Totem e Tabù

1913

Prefazione

I quattro studi che costituiscono questo volume furono per la prima volta pubblicati nelle prime due annate della rivista Imago, da me diretta. Essi avevano allora come titolo quello che figura attualmente come il sottotitolo dell'opera, e formano il primo tentativo che io abbia compiuto di applicare le premesse e i risultati della psicoanalisi a problemi non ancora chiariti della psicologia dei popoli. Dal punto di vista del metodo esse si collocano in antitesi per un verso con l'opera di W. Wundt, svolta su larghe basi ma che si serve, allo stesso fine, delle ipotesi e dei metodi di lavoro della psicologia non analitica, per l'altro con i lavori della scuola psicoanalitica di Zurigo, la quale, usando un procedimento inverso al mio, tenta di risolvere i problemi della psicologia individuale servendosi di materiale tratto dalla psicologia dei popoli. Non ho alcuna difficoltà ad ammettere che proprio da queste due fonti mi è venuto l'impulso per la stesura dei miei scritti.

Dirò inoltre che io conosco bene le loro deficienze. Senza considerare quelle che provengono dal fatto che ci troviamo di fronte a ricerche pionieristiche, altre ve ne sono che richiedono qualche spiegazione, qualche parola di chiarimento. Se i quattro studi di questo volume si rivolgono a una vasta schiera di persone colte, non possono tuttavia essere compresi e giudicati che da quei pochi che non sono completamente estranei alla natura propria della psicoanalisi. Essi vorrebbero costituire un punto d'incontro fra etnologi, filologi, folcloristi da un lato, e psicoanalisti dall'altro, ma a nessuna delle due categorie di studiosi possono offrire ciò che loro manca: alla prima un'adeguata introduzione alla nuova tecnica psicologica che ha preso il nome di psicoanalisi, alla seconda una certa conoscenza del materiale da trattare.

Perciò dovranno accontentarsi di suscitare interesse in ambedue, e far riflettere sull'opportunità di un incontro più frequente delle due categorie, per i frutti che alla scienza potrebbero derivarne.

I due temi principali dai quali questo volumetto prende il titolo, totem e tabù, non vi sono trattati nella stessa maniera. Mentre l'analisi del tabù consiste in un tentativo di spiegazione esauriente e documentata, le ricerche sul totemismo si limitano ad indicare quale sia il contributo che può dare la psicoanalisi al problema del totem. Questa differenza nel trattare i due temi dipende dal fatto che in un certo senso il tabù vive ancora ed opera presso di noi. Per quanto venga inteso negativamente e si rivolga ad un altro contenuto, esso in fondo non differisce, nella sua natura psicologica, dall'imperativo categorico di Kant, che opera in forma coattiva, escludendo ogni motivazione cosciente. Per quel che riguarda il totemismo, invece, si tratta di un'istituzione di carattere religioso-sociale, lontana dai nostri sentimenti attuali da lungo tempo abbandonata e sostituita da forme più nuove. Essa è un'istituzione che solo deboli tracce ha lasciato nelle religioni, negli usi e nei costumi delle civiltà attuali, e che è andata incontro a grandi trasformazioni perfino presso quei popoli che ancora oggi vi aderiscono. Il progresso sociale e tecnico dell'umanità ha intaccato il tabù molto meno di quanto non sia avvenuto per il totem.

In quest'opera abbiamo cercato di intuire il significato primitivo del totemismo sulla scorta delle sue tracce nella vita infantile, ossia a partire dalla sua ricomparsa nello sviluppo dei nostri bambini. Il legame stretto che intercorre tra il totem e il tabù ha consentito un passo avanti nella direzione dell'ipotesi qui formulata. Se essa, almeno in apparenza, è risultata inverosimile, non si deve trarre il pretesto proprio da quest'apparenza per negare che essa non sia andata vicino, più o meno, ad una realtà tanto difficile da ricostruire.

Sigmund Freud

Roma, settembre 1913

1. L'orrore dell'incesto

Noi conosciamo l'uomo preistorico, nelle varie fasi della sua evoluzione, dai monumenti e dagli oggetti che ha lasciato e che sono arrivati fino a noi, dalle notizie sulla sua arte, sulla sua religione, sul suo modo di considerare l'esistenza, che ci sono state conservate sia dalla tradizione come dalle leggende, dai miti e dalle favole, e ancora da quanto è rimasto nei nostri usi e nei costumi delle sue forme di pensiero e di vita. A prescindere da ciò, in certa maniera egli è anche nostro contemporaneo. Esistono ancora sulla terra uomini che, nel complesso delle loro manifestazioni, riteniamo essere molto vicini agli uomini primitivi, comunque molto più vicini di quanto lo siamo noi, ed ai quali guardiamo come ai diretti discendenti e rappresentanti di quei remoti progenitori. Si tratta dei popoli selvaggi e semiselvaggi, la cui vita spirituale diviene per noi di enorme importanza se siamo nel giusto a volerla considerare una ben conservata immagine d'una remota fase della nostra stessa evoluzione.

Ammesso che la premessa sia giusta, dovremmo ottenere, in un confronto tra la psicologia dei popoli primitivi come ci è insegnata dall'etnologia e quella dei nevrotici come ci è rivelata dalla psicoanalisi, concordanze tali che a loro volta ci permetteranno di guardare sotto una nuova luce fatti già noti sia all'una che all'altra scienza.

Mi servo per il confronto, insieme per motivi esterni ed intrinseci, di quelle tribù che gli etnografi descrivono come le più retrograde e le più misere, cioè proprio gli aborigeni del continente più giovane, l'Australia, che anche nella fauna ci ha conservato tante specie arcaiche, ormai estinte in ogni altro luogo.

Gli aborigeni dell'Australia sono considerati una razza particolare, che non offre nessun segno di parentela, né dal punto di vista fisico né da quello linguistico, con le popolazioni più vicine della Polinesia e della Melanesia e con i Malesi. Essi non costruiscono case né ricoveri fissi, non coltivano la terra, non allevano animali domestici ad eccezione del cane, ignorano la ceramica e si nutrono soltanto delle carni di animali che cacciano e di radici. Non riconoscono re o capi (è l'assemblea degli uomini anziani a decidere su questioni d'interesse comune), ed è dubbio che si possa attribuir loro una qualche religione che si proponga la venerazione di esseri superiori. Le tribù che abitano l'interno, che devono lottare con condizioni di vita ancora più dure data la scarsità d'acqua, sembra siano ancora più primitive di quelle che abitano la costa.

Certamente non possiamo attenderci da questi miserabili cannibali una moralità sessuale nel senso che noi le diamo, e che si siano imposti grandi limitazioni nello sfogo degli istinti sessuali. Veniamo tuttavia a sapere che con cura minuziosissima ed inesorabile rigore essi hanno prestabilito di evitare i rapporti sessuali incestuosi, al punto che tutta la loro organizzazione sociale sembra tendere a questo fine ed essere legata alla sua realizzazione.

In luogo delle istituzioni religiose e sociali, noi troviamo presso gli Australiani il «totemismo». Le tribù si dividono in piccoli gruppi, ognuno dei quali prende il nome dal suo totem. Ma che cos'è questo totem? La maggior parte delle volte è un animale, a volte commestibile, inoffensivo, a volte pericoloso e temuto; meno spesso una pianta od una forza naturale, come la pioggia, l'acqua, ecc. Tra il totem e la famiglia che ne ha preso il nome esiste un rapporto speciale. Il totem è il progenitore della famiglia, ma ne è anche il genio tutelare, quello che nel bisogno dà, aiuta ed invia i suoi oracoli. Se nei confronti degli altri può essere pericoloso, riconosce e risparmia i figli suoi; ma essi sono sottoposti ad un obbligo sacro che viene automaticamente punito, nel caso di trasgressione: questo obbligo comporta il divieto di uccidere (o distruggere) il totem e di cibarsi delle sue carni (o di trarre vantaggi da esso in una qualunque maniera). Il carattere totemico non riguarda un animale singolo, un solo esemplare, ma tutta la specie. Ogni tanto si celebrano feste, durante le quali i membri del clan rappresentano od imitano con danze rituali i movimenti caratteristici del loro totem.

Il totem è ereditario. Esso viene ereditato per linea materna o paterna; quella materna sembra tuttavia essere l'originaria, solo più tardi sostituita da quella paterna. La subordinazione al totem costituisce la base di tutti gli obblighi sociali degli Australiani: essa va da un lato oltre l'appartenenza alla tribù, dall'altro è al di sopra della stessa consanguineità. (Frazer, Totemism and Exogamy, Il vincolo del totem è più stretto di quello di sangue e di famiglia inteso nel senso moderno.)

Il totem non è legato ad alcun luogo particolare. Compagni di totem possono vivere lontani l'uno dall'altro e in totale armonia con individui aderenti ad un altro totem. (Questo riassunto brevissimo del sistema totemico deve essere corredato ancora di qualche spiegazione. Il termine totem fu mutuato - nella forma di totam - per opera dell'inglese J. Long, dai pellirosse dell'America del Nord, nel 1791. L'interesse che esso ha suscitato fra gli studiosi è stato vastissimo, dando luogo ad una bibliografia molto ricca. L'opera di J. G. frazer, Totemism and Exogamy, apparsa nel 1910 in quattro volumi, è un vero capolavoro del genere. Molto importante anche il lavoro di Andrew Lang, The secret of the totem, che risale al 1905; ma il merito d'aver scoperto l'importanza del totemismo per la storia dell'umanità primitiva deve essere riconosciuto allo scozzese J. Ferguson McLennan -1869-1870 -. Oltre che fra gli Australiani, istituzioni totemiche si potevano trovare, e si trovano ancora, fra gli indiani dell'America settentrionale, fra le popolazioni delle isole oceaniche, nell'India orientale ed in una gran parte dell'Africa. Tracce d'esso e vestigia che non possono che difficilmente essere spiegate in modo diverso, ci permettono di dedurre che il totemismo è anticamente esistito anche fra gli aborigeni Ariani e Semiti dell'Europa e dell'Asia. Alcuni scienziati inclinano perciò a vedere in esso una fase che lo sviluppo umano ha dovuto necessariamente attraversare in ogni luogo.

A questo punto è legittima la domanda: in che modo gli uomini preistorici sono giunti ad attribuirsi un totem? Come sono cioè giunti a porre alla base dei loro obblighi sociali e perfino delle loro restrizioni sessuali la propria discendenza da questo o quell'animale? Vi sono a questo riguardo numerose teorie, un compendio delle quali il lettore potrà trovare nell'opera di Wundt, Psicologia dei popoli, Mito e religione, vol. II.

In essa leggerà un ottimo riassunto, ma non un tentativo di comparare e metter d'accordo fra di loro le teorie più diverse. Io mi riprometto di prendere in esame il problema del totemismo in uno studio particolare, nel quale cercherò di raggiungere una soluzione attraverso il metodo psicoanalitico. Questo studio costituirà il quarto saggio di questo volume.

Ma non solo esistono divergenze intorno alla teoria del totemismo, persino i suoi dati di fatto non possono essere espressi in linea generale, come più avanti ho tentato di fare. Nessuna affermazione che lo riguardi sembra possa essere priva di eccezioni e di contraddizioni. Tuttavia, a questo proposito, non bisogna dimenticare che i popoli più antichi e conservatori, anche loro, in un certo senso, sono popoli che hanno alle spalle una lunga storia durante la quale tutto ciò che in essi vi era di originario è andato necessariamente incontro a deformazioni ed alterazioni. Così il totemismo si trova oggi, presso i popoli che ancora lo conservano, nei più diversi stadi di decadenza, di sgretolamento, di passaggio ad altre istituzioni sociali e religiose: oppure può rinvenirsi in forme stazionarie, già molto lontane dalla forma primitiva. La difficoltà, in quest'ultimo caso, consiste appunto nel fatto che non è punto facile distinguere quel che nell'attuale totemismo può essere considerato una riproduzione fedele delle sue configurazioni passate, da quanto ne è solo una deformazione posteriore.)

Siamo ora arrivati a quella caratteristica del sistema totemico che suscita l'interesse dello psicoanalista ed a cui dobbiamo rivolgere la nostra attenzione. Si tratta di questo. Quasi dovunque vige il totem, vige la legge per la quale i membri dello stesso totem non devono avere fra di loro rapporti sessuali e quindi non devono contrarre matrimoni. È il fenomeno dell'esogamia, legata al totem.

Questa proibizione severissima ci sembra molto strana. Essa non trova radici in tutto ciò che finora sappiamo intorno al significato ed alle qualità del totem, né possiamo comprendere come sia venuta a far parte del sistema totemico. Così, non ci meraviglieremo se parecchi scienziati credono che l'esogamia non abbia, originariamente, avuto a che fare col totemismo e che sia stata ad esso aggiunta, senza un motivo più profondo, quando divennero necessarie limitazioni nei matrimoni. Comunque sia, il totemismo e l'esogamia sono strettamente uniti e questa unione si mostra molto resistente.

Cerchiamo di chiarire, adesso, analizzando ancora più a fondo, il significato di questa proibizione.

a.  Non si abbandona il trasgressore a un castigo automatico, per così dire, come avviene nel caso di altre proibizioni totemiche, ad esempio quella dell'uccisione dell'animale totem, ma è tutta la tribù a punirlo nella maniera più energica, come se si trattasse di allontanare una colpa o un pericolo dai quali tutta la comunità sia minacciata. Alcuni passi del volume di Frazer dimostrano con quanta serietà e severità i selvaggi, che, per altri versi sono, dal nostro punto di vista, immoralissimi, puniscano misfatti di questo tipo.

In Australia la pena di solito applicata a chi si sia reso colpevole di rapporti sessuali con una persona d'un clan proibito è la morte. Non importa che la donna appartenga allo stesso gruppo locale o sia stata catturata in guerra ad un'altra tribù; ad un uomo appartenente ad un clan illecito, che se ne serva come d'una moglie, vien data la caccia fino a che non sia catturato e viene poi ucciso dai suoi stessi compagni. La stessa sorte tocca alla donna. Nel caso, tuttavia, che essi riescano ad eludere la cattura per un certo tempo, l'offesa può essere perdonata. Nella tribù Ta-Ta-Thi, del Nuovo Galles del Sud, nei rari casi in cui il fatto si verifica, l'uomo viene ucciso, mentre la donna avrà percosse, o colpi di lancia, o ambedue, sin quasi a morirne. La ragione per la quale la pena di morte non è applicata è che si ammette la possibilità che essa abbia dovuto subire violenza. Perfino negli amori occasionali le proibizioni del clan sono strettamente osservate, ed ogni violazione di queste proibizioni è considerata abominevole e punita con la morte. (Cameron).

b.  Una punizione egualmente dura viene applicata anche nel caso di amoreggiamenti fuggevoli, non seguiti dalla nascita di figli. Non sembra dunque verosimile che il divieto abbia altri motivi, come quelli ad esempio d'indole pratica.

c. Dal momento che il totem è ereditario e non subisce alcuna modifica ad opera del matrimonio, si possono intravedere con facilità quali siano le conseguenze del divieto. In caso di eredità per linea materna, per esempio, se un uomo che appartenga al clan del totem Canguro sposa una donna appartenente al clan del totem Emù, i figli nati dal loro matrimonio, siano maschi o femmine, sono tutti Emù. Si rende così impossibile, per la legge totemica, ad un figlio nato da questo matrimonio una relazione incestuosa con la madre o le sorelle, appartenenti anch'esse al totem Emù. (Tuttavia, per quanto riguarda questo divieto, che appartiene al totem Canguro, è concesso l'incesto con le figlie, appartenenti al totem Emù. Nel caso di trasmissione del totem per linea paterna, padre e figli apparterrebbero al totem Canguro. Così, al padre sarebbe proibito l'incesto con le figlie, mentre al figlio l'incesto con la madre verrebbe consentito. Appunto questi effetti delle proibizioni totemiche permettono di concludere che l'eredità materna è più antica di quella paterna, dal momento che abbiamo motivo di ammettere che i divieti siano diretti soprattutto contro i desideri incestuosi del figlio.)

d. È pertanto evidente che l'esogamia legata al totem tende a fini che vanno al di là della difesa dall'incesto con la madre e con le sorelle. Essa rende impossibile all'uomo l'unione con tutte le altre donne appartenenti allo stesso clan e dunque con un gran numero di altre donne non legate a lui da vincoli di sangue, ma che la proibizione totemica gli fa considerare tali. A prima vista non si riesce ad apprezzare una giustificazione psicologica d'una restrizione così vasta, che va molto oltre tutto quel che potrebbe esserle comparato presso i popoli civili. Si comprende solo che il totem, cioè l'animale, è assunto con molta serietà quale capostipite. Tutti coloro che derivano dallo stesso totem sono consanguinei, costituiscono una stessa famiglia, e anche i gradi più lontani di parentela all'interno di questa famiglia sono considerati come un ostacolo assoluto all'unione sessuale. Questi selvaggi manifestano così un orrore grandissimo per l'incesto, che deve essere collegato ad un dettaglio che non siamo ancora in grado di chiarire, e grazie al quale la consanguineità reale è sostituita dalla parentela totemica.

Non dobbiamo tuttavia esasperare il senso di questa antitesi, e va tenuto presente il fatto che i divieti totemici includono quello contro il vero incesto appunto come caso particolare. Resta da spiegare in che modo si sia arrivati a sostituire la famiglia totemica alla famiglia naturale. È questo un enigma la cui soluzione coincide forse con la spiegazione del totem stesso. Si consideri peraltro che, in caso d'una sessualità al di là dei limiti matrimoniali, la consanguineità, e quindi la prevenzione dell'incesto, diverrebbe incerta al punto che si renderebbe necessario fondare il divieto in base diversa. È quindi utile osservare come i costumi degli Australiani permettano, in certe situazioni sociali ed in certe feste, che possa essere infranto il diritto coniugale esclusivo di un uomo su una donna.

L'uso linguistico di queste tribù australiane (come nella maggioranza delle comunità totemiche) manifesta un aspetto particolare che rientra sicuramente nel quadro totemico. Le denominazioni di parentela di cui esse si servono, non esprimono un rapporto tra due individui, ma tra un individuo e un gruppo: appartengono (per usare l'espressione di L. H. Morgan) al sistema «classificatorio». In seguito a questa usanza un uomo chiama «padre» non soltanto il suo padre naturale ma ogni altro uomoo che avrebbe potuto, secondo le regole tribali, sposare sua madre e diventare suo padre; chiama «madre» qualunque donna avrebbe potuto esserlo, in accordo con le leggi della tribù; chiama «fratelli» e «sorelle» non soltanto i figli dei suoi genitori reali, ma i figli di tutte quelle persone che, in senso classificatorio, gli sarebbero potute essere padri e madri. Le definizioni di parentela che due Australiani si danno reciprocamente non significano, così, una vera consanguineità, come succederebbe nel nostro uso linguistico. Esse indicano rapporti sociali, piuttosto che rapporti di sangue. Possiamo forse trovare qualcosa che si avvicini a questo sistema di classificazione nei bambini quando salutano col nome di zio o di zia ogni amico ed ogni amica dei genitori, o anche in noi stessi quando, in senso traslato, parliamo di «fratelli in Apollo» o di «sorelle in Cristo».

Possiamo facilmente renderci conto di quest'uso linguistico, per noi così singolare, se lo consideriamo come una sopravvivenza o un indizio di quell'istituzione matrimoniale che il reverendo L. Fison chiama «matrimonio di gruppo». La sua caratteristica fondamentale consisterebbe nel fatto che un certo numero di uomini fa valere diritti matrimoniali sopra un determinato numero di donne. I figli di questo matrimonio di gruppo si considererebbero dunque giustamente come fratelli e sorelle, per quanto non nati dalla stessa madre e considererebbero come padri tutti gli uomini del gruppo.

E se qualche autore, Westermarck ad esempio nella sua Storia del matrimonio umano, non è d'accordo con le conclusioni che altri ricavano dall'esistenza del sistema classificatorio di consanguineità, i migliori conoscitori dei selvaggi australiani concordano nell'ammettere che detto sistema deve essere considerato una sopravvivenza dei tempi nei quali era in uso il matrimonio di gruppo. Secondo Spencer e Gillen, anzi, sembra esista ancor oggi una certa forma di questo matrimonio presso le tribù degli Urabunna e dei Dieri. Il matrimonio di gruppo avrebbe dunque presso questi popoli preceduto il matrimonio individuale, e non sarebbe scomparso senza lasciare chiare tracce di sé nella lingua e nei costumi.

Se noi sostituiamo al matrimonio individuale il matrimonio di gruppo, possiamo comprendere l'apparente rigore che è nella tendenza ad evitare l'incesto, come l'abbiamo riscontrato in questi popoli, dal momento che l'esogamia totemica, il divieto di relazioni sessuali fra i componenti dello stesso clan, sembra essere appunto il mezzo più adatto ad impedire l'incesto di gruppo. Questo mezzo divenne più tardi una legge fissa, che sopravvisse a lungo alla sua motivazione. Tuttavia se con questo noi crediamo di aver compreso i motivi che impongono limitazioni matrimoniali presso i selvaggi australiani, dobbiamo ancora tenere presente che le loro condizioni reali ci presentano ben più ampie complicazioni, a prima vista del tutto sconcertanti. Poche sono infatti in Australia le tribù che non abbiano altri divieti oltre le limitazioni totemiche. La grande maggioranza di esse si divìdono in due sezioni chiamate Fratrie (classi matrimoniali), ognuna delle quali è esogama, e comprende diverse famiglie totemiche. Normalmente ogni classe si divide in due sottoclassi, in modo che tutta la tribù, fra classi e sottoclassi, è divisa in quattro parti. Le sottoclassi stanno tra le Fratrie e le famiglie totemiche. Lo schema tipico d'una tribù australiana, quello che più di frequente si realizza, è così il seguente:

fig

Le dodici famiglie totemiche sono riunite in quattro sottoclassi e due classi. Tutte le sezioni sono esogame. (Il numero dei totem è scelto ad arbitrio.) La sottoclasse e forma un'unità esogamica con la sottoclasse e; la sottoclasse d con quella f. Non vi sono dubbi sul risultato, sulla tendenza di questo ordinamento. Esso serve a costituire una nuova limitazione alla scelta matrimoniale ed alla libertà sessuale. Se esistessero soltanto le dodici famiglie totemiche, allora, ammesso che tutte le famiglie abbiano lo stesso numero di membri, ogni uomo della famiglia potrebbe liberamente scegliere undici su dodici donne della tribù. Dal momento però che esistono due Fatrie, la sua scelta è ridotta della metà. Un uomo che fa parte del totem a può sposare soltanto una donna che faccia parte di uno dei totem 1-6. L'introduzione delle sottoclassi, poi, dimezza un'altra volta la scelta. Essa è ridotta ad un quarto del numero totale delle donne, tre per ogni dodici. Un uomo del clan a deve restringere la sua scelta tra le donne dei totem 4, 5 e 6.

I rapporti storici tra le classi matrimoniali - che arrivano, presso alcune tribù, al numero di otto - con le famiglie totemiche, non si conoscono ancora con chiarezza. Sappiamo soltanto che questi ordinamenti sono previsti allo scopo di ottenere un risultato analogo a quello dell'esogamia totemica, anzi vanno ancora oltre. Se l'esogamia totemica dà tuttavia l'impressione d'un precetto sacro, delle cui origini tutto si ignora - in breve, di essere un costume -, istituzioni complicate delle classi matrimoniali, delle loro suddivisioni e delle condizioni che ad esse sono legate sembrano dipendere da un'opera regolamentatrice consapevole dei fini che si propone, e che si assunse il compito d'impedire l'incesto quando l'influenza del totem era già in decadenza. Se il sistema totemico è, com'è noto, la base di tutti gli obblighi sociali e di tutte le limitazioni etiche della tribù, le fratrie vedono esaurito il loro compito nel regolare la scelta matrimoniale.

Nello sviluppo successivo del sistema a classi matrimoniali si nota la tendenza a proibire i matrimoni fra i parenti di gruppi sempre più lontani, oltre che l'incesto naturale e di gruppo. In questa maniera si è comportata la chiesa cattolica quando ha allargato il già antico divieto di sposarsi tra fratelli, a quello fra cugini e fra coloro che sono uniti soltanto da un grado di parentela spirituale (padrini, madrine e figliocci).

Non ci servirebbe molto approfondire più a lungo i termini dell'arruffata discussione intorno alla provenienza ed al significato delle classi matrimoniali e al loro rapporto col totem. Ci basterà accennare alla grande cura che gli Australiani e gli altri popoli selvaggi pongono nell'impedire l'incesto. Dobbiamo riconoscere che questi selvaggi a tal proposito sono più sensibili di noi. Essi devono essere probabilmente più esposti di noi alle tentazioni, per cui hanno bisogno d'una difesa più energica.

L'orrore dell'incesto non si limita però, presso quei popoli, alla creazione delle istituzioni che abbiamo descritte, che ci sembrano soprattutto dirette ad impedire l'incesto di gruppo. È necessario aggiungere una serie di consuetudini che impediscono le relazioni individuali tra parenti stretti, nel senso in cui noi l'intendiamo, osservate con religiosa severità, la cui intenzione non può suscitare dubbi. Queste consuetudini o divieti tradizionali si possono chiamare «scansi», e sono molto diffuse anche tra popoli totemici di altri continenti.

Il lettore, una volta ancora, si accontenterà di qualche frammentaria esemplificazione dal ricchissimo materiale che intorno a questo argomento abbiamo a disposizione.

Nella Melanesia questi divieti restrittivi riguardano le relazioni del ragazzo con la madre e con le sorelle. A Lepers Island, nelle Nuove Ebridi, per esempio, il ragazzo arrivato ad una certa età lascia la casa materna e va ad abitare nella «casa sociale» e qui, d'ora in avanti, mangerà e dormirà. Egli potrà, sì, frequentare la casa di suo padre per chiedere da mangiare, ma se la sorella è in casa deve andarsene prima del pasto, se non c'è può mangiare seduto sulla porta. Se fratello e sorella s'incontrano all'aperto, per caso, lei deve nascondersi o fuggire. Se il ragazzo vede orme sulla sabbia e le reputa della sorella, si guarderà bene dal seguirle; la sorella dovrà comportarsi nella stessa maniera. Il fratello non deve nemmeno pronunciare il nome della sorella ed eviterà una parola familiare che solo faccia parte del suo nome. Questa proibizione, che ha inizio con la cerimonia della pubertà, continua poi per tutta la vita.

La riservatezza tra madre e figlio cresce con gli anni, e quella che la madre osserva è ancor più grande di quella imposta al figlio. Se essa gli vuole offrire del cibo, non glielo porge personalmente ma si limita a metterglielo vicino; non gli parla confidenzialmente, né gli si rivolge col corrispondente «tu» del nostro linguaggio, ma con il «lei». Usi di questo tipo li troviamo nella Nuova Caledonia: quando fratello e sorella si incontrano, lei si nasconde in un cespuglio, lui va avanti senza volgere il capo.

Nella Penisola delle Gazzelle della Nuova Britannia una ragazza non può parlare al fratello dopo il matrimonio, né pronunzia il suo nome; lo indica solo con una perifrasi.

Nella Nuova Meclemburgo gli stessi divieti colpiscono cugini e cugine - tuttavia non indipendentemente dal grado - e sono naturalmente anche validi per fratelli e sorelle. Essi non devono avvicinarsi, né darsi la mano, né farsi regali: possono parlarsi, ma alla distanza di alcuni passi. Castigo per l'incesto con la sorella è la morte per impiccagione.

Nelle isole Figi questi regolamenti sono particolarmente severi includendo non solo le sorelle di sangue ma anche quelle di gruppo. In conseguenza, ci appare tanto più strano il fatto che questi selvaggi tengano poi orge sacre, durante le quali si ricercano proprio unioni sessuali fra individui colpiti dal divieto. Piuttosto che trovarla strana, noi potremmo utilizzare questa contraddizione per spiegare la proibizione stessa.

Fra i Batta di Sumatra le proibizioni si riferiscono a tutti i rapporti di parentela stretta. Ad esempio, per un Batta sarebbe molto scandaloso accompagnare la sorella ad una riunione serale. Perfino in presenza di terze persone egli si sentirebbe a disagio stando in sua compagnia. Se uno dei due entra in casa, l'altro preferisce uscirne. Neppure un padre sta in casa con la figlia, né la madre col figlio. Il missionario olandese che ci dà notizia di questi costumi crede siano motivati da buone ragioni. È comunemente ammesso da questi popoli che quando un uomo e una donna si trovano soli giungano inevitabilmente ad un'illecita intimità. Così, dal momento che dalle relazioni fra consanguinei essi non s'attendono che castighi o esiti dannosi, hanno ben ragione d'evitare ogni tentazione di contravvenire a tali prescrizioni.

Fra i Barongo nella baia di Delagoa in Africa esistono divieti strettissimi per la cognata, la moglie del fratello della propria moglie. Un uomo che dovesse incontrarla, dovrebbe sfuggirla con ogni sollecitudine. Ancora, non osa mangiare in una stessa scodella con lei, solo con timidezza le rivolge la parola, non ha il coraggio di entrare nella sua capanna, le rivolge il saluto con voce tremante.

È in vigore presso gli Acamba - o Wacamba - dell'Africa Orientale un divieto che noi avremmo creduto più frequente. Una ragazza per tutto il periodo che va dalla pubertà al matrimonio deve evitare in ogni modo suo padre; e dunque si nasconde se lo incontra per la strada, non osa sedergli accanto, e si comporta in questo modo fino al fidanzamento. Dopo il matrimonio ogni impedimento che le sia stato imposto nelle relazioni col padre viene a cadere.

Certo, la prescrizione più diffusa, più severa (e di maggiore interesse per i popoli civilizzati) è quella che riguarda i rapporti tra il genero e la suocera. È questa una prescrizione generalizzata in Australia, anche in uso tra i popoli della Polinesia, della Melanesia, fra i negri dell'Africa, fin dove arrivano le tracce del totemismo e della parentela di gruppo, e forse ancora più oltre. Analoghi divieti, per quanto meno severi e costanti, possono riguardare presso alcuni popoli gli innocenti rapporti tra una donna ed il suocero. In qualche caso isolato tutti e due i suoceri devono essere evitati.

Dal momento che non c'interessa tanto la diffusione etnografica di questa prescrizione ultima quanto il suo contenuto e le intenzioni a cui tende, anche in questo caso mi riferirò a qualche esempio soltanto.

Nelle isole Banks queste leggi sono severissime e definite con scrupolosità di particolari. Un uomo evita la vicinanza della suocera, e la suocera allo stesso tempo evita lui. Se dovessero incontrarsi lungo un sentiero, la donna oppure l'uomo stesso si tirano da parte e volgono le spalle all'altro finché non sia passato. A Vanua Lava (Port Patteson) un uomo non segue la suocera sulla spiaggia finché le sue orme non siano state cancellate dall'alta marea; tuttavia essi possono parlarsi da una certa distanza. Si esclude nel modo più rigoroso che il genero pronunci il nome della suocera e la suocera il nome del genero.

Nelle isole Salomone, dopo il matrimonio, l'uomo non deve vedere la suocera e non deve parlarle, e se gli capita di incontrarla non si comporta soltanto come se non la conoscesse ma in gran fretta la sfugge e corre a nascondersi.

È costume presso i Cafri Zulù che l'uomo si vergogni della suocera e cerchi di schivare la sua compagnia: non entra nella capanna in cui lei si trova e, nel caso s'incontrino, ognuno dei due cambia strada; la donna, per esempio, corre a nascondersi dietro un cespuglio e l'uomo si copre il viso con lo scudo. Se proprio non possono evitarsi, la donna, per rispettare come può il cerimoniale, si lega intorno alla testa un cespo d'erba. Le uniche relazioni permesse tra loro avvengono solo attraverso terze persone, oppure è loro dato di mettersi in contatto con grida ad una certa distanza, divisi da un ostacolo, come la siepe d'un villaggio o qualche altra cosa. Nessuno dei due deve pronunciare il nome dell'altro.

Presso i Basoga, una razza negra che abita la regione delle sorgenti del Nilo, un uomo può comunicare con la suocera solo quando essa è in un'altra stanza della casa ed in quel momento non è vista da lui. Esiste un orrore tale dell'incesto tra queste popolazioni, che non è lasciato impunito neanche tra gli animali domestici.

Se tuttavia il fine ed il valore dei divieti che riguardano i parenti più vicini sono talmente chiari che non esiste dubbio intorno ad essi, e sono stati sempre da tutti gli studiosi interpretati come norme tendenti ad impedire l'incesto, quelli riguardanti i rapporti con la suocera hanno avuto da qualcuno una diversa spiegazione. Sembra non sia molto giustificato che un uomo possa temere la tentazione che può derivargli da una donna ormai anziana che potrebbe essergli madre.22

Questa fu l'obiezione mossa anche all'interpretazione di Fi-son, il quale mette in evidenza la lacuna di alcuni sistemi a classi matrimoniali, consistente nel fatto che in teoria non è impossibile il matrimonio con la suocera. Era, così, necessario mettersi al sicuro da questa possibilità.

