatti. È opportuno rifiutare al malato proprio quei soddisfacimenti che egli desidera più intensamente e chiede con maggiore insistenza.

Dicendo che durante il trattamento va mantenuto uno stato di privazione, non penso di aver detto tutto riguardo a ciò che il medico dovrebbe sperabilmente fare. Come ricorderete, un altro orientamento dell'attività analitica è già stato oggetto di una controversia tra noi e la scuola svizzera. Noi ci siamo decisamente rifiutati di fare del malato che si mette nelle nostre mani in cerca di aiuto una nostra proprietà privata, di decidere del suo destino, di imporgli i nostri ideali e, con l'orgoglio del creatore, di plasmarlo a nostra immagine e somiglianza per far piacere a noi stessi. Ancor oggi tengo fermo a questo rifiuto, e ritengo che questa sia l'occasione nella quale noi medici dobbiamo dar prova di quella discrezione che altrove abbiamo dovuto metter da parte; dall'esperienza ho appreso inoltre che un'attività nei confronti del paziente spinta cosi innanzi non è affatto necessaria ai fini della terapia. Ho infatti potuto aiutare, senza bisogno di turbarle nella loro individualità, persone con cui non avevo in comune nulla, né la razza, né l'educazione, né la posizione sociale, né la concezione del mondo. All'epoca delle controversie che ho testé menzionato ho avuto invero l'impressione che le obiezioni dei nostri rappresentanti (mi sembra che il capofila fosse Ernest Jones) fossero troppo rigide, troppo perentorie. Non possiamo evitare di prendere in cura anche dei malati talmente sprovveduti e incapaci di condurre una vita normale che per essi l'influsso analitico non può non combinarsi con quello pedagogico, e anche nella maggior parte degli altri casi accadrà talvolta che il medico sia costretto ad assumere la funzione dell'educatore e del consigliere. Ma bisogna sempre agire con la massima cautela, e il malato non dev'essere educato ad assomigliarci, ma piuttosto a liberarsi e a realizzare compiutamente la sua stessa natura.

Il nostro stimato amico J. J. Putnam, che vive in quell'America che ci è ora cosi ostile, ci perdonerà se non possiamo accogliere neppure la sua richiesta, in base alla quale la psicoanalisi dovrebbe mettersi al servizio di una determinata concezione filosofica e imporla al malato per nobilitare il suo spirito. Oserei dire che a ben vedere questo sarebbe soltanto un atto di violenza, ancorché dissimulato dalle più nobili intenzioni.

Un ultimo tipo di attività, completamente diverso, ci è imposto dalla sempre più chiara consapevolezza che le diverse forme patologiche di cui ci occupiamo non possono essere curate tutte quante con la stessa tecnica. Sarebbe prematuro discutere dettagliatamente questo argomento, ma posso fare due esempi che illustrano come e in che misura si renda opportuna una nuova forma di attività. La nostra tecnica si è sviluppata in relazione al trattamento dell'isteria, ed è tuttora orientata principalmente su questa forma morbosa. Ma già le fobie ci hanno costretti ad andare oltre i nostri limiti precedenti. Ben difficilmente si riesce a dominare una fobia, se si aspetta che il malato sia indotto dall'analisi ad abbandonarla. Egli non porterà mai nell'analisi il materiale che è indispensabile per una convincente risoluzione della fobia. Bisogna procedere in un altro modo. Prendete l'esempio di un agorafobo; ci sono due forme di agorafobia, una più leggera e una più grave. Coloro che soffrono della prima forma provano si angoscia ogniqualvolta sono costretti ad andare per strada da soli, ma non per questo vi hanno rinunciato; gli altri si difendono dall'angoscia rinunciando a uscire da soli. In questi ultimi casi si ha successo solo se si riesce a indurre i malati, con l'influenza dell'analisi, a comportarsi nuovamente come i fobici di primo grado, e cioè a uscire per strada e, durante questi tentativi, a lottare con l'angoscia. Si comincia dunque con l'attenuare la fobia fino a questo punto; e solo quando avrà raggiunto questo risultato voluto dal medico, il malato potrà produrre quelle associazioni e quei ricordi che consentiranno la risoluzione della fobia.