Sir J. Lubbock fa risalire, nella sua opera Orìgin of civilisation, il comportamento della suocera verso il genero al matrimonio per ratto (marrìage by capture). Egli sostiene: «Per tutto il tempo in cui si praticarono ratti di donne, la collera dei genitori deve essere stata seria e pericolosa. Quando non rimasero del ratto che i simboli, fu simbolizzata anche la collera dei genitori, ed i simboli continuarono ad esistere anche quando era già dimenticata la loro origine». È per Crawley abbastanza facile dimostrare come questo tentativo di spiegazione sia insufficiente per interpretare la realtà dei fatti.

E. B. Taylor è invece dell'opinione che il comportamento che la suocera assume verso il genero non sia che una forma di «non riconoscimento» (cutting) da parte della famiglia della moglie. L'uomo, finché non nasce il primo figlio, è considerato un estraneo e comunque non sempre l'avvenuta nascita rimuove la proibizione. Ma a prescindere da ciò, si potrebbe obiettare che tale spiegazione non chiarisce il fatto che la proibizione si accentra particolarmente sulla suocera, trascura cioè il fattore sessuale. Inoltre, non tiene affatto conto dell'orrore quasi sacro che detta proibizione esprime.

Interrogata su questo argomento, una donna Zulù offrì una risposta piena di delicatezza: non è giusto che un uomo guardi i seni che hanno allattato sua moglie.

Ognuno sa che, anche tra le popolazioni civili, i rapporti tra suocera e genero rappresentano uno degli aspetti più difficili dell'organizzazione familiare. Presso le razze bianche d'Europa e d'America non esiste alcun divieto in proposito, e tuttavia parecchi litigi e tante noie sarebbero evitate se questi divieti esistessero proprio come usi correnti e non fossero sostenuti da individui isolati. Sembrerà appunto a non pochi europei molto saggia questa iniziativa dei selvaggi di impedire a priori qualunque rapporto tra suocera e genero, dal momento che è certamente insito nella loro reciproca situazione psicologica qualcosa che facilita l'inimicizia e non permette una facile convivenza. Il fatto che le battute dei popoli civili abbiano spesso proprio la suocera per oggetto sta a dimostrare, mi sembra, che esistono delle componenti in contrasto tra loro nelle relazioni affettive che intercorrono tra suocera e genero. Penso debba trattarsi di un rapporto «ambivalente», costituito cioè da impulsi contrastanti di tenerezza e di ostilità.

Una parte di questi impulsi è facilmente individuabile. Per la suocera: contrarietà a rinunciare alla propria figlia, diffidenza nei confronti dello straniero al quale è stata affidata, tendenza a mantenere la posizione di dominio che aveva nella propria casa. Per l'uomo: rifiuto di sottomettersi ad una volontà che non sia la propria, gelosia per le persone che avevano prima di lui posseduto l'affetto della moglie ed infine, ultima ma non meno importante, avversione verso tutto ciò che potrebbe interferire con l'illusoria sopravvalutazione a cui l'hanno portato i suoi interessi sessuali. L'interferenza, infatti, nasce proprio dalla figura della suocera che, se ha con la figlia tanti tratti in comune, manca in pari tempo delle grazie della sua giovane età, della avvenenza e della freschezza d'animo che gliela rendono così cara.

Ma a questi argomenti altri ancora possiamo aggiungerne, grazie alla constatazione della esistenza di impulsi psichici nascosti, che noi ricaviamo dall'esame psicoanalitico di individui singoli. Sappiamo che i bisogni psicosessuali della donna devono trovare la loro soddisfazione nel matrimonio e nella famiglia. Da questo fatto nasce il pericolo di insoddisfazione per una fine prematura del rapporto coniugale ed il conseguente impoverimento della vita affettiva. La madre che si va invecchiando cerca di conservarsi giovane identificandosi con i figli e facendone proprie le vicende sentimentali. Si dice che i genitori rimangono giovani nei figli, ed è questo uno dei più preziosi vantaggi psicologici ch'essi ricavano da loro. In caso di sterilità viene a mancare uno dei maggiori sostegni per sopportare le rinunce che il matrimonio richiede. La partecipazione sentimentale della madre alle vicende della figlia può portare a tali fenomeni d'identificazione che essa s'innamora dell'uomo da quella amato. Questo fatto, in alcuni casi, può generare una violenta reazione psichica e portare la madre a forme gravi di malattia nervosa. La tendenza a coinnamorarsi del genero è abbastanza frequente nella suocera e lotta nel suo animo con la tendenza contraria, di resistenza alla prima, tutte e due fondendosi col tumulto delle forze che si agitano nella sua psiche. Più frequentemente, al fine di meglio controllare e soffocare la tendenza affettiva, vietata, è proprio la componente sadica dell'impulso amoroso ad essere rivolta verso il genero; così nel suo inconscio non v'è alcuna immagine di lei conservata immutabile.

Nell'uomo il rapporto con la suocera è reso difficile da impulsi molto simili, la cui origine è tuttavia diversa. Nella ricerca dell'oggetto d'amore egli passa immancabilmente attraverso l'immagine della madre, forse anche della sorella. La proibizione dell'incesto fa sì che il suo amore rifugga dalle persone che nella fanciullezza gli furono care per posarsi su una persona estranea fatta a loro immagine. La suocera prende ora il posto della madre, sua e della sorella. Nell'uomo si forma una tendenza a ritornare alle sue prime scelte amorose, a cui però tutto il suo essere si oppone: l'orrore dell'incesto esige che non sia in alcun modo ricordata la strada attraverso la quale egli è approdato alla sua scelta amorosa. Il rifiuto gli è reso più facile dal fatto che egli non ha conosciuto la suocera fin dall'infanzia come la madre. Quell'irritabilità e quel senso di avversione che notiamo in tutto il comportamento affettivo del genero ci fa supporre che per lui la suocera rappresenti veramente una tentazione all'incesto. Non è isolato il caso in cui un genero si innamori apertamente della suocera prima di rivolgere la propria attenzione alla figlia.

Siamo dunque sufficientemente documentati per sostenere che le proibizioni del rapporto tra suocera e genero si riferiscono presso i selvaggi a questo fattore incestuoso. Rimaniamo così alla tesi di Fison che guarda a queste leggi solo come ad una difesa contro la possibilità d'incesto. Tutto questo vale anche per tutti gli altri «scansi» tra consanguinei e parenti in linea matrimoniale, con la sola differenza che, mentre con i primi l'incesto è diretto e potrebbe palesarsi un tentativo cosciente d'impedirlo, nel secondo caso, nel quale si deve far rientrare il rapporto con la suocera, l'incesto sarebbe una tentazione immaginaria realizzata attraverso elementi inconsci.

Ancora non abbiamo avuto modo di mettere in luce come, applicando il metodo psicoanalitico, i fatti della psicologia dei popoli possano essere visti sotto aspetti completamente nuovi, dal momento che l'orrore che i selvaggi provano per l'incesto è da tempo riconosciuto e non ha bisogno di spiegazioni ulteriori. Tutto quel che si può aggiungere per una migliore comprensione è che questo orrore è una caratteristica infantile, ed ha corrispondenze molto aderenti nella vita psichica dei nevrotici. La psicoanalisi ci ha dimostrato che la prima scelta sessuale del fanciullo è incestuosa, poiché si riferisce ad un oggetto interdetto (alla madre o alla sorella) e ci ha mostrato attraverso quali vie l'adulto si libera dalla seduzione che su di lui l'incesto opera. Il nevrotico, al contrario, ci mostra con regolarità un aspetto dell'infantilismo psichico, dal momento che, o non ha saputo liberarsi dai legami che legavano la sua piscosessualità all'infanzia (arresto dello sviluppo), oppure è ad essi ritornato (regressione). Nella sua vita psichica inconscia le fissazioni incestuose della libido conservano ancora (oppure giocano nuovamente) una parte fondamentale, per cui dobbiamo ammettere che il complesso centrale della nevrosi è proprio nel rapporto con i genitori, in quanto è dominato dal desiderio d'incesto. Naturalmente questo concetto dell'incesto in relazione alle nevrosi incontra la più totale incredulità presso individui adulti e normali. La stessa avversione hanno incontrato le opere di Otto Rank intese a dimostrare quanta materia l'incesto abbia offerto a validi scrittori e come questo argomento sia, con le sue infinite distorsioni e variazioni, al centro dell'interesse poetico. Questa avversione deve senza dubbio considerarsi frutto, in gran parte, della avversione dell'uomo per i desideri incestuosi della propria infanzia, ora scomparsi, dal momento che sono stati completamente rimossi. È pertanto di non poca importanza per noi provare che questi stessi desideri incestuosi destinati in appresso a cadere nell'inconscio sono considerati dai popoli selvaggi un pericolo attuale ed è pertanto necessario difendersene attraverso misure repressive.

2. Il tabù e l'ambivalenza dei sentimenti

1.

Tabù è una parola polinesiana, la cui traduzione esatta è resa difficile dal fatto che manca presso di noi il concetto cui attualmente può riferirsi. Questo era ancora vivo presso gli antichi Romani. Il sacer latino era il corrispettivo del tabù dei Polinesiani, così anche l’àgos dei Greci e il Kodausch ebreo dovettero avere lo stesso significato espresso nella parola tabù dei Polinesiani e nelle denominazioni simili in uso presso molti popoli dell'America, dell'Africa (Madagascar), dell'Asia settentrionale e centrale.

La parola tabù esprime due opposti significati: in un senso significa sacro, consacrato, nell'altro, sinistro, pericoloso, proibito, impuro. Il termine opposto a tabù è, per i Polinesiani, noa, che significa comune, qualcosa a cui ognuno può accostarsi. Al tabù sono collegate delle restrizioni che trovano espressione in divieti e limiti. Possiamo in genere pensare che al significato di tabù corrisponda spesso il nostro «orrore sacro».

Le limitazioni imposte dal tabù differiscono molto dai divieti religiosi o morali. Rispetto ai primi, esse non si fanno risalire ad un ordine divino, ma si impongono da sé; rispetto ai secondi, non si lasciano inquadrare in un sistema che consideri certe astensioni come necessarie, offrendone i motivi. I divieti dei tabù non sono retti da alcuna motivazione: la loro provenienza è ignota. Per quanto siano incomprensibili agli estranei, sembrano del tutto naturali a coloro che ad essi sono sottoposti.

Wundt (Psicologia dei popoli, vol.II, Mito e Religione, 1906) sostiene che il tabù sia il più antico codice non scritto dell'umanità; e si ammette generalmente che esso sia più antico degli dèi e che risalga a tempi molto remoti, antecedenti a qualsiasi tipo di religione.

Dal momento che ci è necessaria una imparziale descrizione del tabù, per esaminarlo alla luce delle nostre conoscenze psi-coanalitiche, riporto un brano dell'articolo «Taboo» dalla Enciclopedia Britannica,2 opera dell'antropologo Northcote W. Thomas.

In senso stretto, il tabù comprende soltanto a. il carattere sacro, o impuro, di persone o cose; b. il tipo di limitazione che da esso deriva; e. la santità, o impurità che deriva dalla infrazione del divieto. Il contrario di tabù si dice in Polinesia "noa", che significa comune oppure ordinario...

In senso più largo, si possono distinguere diverse specie di tabù: 1. Il tabù naturale o diretto, che deriva da una forza misteriosa (Mana), inerente ad una persona o ad una cosa; 2. il tabù trasmesso o indiretto, che a quella forza sempre si riferisce, ma o è acquisito oppure è trasmesso da un sacerdote, da un capotribù o da altre persone in genere; esiste poi un tipo di tabù che sta fra i due che abbiamo già visto, dove tutti e due i fattori sono compresenti (come nel caso di una donna fatta propria dal marito). Il termine tabù è poi usato in riferimento ad altre limitazioni rituali: non dovrebbe tuttavia rientrare nel tabù tutto ciò che potrebbe essere meglio definito come interdizione religiosa.

I fini del tabù sono i più diversi. I tabù diretti riguardano a. la protezione di persone ragguardevoli (capi-tribù, sacerdoti) e perfino di oggetti da danni eventuali; b. la protezione dei deboli, come donne, bambini ed uomini comuni, dalla violenta Mana (forza magica) propria dei sacerdoti e dei capi; e. la difesa dai pericoli che derivano dal contatto con cadaveri e dalla consumazione di alcuni cibi particolari, ecc.; d. l'assicurazione nei confronti di perturbamenti di atti fondamentali della vita, come nascite, consacrazioni virili, matrimoni, pratiche sessuali; e. la preservazione degli esseri umani dall'ira degli dèi e dei demoni; f. la salvaguardia dei nascituri e dei bambini dalla dipendenza simpatetica dai genitori (cioè dalle conseguenze di certe azioni e specialmente dalla comunicazione di qualità che si suppone derivino dall'ingestione di certi cibi). Un'altra applicazione dei tabù riguarda la difesa della proprietà privata d'una persona, dei suoi strumenti di lavoro, dei suoi campi ecc.

La punizione che segue la violazione d'un tabù è in origine affidata ad una legge interiore la quale entra in funzione automaticamente: il tabù offeso si vendica da sé. Quando, più tardi, il tabù è messo in relazione con divinità o con demoni, è da loro che ci si aspetta una punizione automatica. In casi diversi, forse per uno sviluppo ulteriore del concetto, è la società stessa che prende su di sé il compito di punire chi ha posto in pericolo i propri compagni. In questo senso anche i primi sistemi di punizione dell'umanità si ricollegano al tabù.

Chi trasgredisce un tabù, lui stesso diventa un tabù. Alcuni pericoli che derivano dall'offesa d'un tabù possono essere scongiurati da penitenze e da cerimonie di purificazione.

Si ritiene che la fonte del tabù consista in una strana forza magica inerente a persone e a spiriti, che possa venir da questi trasmessa ad oggetti inanimati. Persone ed oggetti tabù possono essere paragonati a corpi carichi di elettricità: è presente in loro una forza terribile che si comunica al solo tatto e che nello scaricarsi, quando l'organismo che la riceve è troppo debole per sopportarla, produce effetti disastrosi. Infatti il risultato di un'offesa al tabù non dipende soltanto dalla forza magica insita in quell'oggetto o in quella persona, ma anche dalla potenza del Mana che il violatore può opporgli. Per esempio, i re ed i capi possiedono un'immensa forza, ed i loro sudditi rischierebbero la loro stessa vita se venissero in contatto con essi. Un ministro, però, o una persona che possieda un Mana superiore al comune, può senza timore avvicinarli e, a sua volta, permettere ai propri subordinati di avvicinarglisi senza pericolo. Così l'importanza dei tabù che vengono trasmessi dipende anche dalla potenza della persona che li ha comunicati. Quando si tratta di un re o di un sacerdote, il tabù ha sempre maggiore efficacia, rispetto a quello imposto da un uomo comune.

Il fatto che il tabù possa essere trasmissibile, ha fatto nascere la credenza che lo si possa scongiurare attraverso cerimonie di espiazione.

Esistono tabù permanenti e tabù temporanei. Appartengono ai primi quelli inerenti i capi-tribù, i sacerdoti, ed anche i morti, insieme a tutto ciò che è loro appartenuto; ai secondi si riferiscono situazioni particolari, come la mestruazione, il puerperio, l'attività di colui che combatte (prima e dopo la spedizione), o relative alla caccia, alla pesca ecc. A somiglianza dell'interdetto lanciato dalla Chiesa si possono poi decretare tabù generali riguardanti ampie regioni e che durano parecchi anni.

Penso di non essere lontano dalla verità se presumo che i miei lettori non sappiano ancora, dopo tutte queste notizie, farsi un'idea precisa del tabù, né siano in grado di configurarselo nella propria mente. Tutto ciò è senza dubbio dovuto alle poche informazioni che io ho fornito su questo argomento ed al fatto che non ho esaminato con sufficiente accuratezza i rapporti che intercorrono tra il tabù e la superstizione, la fede nell'esistenza dell'anima e la religione. Sono tuttavia dell'opinione che una descrizione più completa di tutto ciò che oggi conosciamo intorno al tabù avrebbe ancor più confuso le idee; e, d'altra parte, non posso in aggiunta non convenire che l'oggetto della nostra ricerca è tutt'altro che chiaro. Si tratta, in definitiva, di un complesso di restrizioni alle quali vengono sottoposti questi popoli primitivi. Questa o quella cosa è proibita; essi non ne conoscono le ragioni e non se ne chiedono mai il perché. Si sottomettono al divieto come ad un fatto naturale, sicuri che una qualunque violazione comporterebbe una punizione severa. Esistono notizie credibili, dalle quali apprendiamo che perfino una trasgressione inconsapevole ha dato luogo alla automatica punizione del colpevole. (Ad esempio, l'inosservante che abbia innocentemente mangiato le carni di un animale proibito cade in una depressione profonda, aspetta la morte, ed alla fine muore davvero.) Di solito i divieti si riferiscono ai cibi ed alla libertà di alcuni impulsi, di alcuni rapporti; se in certi casi, poi, essi appaiono in una veste di razionalità ed impongono delle astensioni e delle rinunce, in altri risultano completamente inspiegabili, per il fatto che riguardano dettagli insignificanti e sembrano essere di natura puramente cerimoniale. Quest'insieme di prescrizioni sembra fondarsi su una teoria in base alla quale la loro necessità è data dal fatto che certe persone e certi oggetti posseggono una forza pericolosa che si comunica attraverso il contatto come un contagio. Si pone attenzione anche alla quantità di queste forze: i tabù ne possiedono in grado diverso, ed il pericolo varia in relazione alla pericolosità delle cariche. Fatto ancora più curioso è però che il trasgressore assuma egli stesso il carattere di cosa proibita e prenda quasi sulla sua persona la carica pericolosa. Questa forza è peculiare di tutte quelle persone in qualche modo «speciali», come i re, i sacerdoti, i neonati; è, ancora, peculiare di tutte le circostanze straordinarie della vita, di quelle fisiche che riguardano la mestruazione, la pubertà, la nascita, di tutto ciò che è lugubre, come la malattia e la morte, ed a queste associato per la possibilità di infezione o contagio.

Si considera Tabù tutto quello che è veicolo o fonte di questo misterioso attributo, sia le persone che i luoghi, gli oggetti e le circostanze occasionali. Così, è tabù anche la prescrizione che da questa proprietà procede. È tabù, infine, nel senso vero della parola, tutto ciò che allo stesso tempo può ritenersi sacro, al di sopra del normale, ed anche pericoloso, impuro, misterioso e sinistro.

In questa parola e nel sistema che essa denota si manifesta un aspetto della vita psichica lontanissimo dalla nostra comprensione, al punto che si potrebbe essere portati a ritenere impossibile intenderla senza ricadere in quella fede negli spiriti e nei demoni che è propria dei popoli di cultura inferiore.

Ma per quale ragione siamo attirati dall'enigma del tabù? Rispondo che sono dell'opinione che ogni problema psicologico sia degno d'essere risolto; ma vi sono altre ragioni. Noi intuiamo che il tabù dei selvaggi polinesiani non è, come sembra a prima vista, molto lontano da noi, anzi potrebbe esistere una qualche relazione tra le motivazioni etiche alle quali obbediamo e (almeno per gli elementi essenziali) questo tabù primitivo; infine, la spiegazione del tabù potrebbe offrirci qualche chiarimento intorno alle origini oscure del nostro «imperativo categorico».

Noi rivolgeremo, a questo punto, un particolare interesse alla interpretazione che del tabù ci offre uno scienziato quale Wundt, soprattutto perché egli ci promette di «risalire alle origini del fenomeno».

Wundt sostiene che «al concetto tabù appartengono tutte le usanze nelle quali si manifesta l'orrore per alcuni oggetti che sono in relazione col culto o per le azioni che vi si riferiscono».

Ed in un altro passo: «Se noi intendiamo per tabù, attenendoci al significato generale del termine, ogni prescrizione la quale, in base ad usi, costumi e leggi esplicitamente formulati, divieti di toccare un oggetto, o di usarlo, o vieti di pronunciare certe parole esecrate...», non esisterebbe alcuna cultura, né alcun popolo, che possa ritenersi indenne dall'effetto negativo del tabù.

Più avanti, Wundt chiarisce perché egli ritenga miglior partito studiare il tabù presso i selvaggi australiani, in condizioni primitive, piuttosto che presso i popoli della Polinesia, di cultura relativamente più evoluta, e si trova a dividere in tre classi le prescrizioni legate a tabù, a seconda che esso riguardi gli animali, gli uomini o i diversi oggetti. Il tabù degli animali, costituito in genere dal divieto di ucciderne e di mangiarne, è il nucleo del totemismo. Il tabù del secondo tipo, che riguarda l'uomo, ha un carattere completamente diverso, esso è già in partenza limitato a condizioni che pongono l'uomo tabù in una circostanza insolita di vita. In questo modo, vengono ad essere tabù i fanciulli durante la festa di consacrazione virile, le donne durante la mestruazione e dopo il parto, i neonati, gli ammalati e soprattutto i morti. Gli oggetti che un uomo usa costantemente (vestiti, strumenti, armi) sono tabù permanente per tutti gli altri. In Australia è considerata proprietà personale anche il nuovo nome che il ragazzo riceve durante la iniziazione virile. Questo nome è tabù, e deve rimanere segreto. I tabù del terzo tipo, riferentisi ad alberi, piante, case, luoghi, offrono maggiori variazioni e sembra per essi valer la regola secondo la quale è oggetto di tabù tutto ciò che suscita, per un motivo o per un altro, inquietudine e orrore.

È ancora Wundt a sostenere che il tabù non viene a subire trasformazioni molto profonde nella civiltà più progredita dei Polinesiani e dei Malesi. Quel che differenzia maggiormente questi popoli dal punto di vista sociale è il fatto che i loro capi, re e sacerdoti, sono fonte di un tabù particolarmente potente e che essi sono tanto più strettamente legati alle sue prescrizioni.

La fonte vera alla quale può farsi risalire il tabù è tuttavia ben più profonda degli interessi delle classi privilegiate. «Esso ha origine dalla stessa sorgente dalla quale nascono gli istinti umani più resistenti e più primitivi: cioè, dalla paura di forze demoniache». ( W. wundt, Mito e Religione, II) «In origine il tabù non è altro che la paura oggettivata delle forze demoniache che si suppone abitino entro certi oggetti tabù, proibisce di provocare dette forze ed ordina che, nel caso in cui esse siano state offese coscientemente o meno, si tenti di sviare ogni loro vendetta.»

Piano piano il tabù diviene una forza a sé, indipendente dal demonismo, si evolve nel ruolo di costume e tradizione, ed infine di legge. L'imperativo che, non espresso, è alle spalle delle varie forme nelle quali il tabù si esprime a seconda del tempo e del luogo è in origine: «guardati dall'ira dei demoni».

Dal Wundt dunque si ricava che il tabù è espressione e derivato della credenza dei popoli primitivi nelle forze demoniache, e che, essendosi esso allontanato più tardi dalle proprie origini, per una sorta di conservatorismo psichico si è conservato una forza perché è una forza. Dopo di che esso è arrivato fino a noi come fonte dei nostri comandamenti morali e delle nostre leggi. Ora, benché la prima di queste asserzioni non possa essere contraddetta, io credo di ben interpretare l'impressione ricevuta dai miei lettori dicendo che siamo rimasti delusi dalla spiegazione di Wundt. Egli non recupera affatto le fonti del tabù e non ci chiarisce affatto le sue radici più profonde. Infatti, in psicologia, né la paura né i demoni possono essere considerati alla stregua di cause prime inaccessibili a qualunque tentativo di scoprire quanto le ha precedute. Si potrebbe parlare veramente di cause prime se i demoni esistessero nella realtà e non fossero, come gli dèi, creazioni della mente umana, di cui dobbiamo cercare l'origine e la sostanza.

Sugli opposti significati del tabù Wundt ci offre opinioni interessanti, che però non eccedono in chiarezza. Per quel che riguarda il tabù, secondo lui, non esisteva in origine una distinzione tra sacro ed impuro, e proprio per questa ragione quei concetti mancarono del peculiare significato che poterono acquistare solo col contrasto reciproco. L'animale, l'uomo, il luogo nei quali s'incarnava un tabù, erano demoniaci e non sacri, neppure nel significato più tardo di impuri. E l'espressione tabù è appropriata appunto per questo significato intermedio del «demoniaco», che non deve essere toccato, poiché essa mostra un carattere che d'allora in poi sarà comune a sacro e ad impuro, e cioè l'errore d'entrarvi in contatto. Il fatto che questa caratteristica sia permanentemente comune ci fa però pensare che in origine sia esistita fra i due domini una vera concordanza, e che essa, modificate le condizioni, abbia subito un tale processo di differenziazione da porli in totale contraddizione.

L'opinione primitiva che il tabù consiste in una forza demoniaca nascosta dentro l'oggetto, il cui contatto o il cui uso illecito è punito con il malefico incantamento dell'inosservante, ancora una volta non è altro che paura oggettivata, antecedente ad ogni sdoppiamento nelle due forme della venerazione e dell'orrore, assunte in un momento più avanzato dello sviluppo.

Ma in che modo avviene questa divisione? Per il Wundt essa è legata allo spostamento dei divieti costitutivi del tabù dal campo dei demoni a quello delle divinità. La contrapposizione fra sacro ed impuro si determina in coincidenza con il susseguirsi di due distinti stadi della mitologia, il primo dei quali non scompare al subentrare del successivo, ma continua ad esistere con un rilievo minore, che via via si accoppia al disprezzo. Di solito nella mitologia vale la legge per la quale uno stadio precedente coesiste accanto al nuovo in forma diminuita, proprio perché ormai sorpassato e rifiutato, così che gli oggetti della sua venerazione si trasformano in oggetti di orrore.

Per il resto Wundt si rivolge a chiarire il rapporto tra la rappresentazione del tabù, la purificazione ed il sacrificio.

2.

Chi si avvicini al problema del tabù dal punto di vista psicoanalitico, cioè dall'esame dell'inconscio nella vita psichica individuale, arriverà ben presto alla conclusione che fenomeni di questo genere non gli sono affatto estranei. Egli ha incontrato individui i quali si sono creati da se stessi i divieti del tabù, e che li seguono con la stessa scrupolosità con la quale i selvaggi seguono quelli della loro tribù. Se non esistesse già una terminologia abituale secondo la quale queste persone sono degli «ossessivi», esse potrebbero ben esser chiamate «ammalati di tabù». Ma quando attraverso l'esame psicoanalitico egli riesce a chiarire questa malattia, la sua eziologia clinica e gli elementi fondamentali della sua struttura psicologica, non può che a gran fatica rinunziare ad applicare la nuova cognizione al fenomeno sociologico parallelo.

Si può tuttavia sollevare l'eccezione che il tabù abbia una somiglianza solo esteriore con la malattia ossessiva, e che tale somiglianza si limiti all'aspetto e non riguardi gli elementi fondamentali. Alla natura piace servirsi di forme identiche per le concatenazioni biologiche più diverse, i coralli e le piante, e ancora meglio certi cristalli e certe forme di precipitati chimici. Sarebbe senza dubbio prematuro ed inutile dedurre da queste concordanze, che risalgono ad una causa meccanica similare, l'esistenza di affinità interiori. Noi avremo presente questa possibilità, senza per questo distorglierci dal confronto che ci siamo proposti.

La prima e più evidente concordanza fra la malattia ossessiva ed il tabù consiste nel fatto che, sia nell'una che nell'altro, le prescrizioni non sono motivate, la loro provenienza è del tutto enigmatica. Comparsi in un qualche momento non specificato, sono forzatamente mantenuti da una paura irriducibile. È superflua qualunque esterna minaccia di punizione, dal momento che una certezza interiore, una convinzione morale collega la trasgressione ad insopportabili calamità. Tutto quello che questi malati sanno dire è d'avere il presentimento che, in caso di trasgressione, una certa persona del loro ambiente verrebbe colta da una grave disgrazia. La natura del danno non è nota e anche questa informazione così generica è offerta più spesso nei casi di pratiche espiatorie e difensive (delle quali tratteremo più tardi), che non a proposito dei divieti stessi.

La prima e più importante prescrizione della nevrosi è, come nel tabù, quella che riguarda il contatto, da cui il nome di «fobia del contatto», délire de toucher. La prescrizione non riguarda soltanto il contatto diretto col corpo, ma in genere tutte le azioni che noi definiamo attraverso il modo di dire figurato: venire a contatto. Al pari del contatto fisico del corpo, è sottoposto a prescrizione tutto quello che indirizza i pensieri verso il proibito, che stabilisce un contatto anche solo astratto e psichico. Nel tabù appunto noi troviamo la stessa estensione della proibizione.

Alcuni divieti sono, nel loro significato, comprensibili, altri appaiono inintelligibili, privi di alcun senso ed assurdi: a questi noi diamo il nome di «cerimoniali». Tali diverse caratteristiche si possono notare anche negli adempimenti richiesti dal tabù.

È caratteristica propria dei divieti ossessivi una facoltà molto ampia di spostarsi e di estendersi dall'uno all'altro oggetto, attraverso un qualunque nesso associativo, rendendo il nuovo oggetto «impossibile», secondo la calzante espressione di una mia ammalata, fino a che è il mondo intero a trovarsi sotto un embargo di «impossibilità». Gli ammalati si comportano come se le persone e le cose «impossibili» possano esser causa di un Pericoloso contagio, che rapidamente si comunichi a tutto ciò che è loro vicino. Mentre esaminavamo le caratteristiche del

tabù noi abbiamo messo in evidenza aspetti identici di contagiosità e di trasmissibilità. Abbiamo anche visto che chi trasgredisce il tabù toccando un oggetto tabù diventa tabù lui stesso, e nessuno può entrare in contatto con lui.

Ecco due esempi di trasferimento, o per meglio dire di spostamento del divieto, che ricavo uno dalla vita dei Maori e l'altro da mie osservazioni effettuate su una ammalata di nevrosi ossessiva.

Un capo-tribù Maori non soffia sul fuoco perché il suo alito sacro gli trasmetterebbe la sua forza, il fuoco a sua volta la trasmetterebbe alla pentola, questa al cibo, e il cibo alla persona che deve mangiarlo: così la persona che mangi il cibo cotto su quel fuoco dovrebbe morire, perché infettato, attraverso i vari intermediari, dall'alito sacro del capo.

Nella seconda situazione, la mia ammalata pretende che dalla sua abitazione sia portato via un oggetto comperato dal marito, altrimenti essa non si sentirebbe più di vivere in quell'ambiente. Ella è venuta a sapere che quell'oggetto è stato, supponiamo, comperato in via dei Cervi. Ma Cervi è il nome attuale di un'amica, che abita in una città lontana, e che lei un tempo conosceva col nome di ragazza. Oggi quella sua amica è per lei «impossibile, tabù» come l'amica, con la quale non vuol venire in contatto, così cioè tabù, diviene l'oggetto comperato a Vienna.

Sia le proibizioni imposte dal tabù, sia quelle imposte dalla nevrosi ossessiva comportano restrizioni e rinunzie. Una parte di queste può essere eliminata eseguendo azioni particolari che devono essere compiute; acquistano quindi un carattere ossessivo ed hanno senza dubbio la natura di un'ammenda, di un'espiazione, di una regola di difesa e di purificazione. Di tutte queste pratiche coatte la più frequente è quella di lavarsi (lavacri ossessivi). Anche una parte delle prescrizioni imposte dal tabù può essere sostituita da altre, oppure la trasgressione che loro si riferisce riparata attraverso «cerimoniali» tra i quali quello della lustrazione è uno dei favoriti.

Riassumendo, i punti nei quali gli usi del tabù e sintomi della nevrosi ossessiva si somigliano sono quattro: 1. la scarsa motivazione delle prescrizioni; 2. la loro convalida ad opera di un'interiore necessità; 3. la loro dislocabilità e la contagiosità degli oggetti proibiti; 4. la creazione di pratiche cerimoniali e di imperativi derivanti dalle prescrizioni. La psicoanalisi tuttavia ci ha messi in grado di conoscere la storia clinica ed il meccanismo psichico dei casi di nevrosi ossessiva. Ecco come procede la storia clinica, per quel che la riguarda, in un tipico caso di fobia del contatto. In origine si è manifestato, nella primissima infanzia, un intenso piacere di toccare, il quale tendeva ad uno scopo ben più definito di quanto si sarebbe disposti a supporre. A questo piacere si oppose, ben presto, una proibizione dall'esterno di quel particolare tipo di contatto. La proibizione fu accettata per il fatto che si trovava sorretta da grandi forze interne e perché si dimostrò più potente dell'impulso che induceva al contatto. Tuttavia, data la costituzione psichica originaria del bambino, il divieto non giunse fino ad eliminare del tutto la tendenza. Esso riuscì soltanto a rimuovere l'impulso, il desiderio del contatto, ed a confinarlo nell'inconscio. In questo modo divieto ed impulso continuarono ambedue ad esistere: l'impulso perché era stato solo rimosso e non eliminato, il divieto perché, se fosse venuto meno, avrebbe permesso il ritorno alla coscienza dell'impulso e la sua conseguente soddisfazione. In una situazione di questo genere, non risolta, si determina una fissazione psichica, e dal conflitto fra la proibizione e l'impulso, poi, scaturisce tutto il resto.

La caratteristica più importante dell'insieme dei fenomeni psichici che risultano in questo modo fissati, sta in quel che potrebbe definirsi atteggiamento ambivalente (Secondo l'eccellente espressione di Bleuler) dell'individuo verso un particolare oggetto o, per meglio dire, verso un'azione connessa con quell'oggetto.

Egli desidera nello stesso tempo svolgere quest'azione (toccare) ed aborre da essa. Il conflitto fra le due tendenze non è facilmente risolvibile, perché la loro localizzazione psichica non è tale da permettere il loro incontro. Il divieto è perfettamente cosciente, mentre il piacere prepotente di toccare è inconscio. Se non si realizzasse una situazione psicologica di questo genere, una ambivalenza non potrebbe resistere per un così lungo tempo, né comporterebbe tali conseguenze.

Noi abbiamo osservato quale fenomeno decisivo, nella storia clinica testé riassunta, l'imposizione del divieto nella primissima infanzia. Tutto il successivo meccanismo della nevrosi si deve far risalire alla rimozione che si è prodotta in questa età. La motivazione del divieto cosciente rimane ignota dal momento che è stata rimossa e connessa ad un'amnesia. Finisce per fallire qualsiasi tentativo di ricerca mentale, poiché tale tentativo non sarà mai in grado di raggiungere un punto al quale riallacciarsi. La forza del divieto, il suo carattere ossessivo dipende dal rapporto che lo lega alla sua controparte inconscia, cioè al desiderio sempre vivo nell'inconscio di realizzare una necessità interiore inaccessibile al riconoscimento cosciente. La facoltà propria del divieto di spostarsi e di espandersi riflette un processo suscitato dal desiderio inconscio, il quale è in special modo secondato dalle condizioni psicologiche in cui l'inconscio si trova. Per evitare le barriere entro le quali si viene a trovare, il desiderio si sposta in continuazione e cerca di procacciarsi i surrogati dei divieti (oggetti e pratiche sostitutive). Nello stesso tempo però è anche il divieto a spostarsi e ad estendersi a tutti i nuovi scopi dell'impulso proibito. Ogni volta che di nuovo la libido rimossa urge, il divieto reagisce acuendosi ancora. L'ostacolo che vicendevolmente le due forze in lotta contrappongono fa nascere una necessità di sfogo, in maniera da diminuire la tensione. È in questa necessità che si celano i motivi delle pratiche ossessive. Esse costituiscono, nella nevrosi, vere azioni di compromesso; da una parte sono la testimonianza di un pentimento, hanno il significato di tentativi di espiazione ecc., dall'altra sono atti sostitutivi, per compensare l'impulso verso la cosa proibita. Esiste, nella patogenesi della nevrosi, una legge secondo la quale queste pratiche ossessive sono sempre più condizionate dall'istinto e divengono sempre più vicine alla pratica inizialmente proibita.

Cerchiamo ora di guardare il tabù riconoscendogli per un momento la stessa natura dei divieti ossessivi dei nostri ammalati. Diventa subito chiaro che molti divieti da tabù osservati finora sono di natura secondaria, forme da spostamento e deformazioni derivanti da divieti più originari e significativi intorno ai quali per l'appunto noi desideriamo fare un po' di luce. Inoltre, è evidente che fra il selvaggio e il nevrotico c'è una differenza troppo grande, tale da escludere una completa concordanza del fenomeno; il confronto non ci porterà di certo all'identicità d'ogni dettaglio.

Per prima cosa diremo che non avrebbe senso alcuno informarsi dai selvaggi sul vero motivo delle prescrizioni, cioè sulla genesi del tabù. Essi sono infatti, in base alla nostra premessa, incapaci comunque di offrirci informazioni in questo senso, poiché abbiamo a che fare con una motivazione «inconscia». Ecco come noi siamo in grado di ricostruire la storia del tabù sul modello che ci fornisce la nevrosi ossessiva. 1 tabù sono costituiti da divieti antichissimi, imposti dall'esterno ad una generazione di uomini primitivi, con ogni probabilità inculcati loro forzatamente da una generazione precedente. Queste proibizioni si sono rivolte ad attività per le quali esisteva una decisa tendenza, e si sono conservate poi da una generazione all'altra forse solo grazie alla tradizione, trasmessa attraverso l'autorità dei genitori e della società. Probabilmente solo nelle generazioni successive esse si sono «organizzate» come patrimonio psichico ereditario. Non è possibile stabilire nel nostro caso se si tratti di una sorta di «idee innate», oppure se queste idee, da sole o con l'ausilio dell'educazione, abbiano prodotto la fissazione del tabù. Tuttavia, il fatto che il tabù si sia conservato, implicherebbe l'esistenza, presso i popoli che lo mantengono, dell'originario piacere di fare ciò che è proibito. Questi popoli posseggono dunque un atteggiamento ambivalente verso i precetti del tabù. Essi vorrebbero inconsciamente violarli, ma temono nel contempo di farlo: lo temono appunto perché lo desidererebbero, ma la paura è più forte del piacere. Questo piacere conserva però per ogni individuo che faccia parte della tribù, così come per il nevrotico, una vita inconscia.

I divieti da tabù più antichi e più importanti sono due e costituiscono le due leggi basilari del totemismo: non uccidere l'animale-totem e star lontano dai rapporti sessuali con compagni dell'altro sesso che appartengono allo stesso totem.

Questi, dunque, dovrebbero essere i più antichi e più potenti desideri degli uomini. Noi non possiamo capire tutto questo, né possiamo provare su questi due esempi la nostra ipotesi finché il senso e l'origine del sistema totemico ci resteranno ignoti. Tuttavia non sarà difficile, a chi è al corrente dei risultati di un esame psicoanalitico rivolto al singolo individuo, riconoscere nella corrispondenza formale e nella coincidenza che lega i due tabù qualcosa di molto preciso, che gli psicoanalisti stimano il punto centrale della vita erotica infantile, ed il nodo delle nevrosi.

Noi possiamo ridurre tutte le altre varietà di fenomeni legati al tabù, classificate nella precedente esposizione, a quest'unico principio: in fondo al tabù c'è un'azione proibita, per la quale esiste nell'inconscio una attrazione nettissima.

Noi sappiamo, anche senza afferrarne il motivo, che chi compie un'azione proibita, cioè chi viola un tabù, diviene tabù lui stesso. Come faremo, però, a collegare questi dati di fatto con altri, per i quali il tabù non coinvolge solo le persone che lo hanno violato, ma anche persone che si trovano in condizioni speciali, queste stesse condizioni e oggetti inanimati? Quale può essere quella proprietà pericolosa che nelle più varie circostanze rimane sempre la stessa? Può essere una soltanto, e cioè quella di suscitare l'ambivalenza dell'uomo e di tentarlo alla violazione del divieto.

L'uomo che ha trasgredito un tabù diviene tabù a sua volta perché acquisisce la pericolosa proprietà di indurre gli altri a seguire il suo esempio. Quest'uomo suscita invidia. Infatti, perché a lui dovrebbe essere concesso quello che agli altri è proibito? Egli, dunque, risulta realmente contagioso, in quanto induce col suo esempio alla tentazione: pertanto deve essere evitato.

Ma un uomo può anche non aver trasgredito alcun tabù ed essere tuttavia tabù, permanentemente o in via transitoria, perché la sua condizione eccita i desideri proibiti dei suoi simili, suscita in essi il conflitto dell'ambivalenza. La maggior parte degli stati e delle situazioni fuori del comune appartengono a questo tipo e possiedono questa forza pericolosa. Il re o il capo-tribù suscita gelosia per le sue prerogative. Ogni uomo, verosimilmente, desidererebbe essere re. Sia il morto che il neonato, la donna nei suoi periodi ciclici di sofferenza o in travaglio suggestionano, con il loro abbandono, l'individuo che è appena entrato nella maturità sessuale stimolato dalla promessa di sensazioni nuove. Per questo tutte quelle persone e tutte queste condizioni sono tabù: occorre non cedere alla tentazione che da esse procede.

Siamo ora in grado di capire anche perché le quantità di mana possedute da individui dissimili possono essere sottratte l'una dall'altra e anche in parte annullarsi vicendevolmente. Il tabù d'un re risulta troppo potente per un suddito, dal momento che c'è fra loro una distanza sociale troppo grande. Un ministro tuttavia può intervenire come inoffensivo intermediario. Questo, passando dal linguaggio tabù a quello della normale psicologia, vuol dire che il suddito, il quale ha paura della tentazione che gli offre il contatto col re, può sopportare di aver a che fare con un dignitario verso cui egli prova meno invidia, e la cui posizione neppure a lui sembra irraggiungibile. Inoltre il ministro si trova in grado di dominare la propria gelosia verso il re, stimando di essere egli stesso investito di considerevole dignità. In questo modo la forza magica che è alla base della tentazione viene ad essere tanto meno temuta quanto minore è la differenza, e viceversa.

Risulta egualmente evidente perché la violazione di certi tabù costituisce un pericolo sociale che deve essere punito o scontato da tutti gli individui di cui la società si compone, perché non ne derivi un danno per ognuno. Questo rischio è realmente esistente se noi poniamo velleità coscienti al posto dei desideri inconsci, e sì basa sulla possibilità di imitazione, grazie alla quale la società cadrebbe rapidamente in rovina. Se la violazione restasse senza pena, gli altri membri si renderebbero conto di poter agire come il trasgressore.

Che il contatto rivesta, nei divieti che si riferiscono al tabù un ruolo simile a quello che esso sostiene nel délire de toucher, non deve meravigliarci, per quanto il senso segreto del tabù non possa affatto essere così determinato come nelle nevrosi. Il contatto è il cardine di ogni appropriazione, di ogni sforzo tendente a ridurre in proprio possesso una persona od una cosa, di attrarla alla esecuzione del proprio volere personale.

Abbiamo chiarito la forza di contagio che procede dal tabù con la caratteristica che gli è propria d'indurre in tentazione, di sospingere all'imitazione. Tutto questo non sembra andare d'accordo con il fatto che la peculiarità propria del tabù di contagiare si mostra anzitutto nella sua trasmissibilità ad oggetti che diventano poi tabù a loro volta.

La trasmissibilità dal tabù riflette anche la tendenza, propria della pulsione inconscia nelle nevrosi, di spostarsi, per associazione, verso oggetti sempre nuovi. Noi notiamo in particolare che in corrispondenza della pericolosa forza del mana esistono due forze più reali: la capacità di ricordare all'uomo i suoi desideri proibiti e quella, che in apparenza è la più importante, di trascinarlo fino a violare il divieto per soddisfare questi desideri. Queste due forze, tuttavia, tornano nuovamente ad essere una sola se noi accettiamo che la vita psichica primitiva sia strutturata in modo che quando si ridesta il ricordo di azioni proibite, si ridesta anche l'impulso a commetterle. Dunque: il ricordo coincide con la tentazione. E si deve anche convenire che se l'esempio d'un uomo che ha violato la prescrizione è di stimolo perché un altro segua la stessa strada, quella disobbedienza si diffonde come un contagio, proprio come il tabù a sua volta passa da una persona ad un oggetto e da un oggetto ad un altro.

Dal momento che si può riparare alla violazione d'un tabù attraverso una cerimonia espiativa o una penitenza, le quali stanno a significare la rinuncia ad un bene, ad una libertà, noi possiamo dedurre che l'obbedienza richiesta dal divieto tabù consisteva anch'essa nella rinuncia a qualcosa di desiderabile. L'emancipazione da una rinuncia comporta l'imposizione di un'altra rinuncia in altro ambito. In riferimento al cerimoniale tabù, possiamo quindi concludere che la penitenza è un fattore più fondamentale della purificazione.

Vediamo ora, riassumendo, in che modo l'analogia da noi posta con le proibizioni ossessive delle nevrosi ci ha giovato per la comprensione del tabù. Il tabù consiste in un'antichissima proibizione, imposta dall'esterno, ad opera di un'autorità, e rivolta ai desideri più intensi dell'uomo. Il desiderio di trasgredirlo Permane nel suo inconscio; perciò, l'uomo che obbedisce al tabù acquista un atteggiamento ambivalente rispetto a ciò che è colpito dal tabù.

La forza magica che è propria dei tabù dipende dalla sua capacità di indurre l'uomo in tentazione; e se assume la forma di un contagio, è proprio perché l'esempio è contagioso, ed ancora perché i desideri proibiti vanno spostandosi nell'inconscio da un oggetto ad un altro. Il fatto che un'obbedienza mancata ad un tabù possa essere espiata attraverso una rinunzia, sta a dimostrare che il fondamento dell'osservanza d'un tabù è esattamente una rinunzia.

3.

Consideriamo adesso quale valore ci conviene riconoscere al parallelo da noi effettuato tra tabù e nevrosi ossessiva, e quale sia il concetto di tabù che ne deriva. Evidentemente noi siamo disposti a riconoscere un valore al nostro modo di vedere le cose soltanto se esso ci offre un vantaggio su interpretazioni diverse e se ci permette una comprensione non altrimenti raggiungibile del tabù. Potremmo dire che abbiamo offerto già prima la dimostrazione che questa validità esiste, ma vogliamo riaffermarla insistendo nella spiegazione, anche particolareggiata, delle prescrizioni e degli usi tabù.

Possiamo però prendere una strada del tutto differente e cercar di verificare se una parte delle ipotesi che abbiamo trasposto dalle nevrosi sul tabù, o parte dei risultati a cui tale procedura ci ha portati non sia direttamente dimostrabile nel fenomeno del tabù. Chiariamo i limiti ed il senso della nostra ricerca. L'affermazione intorno all'origine del tabù, al fatto che essa debba riferirsi ad un divieto antichissimo imposto a suo tempo dall'esterno, risulta naturalmente indimostrabile. Non ci resta che verificare per il tabù quelle condizioni psicologiche che avevamo osservato e rilevato nelle nevrosi ossessive. In che modo siamo arrivati alla conoscenza di questi fattori psicologici nel caso delle nevrosi? Siamo partiti prima di tutto dallo studio analitico dei sintomi, ed in particolare da quello delle pratiche ossessive, delle misure di difesa e degli imperativi ossessivi, ed abbiamo proprio in essi trovato dei segni che ci permettono di supporli in relazione con impulsi o tendenze ambivalenti, corrispondenti in pari tempo al desiderio ed al controdesiderio, oppure al seguito d'una delle due opposte tendenze. Se saremo in grado di dimostrare che anche nei divieti che derivano dal tabù è presente l'ambivalenza, cioè l'esistenza di opposte tendenze, e di individuare alcune prescrizioni che, appunto come gli atti ossessivi, diano pari risalto ad ambedue le tendenze, avremo accertato che esiste una concordanza psicologica fra il tabù e la nevrosi ossessiva in quella che è forse la loro caratteristica più importante.

Le due prescrizioni fondamentali imposte dal tabù non possono essere da noi analizzate, come abbiamo già detto, perché connesse al totemismo. Altre sono di natura affatto secondaria, quindi di scarso interesse per i nostri scopi. Il tabù è diventato infatti la forma comune di legislazione presso i popoli di cui ci interessiamo, ed è servito a fini sociali di certo più recenti del tabù stesso, come, per esempio, i tabù che i capi ed i sacerdoti hanno imposto per assicurarsi la proprietà ed il privilegio. Restano, comunque, da esaminare un gran numero di prescrizioni. Tra queste prenderò in considerazione quelle che riguardano: a. i nemici, b. i capi, c. i morti, e ricaverò il materiale necessario dall'ottima raccolta che J. G. Frazer ne fece, per la sua opera Il ramo d'oro.

a. Il trattamento dei nemici

Siamo soliti attribuire ai popoli selvaggi e semiselvaggi una crudeltà sfrenata o quasi compiaciuta nei confronti dei loro nemici. Sarà dunque con tanto maggiore interesse che noi verremo a sapere che anche presso di loro l'uccisione d'un uomo comporta una serie di osservanze che fanno parte degli usi tabù. Queste osservanze possono dividersi in quattro gruppi; possono cioè richiedere: 1. riconciliazione col nemico ucciso; 2. limitazioni; 3. pratiche espiatorie, purificazioni dell'uccisore; 4. pratiche cerimoniali. Fino a che punto questi usi tabù siano diffusi o meno presso i popoli che stiamo esaminando, non lo possiamo stabilire con esattezza, per la scarsità di notizie di cui siamo in possesso. Anche se questa circostanza non riveste un particolare interesse ai fini del nostro studio, dobbiamo tuttavia ammettere che si tratta di usi molto diffusi e non di un fenomeno isolato.

Le pratiche di riconciliazione che nell'isola di Timor seguono il ritorno vittorioso di una banda armata, con le teste mozzate ai nemici che sono stati uccisi, sono interessanti in modo speciale perché è proprio il condottiero della spedizione ad esser colto dalle limitazioni più gravi (cfr. più sotto).

Non appena i vincitori rientrano solennemente, si svolgono dei sacrifici onde una riconciliazione con le anime dei nemici eviti le sciagure per loro previste. Si esegue una danza e si recita contemporaneamente un canto in cui vien pianto il nemico ucciso ed implorato il suo perdono: «Non essere in collera con noi se ora abbiamo tra noi la tua testa; se la fortuna non fosse stata dalla nostra parte, forse sarebbero le nostre teste ora ad essere esposte nel tuo villaggio. Abbiamo offerto una vittima per placarti. Il tuo spirito ora può esser felice e non molestarci. Perché sei stato nostro nemico? Non sarebbe stato meglio che noi fossimo restati amici? Non sarebbe stato versato il tuo sangue e la tua testa non sarebbe stata mozzata».

Possiamo trovare usi dello stesso tipo tra i Palu a Celebes. Così, anche i Galla prima di rientrare nel villaggio (Paulitschke: Etnografia dell'Afiica del Nord) sacrificano agli spiriti dei loro nemici uccisi.

Altri popoli ancora hanno cercato di trasformare i loro nemici uccisi in amici, custodi, protettori. Uno di questi sistemi consiste nell'amoroso trattamento che viene riservato alle teste mozzate, trattamento di cui molte tribù del Borneo vanno fiere. Quando i Dayak della costa, a Sarawak, portano a casa una testa, di ritorno da una spedizione di guerra, le usano per mesi un'attenzione ricercata, le rivolgono gli appellativi più dolci di cui la loro lingua dispone. Le introducono in bocca cibi prelibati e sigari; e la pregano continuamente di odiare i suoi vecchi amici e di amare i suoi nuovi, perché essa è ormai una di loro. Sarebbe un errore considerare questo trattamento raccapricciante come uno scherno al morto.

Il lutto che molte tribù selvagge dell'America settentrionale osservano per il nemico ucciso e scotennato ha meravigliato parecchi osservatori. Quando un Choctaw uccide un nemico, segue per lui un periodo di alcuni mesi nel quale osserva il lutto e si sottopone alle più gravi limitazioni. Avvengono le stesse cose per gli indiani Dakota. Dopo che gli Osagen sono stati in lutto per i propri morti, rileva un autore degno di fede, lo ripetono per i nemici, proprio come se si trattasse di amici. Prima di passare in rassegna altri usi tabù che riguardano il trattamento del nemico, esaminiamo una possibile obiezione. D'accordo con Frazer e con altri, ci si potrebbe far rilevare che il motivo delle prescrizioni conciliative si spiega da sé e non ha nulla a che vedere con l'ambivalenza. Questi popoli, allo stesso modo di quanto avveniva ancora nell'antichità classica, sono dominati da una superstiziosa paura degli spiriti degli uccisi, quella paura che è stata rappresentata dal grande drammaturgo inglese nelle allucinazioni di Macbeth o di Riccardo III. Per logica, è da queste superstizioni che derivano le prescrizioni di conciliazione, ed ancora le forme di limitazione e di espiazione in argomento.

Anche le cerimonie che noi comprendiamo nel quarto gruppo sembrano ratificare questo concetto, in quanto ci permettono di spiegare il fenomeno attraverso la sola preoccupazione di scacciare gli spiriti degli uccisi che inseguono gli uccisori. Sono poi gli stessi selvaggi a confessare apertamente la paura che essi provano per gli spiriti dei nemici uccisi, alla quale essi fanno appunto risalire il tabù.

L'obiezione è del tutto ovvia e, se noi fossimo dell'avviso che è altrettanto esauriente, ci eviteremmo la fatica di offrirne una spiegazione. Riesamineremo la cosa più tardi; ci basta per ora contrapporle il concetto che abbiamo ricavato dalle ipotesi formulate precedentemente intorno al tabù. Da tutti questi divieti possiamo dedurre che oltre ai moti puramente ostili, nel comportamento che si rivolge al nemico se ne esprimono altri. Fra essi troviamo sentimenti che indicano rimorso, stima per il nemico, pentimento per averlo ucciso. Sembrerebbe che questi popoli selvaggi, prima ancora d'averlo ricevuto sotto forma di legge dalle mani di un dio, possedessero il comandamento «non uccidere», che lega la sua violazione ad un castigo.

Vediamo adesso gli altri tipi di divieto che sono legati al tabù. Le limitazioni che vengono imposte all'uccisore vittorioso sono molte e di solito applicate con rigidità. Nell'isola di Timor, che abbiamo più sopra ricordato per le usanze di riconciliazione, il condottiero d'una spedizione non può direttamente tornare alla sua casa. Per lui viene preparata una capanna particolare nella quale egli deve trascorrere due mesi in cerimonie di purificazione corporale e spirituale. Nel frattempo non potrà incontrare sua moglie, né prenderà cibo da solo: sarà un'altra persona ad imboccarlo. Presso alcune tribù Dayak gli uomini di ritorno da una spedizione vittoriosa devono rimanere isolati per un certo numero di giorni, devono guardarsi dall'uso di alcuni cibi e dal ferro, e devono infine evitare ogni rapporto con donne. A Logea, un'isola presso la Nuova Guinea, gli uomini che hanno ucciso i loro nemici, o hanno in qualche modo contribuito alla loro uccisione, rimangono chiusi nelle loro abitazioni per una settimana, evitano il rapporto con le mogli e con gli amici, non toccano il cibo con le mani, e mangiano soltanto quei vegetali che espressamente per loro vengono cucinati in pentole speciali. Questa limitazione viene spiegata con il desiderio d'impedire che essi possano sentire l'odore del sangue di coloro che hanno ucciso, che li farebbe altrimenti ammalare e morire. Nella tribù Toaripi o Motumotu della Nuova Guinea l'uomo che ha ucciso non avvicinerà sua moglie, né toccherà gli alimenti con le dita, ma verrà nutrito da un'altra persona con cibi particolari. Tutto questo dura fino al novilunio successivo.

Non starò ad elencare tutti gli altri casi di limitazione a cui è sottoposto, secondo quanto riporta Frazer, l'uccisore vittorioso, metterò soltanto l'accento su quegli esempi dai quali in particolare acquisti risalto il carattere del tabù, nei quali la limitazione risulta insieme a forme di espiazione, di purificazione e altri cerimoniali.

Nella Nuova Guinea Tedesca, fra i Monumbos, l'uomo che abbia ucciso in battaglia un nemico diventa «impuro», e la sua particolare situazione viene definita con le stesse parole che si usano per le donne mestruate od in parto. Questi viene relegato nella casa di riunione dei maschi, ove rimane per molto tempo, mentre gli abitanti del villaggio gli si riuniscono intorno a festeggiare con canti e danze la vittoria. Egli non deve toccare nessuno, non esclusi la moglie ed i figli (nel caso venisse meno all'obbligo questi sarebbero presto colpiti da piaghe), e si purifica poi con abluzioni ed altri cerimoniali. I giovani guerrieri che, fra i Natchez dell'America settentrionale avevano conquistato il loro primo scalpo, dovevano sottomettersi ad alcune rinunzie per un periodo di sei mesi: non dovevano dormire con le proprie mogli, non dovevano mangiare carne, ma solo pesce e cereali bolliti. Se accadeva ad un Choctaw di uccidere o di scotennare un nemico aveva per lui inizio un periodo di lutto d'un mese nel quale gli era vietato pettinarsi, e nel caso di prurito gli era interdetto di grattarsi il capo con la mano; poteva solo farlo con uno stecco, legato al polso per questo scopo.

Quando un indiano dei Pima uccideva un Apache, era sottoposto a severe cerimonie di purificazione e di espiazione. Durante un digiuno di sedici giorni non doveva toccare carne né sale, non doveva guardare il fuoco e non doveva parlare ad alcuno. Viveva solitario nel bosco, servito da una vecchia che gli portava un poco di cibo, faceva frequentemente il bagno nel vicino fiume e portava sulla testa, in segno di lutto, un pugno d'argilla. Avveniva poi al diciassettesimo giorno la solenne cerimonia pubblica della purificazione dell'uomo e delle sue armi. Dal momento che gli indiani Pima prendevano con molta più serietà di quanto non accadesse ai loro nemici il tabù dell'uccisore, e le cerimonie di purificazione e di espiazione non erano come usavano quelli, rimandate alla fine delle operazioni belliche, la loro efficienza guerresca veniva a soffrirne a causa della rigorosa moralità dei loro costumi. Per quanto infatti avessero del coraggio e del valore, essi non sono stati che di molto debole ausilio agli Americani nella loro guerra contro gli Apache.

Per quanto, al fine d'un esame ancora più approfondito, possano rivelarsi di grande interesse i particolari e le variazioni delle cerimonie espiative e purificative che seguono l'uccisione dei nemici, io credo sia sufficiente, per quel che c'interessa, ciò che ho esposto finora e non vado oltre. Posso solo accennare al fatto che lo stato d'isolamento (permanente o temporaneo) nel quale, ai nostri tempi, vien tenuto il boia, deve ritenersi in relazione con il contesto. La condizione di carnefice nella società medioevale ci offre davvero un'idea di questo tabù dei selvaggi.

Nella interpretazione corrente di tutto questo complesso di imperativi di riconciliazione, di limitazione, di espiazione, di purificazione, sono presenti due elementi fondamentali: l'estensione del tabù dal morto a tutto ciò che con il morto è venuto in contatto e la paura dello spirito dell'ucciso. Ora non è affatto chiaro e non è affatto facile chiarire in che modo questi due fattori debbano venir combinati perché si possa avere una spiegazione del cerimoniale: se cioè dei due, uno debba essere considerato il principale e l'altro il secondario, o se debbano esser visti come pari nel loro valore. Noi insistiamo, però, ancora una volta, sulla unitarietà del nostro concetto, che collega il complesso di queste prescrizioni all'ambivalenza emotiva nei confronti del nemico.

b. Il tabù dei dominatori

Il comportamento che i popoli primitivi assumono verso i loro capi, i re ed i sacerdoti, è basato su due princìpi i quali, piuttosto che essere in contraddizione, sembrano vicendevolmente completarsi. Elementi di quella classe occorre non soltanto guardarli ma guardarsi da loro. Si può raggiungere questo doppio fine attraverso un'infinità di prescrizioni tabù. Noi sappiamo già perché occorra guardarsi dai capi: essi sono infatti portatori di una misteriosa e pericolosa forza magica la quale passa da un individuo all'altro per contatto come una carica elettrica, e dà morte e rovina a colui che non ne è protetto. Si cerca così in ogni modo di evitare qualunque contatto, sia diretto sia indiretto, con queste entità sacre e pericolose, e nel caso in cui il contatto non possa essere evitato, si escogita un cerimoniale per scansare gli effetti che si temono. Per esempio, i Nubas, nell'Africa orientale, sono convinti di andare incontro a morte certa entrando nella casa del loro re-sacerdote, ma di poter schivare il pericolo denudando la spalla sinistra e facendola toccare dal re con la mano. Abbiamo così che il contatto del re diventa un rimedio e una protezione dal pericolo che deriva dal toccarlo. In questo caso, si tratta, però, del potere risanatore che possiede il contatto intenzionale operato dal re in contrapposizione al pericolo di toccarlo, e cioè della contrapposizione tra la passività e l'attività nei confronti del re.

Ma non c'è affatto bisogno di risalire fino ai selvaggi per dimostrare l'opera di risanamento che svolge il contatto col re. I re d'Inghilterra si sono avvalsi di questo loro potere, in tempi relativamente recenti, a proposito della scrofolosi, la quale ebbe per questa ragione il nome The King's Evil. La regina Elisabetta non volle rinunziare a questo aspetto delle proprie prerogative dì regnante, ed altri suoi successori seguirono il suo esempio. Nell'anno 1633, Carlo I avrebbe guarito cento ammalati in una sola volta e, dopo la grande rivoluzione inglese, sotto il dissoluto governo di suo figlio Carlo II le guarigioni reali dalla scrofolosi godevano di enorme risonanza.

Questo re avrebbe, durante il suo regno, toccato quasi centomila scrofolosi, ed in quelle occasioni era tale la calca delle persone, che una volta sei o sette morirono schiacciate dalla folla, piuttosto che trovarvi guarigione. Guglielmo III d'Orange, il quale salì al trono d'Inghilterra dopo la cacciata degli Stuart, di temperamento più scettico, si rifiutò di praticare questa forma di sortilegio. Pare ch'egli vi si prestasse una sola volta e che pronunciasse le parole: «Che Dio vi dia maggior salute e più giudizio».

Noi possiamo, dai resoconti che seguono, formarci un'idea dell'effetto terribile che produce il contatto, anche se involontario, con il re e con le cose che gli appartengono. Un capotribù neozelandese, di alto rango e notevole sacralità, aveva lasciato per la strada i resti del suo pasto. Uno schiavo, un pezzo d'uomo sempre affamato, che passava proprio di là, vide questi resti e li mangiò. Quando ebbe finito, qualcuno che aveva seguito con orrore la scena gli disse che quel cibo ch'egli aveva osato mangiare apparteneva al pasto del capo-tribù. Il giovane, per quanto fosse stato un guerriero forte e coraggioso, ricevuta quella notizia stramazzò al suolo e morì, dopo atroci convulsioni, al tramonto del giorno stesso. Una donna Maori, che aveva mangiato della frutta ed aveva poi appreso che proveniva da un luogo tabù, si mise a gridare forte che lo spirito del capotribù, offeso in tal modo, l'avrebbe uccisa. Il pomeriggio era avvenuto il fatto; al mezzogiorno del giorno successivo era già morta. L'acciarino di un capo-tribù Maori, una volta, fu fatale a parecchie persone. Esso era stato smarrito dal capo-tribù, e molte persone, avendolo trovato, lo avevano usato per accendere le proprie pipe. Quando vennero a sapere a chi era appartenuto morirono tutti di spavento. Non ci meraviglia certamente che si sia sentita la necessità di isolare alcune persone così pericolose, capi-tribù, sacerdoti, e di costruire loro intorno un muro di impenetrabilità. Possiamo supporre che di questo muro, eretto un tempo per le prescrizioni derivanti da tabù, qualcosa sia rimasto nella forma dei cerimoniali di corte. Forse, però, la maggior parte di questi tabù che riguardano i dominatori non sono collegati al bisogno di difendersi da essi, poiché è evidente nella loro creazione (e dunque nella formazione dell'etichetta di corte) il punto di vista che considera il particolare trattamento delle persone privilegiate come il bisogno di difenderle dai pericoli che le minacciano. La necessità di proteggere il re da ogni possibile pericolo deriva dall'enorme importanza che egli ha nella vita dei suoi sudditi. È la sua persona che regola l'intero corso della loro esistenza nel vero senso della parola; il suo popolo deve essergli riconoscente non solo per la pioggia e la luce del sole che fa prosperare i frutti della terra, ma anche per il vento che spinge le navi alla riva e per la terraferma su cui gli uomini poggiano i piedi. Questi re dei popoli selvaggi possiedono una potenza ed una capacità di dispensare benefici che si riconoscono solo agli dèi, e ai quali, in una più avanzata fase di civilizzazione, solo i più servili ed ipocriti cortigiani fingeranno ancora di credere. Vi è un'apparente contraddizione tra questa onnipotenza della persona regale e la necessità di proteggerla dai pericoli che la minacciano; ma questa non è la sola contraddizione che si può constatare nell'atteggiamento dei selvaggi verso il loro re. Questi popoli ritengono anche opportuno sorvegliare i loro re perché questi facciano buon uso dei loro poteri; sono ben lontani dall'essere convinti delle loro buone intenzioni o della loro lealtà. Vi è una certa diffidenza nella motivazione delle prescrizioni tabù concernenti il re:

«L'idea secondo la quale la regalità primitiva sarebbe una regalità dispotica», dice il Frazer, «non può assolutamente essere applicata alle monarchie di cui parliamo. Viceversa, in queste monarchie il sovrano vive solo per i suoi sudditi; la sua. vita ha valore solo in quanto egli adempie agli obblighi della sua carica, regola il corso della natura per il bene del suo popolo. Dal momento in cui egli trascura o cessa di assumere questi obblighi, l'attenzione, l'adorazione, la venerazione religiosa di cui godeva in sommo grado si trasformano in odio e disprezzo. Egli è cacciato vergognosamente e può ritenersi fortunato se riesce a salvare la vita. Oggi adorato come un dio, può domani essere ucciso come un criminale. Ma non dobbiamo vedere in questo cambiamento d'atteggiamento del popolo una prova d'incostanza o una contraddizione; anzi, il popolo resta logico fino in fondo. Se il loro re è il loro dio, essi pensano, deve essere anche il loro protettore; e dal momento in cui non vuole proteggerli, deve cedere il posto a un altro che è più disposto a farlo. Ma fintantoché egli risponde alle loro esigenze, le loro cure nei suoi confronti non hanno limiti ed essi lo obbligano anche a curare se stesso con lo stesso zelo. Un tale re vive come imprigionato in un sistema di cerimoniali e di etichette, avvolto in una rete di usanze e di divieti che hanno lo scopo non d'innalzare la sua dignità e, meno ancora, di accrescere il suo benessere, ma solo d'impedirgli di commettere azioni che possano turbare l'armonia della natura e trarre in rovina lui, il suo popolo e il mondo intero. Ben lontane dal tornare a suo beneficio, queste restrizioni lo privano di ogni libertà e fanno della sua vita, che essi pretendono di proteggere, un peso ed una tortura».