Un atteggiamento di attesa passiva appare ancor meno indicato in quei difficili casi di azioni ossessive che tendono in genere a un processo di guarigione "asintotico" e a protrarre indefinitamente la durata del trattamento; l'analisi di queste nevrosi corre sempre il rischio di portare alla luce molte cose senza cambiare nulla. Mi pare abbastanza evidente che qui la giusta tecnica può consistere solo nell'attendere che la cura medesima abbia acquistato un carattere coattivo, per poi reprimere violentemente la coazione patologica avvalendosi di questa controcoazione. In ogni modo comprenderete che questi due esempi rappresentano solo una testimonianza dei nuovi sviluppi che stanno di fronte alla nostra terapia.

E ora, per concludere, vorrei considerare una situazione che appartiene al futuro, che a molti di voi sembrerà fantastica, e che tuttavia merita, a mio giudizio, che ci si prepari mentalmente ad affrontarla. Voi sapete che la nostra attività terapeutica non è particolarmente intensa. Siamo soltanto un manipolo di uomini, e anche se ciascuno di noi lavora assiduamente, in un anno può dedicarsi solo a un esiguo numero di malati. Se si considera l'enormità della miseria nevrotica che c'è nel mondo e che forse potrebbe non esserci, quello che noi possiamo fare per eliminarla, da un punto di vista quantitativo, è praticamente irrilevante. Inoltre le necessità della nostra esistenza circoscrivono la nostra possibilità di intervento ai ceti superiori e benestanti della società i quali sono soliti scegliersi i propri medici e la cui scelta è allontanata dalla psicoanalisi da ogni sorta di pregiudizi. Per il momento non possiamo fare nulla per i vasti strati popolari che soffrono di nevrosi estremamente gravi.

Proviamo ora a formulare l'ipotesi che mediante una qualche forma di organizzazione si riesca ad accrescere il numero di noi psicoanalisti tanto che esso possa bastare a prendere in trattamento una più vasta sezione della collettività umana. D'altra parte, è possibile prevedere che un giorno o l'altro la coscienza della società si desti e rammenti agli uomini che il povero ha diritto all'assistenza psicologica né più e né meno come ha diritto già ora all'intervento chirurgico che gli salverà la vita; e che le nevrosi minacciano la salute pubblica non meno della tubercolosi, e, al pari di questa, non possono essere lasciate all'impotente sollecitudine dei singoli. Saranno allora create delle case di cura o degli ambulatori dove lavoreranno un certo numero di medici con preparazione psicoanalitica, che si serviranno dell'analisi per restituire capacità di resistenza e di lavoro a uomini che altrimenti si darebbero all'alcool, a donne che minacciano di crollare sotto il peso delle privazioni, a bambini che hanno di fronte a sé un'unica alternativa: l'inselvatichimento o la nevrosi. Questi trattamenti saranno gratuiti. Potrà passare molto tempo prima che lo Stato si renda conto di questi suoi doveri e del loro carattere di urgenza. Le condizioni presenti possono allontanare ancora di più questo momento; è probabile che l'avvio a queste istituzioni sarà dato dalla beneficenza privata. Ma è un traguardo a cui prima o poi si dovrà arrivare.

Dovremo allora affrontare il compito di adattare la nostra tecnica alle nuove condizioni che si saranno create. Non dubito che l'esattezza delle nostre ipotesi psicologiche potrà convincere anche coloro che non hanno una cultura specifica, ma dovremo cercare di dare alle nostre concezioni teoriche un'espressione il più possibile semplice e tangibile. Probabilmente dovremo costatare che il povero è disposto a rinunciare alla sua nevrosi ancora meno del ricco, poiché la vita difficile che lo aspetta non lo attrae affatto, mentre l'infermità gli offre una ragione in più per pretendere un aiuto da parte della società. Forse in molti casi potremo raggiungere un risultato positivo solo se riusciremo a combinare l'assistenza psichica con l'appoggio materiale, alla maniera dell'imperatore Giuseppe. [Stando alla tradizione, l'imperatore d'Austria Giuseppe II - 1741-1790 - era un uomo bizzarro e assai prodigo con i suoi sudditi]. È anche molto probabile che l'applicazione su vasta scala della nostra terapia ci obbligherà a legare in larga misura il puro oro dell'analisi con il bronzo della suggestione diretta; anche l'influsso ipnotico potrebbe riacquistare una sua funzione, com'è accaduto nel trattamento delle nevrosi di guerra. Ma quale che sia la forma che assumerà questa psicoterapia per il popolo, quali che siano gli elementi che la costituiranno, è sicuro che le sue componenti più efficaci e significative resteranno quelle mutuate dalla psicoanalisi rigorosa e aliena da ogni partito preso.