Nel tenore di vita che un tempo conduceva il mìkado del Giappone troviamo uno degli esempi più sorprendenti dell'inceppamento e dell'immobilizzazione di un sacro sovrano. Ecco quanto riporta una relazione antica di oltre due secoli:

Il mikado considera incompatibile con la sua dignità e col suo carattere sacro toccare il suolo con i piedi. Così, quando deve recarsi in qualche luogo, si fa portare a spalla dai suoi servitori. Ma è ancora meno conveniente che la sua persona sia esposta all'aria libera, e al sole è rifiutato l'onore di risplendere sul suo capo. A tal punto si attribuisce un carattere sacro a tutte le parti del suo corpo che i suoi capelli, la sua barba e le sue unghie non debbono essere mai tagliati. Ma perché non sia del tutto trascurato, viene lavato di notte, mentre dorme; quanto viene tolto al suo corpo in questo stato si può considerare come gli venisse rubato, ed un furto di questo genere non arreca pregiudizio alla sua dignità e santità. In tempi passati egli doveva, ogni mattina, rimanere seduto per alcune ore sul trono, con la corona imperiale in testa, senza muovere le braccia, le gambe, la testa e gli occhi: solo così, si pensava, egli poteva mantenere la pace e la tranquillità nell'Impero. Se, disgraziatamente, si fosse voltato da una parte o dall'altra, o se il suo sguardo fosse stato diretto per un certo tempo su una qualche regione del suo Impero, ne sarebbero potuti derivare per quel paese una guerra, una carestia, la peste, un incendio o un'altra disgrazia che l'avrebbe portato alla rovina.

Alcuni dei tabù cui sono sottomessi i re barbari ricordano le limitazioni imposte agli assassini. A Shark Point presso Kap Pa-dron nella Guinea Inferiore (Africa occidentale), un re sacerdote, Kukulu, vive solo in una foresta. Egli non deve aver rapporti con nessuna donna, né lasciare la sua casa, non deve nemmeno alzarsi dalla sua sedia, sulla quale dorme seduto. Se si coricasse, il vento cesserebbe di soffiare e la navigazione sarebbe interrotta. È sua funzione placare le tempeste e, in generale, badare al mantenimento di normali condizioni atmosferiche. Quanto più un re di Loango è potente, dice il Bastian, tanto più sono numerosi i tabù che egli è tenuto a osservare. Il successore al trono vi è assoggettato fin dall'infanzia, ma i tabù aumentano intorno a lui man mano che egli cresce: quando sale al trono, ne è letteralmente soffocato.

Lo spazio non ci permette, e il nostro scopo non esige, di proseguire nella descrizione dettagliata dei tabù inerenti alla dignità di re e di sacerdote. Ci limitiamo a dire che le restrizioni relative alla libertà di movimento e al genere di alimentazione hanno, tra questi tabù, la massima importanza. Per dimostrare fino a che punto siano tenaci le usanze che si collegano a queste persone privilegiate, citeremo due esempi di cerimoniale del tabù presi da popoli civili di un livello culturale più elevato.

Il Flamen Dialis, il gran sacerdote di Giove nella Roma antica, era tenuto a osservare un incredibile numero di tabù. Non doveva toccare un cavallo, né montarlo, non doveva vedere eserciti in armi, non portare anelli che non fossero spezzati, non avere nodi sugli abiti, non toccare farina di frumento né pane lievitato, non toccare né nominare capre, cani, carne cruda, fagioli, edera ecc.; i suoi capelli potevano essere tagliati solo da un uomo libero, che si serviva a questo scopo di un coltello di bronzo, capelli e unghie tagliati dovevano venir sotterrati sotto un albero sacro; non doveva toccare i morti, e gli era proibito stare a capo scoperto all'aria libera ecc. Sua moglie, la Fiaminica, doveva osservare più o meno le stesse prescrizioni e altre sue proprie: su certe scale, dette greche, non doveva salire più di tre gradini e, in certi giorni di festa, non poteva pettinarsi i capelli; la pelle delle sue calzature non doveva provenire da un animale morto di morte naturale, ma da un animale ucciso o sacrificato; il fatto di aver sentito il tuono la rendeva impura, e la sua impurità durava finché non avesse offerto un sacrificio espiatorio.

Gli antichi re irlandesi erano sottoposti ad una serie di singolari restrizioni, dalla cui osservanza dipendeva ogni felicità e dalla cui trasgressione ogni disgrazia per il paese. Si può trovare l'elenco completo di questi tabù nel Book of Rights, i cui esemplari manoscritti più antichi risalgono al 1390 e al 1418. I divieti sono molto dettagliati, e riguardano determinate azioni in dati luoghi e in dati momenti: il re non deve soggiornare in quella città un certo giorno della settimana; non deve passare quel fiume ad una certa ora; non deve restare accampato per nove giorni in una certa pianura ecc.

Il rigore delle prescrizioni tabù imposte ai re-sacerdoti ha dato luogo, presso molti popoli primitivi, ad una conseguenza rilevante dal punto di vista storico e particolarmente interessante dal nostro punto di vista. La dignità di re-sacerdote cessò di essere cosa ambita. Così in Cambogia, dove c'è un re del fuoco e un re dell'acqua, si è reso necessario imporre con la forza l'accettazione di questa dignità. A Nitte o Savage Island, un'isola corallifera dell'Oceano Pacifico, la monarchia praticamente si estinse perché non si trovava nessuno disposto ad assumere le funzioni regali, piene di responsabilità e di pericoli. «In certe regioni dell'Africa occidentale, dopo la morte del re si tiene un consiglio segreto in cui si nomina il successore. Il prescelto viene preso, legato e guardato a vista nella casa del feticcio, fin quando non si dichiara disposto ad accettare la corona. Talvolta, il presunto successore trova il modo di sottrarsi all'onore che gli si vuole imporre. Si racconta, ad esempio, che un capotribù aveva l'abitudine di tenere sempre addosso, giorno e notte, delle armi, per essere in grado di resistere con la forza ad un eventuale tentativo di installarlo sul trono». Presso i negri della Sierra Leone, la resistenza all'accettazione della dignità regale era così forte che, per la maggior parte, le tribù furono costrette a scegliersi come re uno straniero.

Il Frazer vede in questi fatti la causa della progressiva scissione della primitiva regalità sacerdotale in un potere temporale ed un potere spirituale. Schiacciati dal peso della loro sacralità, questi re erano divenuti incapaci di esercitare realmente il potere e furono costretti ad abbandonare le cariche amministrative a personaggi meno in vista, ma energici e attivi, pronti a rinunciare agli onori della dignità regale. Appaiono così i sovrani temporali, mentre la supremazia spirituale, di fatto divenuta insignificante, fu lasciata ai precedenti re del tabù. La storia dell'antico Giappone è una chiara conferma di questa ipotesi. Se osserviamo e studiamo il quadro dei rapporti che intercorrono tra l'uomo primitivo e i suoi sovrani, si fa strada in noi l'idea che ci sarà facile interpretarlo dal punto di vista psicoanalitico. Questi rapporti sono estremamente complessi e non privi di contraddizioni. Si accordano ai sovrani ampi privilegi, che coincidono con i tabù imposti agli altri. Sono persone privilegiate; hanno il diritto di fare ciò che agli altri è proibito, di godere di quanto agli altri è inaccessibile. Ma questa loro libertà è limitata da altri tabù che non gravano sugli individui comuni. Abbiamo qui un primo contrasto, quasi una contraddizione, tra una maggiore libertà e una maggiore limitazione per le stesse persone. Si attribuisce loro uno straordinario potere magico, e per questo si teme ogni contatto con la loro persona o con gli oggetti di loro proprietà, e tuttavia da questo contatto ci si aspettano gli effetti più benefici. Questa sembra un'altra contraddizione, particolarmente evidente; ma sappiamo già che, in realtà, essa è solo apparente. I contatti stabiliti d'iniziativa del re sono salutari e protettivi; è pericoloso il contatto stabilito da un uomo comune col re o con oggetti di sua proprietà, probabilmente perché questo contatto può nascondere un'intenzione aggressiva. Un'altra contraddizione, meno facile da chiarire, è nel fatto che, pur attribuendo al sovrano un gran potere sulle forze della natura, ci si ritiene obbligati a proteggerlo con particolare cura contro i pericoli che lo minacciano, come se il suo potere non fosse in grado di proteggerlo. Un'ulteriore difficoltà consiste nel fatto che non si ha fiducia nel giusto impiego che il sovrano fa del suo straordinario potere, che deve servire solo al bene dei suoi sudditi e della sua propria persona, e anzi ci si ritiene obbligati a sorvegliarlo. Da questa diffidenza sono sorte le cerimonie tabù cui è sottomessa la vita del re e che devono proteggere il re stesso dai pericoli che possono minacciarlo, e i sudditi dai pericoli che egli rappresenta per loro.

La spiegazione più semplice per questi rapporti, così complessi e contraddittori, tra i primitivi e i loro sovrani sembra essere questa: per ragioni di natura superstiziosa, o di diversa natura, i primitivi sono portati a esprimere, nel loro atteggiamento nei confronti del re, diverse tendenze, ciascuna delle quali è spinta all'estremo, indipendentemente dalle altre. Derivano da ciò le contraddizioni di cui, d'altronde, la mente dei primitivi, come anche quella dei popoli civili, si preoccupa ben poco, quando si tratta di questioni religiose o di obblighi di fedeltà.

L'argomento sarebbe esaurito; ma la tecnica psicoanalitica ci consentirà di penetrare più profondamente questi rapporti e ci insegnerà ancora molte cose sulla natura di queste tendenze così disparate. Sottoponendo la situazione che abbiamo descritta all'analisi come se si trattasse del quadro sintomatico di una nevrosi, prenderemo l'avvio dalle preoccupazioni angosciose che troviamo al fondo del cerimoniale del tabù. Un simile eccesso affettivo è un fenomeno comunissimo nella nevrosi, soprattutto in quella ossessiva, che esaminiamo particolarmente per poter fare un confronto. Conosciamo a fondo la sua origine. Essa insorge nei casi in cui, accanto all'affettuosità predominante, sussiste un sentimento d'inconscia ostilità, cioè quando si verifica il tipico caso di un atteggiamento affettivo ambivalente. L'ostilità viene allora soffocata da una smisurata tenerezza che si manifesta in forma angosciosa, che diventa ossessiva perché altrimenti non basterebbe al suo compito, che consiste nel tenere rimosso il sentimento opposto. Non c'è psicoanalista che non abbia constatato con quanta certezza, nelle situazioni più inverosimili (per esempio, tra madre e figlio o tra coniugi molto uniti), questa spaventosa iperaffettuosità possa essere spiegata in questo modo. Per quanto riguarda il trattamento di individui privilegiati, possiamo nello stesso modo riconoscere che all'adorazione di cui essi sono oggetto, alla loro divinazione, si contrappone nell'inconscio un sentimento potentemente ostile, cioè anche qui si ritrova la situazione dell'ambivalenza affettiva. La diffidenza, che appare come un'incontestabile motivo dei tabù imposti ai re, d'altra parte sarebbe, e più direttamente, una manifestazione della stessa ostilità inconscia. E dati i diversi risultati di questo conflitto tra i differenti popoli, non ci sarebbe difficile trovare esempi in cui appaia con particolare evidenza la prova di questa ostilità.

Il Frazer ci racconta che i selvaggi Times della Sierra Leone si sono riservati il diritto di bastonare il re alla vigilia della sua incoronazione; e si valgono tanto coscienziosamente di questo diritto costituzionale che spesso il disgraziato sovrano non sopravvive a lungo al proprio avvento al trono: così i personaggi altolocati delle tribù si sono fatti una regola di eleggere come re l'uomo che odiano; ma anche in casi evidenti come questo l'ostilità non si confessa mai, ma si dissimula sotto l'apparenza del cerimoniale. Un altro carattere dell'atteggiamento dell'uomo primitivo nei confronti del re ricorda un processo in genere molto frequente nelle nevrosi, ed in particolar modo nel cosiddetto delirio di persecuzione. Viene enormemente esagerata l'importanza di una certa persona, le viene attribuita una potenza illimitata, per poterle più fondatamente addossare la responsabilità di ogni evento sgradevole o doloroso che capita al malato. E in realtà nello stesso modo si comportano i primitivi nei confronti del loro re, quando, dopo avergli attribuito il potere di scatenare o di far cessare la pioggia, di regolare la luce del sole, la direzione del vento ecc., lo depongono o lo uccidono perché la natura li ha delusi nelle loro aspettative di una caccia fruttuosa o di un raccolto abbondante. Il quadro che il paranoico riproduce nel delirio di persecuzione è quello dei rapporti tra padre e figlio. Il bambino regolarmente attribuisce al padre una simile onnipotenza, e si può constatare che la diffidenza nei confronti del padre è in diretto rapporto col grado di potenza che gli era stato attribuito. Quando il paranoico ha identificato in una persona il suo «persecutore», lo innalza al rango di padre, cioè lo pone in condizioni che gli consentano di vederlo come responsabile di tutte le disgrazie immaginarie di cui è vittima. Questa seconda analogia tra il primitivo e il nevrotico ci dimostra fino a che punto l'atteggiamento del primitivo nei confronti del suo re rifletta l'atteggiamento infantile del figlio nei confronti del padre.

Ma i più convincenti argomenti in favore dei nostri sforzi volti a stabilire un parallelo fra le prescrizioni tabù e i sintomi nevrotici ci vengono forniti dal cerimoniale del tabù, del quale abbiamo già discusso l'effetto sulla regalità. Il duplice significato di questo cerimoniale e le sue origini da tendenze ambivalenti ci appaiono certi e incontestabili se ammettiamo che fin dall'inizio esso si propone gli effetti che produce. Questo cerimoniale non serve solo a distinguere il re e ad elevarlo al di sopra di tutti gli altri mortali, ma anche a trasformare la sua vita in un inferno, in un peso insopportabile, e ad imporgli una schiavitù assai più penosa di quella dei suoi sudditi. Questo cerimoniale ci appare dunque come l'esatto corrispondente della pratica ossessiva della nevrosi, in cui l'impulso represso e l'impulso che reprime ottengono una soddisfazione simultanea e comune. L'azione ossessiva è apparentemente un atto di difesa contro ciò che è proibito, ma in realtà ne è una riproduzione. L'apparenza si riferisce alla vita psichica conscia, la realtà alla vita inconscia. Così il cerimoniale del tabù è in apparenza un'espressione del più profondo rispetto ed un mezzo per procurare al re la più completa sicurezza; ma in realtà è una punizione per questa elevazione, una vendetta che i sudditi esercitano sul re per gli onori che gli tributano. Quand'era governatore della sua isola, il Sancho Panza di Cervantes ebbe modo di sperimentare su di sé fino a che punto questa concezione del cerimoniale fosse esatta. È possibile che, se i re e i capi di oggi fossero disposti a farci qualche confessione, ci fornirebbero nuove prove in favore di questo modo di vedere. Perché l'atteggiamento affettivo nei confronti del sovrano comporterebbe un elemento così potente di ostilità inconscia? Il problema è molto interessante, ma sorpassa i limiti del nostro lavoro. Abbiamo già fatto cenno al complesso paterno infantile che riteniamo in rapporto con esso; aggiungiamo ancora che l'indagine sulla storia della regalità primitiva potrebbe fornire una soluzione decisiva a questo problema. In base alle spiegazioni molto impressionanti del Frazer, che però egli stesso non ritiene conclusive, i primi re erano stranieri che, dopo un breve periodo di regno, venivano sacrificati come rappresentanti della divinità, con l'accompagnamento di feste solenni. Un'eco di questa primitiva storia della regalità si ritrova ancora nei miti del cristianesimo.

e. Il tabù dei morti

Sappiamo che i morti sono potenti dominatori, e saremo forse stupiti nell'apprendere che essi sono anche considerati come nemici.

Tornando al paragone del contagio, possiamo dire che il tabù dei morti si palesa presso la maggior parte dei popoli primitivi con una particolare virulenza. Si manifesta in primo luogo nelle conseguenze del contatto col morto e nel modo in cui vengono trattati coloro che prendono parte al lutto. Tra i Maori, tutti coloro che avessero toccato un morto o preso parte alla sua sepoltura diventavano impuri e venivano esclusi da quasi tutti i rapporti con i loro simili, venivano insomma «boicottati». Un uomo contaminato dal contatto di un morto non poteva entrare in una casa, toccare una persona o un oggetto senza renderli impuri. Non doveva neppure toccare il cibo con le mani, che gli erano divenute inservibili per la loro impurità. Si posava il cibo per terra davanti a lui, ed egli doveva arrangiarsi come poteva, con le labbra e coi denti, tenendo le mani incrociate dietro la schiena. Talvolta gli era concesso di farsi nutrire da un'altra persona, che doveva adempiere al suo compito avendo cura di non toccare il disgraziato, e che veniva anch'essa sottoposta a limitazioni non meno rigorose. C'era, in ogni villaggio, un povero disgraziato, il più meschino tra i miseri, che viveva dell'elemosina elargitagli per l'aiuto prestato a questi «impuri». Solo lui aveva il permesso di accostarsi alla distanza di un braccio a chi aveva compiuto l'estremo dovere verso un defunto. Quando il periodo di isolamento terminava e l'uomo impuro poteva nuovamente mischiarsi ai suoi simili, venivano distrutte tutte le stoviglie di cui si era servito e gettati via tutti gli abiti che aveva indossato.

Le regole derivanti dai tabù in seguito al contatto fisico con i morti sono le stesse in tutta la Polinesia, in tutta la Melanesia ed in una parte dell'Africa; l'elemento costante è il divieto di toccare il cibo da soli e la conseguente necessità di essere nutriti da altri. È notevole che nella Polinesia, o forse solo nelle Hawaii, alla stessa limitazione erano soggetti, durante le funzioni sacre, i re-sacerdoti. Le diverse gradazioni e le successive soppressioni dei divieti in rapporto alla virtù tabù personale si rilevano con evidenza nei tabù dei morti a Tonga. Chi ha toccato la salma di un capo-tribù è impuro per dieci mesi; se però è egli stesso capo-tribù, resta impuro, secondo il ceto del defunto, tre, quattro o cinque mesi; però anche i capi-tribù di grado più elevato diventano tabù per dieci mesi nel caso si tratti della salma del capo supremo deificato. I selvaggi credono decisamente che chi contravviene alle prescrizioni tabù debba ammalarsi e morire, e, secondo l'opinione di un esploratore, ne sono così convinti che non hanno mai avuto il coraggio di accertarsi del contrario. Le restrizioni tabù di quelle persone, cioè dei parenti in lutto, dei vedovi o delle vedove, il cui contatto con i morti dev'essere inteso in senso figurato, sono simili negli aspetti sostanziali, ma per noi più interessanti. Se nelle prescrizioni accennate fin qui riscontriamo solo la tipica espressione della virulenza e della contagiosità del tabù, i motivi del tabù, tanto quelli presunti quanto quelli che vorremmo ritenere profondamente validi, traspaiono in quelle di cui ora parleremo.

Fra gli Shuswap, nella Columbia Britannica, nel periodo di lutto i vedovi e le vedove devono vivere isolati; non devono toccarsi con le mani né la testa né il corpo; tutte le stoviglie che essi usano non devono essere adoperate da altri. Nessun cacciatore si arrischierebbe mai ad accostarsi alla capanna in cui queste persone abitano, perché questo gli porterebbe sfortuna; se solo la loro ombra cadesse su una qualche persona, questa si ammalerebbe immediatamente. Usano grovigli di rovi per giacigli e cuscini e si circondano il letto di cespugli spinosi. Quest'ultima pratica ha lo scopo di tener lontano lo spirito del morto; ed è ancora più significativa la consuetudine di altre tribù nordamericane, per cui, per un po' di tempo dopo la morte del marito, per rendersi inaccessibile al suo spirito, la vedova è solita indossare un indumento simile ai calzoni, fatto con erba secca. In questo modo ci rendiamo conto che il contatto in senso «figurato» è concepito come un contatto corporale, in quanto lo spirito del defunto non si separa dai suoi parenti, non cessa, durante il periodo di lutto, di «aleggiare» intorno a loro.

Presso gli Agutainos che vivono a Palawan, isola delle Filippine, la vedova, nei primi sette o otto giorni di lutto, non deve lasciare la sua capanna, salvo che di notte, quando pensa di non fare incontri. Chi la vede corre il rischio di morire subito, ed essa stessa avverte il prossimo, percuotendo gli alberi con un bastone; però gli alberi che essa ha percosso si seccano. Un'altra osservazione ci chiarisce quale sia realmente il pericolo che la vedova rappresenta. Nel distretto di Mekeo, nella Nuova Guinea Britannica, il vedovo perde ogni diritto civile e viene bandito da tutti. Non deve coltivare la terra, apparire in pubblico, né camminare su strade o sentieri. Come un animale selvatico egli vaga tra l'erba alta e i cespugli ed è costretto a nascondersi nel fitto della macchia quando vede avvicinarsi qualcuno, soprattutto se è una donna. Quest'ultimo particolare ci porta agevolmente a ricollegare al rischio della tentazione il pericoloso stato della vedovanza. L'uomo che ha perduto la sua donna deve rifuggire dal desiderio di averne un'altra che le succeda; la vedova deve lottare contro lo stesso desiderio, ed inoltre evitare di destare desiderio in altri uomini, perché ogni soddisfacimento sostitutivo di tale tipo andrebbe contro il cerimoniale del lutto e farebbe imperversare la collera dello spirito.

Una delle più bizzarre, ed anche delle più istruttive usanze del tabù riguardo al lutto presso i primitivi consiste nel divieto di pronunciare il nome del morto. Questo costume è estremamente diffuso, presenta numerose varianti e ha conseguenze molto importanti.

Si ritrova questo divieto, oltre che tra gli Australiani ed i Polinesiani, che solitamente ci mostrano le osservanze del tabù nella forma migliore di conservazione, in popolazioni le più remote l'una dall'altra, come i Samojedi della Siberia e i Todas dell'India del sud, i Mongoli della Tartaria ed i Tuaregs del Sahara, gli Aino del Giappone e gli Akamba e i Nandi dell'Africa centrale, i Tinguaini delle Filippine e gli abitanti delle isole Ni-cobare, del Madagascar, del Borneo e della Tasmania. I divieti e le conseguenze che ne derivano presso alcuni popoli valgono solo per il periodo di lutto, mentre sono stabili presso altri; però sembra che, in questo caso, con l'andar del tempo perdano la loro rigidezza.

Generalmente il divieto di pronunciare il nome del defunto viene rispettato con estremo rigore. Pronunciare il nome del defunto in presenza dei suoi parenti costituisce presso molte tribù sud-americane gravissima offesa e la pena prescritta non è inferiore a quella prevista per l'omicidio. In un primo momento non è facile comprendere la ragione della severità di questo divieto, ma i pericoli che vi vengono ricollegati portano ad una serie di espedienti e disposizioni che per vari aspetti risultano interessanti e significativi. Così i Masai dell'Africa orientale si sono rifatti all'espediente di cambiare, subito dopo la sua morte, il nome del defunto; il suo nuovo nome può venir pronunciato senza timore, mentre per quello vecchio permangono le proibizioni. Appare qui il presupposto che lo spirito non conosca e non verrà mai a conoscere il suo nuovo nome. Le tribù australiane dell'Adelaide e dell'Encounter Bay nella loro prudenza sono così coerenti che, dopo una morte, ogni persona che ha un nome uguale o simile a quello del defunto, immediatamente lo cambia. In certi casi tutti i parenti, dopo una morte, senza considerazione dell'omofonia, cambiano nome; questo si verifica presso alcune tribù della Vittoria e dell'America Nord-Occidentale. Inoltre presso i Guaycurus del Paraguay il capo-tribù, nella dolorosa circostanza, usava imporre nomi nuovi a tutti i componenti la tribù, nomi che, da allora in poi, essi ricordavano come se li avessero sempre avuti.

Se poi il nome del defunto corrispondeva a quello di un animale, di un oggetto ecc., molti di questi popoli ritenevano necessario dare anche a quell'animale, a quell'oggetto un nuovo nome, perché, usando quello precedente non venisse richiamato il ricordo del defunto. Ne risultò una costante trasformazione del patrimonio linguistico che provocò gravi difficoltà ai missionari, soprattutto dove la sostituzione dei nomi era permanente.

Durante i sette anni che il missionario Dobrizhoffer trascorse presso gli Abiponi del Paraguay, fu cambiato tre volte il nome del giaguaro e una sorte simile subirono il coccodrillo, la spina e la macellazione. Ma il timore di pronunciare un nome appartenuto ad un defunto si amplia e si estende a tutto quanto con lui fu in rapporto; il fatto che questi popoli non abbiano nessuna tradizione e nessun ricordo storico e presentino allo studio della loro preistoria la massima difficoltà è la grave conseguenza di questo processo di repressione. Alcuni popoli primitivi, per rimettere in uso, dopo un lungo periodo di lutto, i nomi dei defunti, hanno adottato usanze compensatrici imponendo gli stessi nomi ai bambini, che vengono considerati come la reincarnazione dei morti.

Se consideriamo che, per i selvaggi, il nome costituisce la parte sostanziale della personalità di un uomo e bene personale di grande importanza, e che alla parola essi riconoscono pieno e concreto significato, questo tabù dei nomi ci appare meno bizzarro. Come ho detto altrove, nello stesso modo si comportano i nostri bambini: essi non si accontentano di ammettere una semplice rassomiglianza verbale senza darvi peso, ma logicamente concludono che, se con un nome di suono simile vengono designate due cose, debba anche sussistere in esse un'intima affinità. Perfino l'adulto civilizzato potrà senza difficoltà riconoscere, per certe peculiarità del proprio comportamento, di non esser lontano quanto crede dal dare importanza al proprio nome, e che detto nome gli si addice notevolmente perché connesso con la sua personalità. Con ciò concorda la pratica psicoanalitica, per la testimonianza più volte rilevata del valore dei nomi nell'attività mentale inconscia.

Sotto questo aspetto, come si poteva ben immaginare, i nevrotici ossessivi agiscono come i selvaggi. Nel pronunciare e nel sentire certi termini e certi nomi, essi denotano (in modo analogo ad altri nevrotici) la completa «sensibilità del complesso», e traggono dal proprio nome una grande quantità di inibizioni spesso assai gravi. Un'ammalata di tabù che conobbi si era imposta di non scrivere il proprio nome, per paura che potesse finire in mano a qualcuno che si sarebbe così appropriato di parte della sua personalità. Nell'ossessiva costanza con cui si sottraeva alle tentazioni della propria fantasia, ella si era imposta la regola di «non concedere niente della propria persona», che ella identificava in primo luogo col suo nome, poi, con la scrittura di quello, così finì col non scrivere affatto.

Perciò non è per noi motivo di stupore il fatto che i selvaggi vedano nel nome di un defunto una parte della sua persona e lo rendano oggetto di tabù. Il fatto di pronunciare il nome del defunto si riconduce, anch'esso, al contatto con il morto. Ed ora possiamo affrontare in senso più vasto il problema, ed indagare perché per questo contatto sia stato stabilito un tabù tanto rigido.

La spiegazione più semplice andrebbe ricercata nell'istintiva ripugnanza che il cadavere ispira e nell'alterazione che ben presto presenta. A questi motivi si potrebbe aggiungere quello del lutto. Ma la ripugnanza per un cadavere non basta a spiegare tutti i particolari delle prescrizioni tabù, ed in nessun modo il lutto può chiarirci come il nome del defunto possa costituire per i superstiti una gravissima offesa. Alle persone in lutto piace anzi interessarsi al morto, coltivarne i ricordi e serbarli il più a lungo possibile. Le stranezze delle usanze tabù devono dunque avere diverse motivazioni, tendenti ad altri fini. I tabù dei nomi ci chiariscono appunto queste ragioni ancora sconosciute, e se le usanze non ce le rivelassero, arriveremmo tuttavia a comprenderle dai dati che possiamo raccogliere presso i primitivi in lutto.

Essi infatti non nascondono la paura che la presenza e la memoria dello spirito del defunto infonde loro; per tenerlo lontano, per respingerlo, ricorrono ad un gran numero di riti. Pronunciare il suo nome è come un esorcismo cui immediatamente conseguirà la presenza del defunto. Di conseguenza, fanno il possibile per impedire una evocazione. Affinché lo spirito non li riconosca si camuffano, cambiando il suo o il proprio nome; vanno in collera contro lo straniero poco discreto che, facendo il suo nome, istiga contro i superstiti lo spirito. È impossibile sottrarsi alla conclusione che essi soffrano, stando all'espressione del Wundt, della paura che ispira loro «la sua anima divenuta un demone».

Adottando questa conclusione, ci accosteremmo alla concezione del Wundt il quale, come sappiamo, considera come essenza del tabù la paura dei demoni.

È così singolare il presupposto di questa tesi, che al momento della sua morte il beneamato membro di una famiglia si trasformi in un demone da cui i superstiti non possono attendersi che ostilità e dalle cui brame maligne devono con ogni mezzo salvaguardarsi, che in un primo momento non siamo disposti ad ammetterlo. Ma tutti, o quasi tutti, gli autori competenti sono d'accordo nell'attribuire ai primitivi questa concezione. Westermarck che, secondo me, nell'opera Origine ed evoluzione dei concetti morali attribuisce al tabù un'importanza troppo scarsa, nel capitolo «Comportamento nei confronti dei morti», si esprime così:

Comunque  la  documentazione  in  mio  possesso  mi  autorizza  a concludere che i morti vengono più spesso visti come nemici che come amici (westermarck, cit., vol. II, p. 532. Nella nota e nella continuazione del testo sono riportate numerose testimonianze, spesso molto caratteristiche. Per esempio: i Maori credevano «che i parenti più prossimi e più cari dopo la morte cambiassero natura e divenissero malintenzionati nei confronti di quelli che prima avevano amati». Gli indigeni dell'Australia credevano che il defunto fosse per molto tempo maligno; il timore è tanto più grande quanto più la parentela è stretta. Gli Eschimesi sono convinti che i defunti trovano riposo solo dopo molto tempo, e che all'inizio devono essere temuti come spiriti maligni che si aggirano per il villaggio, per portarvi malattie, morte e altre disgrazie), e che sbagliano lo Jevons e il Grant Alien quando sostengono che in passato si era ritenuto che generalmente il malanimo dei morti si dirigesse contro gli estranei, e che essi volgessero sulla vita e sui beni dei loro discendenti e compagni di clan un occhio paterno.

R. Kleinpaul ha cercato, nella sua opera molto suggestiva, di spiegare i rapporti tra i vivi e i morti nei popoli primitivi, servendosi delle sopravvivenze dell'antica credenza animista presso i popoli civilizzati. Anch'egli arriva alla conclusione che i morti, con istinti omicidi, tentano di attirare a sé i vivi. I morti uccidono; lo scheletro, che oggi costituisce la raffigurazione dei morti, ci rivela che essi sono degli assassini. Finché non ha frapposto tra sé e loro dell'acqua che li tenga separati, il vivo non si sente al riparo dall'insidia dei morti. Perciò volentieri si seppellivano i morti su isole, li si portava sull'altra riva di un fiume; hanno questa origine le espressioni «al di qua», «al di là». In seguito, il malanimo dei morti è stato ridotto e limitato a coloro ai quali si doveva riconoscere un certo diritto di rancore: agli uccisi, che, come spiriti maligni, tormentano i loro assassini, o a coloro, come i fidanzati, che sono morti con un desiderio inappagato. Ma, ritiene il Kleinpaul, tutti i morti in origine erano vampiri, tutti nutrivano rancore nei confronti dei vivi e cercavano di nuocer loro, di toglier loro la vita. Fu il cadavere a far sorgere per la prima volta l'idea di spìrito maligno. L'ipotesi secondo la quale, dopo la morte, i defunti più cari si trasformino in demoni, fa sorgere un altro problema. Cosa indusse i popoli primitivi ad attribuire un simile cambiamento affettivo ai loro defunti? Perché ne fecero dei demoni? A questo interrogativo il Westermarck pensa di poter dare una risposta:

Dato che la morte è generalmente considerata la più grave disgrazia che possa capitare all'uomo, si pensa che i defunti siano estremamente scontenti della loro sorte. Secondo la concezione dei popoli primitivi, si muore solo per uccisione, violenta o provocata da un sortilegio; e appunto per questo si pensa che l'anima sia smaniosa di vendetta e colma di collera; si pensa che essa invidi i vivi e desideri la compagnia degli antichi parenti. Perciò è comprensibile che essa tenti di essere riunita a loro, di ucciderli con la malattia. Ma il concetto che t'anima disincarnata sia nel complesso un essere maligno è anche, senza dubbio, intimamente connesso con l'istintivo timore che si ha dei morti, timore che, a sua volta, è la conseguenza del terrore della morte.

Lo studio del disturbi psico-nevrotici ci mette sulla strada di una più vasta spiegazione, comprensiva anche di quella del Westermarck.

Quando una donna perde il marito, o una figlia la madre, spesso succede che la superstite sia tormentata da scrupoli che definiamo «autorimproveri ossessivi», e si domandi se non abbia lei stessa provocato la morte della persona cara con imprudenze o trascuratezze. Nessun richiamo alle cure con cui ha assistito il malato, nessuna prova razionale dell'assenza di una colpa, può mettere fine al tormento che costituisce forse l'espressione patologica del lutto, che si attenua lentamente col tempo. L'indagine psicoanalitica di questi casi ci ha chiarito i motivi reconditi della sofferenza. Ora sappiamo che, in un certo senso, questi autorimproveri sono fondati, e per questo reggono alle dimostrazioni contrarie ed alle obiezioni. Ciò non vuol dire che, come afferma l'autoaccusa ossessiva, la persona in lutto abbia effettivamente provocato la morte oppure abbia veramente trascurato il suo caro, ma ciononostante in lei c'era qualcosa, un desiderio inconscio, che non era scontento della morte e che, se ne avesse avuto la forza, l'avrebbe provocata. Il rimprovero che fa seguito alla morte della persona cara è quindi una reazione contro questo desiderio inconscio. In quasi tutti i casi di forte attaccamento ad una persona si riscontra questa avversione celata nell'inconscio dietro un tenero affetto: si tratta del tipico caso, del prototipo dell'ambivalenza degli impulsi affettivi. Questa ambivalenza, quando più quando meno, è insita nell'uomo; nei casi normali non ce n'è tanta che ne possano derivare i descritti autorimproveri ossessivi. Però, qualora sia presente in forma più accentuata, si rivela appunto nei rapporti con le persone più care, cioè proprio nei casi più impensati. Pensiamo che la tendenza alla nevrosi ossessiva, che ci è spesso servita da termine di paragone nella discussione sul tabù, sia caratterizzata da un'intensa, originaria ambivalenza di sentimenti.

Siamo ora a conoscenza dell'elemento che ci chiarisce il presunto demonismo delle anime di coloro che sono morti recentemente, e il bisogno sentito dai superstiti di salvaguardarsi dalla loro ostilità. Se riconosciamo che nella vita affettiva dei popoli Primitivi sia presente, nella stessa misura in cui nella psicoanalisi l'attribuiamo ai malati ossessivi, l'ambivalenza, si comprende allora come, in seguito ad una perdita dolorosa, i selvaggi siano portati ad una reazione all'ostilità latente dell'inconscio, nello stesso modo in cui essa compare negli autorimproveri ossessivi dei nevrotici. Però questa ostilità, dolorosamente avvertita dall'inconscio, come soddisfazione per la morte avvenuta, nei popoli primitivi percorre una diversa strada: viene cioè spostata all'oggetto dell'ostilità, al defunto. Definiamo una proiezione questo processo difensivo, diffuso nella vita psichica sia normale che patologica. Il superstite nega di aver mai provato sentimenti ostili nei confronti del caro defunto; è l'anima del morto, egli pensa, che ora li prova e per tutta la durata del lutto tenterà di metterli in azione. Nonostante la difesa realizzata dal superstite, la sua reazione emozionale ha le caratteristiche, tramite la proiezione, del castigo e del pentimento, quindi ha paura, si prescrive rinunce e si sottomette a restrizioni che vengono in parte camuffate come misure di difesa contro il demone ostile. Ancora una volta troviamo che il tabù è nato sul terreno di un'ambivalenza affettiva. Anche il tabù dei morti ha origine dall'antitesi tra il dolore cosciente e l'inconscia soddisfazione per la morte avvenuta. È ovvio, posta questa origine della malevolenza degli spiriti, che proprio i superstiti più prossimi e più cari debbano temerli più degli altri.

Le prescrizioni tabù mostrano anche in questo caso dei contrasti, come avviene per i sintomi nevrotici. Se da una parte danno espressione, con le restrizioni che impongono, al dolore che sì prova alla morte di una persona cara, dall'altra fanno apertamente trasparire ciò che vorrebbero nascondere, cioè la ostilità nei confronti del defunto, ora motivata come legittima difesa. Abbiamo visto che certi divieti tabù si spiegano col timore della tentazione. Il morto è indifeso, si potrebbe essere tentati di soddisfare la propria ostilità nei suoi confronti; a questa tentazione si deve opporre la proibizione.

Westermarck ha ragione quando afferma che il primitivo non fa alcuna differenza tra la morte violenta e la morte naturale. Anche il morto di morte naturale, nel pensiero inconscio, è un ucciso: lo hanno ucciso i desideri malvagi (cfr. il prossimo capitolo di quest'opera: «Animismo, magia e onnipotenza dei pensieri»). Coloro che s'interessano all'origine ed al significato dei sogni riguardanti la morte dei parenti più prossimi e più cari, dei genitori o di fratelli o sorelle, riscontreranno una vera corrispondenza di comportamento nel riguardi del defunto, appunto provocata dalla stessa ambivalenza affettiva, nel sognatore, nel bambino e nel selvaggio.

Prima abbiamo contestato una concezione di Wundt, per cui il tabù non sarebbe che l'espressione del timore dei demoni; e tuttavia abbiamo accolto la spiegazione che fa risalire al timore dell'anima del defunto divenuta demone il tabù dei morti. Potrebbe apparire una contraddizione, ma non ci sarà difficile chiarirla. Infatti noi abbiamo accettato la concezione di demoni, non però come fatto definitivo e psicologicamente oscuro. Ci siamo spinti oltre i demoni e siamo arrivati a intenderli come proiezione dei sentimenti ostili che i superstiti provano nei riguardi dei defunti.

Al momento della morte, tutti e due i sentimenti contrastanti, teneri e ostili, che abbiamo buona ragione di credere esistano nei confronti dei defunti, chiedono di trovare espressione, come lutto e come soddisfazione.

Tra questi sentimenti contrastanti si svilupperà un conflitto, e poiché una delle parti, l'avversione, è in buona parte inconscia, il risultato del conflitto non può essere una sottrazione tra le due forze con la cosciente accettazione della differenza, come quando si perdona una mortificazione ricevuta da una persona cara. Piuttosto il processo si risolve attraverso uno speciale meccanismo psichico che in psicoanalisi viene denominato proiezione.

L'ostilità, di cui il superstite non sa e non vuol sapere niente, viene proiettata dalla percezione interiore al mondo esterno, cioè scissa dalla propria persona e trasposta in altra. Non siamo noi superstiti a rallegrarci di esserci liberati del defunto; anzi, noi piangiamo la sua morte, ma singolarmente egli è divenuto un demone malvagio, cui farebbe piacere una nostra disgrazia, e che cerca di farci morire. Così i superstiti sono costretti a salvaguardarsi da questo malvagio nemico; essi si sono così liberati dall'interiore oppressione, ma solo per scambiarla con un tormento che proviene dall'esterno.

Senza dubbio questo processo di proiezione, per cui i morti si trasformano in altrettanti maligni nemici, può trovare una giustificazione nelle effettive ostilità sofferte che ancora si ricordano e che potrebbero essere loro rimproverate: la loro durezza, il loro desiderio di dominio, l'ingiustizia e tutto quanto fa da sfondo anche ai rapporti più teneri. Ma la cosa non può essere così semplice. Questo elemento, da solo, non spiega la creazione proiettiva dei demoni. Le colpe dei defunti possono certamente spiegare, in una certa misura, l'ostilità dei superstiti, ma non produrrebbero tale effetto se i sopravvissuti non avessero già in sé detta ostilità, e certamente il momento della loro morte non sarebbe l'occasione più indicata per rivangare il ricordo di tutti i rimproveri che si potrebbero muovere loro. Non posiamo fare a meno dell'ostilità inconscia intesa come causa motrice ed attiva. Questi sentimenti ostili nei confronti dei parenti più vicini e cari potevano restare celati finché essi vivevano, cioè con qualche compensazione potevano non trapelare alla coscienza né direttamente né indirettamente. Ma questa situazione non può più sussistere dopo la morte delle persone nello stesso tempo amate e odiate e perciò il conflitto si acuisce. Da una parte il dolore sorto dall'intensificarsi dei sentimenti affettivi si fa più intollerante nei confronti della latente ostilità e dall'altra non può permettere che ora questa dia luogo ad un qualsiasi senso di soddisfazione. Si arriva così alla rimozione dell'ostilità inconscia tramite la proiezione, con la creazione di quel cerimoniale in cui si manifesta il timore del castigo dei demoni; ed il conflitto, col lento trascorrere del tempo, diminuisce d'intensità, di modo che il tabù dei morti può affievolirsi o essere dimenticato.

4.

Messo così in luce il terreno sul quale il tabù dei morti si è sviluppato, vogliamo ora aggiungere delle osservazioni che si riveleranno importanti per la generale comprensione del tabù.

Nel tabù dei morti, la proiezione sui demoni dell'ostilità inconscia costituisce il singolo esempio di tutta una serie di processi che determinano la struttura della vita psichica primitiva. Nel nostro caso la proiezione serve alla soluzione di un conflitto affettivo; in parecchie situazioni psichiche che conducono alla nevrosi essa adempie alla stessa funzione. Ma la proiezione non è stata creata per la difesa; essa viene attuata anche dove non sussistono conflitti. La proiezione all'esterno di percezioni interiori è un meccanismo primitivo cui, ad esempio, sono sottoposte anche le nostre percezioni sensoriali; nella rappresentazione del nostro mondo esteriore questo meccanismo svolge dunque normalmente una parte assai rilevante. Anche le percezioni interiori di processi emozionali ed ideativi come appunto accade per quelle sensoriali, in condizioni ancora non ben chiarite, vengono proiettate all'esterno, e quindi utilizzate per raffigurare il mondo esterno, mentre sarebbero dovute rimanere parte di quello interiore. Dal punto di vista genetico ciò è forse connesso col fatto che in origine l'attenzione non si rivolgeva al mondo interno, ma agli stimoli provenienti dal mondo esterno, e che dei processi endopsichici essa aveva notizia solo come emozioni piacevoli o sgradevoli. Solo con l'evoluzione del linguaggio intellettivo astratto, cioè non prima che gli uomini imparassero a collegare i residui sensoriali delle rappresentazioni verbali con i processi interiori, questi a poco a poco divennero percepibili. Fino ad allora gli uomini primitivi, proiettando all'esterno le loro percezioni interiori, avevano conformato una loro immagine del mondo che ora noi, ricchi della nostra percezione cosciente, dobbiamo ricostruire psicologicamente.

La proiezione sui demoni dei propri impulsi malvagi è solo parte di un sistema che è divenuto «concetto cosmico» dei primitivi, e che impareremo a conoscere, nel prossimo capitolo, come sistema «animistico». Perciò dovremo stabilire le caratteristiche psicologiche di una simile formazione sistematica, e, ancora una volta, troveremo appoggio nell'analisi dei sistemi che le nevrosi ci presentano. Per il momento, diremo solo che prototipo di tutti questi sistemi è la cosiddetta «elaborazione secondaria» del contenuto dei sogni. Però non dobbiamo dimenticare che, fin dall'originarsi dei sistemi, vi sono due motivazioni per ogni evento psichico cosciente: la sistematica e la reale ma inconscia.

Wundt, nota che «tra gli effetti che ovunque il mito attribuisce ai demoni, prevalgono anzitutto quelli infausti, per cui evidentemente, nella credenza dei popoli, i demoni cattivi sono più antichi di quelli buoni». Perciò può darsi che, in generale, il concetto di demone abbia avuto origine dai rapporti tanto significativi tra i morti ed i superstiti. L'ambivalenza connaturata in questi rapporti si manifesta, nella successiva evoluzione dell'umanità, in due correnti psichiche opposte, ma sorte dalla stessa radice: da un lato il timore dei demoni e degli spiriti, dall'altro la venerazione per gli antenati. (Sottoponendo all'esame psicoanalitico nevrotici che soffrono, o che abbiano sofferto nell'infanzia, di paura degli spiriti, spesso e senza troppa difficoltà si scopre che questi spiriti tanto temuti non sono altro che i genitori. ) L'influsso del lutto sull'origine della credenza nei demoni è dimostrato in modo indiscutibile dal fatto che i demoni sono sempre concepiti come spiriti di persone da poco defunte. Il lutto deve assolvere ad una ben precisa funzione psichica, deve staccare dai morti i ricordi e le speranze dei superstiti. Realizzato questo compito, si attenua il dolore, e con esso il rimorso e l'autorimprovero, e perciò anche la paura del demone. E allora gli spiriti stessi, che prima erano temuti come demoni, incorrono in una sorte migliore, sono venerati come antenati ed invocati in aiuto.

Se osserviamo l'evolversi dei rapporti esistenti tra i superstiti ed i morti, si può constatare che l'ambivalenza è molto diminuita. Ora si può facilmente, senza un grande sforzo psichico, reprimere l'ostilità inconscia che tuttora sussiste nei confronti dei morti. Dove prima erano venuti a conflitto l'odio soddisfatto e la dolente affettuosità, ora subentra, come cicatrizzazione, la pietà, e pretende che de mortuis nihil nisi bene. Solo i nevrotici, durante il lutto, vengono ancora sconvolti da assalti di autoaccuse ossessive nei quali la psicoanalisi riscopre l'antico ambivalente atteggiamento affettivo. Non è il caso di stare ora ad esaminare in che modo si sia arrivati a questo cambiamento e in che misura possano avervi contribuito una qualche modifica costituzionale e l'effettivo miglioramento dei rapporti familiari. Da quanto sopra dovremmo dedurre che nella vita psichica dei popoli primitivi l'ambivalenza aveva una parte molto più importante che in quella del moderno uomo evoluto. Anche il tabù, che è un sintomo dell'ambivalenza e un compromesso tra le due tendenze in conflitto, andò dunque lentamente svanendo col diminuire di questa ambivalenza. A proposito dei nevrotici, poi, che sono costretti a ripetere questo conflitto ed il tabù che ne consegue, si potrebbe dire che essi sono nati con una costituzione di tipo arcaico con sopravvivenze ataviche; la necessità di una compensazione, ai fini delle esigenze della vita civile, li porta così ad un enorme dispendio psichico.

A questo punto richiamiamo la confusa e nebulosa spiegazione che il Wundt ci fornì a proposito del duplice significato del termine tabù: sacro ed impuro (v. sopra). In origine, egli dice, il termine tabù non avrebbe avuto il significato né di sacro né di impuro, ma avrebbe solo indicato il demoniaco che non deve essere toccato. Così egli faceva risaltare la caratteristica comune ad ambedue gli opposti concetti; ma questa persistente comunanza, egli aggiunge, indicherebbe che ci sia stata, nei due campi del sacro e dell'impuro, un'originaria concordanza che solo in seguito fu sostituita da una differenziazione.

La nostra disamina, al contrario, ci porta alla semplice conclusione che, fin dall'origine, al termine tabù competa un duplice significato e che fu usato per indicare una certa ambivalenza e tutto ciò che sul suo terreno si è originato. Lo stesso termine tabù è un termine ambivalente, e pensiamo inoltre che dal significato attribuito alla parola si sarebbe potuto intuire quanto si è rivelato solo come esito di un esame più approfondito, cioè che il divieto tabù vada interpretato come il risultato d'una ambivalenza affettiva. Dallo studio delle lingue più antiche abbiamo appreso che una volta c'erano moltissime parole che contenevano significati opposti e che, in un certo senso, anche se non completamente nello stesso inteso per la parola «tabù», erano ambivalenti. In seguito, lievi modificazioni fonetiche della parola primitiva di duplice significato sono servite a dare una diversa espressione verbale a ciascuno dei significati opposti che vi erano combinati.

La parola tabù ha subito una sorte diversa; con l'attenuarsi dell'importanza dell'ambivalenza contenuta nella parola, la parola stessa, come pure tutte quelle di significato simile, è scomparsa dal patrimonio linguistico. In appresso, mi auguro di riuscire a dimostrare che una concreta trasformazione storica si cela dietro alle sorti di questa concezione, cioè che originariamente la parola era collegata a specifici rapporti umani caratterizzati da una grande ambivalenza emozionale, e che fu estesa da questi ad altri rapporti analoghi.

Se non andiamo errati, l'analisi della natura del tabù vale anche ad illuminare il carattere e la formazione della coscienza morale. Senza estendere troppo i concetti, possiamo parlare di una coscienza da tabù e di un rimorso da tabù per essere contravvenuti ad un tabù. Probabilmente, la coscienza da tabù è la più antica espressione in cui appare il fenomeno della coscienza.

In definitiva, cos'è la coscienza? In base alla testimonianza della lingua, la parola «coscienza» si riferisce a ciò di cui si è più certamente consci; in alcune lingue poi, essa viene a stento distinta dalla «conoscenza».

La coscienza morale è l'interiore percezione di una condanna per qualche nostro particolare desiderio. L'accento però, viene posto sul fatto che questo rimprovero non ha bisogno di ricollegarsi a niente, che è sicuro di sé. Questo carattere ci appare con ancora maggiore evidenza nel senso di colpa, cioè nella percezione dell'interiore riprovazione per gli atti con cui abbiamo realizzato particolari desideri. In questo caso una motivazione appare superflua: tutti quelli che posseggono una coscienza avvertono in sé la ragione della condanna, il biasimo per l'azione compiuta. Lo stesso carattere appare nel comportamento dei selvaggi nei confronti del tabù, che è una prescrizione della coscienza e la cui trasgressione genera un atroce senso di colpa del tutto ovvio e del quale è sconosciuta la causa. (La coscienza di colpa, nel tabù, non è affatto attenuata dalla circostanza che la violazione è stata commessa inconsciamente (v. sopra un esempio). Un parallelo interessante ci viene dal mito greco: la colpa di Edipo è pur sempre una colpa grave, sebbene sia stata commessa all'insaputa e contro la volontà dell'autore.).

Probabilmente anche la coscienza morale sorge dunque, sul terreno dell'ambivalenza affettiva, da certi rapporti umani in cui è insita questa ambivalenza, e nelle condizioni che abbiamo stabilito per il tabù e la nevrosi ossessiva, cioè che un elemento dell'antitesi sia inconscio e costretto dall'altro in stato di rimozione. Vari dati ricavati dall'analisi della nevrosi concordano con questa conclusione. In primo luogo abbiamo trovato che nel comportamento dei nevrotici ossessivi gli aspetti di scrupolosità esasperata appaiono come sintomi reattivi contro la tentazione vigile nell'inconscio, e che il senso di colpa aumenta coll'aggravarsi dello stato morboso. Si può quindi affermare che, se non riusciamo a scoprire l'origine del senso di colpa nei malati ossessivi, dobbiamo rinunciare a sperare in altre opportunità. Dunque, la soluzione del problema è facile nel caso di un singolo individuo nevrotico; così possiamo sperare di arrivare allo stesso risultato anche per quanto riguarda i popoli.

Un altro fatto che ci colpisce è che la coscienza di colpa è in molti punti affine all'angoscia e può senz'altro essere definita «angoscia morale». Ma l'angoscia sorge nell'inconscio; dalla psicologia delle nevrosi abbiamo appreso che quando dei desideri sono stati rimossi, la loro libido si muta in angoscia. Ricorderemo allora che anche nel senso di colpa c'è qualcosa di sconosciuto e d'inconscio, e cioè la ragione della condanna dell'azione. La natura angosciosa del senso di colpa corrisponde a questo fattore inconscio.

Se in massima parte il tabù si manifesta come divieto, potrà apparire assolutamente naturale che base del tabù sia una positiva corrente di desiderio, e che non occorrano perciò altre dimostrazioni ricavate dall'analogia con la nevrosi. Infatti non c'è bisogno di proibire ciò che nessuno desidera fare; e in tutti i casi ciò che è proibito dev'essere considerato oggetto di desiderio. Se ai popoli primitivi applichiamo questo logico ragionamento, dovremo concludere che le loro più intense tentazioni siano quelle di uccidere i loro re e sacerdoti o di compiere azioni incestuose o di bistrattare i loro morti. Ma ciò è assai poco verosimile; e giungiamo alla massima contraddizione se applichiamo questa teoria alla quantità dei casi in cui a noi stessi pare di udire più chiaramente la voce della coscienza. Allora affermeremo con assoluta certezza di non essere assolutamente tentati di contravvenire a uno di questi comandamenti, per esempio a quello che dice: non uccidere; e che dalla trasgressione non ci deriverà che ripugnanza. Se a questa dichiarazione della nostra coscienza attribuiamo l'importanza che essa pretende, allora da un lato il divieto, tanto quello tabù quanto il nostro divieto morale, diviene superfluo, e dall'altro resta oscuro il fatto di coscienza e vengono meno i rapporti tra coscienza, tabù e nevrosi. Ci ritroviamo quindi nella stessa situazione in cui eravamo prima di applicare alla soluzione del problema il punto di vista psicoanalitico. Se però teniamo presente quanto la psicoanalisi dimostra nei sogni dei soggetti sani, cioè che anche in noi la tentazione di uccidere è più intensa e più frequente di quanto possiamo credere, e che essa sviluppa azioni psichiche anche quando non appare alla nostra coscienza; e se, ancora, vediamo nelle ossessive proibizioni di alcuni nevrotici altrettante misure di protezione e autopunizioni contro l'intensificato impulso di uccidere, allora potremo riprendere l'affermazione di prima: che, dove c'è una proibizione, deve anche esserci un desiderio. Dovremo perciò riconoscere che, effettivamente, nell'inconscio ci sia questa tentazione di uccidere e che il tabù, come il comandamento morale, da un punto di vista psicologico non sia affatto superfluo, e che anzi sia motivato e giustificato dall'ambivalente atteggiamento nei confronti dell'impulso ad uccidere.

La principale caratteristica di questo atteggiamento ambivalente, cioè che la positiva corrente di desiderio è inconscia, ci fa intravedere nuove prospettive e nuove possibilità di spiegazione. Nell'inconscio i processi psichici non sono affatto identici a quelli noti nella vita psichica conscia, ma godono di certe libertà che a questi ultimi sono negate. Un impulso inconscio non è necessariamente sorto proprio dove riscontriamo le sue espressioni; esso può essere provocato da cause diverse, può aver in origine riguardato altre persone e rapporti, e attraverso il meccanismo dello spostamento essere pervenuto dove lo abbiamo riscontrato. Posta poi l'indistruttibilità ed immutabilità dei processi psichici inconsci esso può essere sopravvissuto da tempi remotissimi ai quali era adeguato a tempi e rapporti successivi, nei quali le sue manifestazioni appaiono bizzarre e fuori posto. Queste sono solo delle indicazioni, ma una più approfondita indagine dei casi ci rivelerebbe quanto esse potrebbero dimostrarsi utili per comprendere l'evoluzione della civiltà.

Non dobbiamo trascurare, come conclusione di queste osservazioni, una considerazione che ci preparerà alle successive indagini. Seppure ammettiamo la sostanziale identità del divieto tabù e del comandamento morale, non vogliamo tuttavia disconoscere che tra i due debba sussistere una differenza psicologica. Soltanto una modificazione nelle condizioni dell'ambivalenza di base può essere la causa per cui il comandamento non si manifesti più sotto forma di tabù.

Finora, nell'indagine analitica dei fenomeni tabù, ci siamo lasciati trasportare dalle affinità che possono essere riscontrate con le nevrosi ossessive; ma il tabù non è una nevrosi, bensì una formazione sociale; perciò dobbiamo mostrare in cosa consista la differenza sostanziale tra nevrosi e tabù.

Una volta ancora prenderò come punto di partenza un singolo fatto. In seguito alla violazione di un tabù i popoli primitivi si aspettano un castigo, in genere una grave malattia o la morte. Questo castigo incombe solo su colui che ha commesso la trasgressione. Nella nevrosi ossessiva le cose non stanno nello stesso modo. Quando il malato sta per compiere un'azione proibita, non teme il castigo per sé, ma per un'altra persona che, in genere, egli non sa identificare, ma che la psicoanalisi riconosce come persona a lui molto vicina e molto cara. Quindi, in questa circostanza, il nevrotico agisce come un altruista, il primitivo come un egoista. Solo quando la violazione del tabù non trova automaticamente vendetta sul colpevole, nei selvaggi sorge un sentimento collettivo, per cui si sentono essi stessi minacciati a causa del reato, e perciò si affrettano ad effettuare la punizione mancata. Il meccanismo di questa solidarietà può essere facilmente spiegato. C'è in ballo il timore dell'esempio contagioso, dell'istinto di imitazione, della natura epidemica del tabù. Perciò, quando un individuo è riuscito a soddisfare un desiderio rimosso, tutti i membri della collettività devono provare la tentazione di fare altrettanto; per reprimere questa tentazione, bisogna punire l'invidiato trasgressore per la sua audacia, e non di rado succede che il castigo fornisca a coloro che lo eseguono l'occasione di commettere a loro volta, col pretesto di un atto d'espiazione, lo stesso misfatto. Si tratta di un principio fondamentale del sistema penale umano, basato - senza dubbio giustamente - sull'identità degli istinti sia del reo, sia della società vendicatrice.

In questo caso la psicoanalisi conferma l'opinione delle persone pie, cioè che siamo tutti miseri peccatori. Ora, in che modo si può giustificare l'imprevista generosità del nevrotico, che non teme niente per sé e tutto per una persona cara? L'indagine psicoanalitica rivela che questa generosità non è di natura primaria. In origine, cioè all'inizio della malattia, il malato, come il primitivo, teme la minaccia del castigo per sé, teme per la propria vita, e solo in seguito la paura della morte viene spostata su di un'altra persona. Si tratta di un processo complicato, ma noi riusciamo a seguirlo in tutte le sue fasi. In genere, in fondo al divieto, si trova un dato impulso perverso, un desiderio di morte nei riguardi di una persona cara. Questo desiderio viene rimosso da un divieto; ma il divieto è connesso ad una certa pratica che, per spostamento, rappresenta l'atto ostile contro la persona amata; l'attuazione di quella pratica è minacciata con pena di morte. Ma il processo subisce un'ulteriore evoluzione, e perciò all'originario desiderio di morte della persona cara, subentra la paura che essa muoia. Se la nevrosi si rivela tanto teneramente altruistica, essa non fa che compensare l'atteggiamento di feroce egoismo su cui si basa. Se definiamo sociali i sentimenti ispirati da riguardi per il prossimo indipendenti dal fattore sessuale, possiamo dire che la sparizione di questi elementi sociali sia un aspetto fondamentale della nevrosi, in seguito dissimulato da una ipercompensazione.

Senza indugiare sull'origine di queste tendenze sociali e sulla loro relazione con le altre tendenze fondamentali dell'uomo, voglio illustrare con un altro esempio la seconda caratteristica fondamentale della nevrosi. Il tabù trova, nella sua manifestazione esteriore, la massima affinità con la paura del contatto tipica dei nevrotici, col délire de toucher. Generalmente in questa nevrosi si tratta di divieto del contatto sessuale, e la psicoanalisi ha rivelato che, generalmente, le tendenze che, nella nevrosi, subiscono una deviazione ed uno spostamento, sono di origine sessuale. Nel tabù il contatto proibito ha non soltanto il significato sessuale, ma anche quello più comune dell'aggredire, dell'appropriarsi, del far valere la propria persona. Quando si proibisce di toccare il capo-tabù o gli oggetti che gli siano stati a contatto, si cerca di porre freno a quello stesso impulso che altre volte si esprime nella sospettosa sorveglianza del capo-tribù o nel maltrattamento della sua persona prima dell'incoronazione (v. sopra). Così la predominanza delle tendenze sessuali sulle tendenze sociali costituisce l'aspetto caratteristico della nevrosi. Le stesse tendenze sociali sono sorte da un'unione di elementi egoistici ed erotici.

Già da quest'ultimo confronto tra il tabù e la nevrosi ossessiva si possono intuire i rapporti fra le nevrosi e le istituzioni culturali, e come un'estrema importanza per la comprensione dell'evoluzione della civiltà vada attribuita allo studio della psicologia della nevrosi.

Da un lato le nevrosi presentano chiare e profonde concordanze con le grandi istituzioni sociali inerenti l'arte, la religione e la filosofia; dall'altro ci appaiono come deformazioni delle istituzioni stesse. Potremmo quasi dire che l'isterismo è una deformazione di un'opera d'arte, la nevrosi ossessiva una deformazione della religione, il delirio paranoico una deformazione di un sistema filosofico. In definitiva questa diversità si spiega col fatto che le nevrosi sono formazioni asociali, che si sforzano di creare con mezzi privati ciò che la società ha creato col lavoro collettivo. Analizzando le tendenze che sono alla base delle nevrosi si comprende che in esse esercitano l'influsso decisivo forze istintuali d'origine sessuale, mentre le corrispondenti produzioni culturali sono basate su impulsi sociali, cioè su quelli che sono derivati dall'unione di elementi egoistici ed erotici. L'esigenza sessuale non è appunto in grado di tenere uniti gli uomini come lo fa l'istinto di conservazione; il soddisfacimento sessuale è in primo luogo faccenda privata dell'individuo. Dal punto di vista genetico, la natura asociale della nevrosi dipende dalla sua originaria tendenza a fuggire da una realtà insoddisfacente in un mondo immaginario pieno di attraenti promesse. Nel mondo reale, da cui il nevrotico rifugge, domina la società umana con le istituzioni create col lavoro collettivo; volgendo le spalle alla realtà il nevrotico si ritira dalla comunità umana.

3. Animismo, magia e onnipotenza dei pensieri

1.

Inevitabilmente avviene che lavori i quali si propongono di applicare alle scienze morali le prospettive psicoanalitiche, finiscono per fornire al lettore insufficienti nozioni su tutti e due i rami. Perciò essi si limitano a suscitare un interesse e a suggerire allo specialista idee che egli può tener presenti nel suo lavoro. Questo difetto sarà maggiormente avvertito in un capitolo che tratta la vastissima dottrina denominata animismo.

In senso stretto, animismo è la teoria delle rappresentazioni che riguardano l'anima; in senso lato, quella dell'essere spirituale in generale. Si distingue ancora l'animatismo, la dottrina dell'animazione della natura che a noi appare inanimata, al quale si ricollegano l'animalismo e il monismo. Sembra che il termine animismo, una volta usato per indicare un certo sistema filosofico, abbia ricevuto il suo attuale significato da E. B. Tylor.

Tutti questi termini sono derivati dallo studio della particolarissima concezione che della natura e dell'universo hanno i popoli primitivi, sia quelli ora scomparsi, sia quelli tuttora esistenti. Secondo questa concezione il mondo sarebbe popolato di un'infinità di esseri incorporei, benefici o ostili all'uomo; a questi spiriti e a questi demoni si attribuiscono i fenomeni naturali, e si crede che essi siano l'anima non solo delle piante, ma anche di tutti gli oggetti inanimati. Meno ci colpisce il terzo e forse il più importante punto di questa primitiva «filosofia naturale», perché non ce ne siamo noi stessi allontanati abbastanza, pur avendo parecchio limitato la credenza negli spiriti e spiegato i fenomeni naturali come azione di impersonali forze fisiche. Infatti i popoli primitivi credono ad una simile «animazione» anche per i singoli esseri umani. Le persone umane, essi pensano, racchiudono anime che possono abbandonare la loro dimora e trasmigrare in altri esseri umani; queste anime sono la fonte delle attività spirituali ed entro un certo limite indipendenti dai «corpi». In origine le anime erano concepite come molto simili a individui, e solo in seguito ad una lenta evoluzione si sono liberate di ogni elemento materiale per arrivare a un alto grado di «spiritualizzazione».

La maggior parte degli autori propende per l'ipotesi che in questa concezione dell'anima sia il nucleo originario del sistema animistico, cioè che gli spiriti corrispondano ad anime divenute indipendenti e che anche le anime degli animali, delle piante e degli oggetti furono foggiate in analogia con le anime umane.

In che modo gli uomini primitivi sono pervenuti alla strana concezione dualistica su cui si basa il sistema animistico? Si pensa attraverso l'osservazione dei fenomeni del sonno, sogno compreso, e della morte che tanto gli somiglia, e nel tentativo di dare una spiegazione a queste situazioni così familiari ad ognuno. Punto di partenza di questa teoria sarebbe stato in primo luogo il problema della morte. Il proseguimento della vita, l'immortalità, costituirebbe per i primitivi un fatto naturalissimo. L'immagine della morte si è formata solo più tardi ed è stata ammessa con esitazione; ancora per noi è un'idea priva di sostanza e senza un chiaro significato. Per quanto riguarda la parte che nell'elaborazione delle teorie animistiche possono avere avuto altre osservazioni ed esperienze, come le immagini oniriche, le ombre, le immagini riflesse dallo specchio ecc., si sono svolte animate discussioni, che, però, non hanno ancora dato un risultato positivo.

Se di fronte ai fenomeni che si sono imposti alla sua riflessione l'uomo primitivo ha reagito conformando delle rappresentazioni psichiche e trasponendole poi sugli oggetti del mondo esterno, il suo comportamento è tuttavia ritenuto assolutamente naturale e niente affatto problematico. Riguardo alla circostanza che le medesime rappresentazioni animistiche sono apparse nelle epoche e nei popoli più disparati, Wundt dice che esse «sono il necessario risultato psicologico d'una coscienza creatrice di miti, e che si dovrebbe considerare l'animismo primitivo come l'espressione spirituale dello stato di natura degli uomini, nella misura in cui esso offra possibilità di accesso alle nostre osservazioni». Già Hume aveva fornito la spiegazione della animazione di oggetti inanimati nella sua Naturai History of Religion, quando scriveva: «È l'universale tendenza dell'uomo concepire tutti gli esseri come simili a sé, ed attribuire agli oggetti tutte le caratteristiche che gli sono più familiarmente note e di cui è intimamente cosciente».

L'animismo è un sistema di pensiero; esso non si limita a fornire la spiegazione di un fenomeno singolo, ma consente di vedere in una certa prospettiva l'intero universo come un complesso unico. Secondo gli eruditi, nel volgere dei tempi l'umanità ha avuto tre di questi sistemi, tre grandi concezioni del mondo: quella animistica (mitologica), quella religiosa e quella scientifica. Quella sorta per prima, l'animismo, è forse la più coerente e la più completa, ed illustra maggiormente l'essenza del mondo. Questa prima concezione cosmica da parte dell'uomo è una teoria psicologica. Usciremmo dai limiti del nostro compito se volessimo constatare in che misura essa ancora sussista nella vita presente, ridotta a superstizione o come fondo vivente del nostro linguaggio, della nostra fede e della nostra filosofia.

Tenendo presenti queste tre tappe, possiamo affermare che l'animismo stesso, senza essere ancora una religione, contiene in sé le premesse da cui in seguito sorgeranno le religioni. È pure evidente che il mito si fonda su premesse animistiche; ma i particolari del rapporto fra mito ed animismo non sono ancora chiari nei loro punti sostanziali.

2.

Il nostro lavoro psicoanalitico d'accostamento al soggetto avrà inizio da un altro lato. Sarebbe errato credere che gli uomini siano stati indotti a creare il loro prima sistema cosmico per sola tendenza speculativa. In questo tentativo deve aver avuto la sua parte l'esigenza pratica di controllare il mondo. Perciò non ci stupiremo nell'apprendere che, parallelamente al sistema animistico, procede un sistema riguardante il modo di governare gli uomini, gli animali e gli oggetti, o, piuttosto, i loro spiriti. Tale sistema, conosciuto come «stregoneria e «magia», è denominato da S. Reinach la «strategia dell'animismo»; io preferisco, con Hubert e Mauss, considerarlo la sua «tecnica».

Il concetto di stregoneria può essere distinto da quello di magia? Ciò è possibile quando, con un po' di arbitrio, si è disposti a non tener conto delle oscillazioni del linguaggio comune. Allora la stregoneria appare essenzialmente come la tecnica d'influire sugli spiriti, trattandoli come uomini in simili circostanze, perciò placandoli, conciliandoseli, propiziandoseli, spaventandoli, spogliandoli della loro potenza, facendoli soggiacere al proprio potere, con gli stessi mezzi che si sono rivelati validi per i vivi. Ma la magia è cosa ben diversa; essa, in definitiva, non tiene conto degli spiriti, e si vale invece di speciali procedure, non della banale metodica psicologica. Ci renderemo facilmente conto che la magia costituisce la parte più originaria e più importante della tecnica animistica, dato che fra i metodi con cui si usa trattare con gli spiriti ci sono anche quelli magici (Spaventare lo spirito con rumori e grida è una pratica di stregoneria pura; esercitare una pressione su di lui impadronendosi del suo nome è invece una pratica magica.), e la magia viene applicata anche in casi in cui, secondo noi, non è stata ancora realizzata la spiritualizzazione della natura.

La magia deve servire agli scopi più diversi: sottomettere i fenomeni naturali al volere dell'uomo, difendere l'individuo da nemici e pericoli e fornirgli la possibilità di danneggiare gli avversari. Il principio su cui le pratiche magiche si basano, o, meglio, il principio della magia, è così chiaro che tutti gli specialisti furono costretti a riconoscerlo. A prescindere dalla valutazione che egli ne fa, può essere espresso concisamente con le parole di E. B. Tylor: «confondendo un legame ideale con un legame reale». Per illustrare questo carattere ci serviremo di due gruppi di pratiche magiche.

Una delle pratiche magiche più diffusamente impiegate per arrecar danno ad un nemico consiste nel forgiarsi, con un qualunque materiale, una sua immagine. La somiglianza importa poco. Si può anche «eleggere» come sua immagine un oggetto qualunque. Tutto ciò che viene fatto a questa immagine si ripercuote anche sull'odiato originale; nel punto in cui la prima viene lesa, anche il secondo si animala. Invece di usare questa tecnica magica per la soddisfazione delle inimicizie private, la si può mettere al servizio della devozione, e usarla per proteggere gli dèi contro i demoni malvagi. Riporto dal Frazer:

Tutte le notti, quando il dio del sole Ra (nell'antico Egitto) discendeva verso la sua dimora nell'infuocato occidente, egli era costretto a sostenere un feroce combattimento contro un gruppo di demoni che l'assalivano sotto la guida di Apepi, suo mortale nemico. Egli si batteva per tutta la notte e spesso, di giorno, le potenze delle tenebre erano abbastanza forti per lanciare nuvole cupe che oscuravano il cielo azzurro e trattenevano lo splendore di Ra. Tutti i giorni, nel tempio di Tebe, per venire in aiuto alla divinità, si eseguiva la seguente cerimonia: si forgiava con la cera un'immagine del suo nemico Apepi al quale si dava la forma di orrendo coccodrillo o di lungo serpente attorcigliato, e sopra vi si scriveva con l'inchiostro il nome del demone. Questa figura, avvolta in una custodia di papiro con un disegno su cui figurava in inchiostro verde un'immagine simile, era poi legata con capelli neri; il sacerdote vi sputava sopra, la sbrindellava con un coltello di pietra e la scagliava in terra. Ancora, il sacerdote la calpestava ripetutamente col piede sinistro, ed infine la faceva ardere su di un fuoco alimentato da piante particolari. Dopo che, in questo modo, Apepi era distrutto, tutti i demoni del suo seguito dovevano subire la stessa sorte e così i loro padri, madri e figli. Questo servizio divino, nel corso del quale si dovevano recitare determinate parole, aveva luogo non solo la mattina, a mezzogiorno e la sera ma a qualsiasi altra ora se infurivava un temporale, se capitava un acquazzone violento o se nuvole nere oscuravano il disco luminoso del sole. I malvagi nemici subivano gli effetti della punizione che aveva colpito le loro immagini come fosse stata inflitta a loro stessi; fuggivano, almeno per qualche tempo, ed il dio sole tornava a trionfare.

Voglio far risaltare, dall'enorme quantità delle pratiche magiche aventi base analoga, due soltanto che, presso i popoli primitivi hanno sempre avuto molta importanza ed in parte furono mantenute nel mito e nel culto di civiltà più progredite, cioè le pratiche magiche che devono provocare la pioggia ed il raccolto abbondante. La pioggia si provoca per magia imitandola, riproducendo appositamente le nuvole ed il temporale. È come si volesse «giocare alla pioggia». Ad esempio, gli Ainos giapponesi per sollecitare la pioggia fanno scorrere l'acqua da vaste tramogge, mentre gli altri trasportano per il villaggio un recipiente fornito di vele e remi come fosse una nave. Ci si assicura per magia la fertilità del terreno presentando alla terra lo spettacolo di un amplesso umano. Così, per riportare un solo esempio tra mille altri, in alcune regioni di Giava i contadini e le contadine sogliono durante la notte andare nei campi di riso in fiore e ivi si accoppiano per stimolare le piantagioni alla fecondità con l'esempio. Viceversa, i rapporti sessuali incestuosi, proibiti, farebbero temere un raccolto scarso ed una sterilità del terreno.

Si devono ascrivere a questa prima serie anche talune prescrizioni negative, precauzioni magiche, dunque. Quando una parte degli abitanti di un villaggio Dayak va alla caccia del cinghiale, quelli che restano a casa non devono mettere le mani a contatto né con l'olio né con l'acqua, perché ai cacciatori diventerebbero molli le dita e la preda sfuggirebbe dalle loro mani. Ancora, quando un cacciatore Gilyak rincorre nella foresta la selvaggina, è proibito ai suoi figli, rimasti in casa, di disegnare sul legno o sulla sabbia; altrimenti i sentieri del bosco potrebbero divenire intricati come le linee del disegno e il cacciatore non troverebbe più la strada del ritorno.

Se l'effetto magico, in questi come in parecchi altri esempi, non tiene conto della distanza, la telepatia è quindi vista come cosa ovvia; potremo perciò senza difficoltà comprendere questa particolare caratteristica della magia.

Non c'è il minimo dubbio su ciò che, in questi esempi, assicura l'efficacia dell'azione: è l'analogia tra l'azione compiuta e il fatto desiderato. Perciò il Frazer definisce questa magia imitativa o omeopatica. Se desidero che piova, non devo far altro che imitare la pioggia con un'azione che la richiami. In fasi successive della civiltà queste pratiche magiche saranno sostituite da processioni impetratorie ad un tempio e s'invocherà il santo che vi dimora che conceda la pioggia. Infine, si metterà da parte anche questa tecnica religiosa per ricercare in che modo si possa influire sull'atmosfera per provocare la pioggia.

Un'altra serie di pratiche magiche non tiene più conto del principio della somiglianza, che sarà sostituito da un altro la cui natura ci sarà subito chiarita dai seguenti esempi.

Per arrecare danno a un nemico ci si può servire anche di un altro procedimento, che consiste nel procurarsi un po' dei suoi capelli, delle unghie, o un pezzo dei suoi abiti, e nell'effettuare su questi l'atto ostile. È come se si avesse la persona nemica fra le mani, e ciò che si fa ai suoi oggetti deve capitare anche ad essa. Per i popoli primitivi, il nome è parte sostanziale della personalità; perciò se si conosce il nome di una persona o di uno spirito, si è ottenuto un certo potere sul relativo portatore. Da ciò le singolari cautele e limitazioni nell'uso dei nomi di cui si è parlato nel capitolo sul tabù. In questi esempi, evidentemente, la similarità è sostituita dalla affinità.

La spiegazione sublimata del cannibalismo presso i popoli primitivi ha un'origine analoga. Assorbendo con l'atto dell'ingestione parte del corpo di una persona, ci si impadronisce anche delle qualità che le sono state proprie. Pertanto dipendono da ciò le cautele e le indicazioni della dieta in particolari situazioni. Una donna in stato di gravidanza eviterà di nutrirsi della carne di determinati animali, perché al bambino che lei alimenta potrebbero passare le loro caratteristiche non desiderabili, ad esempio la vigliaccheria. Anche se il rapporto di connessione ormai è venuto meno, o se è consistito nel contatto di una sola volta, per l'efficacia dell'azione magica non c'è differenza. Così, attraverso millenni, si può ritrovare invariata la credenza in un magico legame che unisce la sorte della ferita all'arma che la provocò. Se un Melanesiano si appropria dell'arco con cui venne ferito, lo conserverà accuratamente in un luogo freddo per attenuare l'infiammazione della ferita. Ma se l'arco è rimasto in possesso dei nemici, di certo sarà appeso accanto al fuoco, perché la ferita s'infiammi e bruci. Nella sua Nat. lst., XXVIII, Plinio consiglia di sputarsi sulla mano che ha provocato la ferita, qualora ci si fosse pentiti; subito verrebbe attenuata la sofferenza del ferito. Nella sua Sylva Sylvarum, Francesco Bacone ricorda la diffusa credenza che l'unzione dell'arma che ha aperto la ferita sana la ferita stessa. Ancor'oggi i contadini inglesi si conformano a questa usanza, e quando si feriscono con una roncola mantengono l'attrezzo ben pulito perché la ferita non giunga a suppurazione. Una rivista locale inglese nel giugno dell'anno 1902 riportava la notizia che una signora di nome Matilda Henry, a Norwich, per caso si era punta alla pianta del piede con un chiodo. Senza stare ad esaminare la ferita e senza nemmeno togliersi la calza ordinò a sua figlia di ungere bene il chiodo aspettandosi così che non potesse accaderle nulla. Morì di tetano, conseguenza della trasposta disinfezione, dopo pochi giorni.

Gli esempi di quest'ultimo tipo illustrano ciò che il Frazer, in contrapposizione a quella imitativa, distingue come magia contagiosa. Ciò che, in questo caso, è ritenuto il principio agente non è più la similarità, ma il legame nello spazio, la vicinanza, o quantomeno la vicinanza presunta, il ricordo di essa. Ma dato che similarità e contiguità sono i due princìpi fondamentali dei processi associativi, la giustificazione di tutte le stranezze delle superstizioni magiche si ritrova nel predominio dell'associazione di idee. È evidente quanto si riveli esatta la definizione che il Tylor dà della magia: confondendo un legame ideale con un legame reale. Frazer si espresse all'incirca negli stessi termini: gli uomini confusero l'ordine dei loro pensieri con l'ordine della natura e perciò presunsero che il controllo che essi posseggono, o sembrano possedere, sui propri pensieri, consentisse loro di praticare sulle cose un corrispondente controllo.

Perciò ci stupirà che questa ammissibile spiegazione della magia sia stata rigettata da vari autori. Ma, ripensandoci meglio, si trova legittima l'obiezione. La teoria dell'associazione della magia chiarisce solo le vie che questa percorre, ma non la sua reale essenza; cioè non chiarisce l'equivoco che la induce a porre le leggi psicologiche al posto di quelle naturali. A questo punto appare evidente la necessità d'un elemento dinamico; però, mentre la ricerca di un simile elemento induce in errore i critici della teoria del Frazer, si potrà agevolmente fornire una soddisfacente spiegazione della magia purché si voglia continuare ad approfondire la teoria dell'associazione.

Prendiamo anzitutto in considerazione il caso più semplice e più importante della magia imitativa. Questa, secondo il Frazer, può essere esercitata da sola, mentre in genere la magia contagiosa ha bisogno di quella imitativa. Si possono facilmente intendere le ragioni che portano alla magia; esse non sono che i desideri dell'uomo. Dobbiamo solo supporre che l'uomo primitivo è dotato di una fiducia enorme nella potenza dei propri desideri. In definitiva, tutto quanto egli si sforza di ottenere con la magia deve verificarsi giacché egli lo vuole. Dimodoché, in origine, solo il desiderio ha una grande importanza.

Il bambino, sebbene non disponga di efficienza motoria, si trova in condizioni psichiche simili. Altrove ho sostenuto l'ipotesi che egli, per cominciare, procura ai suoi desideri una soddisfazione allucinatoria, realizzando l'appagamento con eccitazioni centrifughe degli organi sensori. Una strada diversa si offre all'uomo primitivo adulto. Al suo desiderio è connesso un impulso motorio, la volontà, e questa, che un giorno posta al servizio del soddisfacimento dei desideri umani, sarà abbastanza forte da cambiare la faccia del mondo, viene ancora impiegata per raffigurare un appagamento, dimodoché questo viene conseguito per mezzo di quella che potremmo chiamare un'allucinazione motoria. Si può confrontare una simile raffigurazione del desiderio soddisfatto col gioco dei bambini, che in loro sostituisce la tecnica meramente sensoria dell'appagamento. Se al bambino e all'uomo primitivo bastano il gioco e la rappresentazione imitativa, questo non rivela la loro mancanza di pretese, intesa nel nostro senso, o l'ammissione della loro effettiva impotenza, ma è l'evidente conseguenza dell'esagerata valutazione del loro desiderio, della volontà che ne deriva e della via che segue. L'accento psichico col tempo si sposta dalle ragioni dell'azione magica ai relativi mezzi, all'azione stessa. Sarebbe forse più giusto dire che la sopravvalutazione dei suoi atti psichici gli appare evidente solo in proporzione a questi mezzi. Ora sembra che solo la pratica magica, per la sua analogia con quanto desiderato, possa far avverare il desiderio. Al livello del pensiero animistico ancora non c'è l'occasione di dare una valutazione oggettiva della situazione; il che si verifica invece in una fase successiva, cioè quando, sebbene si faccia uso di tutti questi procedimenti, già è possibile il fenomeno psichico del dubbio come espressione di una tendenza alla rimozione. Gli uomini riconoscono allora che, se non c'è fede negli spiriti, non serve evocarli, e che anche la forza magica della preghiera è del tutto inefficace se non è ispirata dalla religiosità.

Dal fatto che sia stato possibile costruire un sistema di magia contagiosa fondata sull'associazione di contiguità, ci apparirà evidente che l'importanza attribuita al desiderio e alla volontà si è propagata a tutti gli atti psichici sottoposti alla volontà. Dunque ora c'è una generale sopravvalutazione dei processi psichici, cioè un atteggiamento riguardo al mondo che, secondo le nostre concezioni sul rapporto tra realtà e pensiero, ci deve apparire come una sopravvalutazione di quest'ultimo. Gli oggetti passano in secondo piano rispetto alle loro rappresentazioni; quanto si fa contro queste ultime deve verificarsi anche contro i primi. Si suppone che i rapporti che sussistono tra le rappresentazioni debbano ugualmente sussistere tra gli oggetti. Poiché il pensiero, che non bada a distanze, in un solo atto cosciente può facilmente riunire le cose più lontane nello spazio e nel tempo, nello stesso modo anche il mondo magico per telepatia si dilaterà oltre la distanza dello spazio e tratterà situazioni passate come fossero attuali. Nell'epoca animistica l'immagine riflessa del mondo interiore è destinata a cancellare l'altra immagine del mondo, quella che a noi pare di percepire.

Dobbiamo inoltre notare che i due princìpi dell'associazione, somiglianza e vicinanza, trovano un punto d'incidenza nella superiore unità di contatto. L'associazione per contiguità è contatto diretto, l'associazione per somiglianza è un contatto in senso figurato. La possibilità di designare con lo stesso termine i due tipi di relazione prova già una qualche identità nel processo psichico implicato, identità che non abbiamo ancora afferrato. Arriviamo in tal modo alla stessa estensione del concetto di contatto che scaturì dall'analisi del tabù. In conclusione, si può dire: il principio su cui si basa la magia, la tecnica del modo di pensare animistico, è quello «dell'onnipotenza dei pensieri».

3.

Devo questa espressione, «onnipotenza dei pensieri», ad un mio intelligentissimo paziente che soffriva di rappresentazioni ossessive, il quale riuscì a dar prova, dopo che fu guarito con la psicoanalisi, delle sue doti e del suo buon senso. Egli si era forgiata questa espressione per spiegare tutti gli strani e preoccupanti fenomeni che parevano essersi accaniti contro di lui e gli altri che soffrivano del suo stesso male. Gli bastava pensare ad una persona, e, come l'avesse evocata, questa gli veniva incontro. Se improvvisamente chiedeva notizie della salute di un conoscente da molto tempo dimenticato, veniva a sapere che questi era morto proprio allora, così da lasciargli pensare d'averne ricevuto un messaggio telepatico. Se inveiva con una imprecazione neppure concepita contro un estraneo, poteva aspettarsi che questi morisse poco dopo. Egli stesso durante la terapia potè chiarirmi in che modo era sorta l'apparenza ingannatrice e come avesse contribuito egli stesso a rinvigorire le sue superstizioni. (Abbiamo, sembra, la tendenza a qualificare come «inquietanti» e «sinistre» le impressioni con le quali cerchiamo di confermare l'onnipotenza del pensiero ed il modo di pensare animistico, mentre nei nostri giudizi ce ne siamo già allontanati). Tutti i malati ossessivi sono superstiziosi e in genere contro la loro stessa convinzione.

Nella nevrosi ossessiva ci appare chiarissimo il perpetuarsi della onnipotenza dei pensieri; qui i risultati di questo primitivo modo di pensare sono assai prossimi alla coscienza. Ma dobbiamo evitare di riconoscere in ciò una caratteristica particolare a questa nevrosi, in quanto l'indagine psicoanalitica la rivela in tutte le altre nevrosi. In tutte le nevrosi non è determinante nella formazione dei sintomi la realtà dei fatti, ma quella del pensiero. I nevrotici vivono in un particolare mondo, in cui, come ho già detto, ha corso solo la «valuta nevrotica»; per loro solo ciò che è pensato intensamente, rappresentato con passione ha un effetto, ed ha scarsa importanza la concordanza con la realtà esteriore. Durante i suoi attacchi, l'isterico riproduce e fissa per mezzo di sintomi avvenimenti che si sono verificati solo nella sua fantasia; benché sia vero che, in definitiva, essi si collegano a fatti reali o su questi furono edificati. Nello stesso modo male si comprenderebbero i rimorsi dei nevrotici se li si volesse ricollegare a effettivi reati. Un nevrotico ossessivo può essere tormentato da un senso di colpa appena giustificato in un omicida; mentre egli, fin dalla prima infanzia, si è comportato nei riguardi del suo prossimo nel modo più riguardoso e più scrupoloso. Eppure il suo rimorso è giustificato; esso si fonda sugli intensi e frequenti desideri di morte che inconsciamente si agitano in lui contro il suo prossimo. Esso è giustificato se vengono considerati i pensieri inconsci e non i fatti reali. L'onnipotenza dei pensieri, la sopravvalutazione dei processi psichici nei confronti della realtà, mostrano così una illimitata partecipazione alla vita affettiva del nevrotico e a tutto ciò che ne deriva. Se viene sottoposto alla terapia psicoanalitica, che gli rende cosciente ciò che per lui era inconscio, non vorrà convincersi che i pensieri siano liberi e temerà di formulare desideri malvagi, come se ciò bastasse alla loro realizzazione. Con questo comportamento e con la superstizione praticata nella vita, egli ci si rivela vicinissimo all'uomo selvaggio, che pensa di cambiare il mondo esterno solo col suo pensiero.

Le pratiche ossessive primarie di questi nevrotici sono senz'altro di natura magica. In pratica esse sono, se non stregonerie, almeno contro-stregonerie, destinate ad allontanare le disgrazie che il nevrotico si aspetta; in genere la nevrosi ha inizio con simile aspettativa. Ogni volta che sono riuscito ad approfondire questo mistero ho constatato che il disastro che il malato si attendeva era la morte. Secondo Schopenhauer, il problema della morte è alla base di ogni filosofia; abbiamo visto come l'origine della credenza nelle anime e nei demoni, tipica dell'animismo, venga ricollegata all'impressione che la morte suscita negli uomini. E arduo stabilire se queste pratiche ossessive o di difesa seguano il principio della similarità (o, secondo il caso, del contrasto) perché in genere nelle condizioni della nevrosi esse sono deformate da un processo di spostamento su di un'azione di per sé irrilevante. (Avremo più in là occasione di dimostrare l'esistenza di un altro motivo per questo spostamento su di un'azione insignificante). Anche le formule di difesa della nevrosi ossessiva trovano una corrispondenza nelle formule d'incantesimo della magia. È possibile, comunque, descrivere la storia dell'evoluzione delle pratiche ossessive: possiamo rilevare come esse inizino come qualcosa di estremamente lontano dalla sessualità - come incantesimo contro i desideri malvagi -per finire come surrogazioni di azioni sessuali proibite, che, per quanto è possibile, vengono imitate.

Se accettiamo la suddetta teoria dell'evoluzione delle concezioni cosmiche, in cui la fase animistica precede quella religiosa e quella scientifica, attraverso queste fasi potremo senza difficoltà ripercorrere la strada seguita dall'«onnipotenza dei pensieri». Nella fase animistica l'uomo si attribuisce l'onnipotenza; la cede agli dèi in quella religiosa, senza tuttavia rinunciarvi seriamente, giacché si lascia la facoltà di guidare, in base ai suoi desideri, gli dèi, con varie influenze. L'onnipotenza dell'uomo non trova più posto nella visione scientifica del mondo, giacché egli ammette la propria piccolezza, è rassegnato alla morte ed è sottomesso a tutte le necessità della natura. Tuttavia una parte dell'originaria credenza nella propria onnipotenza sopravvive con la fiducia nella potenza dell'intelletto umano, che impugna le leggi della realtà.

Ripercorrendo in senso inverso, dalle forme dell'età adulta a quelle della prima infanzia, l'evoluzione delle tendenze libidiche dell'uomo, emerge un'importante distinzione che ho esposta nei Tre saggi sulla sessualità (1905). Fin dall'inizio si possono riconoscere le manifestazioni delle pulsioni sessuali, ma in un primo momento queste non sono rivolte ad un oggetto esterno. I vari elementi pulsionali della sessualità agiscono ognuno per sé, tendendo al piacere, e trovano sul corpo del soggetto il loro soddisfacimento. Questo è lo stadio dell'autoerotismo, cui subentra quello della scelta dell'oggetto.

Da uno studio più approfondito è emersa l'utilità, anzi la necessità, d'introdurre tra questi due stadi un terzo, o, se si preferisce, di scindere in due il primo stadio, quello dell'autoerotismo. Già in questo stadio intermedio, la cui importanza è sempre più evidenziata dall'indagine, le pulsioni sessuali prima scisse hanno raggiunto l'unità, ed hanno trovato l'oggetto; ma questo oggetto non è esterno, estraneo all'individuo, bensì è il proprio Io che si è conformato più o meno in questo periodo. In considerazione di fissazioni patologiche di questo stadio, che più avanti prenderemo in esame, denomineremo il nuovo stadio quello del narcisismo. L'individuo agisce come fosse innamorato di sé; ancora non si possono distinguere tra di loro, per analisi, le pulsioni dell'Io ed i desideri libidici. Sebbene non possiamo ancora con esattezza definire le caratteristiche di questo stadio narcisistico, in cui le pulsioni sessuali sinora dissociate si compongono in unità e prendono l'Io come oggetto, tuttavia sospettiamo che l'organizzazione narcisistica non sarà mai completamente abbandonata. In certo modo l'uomo resta narcisista anche dopo che ha trovato per la sua libido degli oggetti esterni; i suoi investimenti oggettuali sono, per così dire, emanazioni della libido rimasta nel suo Io e si possono ricondurre a quello. Le condizioni dell'innamoramento, strane da un punto di vista psicologico (modelli normali delle psicosi), coincidono col massimo di queste emanazioni rispetto al grado di amore per l'Io.

Perciò è naturale collegare col narcisismo l'alta valutazione delle azioni psichiche, che secondo il nostro modo di vedere definiamo sopravvalutazione, che abbiamo riscontrato presso i popoli primitivi e tra i nevrotici, ed intenderla come parte essenziale di esso. Diremo che tra i popoli primitivi il pensiero è ancora fortemente sessualizzato, e che da ciò scaturisce la convinzione dell'onnipotenza del pensiero, la salda fiducia nella possibilità di governare il mondo e l'inaccessibilità alle facili esperienze da cui essi potrebbero dedurre la reale posizione dell'uomo nell'universo. Nei nevrotici da un lato è rimasta una parte considerevole di questo atteggiamento primitivo e dall'altro s'induce una nuova sessualizzazione dei processi intellettivi a causa dell'avvenuta rimozione sessuale. In entrambi i casi sia quello di ipercatexi libidica del pensiero originario, sia quello in cui sia stata prodotta per regressione, le conseguenze psicologiche non possono essere che le stesse: narcisismo intellettuale, onnipotenza dei pensieri. ( «It is almost an axiom with writers on this subject, that a sort of Solipsim or Berkleianism  -as Professor Sully terms it as he finds it in the Child - operates in the savage to make him refuse to recognize death as a fact». maret, Pre-animistic Religion, in «FolkLore», 1900, vol. XI, p. 178. [«Tutti gli scrittori che si sono occupati di questo argomento considerano quasi come un assioma la teoria secondo cui una specie di solipsismo o di berkeleismo  - per servirci del termine proposto dal professor Sully che rilevò questo aspetto nel bambino - operi nel primitivo che si rifiuta di riconoscere la morte come un fatto reale»].

Se è vero che l'onnipotenza del pensiero presso i popoli primitivi fornisce una testimonianza del narcisismo, possiamo tentare di stabilire un paragone tra le fasi evolutive delle concezioni cosmiche del genere umano e le fasi dello sviluppo libidico nel singolo individuo. Allora, sia nel tempo che nel contenuto, la fase animistica trova corrispondenza nel narcisismo, la fase religiosa in quella di scelta dell'oggetto caratterizzata dall'attaccamento del bambino ai genitori, ed infine per la fase scientifica troveremo la piena corrispondenza nello stato adulto dell'individuo che rinuncia al principio del piacere e, adattandosi alla realtà, ricerca il suo oggetto nel mondo esterno. (Osservo a questo punto che l'originario narcisismo del bambino fornisce un criterio decisivo per la comprensione della formazione del suo carattere ed esclude l'ipotesi per cui il sentimento primario è un sentimento d'inferiorità.).

Solo in un campo, in quello dell'arte, si è conservata sino ai nostri giorni «l'onnipotenza del pensiero». Solo nell'arte succede ancora che un uomo, consumato dai desideri, riesca a creare qualcosa che somigli al soddisfacimento e che, in virtù dell'illusione artistica, questo spasso, come fosse una cosa reale, dia luogo a conseguenze affettive. Giustamente si parla di incantesimo dell'arte e si paragona l'artista all'incantatore. Questo confronto è forse più significativo di quanto vorrebbe essere. L'arte, che non è di certo iniziata come «arte per l'arte», si trovava in origine al servizio di tendenze che in gran parte sono oggi venute meno. Si può a ragione affermare che tra queste siano parecchie intenzioni magiche. (S. reinach, L'art et la magie, nella collezione «Cultes, Mythes et Religions», vol. I, pp. 125-36. Il Reinach ritiene che i pittori primitivi, che hanno lasciato figure di animali incise o dipinte sulle pareti delle caverne della Francia, non miravano a «compiacere» ma a «esorcizzare» o evocare. Infatti, dice, questi disegni si trovano nei punti più remoti e più inaccessibili delle caverne, e non ve n'è nessuno che rappresenti le temute bestie feroci. «Les modemes parlent souvent, par hyperbole, de la magie du pinceau ou du ciseau d'un grand artiste et, en general, de la magie de l'art. Entendu au sens propre, qui est celui d'une contrainte mystique exercée par la volontà de l'homme sur d'autres volontés ou sur les choses, cette expression n'est plus admissible; mais nous avons vu qu'elle était autre-fois rigoureusement vraie, du mois dans l'opinion des artistes»).

4.

Dunque, la prima concezione del mondo che gli uomini giunsero a formulare, l'animismo, era una concezione psicologica.. Non fu necessaria la conferma della scienza, poiché questa subentra appena si è constatato che non si conosce il mondo e si ricercano i mezzi per conoscerlo. Invece per l'uomo primitivo l'animismo era naturale e logico. Egli sapeva in che modo il mondo fosse configurato, lo sapeva, cioè, allo stesso modo in cui percepiva se stesso. Non dobbiamo dunque stupirci vedendo l'uomo primitivo esteriorizzare la propria organizzazione psichica (Di cui era conscio attraverso la cosiddetta percezione endopsichica); possiamo tentare di rovesciare il processo e riportare nell'anima umana quanto l'animismo ci ha insegnato sulla natura delle cose.

La tecnica dell'animismo, la magia, ci rivela chiaramente il proposito d'imporre agli oggetti della realtà esteriore le leggi della vita psichica; in ciò non c'è alcuna necessità di collaborazione da parte degli spiriti, mentre tuttavia questi possono essere assunti come oggetti del trattamento magico. Dunque le premesse della magia sono più basilari e più antiche della teoria degli spiriti in cui si trova l'essenza dell'animismo. In questo punto la nostra concezione psicoanalitica corrisponde con la teoria di R. R. Marett, che fa precedere l'animismo da una fase

preanimistica, la cui natura è meglio chiarita dalla denominazione animatismo (teoria della universalità della vita). Sul pre-animismo l'esperienza può aggiungere ben poco, dato che ancora non è stato trovato nessun popolo che ignori il concetto di spirito.

Mentre la magia ancora mantiene tutta l'onnipotenza al pensiero, l'animismo ha attribuito agli spiriti una parte di questa onnipotenza ed in tal modo ha aperto la strada alla religione. Da cosa dunque l'uomo primitivo è stato indotto a questa prima rinuncia? Certamente non dall'aver sperimentato false le sue premesse, giacché ciò nonostante egli mantiene la tecnica magica.

Gli spiriti ed i demoni, come ho già detto, non sono altro che le proiezioni dei suoi impulsi affettivi (Ammettiamo che in questa primitiva fase narcisistica non ci sia ancora distinzione tra le cariche libidiche e quelle di diversa origine); l'uomo primitivo trasforma le sue cariche emozionali in persone, popola con loro il mondo, e perciò ritrova i propri processi psichici fuori di sé, esattamente nello stesso modo in cui il geniale paranoico Schreber trovava riflessi i legami e le soluzioni della sua libido nelle vicende dei «raggi di Dio», di cui confabulava.

Non intendiamo stare a ricercare da dove scaturisca la tendenza a proiettare all'esterno i processi psichici. Possiamo comunque presumere che questa tendenza si rafforzi nei casi in cui la proiezione comporta un sollievo. Certamente troviamo un simile sollievo quando sono venuti a conflitto tra di loro differenti impulsi, tutti tendenti all'onnipotenza. È evidente che non tutti possono giungere all'onnipotenza. Al fine di superare questi conflitti sorti nella vita psichica, il processo patologico della paranoia utilizza effettivamente il meccanismo della proiezione. Ora, tipico caso di un simile conflitto è quello che si crea tra i due elementi di una coppia in antitesi, ossia il caso dell'atteggiamento ambivalente che abbiamo esaminato a fondo nella situazione di una persona in lutto per la morte di un parente caro. Al fine di spiegare il sorgere dei processi di proiezione, esso ci si dimostrerà particolarmente indicato. Anche su questo punto conveniamo con quegli autori che affermano che per primi sono sorti gli spiriti maligni, e dall'impressione che la morte suscita nei superstiti deducono l'origine dell'idea dell'anima. Noi divergiamo solo in un punto: non poniamo in primo piano il problema intellettuale che la morte propone all'uomo, bensì riteniamo che l'impulso all'indagine debba piuttosto essere attribuito al conflitto affettivo in cui il superstite è spinto dalle circostanze.

Dunque, la prima elaborazione teoretica dell'uomo, l'invenzione degli spiriti, deriverebbe dalla stessa fonte da cui scaturirono le prime limitazioni morali cui l'uomo si assoggetta, cioè le prescrizioni tabù. Ma l'origine comune non comporta una contemporaneità nel loro sorgere. Se effettivamente fu la posizione del superstite nei riguardi del defunto a indurre per prima l'uomo primitivo alla riflessione, a costringerlo a cedere parte della propria onnipotenza agli spiriti e a rinunciare a parte della sua libertà d'azione, possiamo dire che queste creazioni culturali segnino il primo riconoscimento dell"Avàyxe  (Necessità) che si contrappone al narcisismo dell'uomo. L'uomo primitivo s'inchinerebbe alla sovranità della morte con lo stesso gesto con cui sembra rifiutarla.

Poiché dalle nostre premesse vogliamo dedurre altre conseguenze, ricercheremo quale parte essenziale della nostra struttura psicologica venga riflessa e riprodotta nella proiezione delle anime e degli spiriti. Allora con difficoltà potremo constatare che la primitiva concezione dell'anima, per quanto possa differire da quella successiva dell'anima completamente immateriale, tuttavia abbia in comune con questa degli aspetti sostanziali, cioè che consideri la persona o la cosa formata di due parti nelle quali sono distribuite le qualità ed i mutamenti noti del tutto. Questo originario «dualismo» - secondo l'espressione di H. Spencer - s'identifica con il dualismo che si rivela nella comune distinzione tra corpo e anima, e che si ritrova in inestirpabili espressioni verbali, quando si dice che una persona svenuta «non è in sé» e quella in delirio è «fuori di sé».

Quando noi, nello stesso modo che l'uomo primitivo, proiettiamo qualcosa nella realtà esteriore, ciò che accade non può essere che il riconoscimento da parte nostra dell'esistenza di due stati, uno in cui il «qualcosa» risulta ai sensi e alla coscienza (cioè, è presente), e un altro in cui la stessa cosa è latente ma con la possibilità di tornare presente; quindi, noi stiamo riconoscendo la coesistenza di percezione e ricordo, o, per parlare in generale, la coesistenza di processi psichici inconsci accanto a quelli consci. Potremmo dire che, in definitiva, lo «spirito» di una persona o di una cosa si riduca alla possibilità di essere ricordata o rappresentata quando essa è lontana dalla percezione diretta.

Naturalmente, né dalla primitiva rappresentazione dell'«anima» né da quella attuale, dovremo aspettarci quella precisa distinzione dall'altra porzione della personalità che la scienza moderna pone tra l'attività psichica conscia e quella inconscia.

L'anima dell'animismo riunisce in sé attribuzioni caratteristiche ad entrambe le parti. Il suo essere mobile ed effimero, la capacità di lasciare il corpo, d'impossessarsi in modo definitivo o transitorio di un altro corpo, sono caratteristiche che richiamano vivamente quelle della coscienza. Ma il modo con cui essa si cela dietro le manifestazioni della personalità ci ricorda l'inconscio; oggi non attribuiamo più l'immutabilità e l'indistruttibilità ai processi consci, ma a quelli inconsci, e consideriamo questi ultimi i reali portatori della vita psichica.

Dicevamo prima che l'animismo è un sistema ideologico, la prima teoria del mondo completa; dall'interpretazione psicoanalitica di un simile sistema ora vogliamo ricavare alcune deduzioni. Ogni giorno l'esperienza ci presenta le caratteristiche del sistema. Di notte sogniamo, e di giorno siamo arrivati ad interpretare il sogno. Senza venir meno alla sua natura, il sogno può mostrarsi confuso e sconclusionato, ma può anche riprodurre l'ordine delle impressioni di un fatto vissuto, ricavare un avvenimento da un altro e collegare ad un'altra una parte del suo contenuto. Esso talvolta vi riesce meglio, talvolta peggio, ma quasi mai in modo tanto perfetto che non presenti qua e là incongruenze o lacune nella sua struttura. Sottoponendo il sogno all'interpretazione psicoanalitica, comprendiamo che l'incostante ed ineguale disposizione delle parti di cui si compone ha scarsa importanza ai fini della sua comprensione. Nei pensieri onirici, che sono sempre significativi, ben connessi e ben disposti, si trovano gli aspetti essenziali del sogno. Ma la loro disposizione differisce parecchio da quella che noi ricordiamo nel contenuto manifesto del sogno. Qui il nesso dei pensieri onirici è stato abbandonato e può essere completamente perduto o venir sostituito da un nuovo nesso. Nella quasi totalità dei casi, oltre alla condensazione degli elementi di cui il sogno si compone, c'è stato un nuovo assestamento che è più o meno indipendente dalla disposizione originaria. In conclusione, diremo che qualunque sia il materiale originario dei pensieri onirici elaborato dal lavoro onirico, esso sarà sottoposto ad una nuova influenza, la cosiddetta «elaborazione secondaria», tendente ad eliminare l'incongruenza e l'oscurità risultanti dal lavoro onirico a favore di un nuovo «significato». Questo nuovo significato, derivato dall'elaborazione secondaria, non è più il significato dei pensieri onirici.

L'elaborazione secondaria del risultato del lavoro onirico costituisce il tipico esempio della natura di un sistema e di tutte le sue esigenze. C'è in noi una funzione intellettuale che esige da tutto il materiale che si offre alla percezione o al pensiero un minimo di unità, di connessione e d'intelligibilità e non esita a creare un nesso errato se, a causa di particolari circostanze, non può comprendere quello esatto. Conosciamo questi sistemi non soltanto dal sogno, ma anche dalle fobie, dai pensieri ossessivi e da alcune forme di delirio. Il sistema s'impone e domina il quadro clinico nelle malattie deliranti (paranoia); ma anche nelle altre forme di neuropsicosi esso non va trascurato. Siamo in grado di provare che in tutti questi casi c'è stato un riassestamento del materiale psichico in vista di un nuovo scopo, riassestamento spesso assai violento se il risultato deve apparire intellegibile dal punto di vista del sistema. Ciò che soprattutto contraddistingue la formazione di un sistema è il fatto che ogni suo risultato fa intravedere almeno due motivazioni, una che muove dalle premesse del sistema - quindi eventualmente di natura delirante - ed un'altra nascosta, che però dobbiamo riconoscere come quella effettivamente valida e reale.

Ecco come spiegazione un esempio tratto da una nevrosi. Nel capitolo sul tabù, ho ricordato una malata i cui divieti ossessivi erano in molti punti simili al tabù dei Maori. La nevrosi di questa signora si rivolgeva contro il marito, e culminava nella sua resistenza contro l'inconscio desiderio della morte di lui. La sua fobia manifesta, sistematica, riguardava solo la morte in generale, mentre suo marito ne era totalmente escluso e non costituì mai oggetto di una preoccupazione cosciente. Un giorno ella sente il marito disporre che i suoi rasoi siano portati in un certo negozio per essere affilati. Ella stessa, mossa da una strana apprensione, si reca nei pressi del negozio, e al suo ritorno impone al marito di disfarsi per sempre dei rasoi perché si è accorta che vicino a quel negozio c'è un magazzino di casse da morto, di oggetti funebri ecc. I rasoi, dice, si sono inscindibilmente associati all'idea della morte. Dunque, questa è la spiegazione sistematica del divieto. Indubbiamente, anche senza la scoperta del negozio infausto, la malata sarebbe tornata a casa col divieto di usare i rasoi. Le sarebbe stato sufficiente imbattersi in un carro funebre o in una persona vestita a lutto o che avesse retto una corona mortuaria. La rete per possibili incontri determinanti la proibizione era tesa su largo spazio per fornire in ogni caso dei pretesti; toccava a lei operarne la scelta. Si potè con sicurezza accertare che essa, in altri casi, non fece agire le condizioni del divieto. In tal caso diceva di aver avuto una «giornata migliore». Naturalmente il reale motivo del divieto dei rasoi consisteva nella sua resistenza al piacere che avvertiva al pensiero che suo marito potesse squarciarsi il collo coi rasoi affilati.

L'impedimento di camminare, l'abasia o l'agorafobia, si realizza in una forma simile sin nei particolari, se questo sintomo è giunto a sostituirsi ad un desiderio inconscio ed alla relativa resistenza contro di esso. Tutte le fantasie inconsce e le reminiscenze attive che sono presenti nei malati confluiscono a questo sbocco verso l'espressione sintomatica e si combinano in un nuovo, appropriato ordinamento nell'ambito della struttura dell'inibizione motoria. Perciò sarebbe impresa vana, anzi assurda, voler comprendere le complessità e le particolarità dei sintomi di, per esempio, un'agorafobia dalle sue stesse premesse di base. Tutta la coerenza ed il rigore dei rapporti sono solo apparenti. Una più approfondita osservazione può rilevare le contraddizioni più stridenti ed il più grande arbitrio nella produzione dei sintomi come nel formarsi della facciata del sogno. Le caratteristiche di una simile fobia sistematica traggono la loro vera origine da elementi determinanti reconditi che non hanno alcuna necessaria connessione con l'impedimento di camminare; e proprio per questo, in differenti persone, le forme di una simile fobia risultano tanto diverse e tanto contraddittorie.

Tornando ora al sistema dell'animismo, che in questo momento ci interessa, dall'esame appena eseguito di altri sistemi psicologici deduciamo che la superstizione non può costituire l'unico motivo, o il vero, per le prescrizioni e per le usanze dei popoli primitivi e che essa non ci esime dall'obbligo di trovarne le ragioni nascoste. Inevitabilmente, sotto il dominio di un sistema animistico, ogni prescrizione ed ogni attività avrà una base sistematica che noi oggi denomineremo: «superstizione». La «superstizione», come la «paura», come i «sogni», come i «demoni», è uno di quei concetti psicologici provvisori che sono crollati di fronte all'indagine psicoanalitica. Abbattendo queste costruzioni, che coprono la visuale come paraventi, ci si rende conto che la vita psichica e il livello culturale dei selvaggi non sono stati ancora intesi nel loro valore reale.

Se la rimozione delle pulsioni viene considerata come criterio di valutazione del livello culturale raggiunto, si deve riconoscere che anche con il sistema animistico vi sono stati progressi che, per la loro origine superstiziosa, vengono ingiustamente svalutati. Apprendendo che, quando sono sul sentiero di guerra, i guerrieri di una tribù selvaggia s'impongono la massima castità e pulizia, ci riesce facile comprendere che il motivo di ciò è «il timore che il nemico possa lavorare di magia sui loro rifiuti e tramare la loro perdita», ed anche per la loro astinenza dobbiamo supporre simili spiegazioni di natura superstiziosa. Ma resta il fatto della rinuncia alle pulsioni, e comprendiamo ancora meglio il caso se supponiamo che il guerriero s'imponga queste limitazioni per ragioni di compensazione, cioè perché egli sta per concedersi il completo appagamento degli istinti più spietati e feroci, che in genere gli sono proibiti. Lo stesso si può dire per i vari casi di limitazioni sessuali mentre si è impegnati in lavori difficili e di grande responsabilità. Sebbene la spiegazione di questi divieti possa sempre riferirsi ad un nesso magico, tuttavia non si può negare l'idea fondamentale di risparmiare le energie rinunciando al soddisfacimento di una qualche pulsione; e, accanto alla razionalizzazione magica, non dev'essere neppure trascurato il motivo igienico. Quando i membri di una tribù vanno a caccia, a pesca, in guerra, a cogliere piante preziose, le loro donne in casa vengono sottoposte a parecchie e gravose limitazioni, alle quali si attribuisce un'influenza simpatetica sulla spedizione. È facilmente comprensibile che questo elemento che agisce a distanza non è che il pensiero della casa, la nostalgia degli assenti, e che dietro a questi camuffamenti si cela un valido intuito psicologico: gli uomini faranno del loro meglio solo quando saranno completamente sicuri sul comportamento delle donne rimaste senza sorveglianza a casa. Altre volte, senza motivazioni magiche, si dice chiaramente che l'infedeltà coniugale della donna rende inutili le fatiche ed il lavoro dell'uomo.

Le infinite prescrizioni cui, nel periodo della mestruazione, il tabù sottopone le donne dei selvaggi, si attribuiscono all'orrore superstizioso per il sangue e questo è senza dubbio uno dei motivi determinanti. Ma bisogna considerare la possibilità che questo orrore per il sangue tenda a scopi estetici ed igienici, dissimulati sempre da motivi magici.

Ci rendiamo perfettamente conto che, con questi tentativi di spiegazione, ci esponiamo alla critica di attribuire al selvaggio odierno un'inverosimile sagacia intellettuale. Potrebbe capitarci, comunque, nel valutare la psicologia di quei popoli che sono rimasti al livello animistico, di incorrere nell'atteggiamento che assumiamo verso la vita intellettuale dei bambini, che noi adulti non comprendiamo più e la cui ricchezza e finezza di sentimenti abbiamo conseguentemente sottovalutato. Ricorderò ancora un gruppo di prescrizioni di tabù finora rimaste oscure, che meritano di essere citate in quanto ammettono una spiegazione familiare agli psicoanalisti. Presso molti popoli primitivi è proibito, in determinate circostanze, tenere in casa armi taglienti e attrezzi affilati. Il Frazer ricorda una superstizione tedesca per cui non si deve poggiare o tenere un coltello con la parte tagliente della lama rivolta verso l'alto perché Dio o gli angeli potrebbero ferirsi. Come si può non riconoscere in questo tabù un ammonimento premonitorio contro certe «azioni sintomatiche» che si potrebbe essere tentati di compiere, con l'aiuto dell'arma tagliente e sotto l'influsso di impulsi malvagi consci?

4. Il ritorno del totemismo nell'infanzia

Non c'è da temere che la psicoanalisi, che per prima ha scoperto il determinismo sempre molteplice delle azioni e formazioni psichiche, sia tentata di ricondurre ad una sola origine un fenomeno complesso come la religione. Se essa è necessariamente costretta a mettere in risalto una sola origine di questa istituzione, essa non pretende di affermare né che questa origine sia la sola, né che abbia il primo posto tra tutti gli altri fattori. Solo una sintesi dei risultati forniti dai diversi campi d'indagine chiarirà che importanza bisogna attribuire nella genesi delle religioni al meccanismo che ora discuteremo; ma un simile lavoro è superiore tanto ai mezzi di cui lo psicoanalista dispone, tanto al fine che egli persegue.

1.

Nel primo capitolo di quest'opera abbiamo esaminato il concetto di totemismo. Abbiamo appreso che il totemismo è un sistema che, presso certi popoli primitivi dell'Australia, dell'America e dell'Africa, fa le veci della religione e detta i princìpi dell'organizzazione sociale. Sappiamo che, sin dal 1869, lo scozzese McLennan aveva attirato l'attenzione generale sui fenomeni del totemismo che, fino ad allora, erano considerati come curiosità, esprimendo l'opinione che molti costumi ed usanze vigenti in varie società antiche e moderne dovevano essere considerati come sopravvivenze dell'epoca totemica. Da quel momento, la scienza ha riconosciuto l'importanza del totemismo in tutta la sua portata. Tra le più recenti opinioni formulate a questo proposito, citerò quella che Wundt esprime in un passo dei suoi Elementi della psicologia dei popoli (1912):

Tenendo conto di tutti questi fatti, possiamo ammettere, senza pericolo di discostarci troppo dalla verità, che la cultura totemica ha costituito dappertutto una fase preparatoria della successiva evoluzione, ed una fase di transizione tra l'umanità primitiva e l'epoca degli eroi e degli dèi.

Lo scopo dei nostri studi ci porta necessariamente a studiare più da vicino le caratteristiche del totemismo. Per ragioni che si comprenderanno in seguito, comincerò col riportare una descrizione fornita da S. Reinach che, nel 1900, ha formulato in dodici articoli il seguente codice del totemismo, una specie di catechismo della religione totemista:

1.  Determinati animali non devono essere né mangiati né uccisi; gli uomini allevano esemplari di queste specie animali e li circondano di cure.

2.  Un animale morto accidentalmente è compianto ed è sepolto con gli stessi onori che un membro della tribù.

3.  In certi casi il divieto di cibarsene riguarda solo una certa parte del corpo dell'animale.

4.  Quando ci si trova costretti ad uccidere un animale abitualmente risparmiato, ci si scusa con lui e si cerca di attenuare con ogni mezzo ed espediente la violazione del tabù, cioè il peccato.

5.  Quando un animale viene sacrificato ritualmente, è solennemente compianto.

6.  In certe occasioni solenni e nelle cerimonie religiose s'indossa la pelle di certi animali. Presso i popoli che ancora vivono sotto il regime del totemismo, ci si serve a questo scopo della pelle del totem.

7. Tribù ed individui si danno il nome di animali totem.

8.  Molte tribù si servono di effigi di animali come insegne e ne adornano le loro armi; gli uomini dipingono sui propri corpi immagini di animali o se ne fanno fare un tatuaggio.

9.  Quando il totem è un animale pericoloso e temuto, si pensa che egli risparmi i membri del clan che porta il suo nome.

10.  L'animale totem difende e protegge i membri del clan.

11.  L'animale totem preannuncia il futuro ai suoi fedeli e fa loro da guida.

12.  Spesso i membri di una tribù totemica pensano di essere congiunti all'animale totem dal legame di una comune origine.

Per capire il valore di questo catechismo della religione totemica, bisogna considerare che il Reinach vi ha inscritto tutti gli indizi e tracce da cui possa essere supposta la più remota esistenza, del sistema totemico. La particolare posizione dell'autore rispetto al problema si rivela nel fatto che egli, in certa misura, trascura gli aspetti essenziali del totemismo. Vedremo più in là che, delle due proposizioni fondamentali del catechismo totemico, una è stata relegata nell'ombra e l'altra è completamente trascurata.

Per farsi un'idea esatta delle caratteristiche del totemismo ricorreremo ad un autore che ha dedicato a questo soggetto un'opera in quattro volumi, nei quali si può trovare, accanto alla più completa raccolta di osservazioni, la più approfondita discussione dei problemi che queste sollevano. Non dimenticheremo mai di quanto siamo debitori a J. G. Frazer, autore di Totemism and Exogamy, per il piacere e l'insegnamento tratto da questa sua opera, anche se le nostre ricerche psicoanalitiche ci avranno condotti a conclusioni che si discostino dalle sue. (Sarà forse opportuno avvertire il lettore delle difficoltà in cui ci s'imbatte quando si cerca di ottenere dei dati sicuri in questo campo. In primo luogo: le persone che raccolgono le osservazioni non sono le stesse che le elaborano e le discutono, in quanto le prime sono viaggiatori e missionari, le seconde studiosi che probabilmente non hanno mai visto gli oggetti delle loro ricerche. Non è facile intendersi con i selvaggi. Parecchi tra gli osservatori non hanno familiarità con le loro lingue, e sono perciò costretti a ricorrere ad interpreti o a servirsi di un inglese corrotto, il pidgin-english. I selvaggi non sono molto aperti, quando si tratta delle cose più intime della loro cultura, e si confidano solo a quegli stranieri che sono vissuti a lungo tra di loro. Per le più disparate ragioni, danno spesso informazioni false o equivoche. - Non bisogna dimenticare che i popoli primitivi non sono popoli giovani, ma altrettanto vecchi che quelli civilizzati, e che non ci si deve aspettare che le loro idee ed istituzioni primitive si siano mantenute intatte e senza la minima deformazione fino ai giorni nostri. E certo, invece, che tra i primitivi si sono verificate profonde trasformazioni in tutti i sensi, dimodoché non si può mai dire quanto, nelle loro idee ed opinioni attuali, rappresenti quasi una pietrificazione di un passato primordiale, e quanto è solo una deformazione ed una trasformazione di questo passato. Di qui le interminabili discussioni tra gli autori su quanto, nei caratteri di una cultura primitiva, debba essere considerato come formazione primaria, e quanto come formazione secondaria. Stabilire la situazione originaria resta sempre una costruzione congetturale. Infine, non è affatto facile mettersi nella mentalità del primitivo, che comprendiamo tanto poco quanto comprendiamo i bambini, e le cui azioni e sentimenti siamo portati ad interpretare secondo le nostre costellazioni psichiche.).4

«Un totem», scriveva il Frazer nel suo primo lavoro, riprodotto nel primo volume della sua grande opera Totemism and Exogamy, «è una classe di oggetti materiali cui il primitivo dimostra un rispetto superstizioso, perché crede che sussista uno speciale rapporto tra la propria persona ed ogni oggetto di questa specie. I rapporti tra l'uomo ed il suo totem sono reciprocamente benefici: il totem protegge l'uomo, e l'uomo esprime il suo rispetto per il totem in diversi modi, per esempio non uccidendolo, quando si tratta di un animale, non cogliendolo, quando si tratta di una pianta. Il totem si distingue dal feticcio in quanto esso non è mai un oggetto isolato, come quest'ultimo, ma sempre il rappresentante di una specie, animale o vegetale, più raramente di una classe di oggetti naturali inanimati, e più raramente ancora di oggetti fabbricati artificialmente.

Si possono distinguere almeno tre tipi di totem:

1.  il totem della tribù, comune all'intero gruppo, che si tramanda di generazione in generazione;

2.  il totem esclusivo ad un sesso, cioè appartenente a tutti i membri maschili, o femminili, di una data tribù, ad esclusione dei membri del sesso opposto;

3.  il totem individuale, che appartiene ad una sola persona e non viene tramandato ai suoi discendenti».

Gli ultimi due tipi di totem hanno un'importanza irrilevante in confronto al totem della tribù. Si ha ragione di pensare che essi sono comparsi tardi e che rappresentano solo formazioni poco essenziali.

Il totem della tribù è venerato da un gruppo di uomini e di donne che portano il suo nome, si considerano discendenti da un antenato comune e sono strettamente legati gli uni agli altri da doveri reciproci e dalla comune fede nel loro totem.

Il totemismo è un sistema al tempo stesso religioso e sociale. Dal punto di vista religioso, consiste nei rapporti di rispetto e di vicendevole protezione tra l'uomo ed il suo totem; dal punto di vista sociale, negli obblighi reciproci sussistenti tra i membri di uno stesso clan e di altri clan. Nel corso dell'ulteriore sviluppo del totemismo, questi due aspetti tendono a separarsi l'uno dall'altro; il sistema sociale sopravvive spesso al sistema religioso e, viceversa, si ritrovano resti del totemismo nella religione dei paesi in cui il sistema sociale fondato sul totemismo è già scomparso. Data la nostra ignoranza sulle origini del totemismo non possiamo sapere con esattezza come questi due aspetti del totemismo fossero originariamente collegati. Tuttavia è assolutamente verosimile che all'inizio essi fossero inscindibilmente legati l'uno all'altro. In altri termini, più risaliamo alle origini, più constatiamo che i membri della tribù si considerano come appartenenti alla stessa specie del totem, e che il loro atteggiamento verso i loro simili non differisce in niente da quello che essi tengono nei confronti del totem.

Nella sua particolare descrizione del totemismo come sistema religioso, il Frazer ci informa che i membri di una tribù portano il nome del loro totem e, in genere, credono anche di discendere da lui. Da questa credenza consegue che essi non danno la caccia all'animale totem, non lo uccidono e non se ne cibano, e che si astengono da ogni altro uso del totem quando questo non è un animale. Il divieto di uccidere e di mangiare il totem non è il solo tabù che lo riguarda; talvolta è proibito anche toccarlo, perfino guardarlo; in certi casi il totem non dev'essere chiamato col suo vero nome. La violazione di queste proibizioni tabù, poste a protezione del totem, viene automaticamente punita con gravi malattie e con la morte.

Spesso esemplari della specie totem vengono allevati dal clan e tenuti in cattività. (Come, un tempo, la lupa in gabbia presso la scalinata del Campidoglio a Roma.). Quando un animale totem è trovato morto, è compianto e sepolto come un membro del clan. Quando si è costretti ad uccidere un animale totem, lo si fa osservando un prescritto rituale di scuse e di cerimonie espiatorie.

La tribù si aspettava dal suo totem protezione e favore. Se si trattava di un animale pericoloso (animale feroce, serpente velenoso), lo si credeva incapace di nuocere ai suoi compagni, uomini, e, in caso contrario, la vittima veniva esclusa dalla tribù. I giuramenti, pensa il Frazer, erano in origine delle ordalie; avveniva così che ci si rimettesse alla decisione del totem, quando si trattava di risolvere questioni di discendenza e di legittimità. Il totem assiste gli uomini nelle malattie, dispensa al clan presagi ed ammonimenti. La comparsa di un animale totem in prossimità di una casa era spesso considerata come l'annuncio d'una morte: il totem veniva a cercarvi il suo parente. (Come la «dama bianca» di parecchie famiglie nobili.).

In particolari circostanze importanti, il membro del clan cerca di accentuare la sua parentela con il totem, rendendosi esteriormente simile a lui, coprendosi con la pelle dell'animale, incidendosi sul corpo la sua immagine ecc. Nelle solenni circostanze della nascita, della consacrazione virile, della sepoltura, questa identificazione col totem è realizzata con parole e con fatti. In vista di certi fini magici e religiosi, si eseguono danze, nel corso delle quali tutti i membri della tribù si travestono da totem ed imitano i gesti e l'andatura che lo caratterizzano. Vi sono, infine, cerimonie durante le quali l'animale viene solennemente ucciso.

L'aspetto sociale del totemismo si esprime soprattutto nel rigore col quale viene osservata la proibizione e nell'estensione ed ampiezza delle limitazioni. I membri di un clan totemico si considerano come fratelli e sorelle, obbligati ad aiutarsi tra di loro ed a proteggersi reciprocamente. Quando un membro del clan viene ucciso da un estraneo, tutta la tribù di cui fa parte l'omicida è responsabile della sua azione criminale, ed il clan di cui faceva parte la vittima esige solidalmente l'espiazione per il sangue versato. I legami totemici sono più intensi che i legami familiari, nel senso che noi attribuiamo loro; essi non coincidono perché in genere il totem viene tramandato in linea materna, ed è probabile che in origine l'eredità paterna non fosse affatto riconosciuta.

Ne deriva una limitazione tabù, per la quale i membri dello stesso clan totemico non devono contrarre matrimonio tra di loro e devono, in generale, astenersi da rapporti sessuali con appartenenti allo stesso clan. Eccoci giunti alla famosa ed enigmatica esogamia, così intimamente connessa al totemismo. Le abbiamo dedicato tutto il primo capitolo di quest'opera; ci limitiamo a ricordare che essa è effetto dell'orrore per l'incesto molto accentuato presso i primitivi; che essa sarebbe assolutamente comprensibile come garanzia contro l'incesto nei matrimoni di gruppo, che essa mira anzitutto a preservare dall'incesto la giovane generazione, e che solo in un secondo tempo diviene un impedimento anche per le generazioni più anziane.

A questa descrizione del totemismo da parte del Frazer, una delle prime su questo argomento che siano apparse nella letteratura, aggiungeremo qualche estratto di sintesi apparse più di recente. Nel suo Elementi di psicologia dei popoli, apparso nel 1912, W. Wundt scrive:

L'animale totem è considerato come l'animale antenato del gruppo corrispondente. «Totem» è dunque, da una parte, un nome di gruppo e dall'altra un nome di discendenza e, come nome di discendenza, ha anche un significato mitologico. Tutte queste applicazioni del concetto sono tuttavia lontane dall'essere delimitate in modo rigoroso; in certi casi alcune di esse passano in secondo piano, così che il totem diviene una semplice nomenclatura delle divisioni del clan; mentre in altri casi è il significato relativo alla discendenza o il significato rituale del totem che passa in primo piano... Il concetto di totem serve di base alla suddivisione interna ed all'organizzazione del clan che sono soggette a certe norme di costume. Queste norme e il loro profondo radicarsi nelle credenze e nei sentimenti dei membri del clan, sono connessi con il fatto che in origine l'animale totem non serviva solo a designare un gruppo di membri di una tribù, ma era ancora considerato il capostipite del gruppo... Così gli antenati animali erano oggetto di un culto... A prescindere da certe cerimonie e feste cerimoniali, questo culto si esprimeva soprattutto in un particolare comportamento nei confronti del totem: non un singolo animale, ma tutti gli esemplari della stessa specie venivano considerati in una certa misura come animali sacri; era proibito, salvo che in certe circostanze eccezionali, cibarsi della carne dell'animale totem. A questa proibizione contrastano in modo significativo le cerimonie durante le quali, in particolari occasioni, si mangia la carne dell'animale totem nel corso di un pasto di tipo rituale.

... Il più rilevante aspetto sociale di questa organizzazione totemica della tribù consiste nel fatto che da essa derivano alcune norme di costume concernenti i rapporti tra i gruppi. Tra queste le norme più importanti sono quelle relative ai rapporti matrimoniali. Così questa organizzazione della tribù comporta un importante fenomeno che appare per la prima volta nell'epoca totemica: l'esogamia.

Se, prescindendo dalle successive modificazioni ed attenuazioni, vogliamo ora farci un'idea della natura del totemismo originario, possiamo così riassumerla: in origine i totem erano solo animali e venivano considerati gli antenati delle tribù; il totem veniva tramandato solo per eredità materna; era proibito ucciderlo (o cibarsene, che poi, per l'uomo primitivo, era la stessa cosa); erano proibiti i rapporti sessuali tra membri di uno stesso totem (Concordano con quanto sopra le tesi che il Frazer formula sul totemismo nella sua seconda opera su questo argomento (The Origin of Totemism, in «Fortnightly Review», 1899): «Thus Totemism has commonfy been treated as a primitive system both of religion and of society. As a system of religion it embraces the mystic union of the savage with his totem; as a system of society it comprises the relations in which men and women ofthe same totem stand to each other and to the members ofother totemic groups. And corresponding to these two sides of the system are two rough-and-ready tests or canons of Totemism: first, the mie that a man may not tali or eat his totem animai or plant; and second, the mie that he may not marry or cohabit with a woman ofthe same totem» (p. 101). Frazer aggiunge poi ciò che ci porta nel cuore delle discussioni sul totemismo: «Whether the two sides the religious and the social-have always coexisted or are essentially independent, is a question which has been variuosly answered».) [«Così il totemismo è stato generalmente trattato come un sistema primitivo, nello stesso tempo sociale e religioso. Come sistema religioso, significa l'unione mistica del primitivo col suo totem; come sistema sociale, comprende i rapporti tra uomini e donne dello stesso totem e i rapporti tra questi e i membri di gruppi totemici differenti. E a questi due aspetti del sistema corrispondono due criteri o canoni empirici del totemismo: in primo luogo, la regola per cui un uomo non deve uccidere o mangiare il suo totem, animale o pianta che sia; in secondo luogo, la regola che gli proibisce di sposarsi o di convivere con una donna appartenente al suo stesso totem... Se questi due aspetti, quello religioso e quello sociale, siano sempre coesistiti o siano essenzialmente indipendenti è un interrogativo cui è stato risposto in diversi modi»].

Ciò che ora ci stupisce è che nel «codice del totemismo», così com'è formulato dal Reinach, non appare uno dei due tabù principali, quello dell'esogamia, mentre è citato solo di sfuggita il secondo, cioè quello su cui si basa la credenza della discendenza dall'animale totem. Ma ho preferito presentare l'esposizione del Reinach, uno degli autori cui più dobbiamo in questo campo, per preparare il lettore alla divergenza di opinione tra gli autori di cui dovremo occuparci.

2.

Più ci si rendeva conto che il totemismo rappresentava una normale fase evolutiva di ogni civiltà, più si provava il bisogno di approfondirlo, di chiarire la sua enigmatica natura. In effetti, tutto nel totemismo è enigmatico; i problemi più importanti sono quelli relativi alle origini della genealogia totemica, alla spiegazione dell'esogamia (o, meglio, del tabù dell'incesto, da questa rappresentato) e ai rapporti tra la genealogia e l'esogamia, cioè tra l'organizzazione totemica ed il divieto dell'incesto. Dovremmo giungere a darci una spiegazione nello stesso tempo storica e psicologica, una concezione che ci illumini sulle condizioni in cui si sono formate queste strane istituzioni e sulle esigenze psichiche umane di cui esse sono l'espressione.

I miei lettori saranno certamente sorpresi nell'apprendere che, per dare una soluzione a questi problemi, vari ricercatori tutti ugualmente competenti hanno scelto punti di vista estremamente diversi ed hanno espresso opinioni che divergono tra di loro in modo spesso considerevole. Quasi tutto ciò che si potrebbe dire sul totemismo e sull'esogamia in generale è ancora incerto, ed anche il quadro che abbiamo tracciato sulla base di un lavoro del Frazer pubblicato nel 1887 non può sfuggire all'obiezione d'esprimere l'attuale preferenza arbitraria dell'autore che, infatti, dopo aver spesso cambiato idea su questo argomento, oggi esiterebbe a sostenerla (A proposito di questi cambiamenti di idee, egli scrisse queste belle parole: «That my conclusions on these dijficult questions are final, I am not so foolish as to pretend. I have changed my views repeatedly, and I am resolved to change them again with every change of the evidence, for like a chameleon, the candid inquirer should shift his colours with the shifting colours of the ground he treads». Introduzione al primo volume di Totemism and Exogamy, 1910.) [«Non sono tanto sciocco da pretendere che le mie conclusioni su questi difficili problemi siano definitive. Ho spesso cambiato il mio punto di vista, e sono disposto a cambiarlo tutte le volte che le circostanze lo richiederanno perché l'indagatore spregiudicato dovrebbe, come un camaleonte, cambiare colore ad ogni mutamento del terreno che egli calca»].

Naturalmente, se si potessero conoscere meglio le origini del totemismo e dell'esogamia, si farebbe un grande passo avanti verso la comprensione della natura di queste due istituzioni. Ma a questo proposito, si deve tener presente l'osservazione di Andrew Lang, cioè che, anche presso i popoli primitivi, le forme originarie delle loro istituzioni e le condizioni della loro formazione sono scomparse, di modo che dobbiamo ridurci a sostituire con ipotesi le osservazioni dirette che ci mancano. («By the nature of the case, as the origin of totemism lies far beyond our powers of historical examination or of experiment, we must have recourse as regards this matter to conjecture». A. lang, Secret of the totem, p. 27. «Nowhere do we see absolutefy primitive man, and a totemic system in the making», ivi, p. 29.) [«Data la natura del caso, e poiché le origini del totemismo vanno molto al di là delle nostre possibilità di un esame storico o sperimentale, dobbiamo far ricorso, per quanto riguarda questi problemi, a congetture... In nessun luogo troviamo un uomo assolutamente primitivo e un sistema totemico in via di formazione»]. Tra i tentativi di spiegazione avanzati, alcuni appaiono a priori inadeguati agli occhi dello psicologo. Sono troppo razionali e non tengono in alcun conto l'aspetto affettivo delle cose da spiegare. Altri si basano su premesse che non sono confermate dall'osservare; altri ancora poggiano su materiale che potrebbe più giustamente essere interpretato altrimenti. In generale non è affatto difficile confutare le diverse opinioni che sono state espresse; come al solito, gli autori si dimostrano più abili nelle critiche che si rivolgono a vicenda, che nelle opere che producono. Il risultato finale, per la maggior parte degli argomenti posti in discussione, è un non liquet. Così non siamo sorpresi nel constatare che, nelle più recenti opere su quest'argomento, di cui noi possiamo citare solo una piccola parte, si trova una tendenza sempre più forte a dichiarare impossibile la soluzione di problemi sul totemismo (vedi, per esempio Goldenweiser, nel Journal ofAmer. Folk-Lore, XXIII, 1910. Relazione in Brìtannia Year Book, 1913). Mi permetto di citare queste ipotesi contrastanti senza tener conto dell'ordine cronologico.

a. L'origine del totemismo

La questione delle origini del totemismo può anche essere posta così: in che modo gli uomini primitivi sono giunti a prendere il nome (loro e le loro tribù) da animali, piante, oggetti inanimati? (Probabilmente, in origine soltanto da animali.)

Lo scozzese McLennan, cui la scienza deve la scoperta del totemismo e dell'esogamia, si astenne dal pronunciarsi sulle origini del totemismo. Secondo Lang egli fu per un certo tempo incline a ricondurle all'usanza del tatuaggio. Io distinguo le teorie che sono state pubblicate sulle origini del totemismo in tre gruppi: a. le teorie nominalistiche, b. le teorie sociologiche, c. le teorie psicologiche.

a. Le teorie nominalistiche

Quanto riferirò su queste teorie giustifica la loro classificazione sotto il titolo da me adottato.

Garcilasso de la Vega, discendente degli Incas del Perù, che nel XVII secolo scrisse la storia del suo popolo, ricondusse quanto sapeva sui fenomeni totemici al bisogno delle tribù di distinguersi le une dalle altre mediante un nome. Secoli più tardi si ritrova la stessa opinione nella Ethnology di A. K. Keane: il totem, secondo questo autore, sarebbe sorto dagli Heraldic badges (insegne di stemmi) mediante i quali individui, famiglie e tribù volevano distinguersi gli uni dagli altri.

Max Muller ha espresso la stessa opione nei suoi Contributions to the Science ofMythology. Secondo lui, un totem sarebbe: 1. un distintivo del clan; 2. un nome del clan; 3. il nome del progenitore del clan; 4. il nome di un oggetto venerato dal clan; nel 1899, J. Piker scriveva:

Gli uomini avevano bisogno, per le collettività e per gli individui, di un nome stabile, fissato con la scrittura... Il totemismo nacque così non da un'esigenza religiosa, ma da un'esigenza prosaica, pratica. Il nocciolo del totemismo, la denominazione, è un risultato della tecnica della scrittura primitiva. Il carattere del totem è anche quello di avere segni grafici facili da riprodurre. Ma dopo essersi dati il nome di un animale, i primitivi ne hanno dedotto l'idea di una parentela con questo animale.

Anche Herbert Spencer attribuiva alla denominazione la parte decisiva nella formazione del totemismo. Secondo lui, certi individui avrebbero presentato qualità che avrebbero fatto attribuire loro nomi di animali; essi avrebbero così acquisito titoli o soprannomi che avrebbero in seguito trasmesso ai loro discendenti. A causa dell'indeterminatezza e dell'intelligibilità delle lingue primitive, le generazioni successive avrebbero concepito questi nomi come prova della loro discendenza da questi animali. Così, per un equivoco, il totemismo si sarebbe trasformato in culto degli antenati.

Lord Avebury (più conosciuto sotto il nome di sir John Lubbock) spiega esattamente nello stesso modo, senza tuttavia insistere sull'equivoco l'origine del totemismo. Se, egli dice, vogliamo spiegare il culto degli animali, non dobbiamo dimenticare quanto spesso gli uomini prendono i loro nomi dagli animali. I figli e tutto il seguito di un uomo che aveva ricevuto il nome di Orso o di Leone, hanno naturalmente fatto di questo nome quello di famiglia o di tribù. Avvenne così che l'animale stesso diviene oggetto «prima di interesse, poi di una certa devozione, e infine di culto».

Fison ha formulato un'obiezione, che sembrerebbe inconfutabile, contro questa tendenza a voler far derivare i nomi totemici da nomi di individui. Ricorrendo alle informazioni in nostro possesso per quanto riguarda l'Australia, egli dimostra che il totem sta sempre a designare un gruppo di uomini, mai un individuo. Se fosse stato diversamente, se in origine il totem fosse stato il nome di un individuo, dato il regime di successione in linea materna esso non avrebbe potuto trasmettersi ai figli.

Del resto tutte queste teorie che abbiamo citato sono chiaramente insufficienti. Se esse spiegano perché le tribù primitive abbiano nomi di animali, lasciano tuttavia senza spiegazione l'importanza che questa denominazione ha assunto ai loro occhi, cioè non spiegano il sistema totemico. In questo gruppo la teoria più notevole è quella sviluppata dal Lang nelle sue opere Social Origins (1903) e The Secret ofthe Totem (1905). Pur intendendo la denominazione come nocciolo del problema, essa tiene conto di due interessanti fattori psicologici, ed in tal modo pretende di risolvere in modo definitivo l'enigma del totemismo.

Poco importa, secondo A. Lang, in che modo i clan siano giunti a darsi nomi di animali. Basta ammettere che un giorno essi si sono accorti di portare nomi di animali, senza potersi render conto di dove fossero loro derivati. L'origine di questi nomi è stata dimenticata. Essi avrebbero allora tentato di spiegarsi questo fatto con ragionamenti speculativi, e, data l'importanza che essi attribuivano ai nomi, dovevano necessariamente giungere a tutte le idee contenute nel sistema totemico. Per i primitivi, come per i selvaggi dei nostri giorni ed anche per i nostri bambini, i nomi sono non qualcosa di convenzionale e di indifferente, ma attributi significativi ed essenziali. Il nome di un uomo costituisce una parte sostanziale della sua persona, forse anche della sua anima. Il fatto di portare lo stesso nome di un dato animale dovette indurre il primitivo ad ammettere un legame misterioso e significativo tra la propria persona e la specie animale di cui portava il nome. Quale altro legame avrebbe potuto concepire se non quello di sangue? Dall'ammissione, indotta dall'identità dei nomi, di questo legame, discesero tutte le prescrizioni totemiche, ivi compresa l'esogamia, in quanto dirette conseguenze del tabù del sangue.

Tre soli elementi furono necessari per far sorgere le credenze e le pratiche totemiche, ivi compresa l'esogamia: l'esistenza di un nome di animale, di origine ignota, per designare un gruppo; la credenza in un legame trascendentale tra tutti coloro, uomini ed animali, che portano lo stesso nome; la credenza nelle superstizioni del sangue.

La spiegazione del Lang è, per così dire, a due tempi. Essa fa derivare il sistema totemico, per motivi psicologici, dall'esistenza del nome totemico, premettendo che si è perduto il ricordo dell'origine di questa denominazione. L'altra parte della teoria cerca di scoprire questa origine e vedremo che questa parte è di carattere completamente diverso.

Infatti, questa altra parte non si discosta gran che da tutte le altre teorie che io chiamo «nominalistiche». Dall'esigenza pratica di distinguersi le une dalle altre, le tribù sono state indotte ad adottare un nome, in genere quello che ad ognuna veniva dato dalle altre. Questo naming from without (il ricevere il nome dall'esterno), costituisce la caratteristica della teoria di Lang. Il fatto che i nomi adottati fossero presi da animali non ci stupisce, e certamente non veniva inteso dai primitivi come ingiuria o scherno. Del resto il Lang cita parecchi casi, tratti da epoche storiche successive, in cui nomi dati a titolo di scherno sono stati adottati e portati molto volentieri dagli interessati (i Gueux, i Tories, i Whigs). L'ipotesi che l'origine di questo nome con l'andar del tempo sia stata dimenticata collega questa seconda parte della teoria del Lang a quella esposta precedentemente.

b. Le teorie sociologiche

S. Reinach, che ha ricercato con successo le sopravvivenze del sistema totemico nel culto e nei costumi dei periodi successivi, ma che fin dall'inizio ha trascurato il carattere ancestrale dell'animale totem, a un certo punto dice senza esitazione che, secondo lui, il totemismo non è altro che un'hypertrophie de l'instinct social.

Sulla stessa concezione si basa anche l'opera di É. Durkheim (1912): Les formes élémentaires de la vie religieuse. Le système totémique en Australie. Secondo il Durkheim, il totem non sarebbe altro che il rappresentante visibile della religione sociale di questi popoli. Esso incarnerebbe la collettività che sarebbe essa stessa il vero oggetto di culto.

Altri autori hanno ricercato argomenti più convincenti in favore di questa teoria che attribuisce alle tendenze sociali una parte predominante nella formazione delle istituzioni totemiche. Così A. C. Haddon suppone che in origine ogni tribù primitiva si nutrisse di una sola specie di animali o di piante, di cui forse faceva anche commercio, servendosene come mezzo di scambio per i prodotti forniti da altre tribù. Era perciò naturale che infine questa tribù fosse nota alle altre sotto il nome dell'animale che aveva una parte tanto importante nella sua vita. Contemporaneamente doveva stabilirsi nella tribù una particolare familiarità con l'animale in questione ed una specie d'interesse per esso, nettamente fondato sul più elementare e più urgente bisogno umano, la fame.

A questa teoria, la più razionale fra tutte quelle relative al totemismo, è stato obiettato che da nessuna parte sono state riscontrare presso i primitivi simili condizioni di alimentazione, e che probabilmente non sono mai esistite. I primitivi sono onnivori, e lo sono tanto più quanto più è basso il loro livello di vita. Inoltre non si comprende come questa dieta esclusiva abbia potuto dar luogo ad un comportamento quasi religioso nei confronti del totem, caratterizzato da un'assoluta astinenza dal cibo preferito.

La prima delle tre teorie che il Frazer ha formulato sull'origine del totemismo era una teoria psicologica. Ne parleremo più tardi. Qui ci occuperemo della seconda, che è stata suggerita al Frazer da un importante lavoro, frutto delle ricerche compiute da due studiosi fra i nativi dell'Australia centrale.

Spencer e Gillen hanno descritto tutto un insieme di istituzioni, costumi e credenze bizzarre di un gruppo di tribù conosciuto sotto il nome di nazione Arunta e il Frazer ha aderito alla loro conclusione, secondo la quale queste stranezze dovrebbero essere considerate come tratti di uno stato primitivo e sarebbero tali da chiarirci il significato primo ed autentico del totemismo.

Le particolarità che si possono osservare nella tribù Arunta (una parte della nazione Arunta) sono le seguenti:

1. Gli Arunta presentano chiaramente la divisione in clan totemici, ma il totem, invece di essere trasmesso per eredità, è determinato individualmente (in seguito vedremo in che modo).

2.  I clan totemici non sono esogamici; le limitazioni matrimoniali sono fondate su evolutissime divisioni in classi matrimoniali, che non hanno niente a che vedere con il totem.

3.  La funzione del clan totemico consiste nel compimento di una cerimonia che ha per scopo di provocare, con mezzi essenzialmente magici, la moltiplicazione dell'oggetto totemico commestibile (questa cerimonia si chiama Intichiuma).

4.  Gli Arunta hanno una singolare teoria che riguarda il concepimento e la reincarnazione. Affermano che in certe regioni del loro paese gli spiriti dei morti appartenenti al loro stesso totem attendono la rinascita e s'introducono nel corpo delle donne che capitano in quei paraggi. Quando nasce un bambino, la madre indica il luogo abitato dagli spiriti dove crede di averlo concepito. In base a questa indicazione si fissa il totem del bambino. Ritengono inoltre che gli spiriti, sia quelli dei morti, sia quelli dei rinati, sono legati a particolari amuleti di pietra (chiamati churinga) che si trovano in quei luoghi.

Due fattori sembrano aver suggerito al Frazer l'opinione che le istituzioni degli Arunta rappresentino la più antica forma di totemismo. Innanzi tutto l'esistenza di certi miti che affermano che gli antenati degli Arunta si sono un tempo nutriti del loro totem e non hanno mai sposato che donne appartenenti al loro stesso totem. Poi l'importanza apparentemente secondaria che gli Arunta attribuiscono all'atto sessuale nella loro teoria del concepimento. Bene, uomini che non hanno compreso che il concepimento è la conseguenza dei rapporti sessuali possono a buon diritto essere considerati i più primitivi tra tutti quelli che vivono ai giorni nostri. Mentre il Frazer concentrava la sua attenzione sulla cerimonia Intichiuma, nell'intento di formulare un giudizio sul totemismo, pervenne improvvisamente ad una visione completamente nuova del sistema totemico. Questo era un'organizzazione esclusivamente pratica, destinata a combattere i più naturali bisogni dell'uomo (cfr. sopra la teoria dell'Haddon). ( «There is nothing vague or mystical about it, nothing of that metaphysical haze which some writers love to conjure up over the humble beginnings of human speculation, but which is utterly foreign to the simple, sensuous and concrete modes ofthought ofthe savage» (Totemism and Exogamy, vol. I, p. 117).) [«Non c'è, in tutto questo, niente di vago o di mistico, niente di quella nebbia metafisica con cui certi autori amano avvolgere gli umili inizi della speculazione umana, che è invece completamente estranea alle abitudini semplici, sensuali e concrete del primitivo»].

Il sistema gli apparve semplicemente come una cooperative magic in grande stile. I primitivi formarono, per così dire, un'associazione magica per la produzione e per il consumo. Ogni clan totemico era incaricato di provvedere ad una certa derrata alimentare. Quando si trattava non di totem commestibili ma di quel particolare totem di animali pericolosi, o della pioggia, del vento ecc., il clan era incaricato di occuparsi del fenomeno al fine di stornarne gli effetti nocivi. Quanto di positivo era raggiunto da ogni clan, era posto a vantaggio di tutti. Poiché il clan non doveva, o quasi, cibarsi del suo totem, si occupava di fornire questo prezioso bene agli altri che, in cambio, lo provvedevano di ciò di cui a loro volta erano produttori. Alla luce di questa concezione, fondata sulla cerimonia Intichiuma, Frazer ritenne che il divieto di cibarsi del proprio totem avesse indotto a trascurare l'elemento più importante della situazione, cioè il comandamento di curare quanto più possibile che il totem commestibile non mancasse agli altri.

Il Frazer accettò la tradizione degli Arunta, secondo la quale in origine ogni clan totemico si sarebbe nutrito, senza limitazione alcuna, del proprio totem. Ma si sono presentate difficoltà quando si è trattato di capire il successivo sviluppo, in cui ci si accontentava di procurare il totem agli altri, rinunciando per proprio conto a cibarsene. Il Frazer pensò allora che questa limitazione era stata dettata non da un rispetto religioso, ma dall'osservazione che nessun animale si nutre della carne di appartenenti alla sua stessa specie; e ne avrebbe tratto la conclusione che, agendo in modo contrario, ne sarebbe stata compromessa l'identificazione col totem, cosa che avrebbe pregiudicato la potenza che si voleva acquistare su di lui. O ancora, questa limitazione poteva essere spiegata col desiderio di rendersi propizio l'animale, risparmiandolo. Il Frazer non si faceva d'altronde nessuna illusione sulle difficoltà che questa spiegazione presentava, e non osò pronunciarsi sul modo in cui l'abitudine di contrarre matrimoni all'interno della tribù totemica, attestata dai miti Arunta, abbia potuto portare all'esogamia.

La teoria del Frazer, fondata sull'Intichiuma, si regge nella misura in cui si ammette la natura primitiva delle istituzioni Arunta. Ma pare impossibile che questa primitività regga alle obiezioni che le sono state rivolte dal Durkheim e dal Lang. Anzi gli Arunta appaiono come le più evolute tra le tribù australiane, piuttosto alla fase di dissoluzione che all'inizio del totemismo. I miti che hanno prodotto una così profonda impressione sul Frazer, perché, contrariamente alle istituzioni oggi in vigore, proclamano la libertà di cibarsi del totem e di contrarre matrimoni all'interno del clan totemico, devono piuttosto essere considerati, proprio come il mito d'un'Epoca d'Oro, come espressione di desideri proiettati nel passato.

γ. Le teorie psicologiche

La prima teoria psicologica che il Frazer ha formulato, prima di aver preso conoscenza delle osservazioni di Spencer e di Gillen, si fondava sulla credenza dell'«anima esterna». Il totem rappresenterebbe un rifugio sicuro in cui l'anima sarebbe deposta al fine di venire sottratta ai pericoli che potrebbero minacciarla. Quando il primitivo aveva affidato la propria anima al suo totem, diveniva egli stesso invulnerabile, e naturalmente si guardava bene dal provocare il minimo danno al portatore della sua anima. Ma poiché non sapeva quale degli esemplari della specie animale fosse questo portatore, si risolveva ad aver cura dell'intera specie. Più tardi il Frazer ha rinunciato alla teoria che ricollegava il totemismo alla credenza nelle anime.

Quando ebbe preso conoscenza delle osservazioni dello Spencer e del Gillen, egli formulò la sua teoria sociologica del totemismo che prima abbiamo analizzato, pur riconoscendo egli stesso che il motivo da cui in tal modo egli deduceva il totemismo era troppo «razionale» e supponeva un'organizzazione sociale troppo complessa per essere primitiva («It is unlikety that a community of savages should deliberatefy parcel oul the realm of nature into provinces: assign each province to a particular band of magicians, and bid ali the bands to work their magic and weave their spelli far the common good». Totemism and Exogamy,IV, p. 57.) [«È assai poco verosimile che una comunità di selvaggi di proposito divida il regno della natura in province, assegnando poi ogni provincia ad una particolare categoria di maghi ed ordinando a questi gruppi di fare magie e di tessere incantesimi per il bene comune»]. Le cooperative magiche gli apparvero allora piuttosto come frutti tardivi che come germi del totemismo. Dietro queste formazioni egli ricercava un movente più semplice, una superstizione primitiva da cui potesse far derivare il totemismo. La trovò nella singolare teoria del concepimento degli Arunta.

Gli Arunta, come abbiamo già detto, non riconoscono il rapporto tra il concepimento e l'atto sessuale. Quando una donna si sente, divenir madre, vuol dire che, nel momento in cui essa prova questa sensazione, uno degli spiriti che aspirano alla rinascita ha lasciato la più prossima dimora degli spiriti per introdursi nel corpo di questa donna che lo metterà al mondo come proprio figlio. Questo bambino avrà lo stesso totem degli altri spiriti che dimorano nello stesso luogo. Questa teoria del concepimento non è in grado di spiegare il totemismo, giacché essa presuppone già l'esistenza del totem. Ma se, facendo un passo più indietro, si ammette che in origine la donna credesse che l'animale, la pianta, la pietra, l'oggetto, che occupavano la sua fantasia nel momento in cui per la prima volta essa si è sentita madre, fosse veramente penetrato in lei per poi nascere in forma umana, allora l'identità di un uomo con il suo totem trova realmente giustificazione nella credenza della madre, e tutti gli altri divieti totemici (salvo l'esogamia) possono esser fatti derivare da questa credenza. L'uomo esita, in queste condizioni, a mangiare l'animale o la pianta totem, perché mangerebbe se stesso. Ma di tanto in tanto egli sarà disposto a mangiare in forma cerimoniale un po' del suo totem, per rinforzare così la sua identità col totem stesso, identità che costituisce la parte essenziale del totemismo. Le osservazioni di W. H. R. Rivers sugli indigeni delle isole Bank sembrano effettivamente confermare la diretta identificazione dell'uomo col suo totem, sulla base di un'analoga teoria del concepimento.

L'origine ultima del totemismo sarebbe dunque nell'ignoranza relativa al modo in cui uomini ed animali procreano e perpetuano la loro specie, e soprattutto nell'ignoranza della parte che il maschio svolge nella fecondazione. Questa ignoranza è stata favorita dal lungo spazio di tempo che intercorre tra l'atto della fecondazione e la nascita del bambino (o il momento in cui la madre avverte i primi movimenti del feto). Il totemismo sarebbe così una creazione dello spirito femminile, non di quello maschile. Esso trarrebbe origine dalle «voglie» della donna incinta. «Tutto ciò che ha colpito l'immaginazione della donna in quel misterioso momento della sua vita in cui per la prima volta ha sentito di essere madre, ha in effetti potuto essere facilmente identificato da essa col bambino che portava in grembo. Queste fantasie materne, così naturali e, sembra, così universali, possono ben avere costituito la radice del totemismo».

L'obiezione principale che si può rivolgere a questa terza teoria del Frazer è la stessa che è stata formulata contro la sua seconda teoria, quella sociologica. Gli Arunta sembrano molto lontani dagli inizi del totemismo. Il loro misconoscimento della paternità non sembra fondato su di un'ignoranza primitiva; in molti casi essi si valgono anche della discendenza in linea paterna. Si direbbe piuttosto che essi abbiano sacrificato la paternità ad una specie di speculazione, volta ad assicurare il culto degli antenati. Facendo del mito della fecondazione d'una vergine per mezzo d'uno spirito una teoria concezionale generale, essi non si sono dimostrati più ignoranti, riguardo alle condizioni della fecondazione, che i popoli dell'antichità all'epoca dell'origine dei miti cristiani.

L'olandese G. A. Wilken ha proposto un'altra spiegazione dell'origine del totemismo, ricollegando questo alla credenza nella trasmigrazione delle anime. «L'animale in cui, secondo la credenza generale, sono trasmigrate le anime dei defunti diveniva un parente di sangue, un progenitore, ed era venerato come tale». Tuttavia, è piuttosto la credenza nella trasmigrazione delle anime che potrebbe spiegarsi col totemismo, e non viceversa.

Un'altra teoria del totemismo è stata formulata dagli eccellenti etnologi americani Fr. Boas e Hill-Tout, e da altri. Fondandosi su osservazioni eseguite su alcune tribù totemiche di Indiani nord-americani, questa teoria sostiene che in origine il totem era lo spirito tutelare di un antenato, il quale se lo è acquisito grazie ad un sogno e l'aveva trasmesso ai suoi discendenti. Già prima abbiamo messo in rilievo le difficoltà che si oppongono alla spiegazione delle origini del totemismo attraverso la trasmissione ereditaria individuale; inoltre le osservazioni fatte in Australia non confermano affatto questo generico rapporto tra lo spirito tutelare ed il totem.

L'ultima teoria psicologica, quella del Wundt, considera decisivi i due fatti seguenti: in primo luogo, il fatto che il più primitivo e più diffuso oggetto totemico è l'animale, in secondo luogo il fatto che, tra gli animali totemici, i più remoti sono anche animali animistici. Gli animali che hanno un'anima, come serpenti, uccelli, lucertole, topi, grazie alla loro grande mobilità, alla loro possibilità di volare e ad altre caratteristiche che ispirano sorpresa e spavento, sembrano predestinati ad essere i portatori delle anime che hanno abbandonato i corpi; l'animale totem è un prodotto delle metamorfosi dell'anima-alito. Così, secondo il Wundt, il totemismo si ricollegherebbe direttamente alla credenza nelle anime, cioè all'animismo.

b-c. L'origine dell'esogamia e i suoi rapporti con il totemismo

Pur avendo citato in modo abbastanza particolareggiato le teorie relative al totemismo, temo di non averne data un'idea sufficiente, a causa delle abbreviazioni alle quali sono stato costretto. Tuttavia, per quanto concerne i problemi di cui ora ci occuperemo, tenterò, anche nell'interesse del lettore, di essere ancora più conciso. Le discussioni sull'esogamia dei popoli totemici, data la natura del materiale relativo a questo argomento, sono particolarmente complicate e numerose; si potrebbe anche dire, senza esagerare, che ciò che soprattutto le caratterizza è la confusione. D'altronde, lo scopo che io perseguo mi permette di limitarmi a rilevare alcune idee direttive, e di rinviare coloro che vogliono farsi un'idea più approfondita del problema alle opere specializzate che ho avuto tanto spesso l'occasione di citare.

La posizione di un autore rispetto ai problemi dell'esogamia naturalmente dipende, almeno in una certa misura, dalla sua simpatia per l'una o l'altra teoria totemica. Alcune delle spiegazioni proposte per il totemismo escludono qualsiasi rapporto con l'esogamia, così ne derivano due opinioni in contrasto, una che, rispettando la supposizione originaria, vede nell'esogamia una parte essenziale del sistema totemico, l'altra che nega questo nesso e pensa si tratti solo di un'incidentale coincidenza di questi due aspetti caratteristici delle civiltà primitive. Nelle sue opere più recenti il Frazer ha adottato senza riserve questo secondo punto di vista.

«Devo», egli dice, «pregare il lettore di tenere sempre presente il fatto che le due istituzioni, il totemismo e l'esogamia, per la loro origine e per la loro natura sono fondamentalmente distinte, sebbene in parecchie tribù le si trovi incidentalmente intersecate e frammiste».

Egli mette addirittura in guardia contro il punto di vista opposto, nel quale vede una fonte di difficoltà e di equivoci. Contrariamente al Frazer, altri autori sono arrivati a vedere nell'esogamia una conseguenza delle idee fondamentali del totemismo. Nei suoi lavori il Durkheim ha sostenuto che il tabù connesso al totem doveva necessariamente implicare la proibizione di rapporti sessuali con una donna appartenente allo stesso totem dell'uomo. Poiché il totem ha lo stesso sangue dell'uomo, avere rapporti sessuali con una donna appartenente allo stesso totem vuol dire commettere un'azione criminale (e questa proibizione sembra tener particolarmente conto della deflorazione e della mestruazione). A. Lang, che su questo punto si riallaccia a Durkheim, ritiene addirittura che non sia necessano ricorrere al tabù del sangue per rendere operante la proibizione dei rapporti sessuali con le donne appartenenti alla stessa tribù degli uomini. Sarebbe bastato il tabù totemico generale che, per esempio, proibisce all'uomo di sedersi all'ombra dell'albero totem. Lo stesso autore del resto propugna un'altra teoria sulle origini dell'esogamia (v. appresso), senza dirci che rapporto sussista tra queste due spiegazioni.

Per quanto riguarda la successione nel tempo, la maggior parte degli autori ritiene che il totemismo sia anteriore all'esogamia. (Per esempio, frazer, cit., IV, p. 75: «The totemic clan is a totally different social organism front the exogamous clan, and we have good grounds for thinking that it is far older».) [«Il clan totemico è un'organizzazione sociale che differisce totalmente dal clan esogamico, ed abbiamo fondate ragioni per credere che sia molto più antico»].

Tra le teorie che pretendono di spiegare l'esogamia a prescindere dal totemismo, rileveremo solo quelle che illustrano la diversa posizione degli autori rispetto al problema dell'incesto.

Il McLennan ha dato un'ingegnosa spiegazione dell'esogamia, attraverso la sopravvivenza di costumi che sembrano richiamarsi all'antica usanza di rapire le donne. Egli suppone che, nelle epoche più primitive, ci fosse l'usanza di procurarsi le donne togliendole a tribù straniere, e che, a poco a poco, il matrimonio con donne della propria tribù, divenuto sconveniente perché sempre più eccezionale, abbia finito con l'essere proibito. Egli ricerca la ragione di questa esogamia nella scarsezza di donne presso le società primitive, in conseguenza dell'usanza di uccidere i neonati di sesso femminile. Non spetta a noi indagare se i fatti siano tali da confermare le ipotesi del McLennan. Ciò che soprattutto c'interessa è che, anche ammettendo queste ipotesi, non si riesce a spiegare perché agli uomini della tribù fossero proibiti i matrimoni con le poche donne del loro sangue, né perché l'autore trascuri completamente il problema dell'incesto.

In opposizione a questo modo di vedere ed evidentemente con maggior ragione, altri ricercatori hanno visto nell'esogamia un'istituzione destinata ad impedire l'incesto.

Se si tiene conto della crescente complicazione delle limitazioni matrimoniali in Australia, non si può non condividere l'opinione di Morgan, Baldwin, Spencer, Frazer, Howitt, per cui queste istituzioni denoterebbero una intenzione cosciente, voluta {deliberate design, secondo il Frazer) ed avrebbero realmente raggiunto lo scopo che si proponevano. «Sembra impossibile spiegare diversamente, in tutti i suoi particolari, un sistema così complesso e nello stesso tempo così regolare».

È interessante notare che le prime limitazioni conseguenti all'introduzione delle classi matrimoniali colpivano la libertà sessuale della giovane generazione, quindi l'incesto tra fratelli e sorelle e tra figli e madri, mentre l'incesto tra padri e figlie è stato abolito solo da proibizioni successive.

Ma attribuendo le limitazioni sessuali esogamiche ad un'intenzione legislativa, non si spiega affatto perché queste limitazioni siano state create. Donde deriva, in ultima analisi, l'orrore per l'incesto che dev'essere considerato come la radice dell'esogamia? Evidentemente non basta spiegare l'orrore per l'incesto con un'istintiva avversione per i rapporti sessuali tra parenti molto stretti, il che ammetterebbe l'esistenza di un istintivo orrore per l'incesto, mentre l'esperienza ci dimostra che, malgrado questo istinto, l'incesto è ben lontano dall'essere un fenomeno raro anche nelle società moderne, e mentre l'esperienza storica c'insegna che i matrimoni incestuosi erano obbligatori per certe persone privilegiate.

Il Westermarck spiega l'orrore per l'incesto dicendo che «persone di sesso diverso, che vivono insieme sin dall'infanzia, provano un'innata avversione ad instaurare rapporti sessuali, e poiché, generalmente, tra queste persone c'è una parentela di sangue, questo sentimento trova nel costume e nella legge la sua espressione naturale che è quella dell'orrore per rapporti sessuali tra parenti prossimi». Havelock Ellis, pur contestando il carattere istintivo di questa avversione nei suoi Studies in the psychology of Sex, in sostanza aderisce alla stessa spiegazione, quando dice:

Il fatto che normalmente l'istinto sessuale non si manifesti tra fratelli e sorelle o tra ragazzi e ragazze che sono vissuti insieme sin dall'infanzia, è un fenomeno puramente negativo, che dipende dal fatto che, nelle circostanze di cui si tratta, mancano le condizioni che risvegliano l'istinto sessuale... Tra persone che sono vissute insieme sin dall'infanzia, la consuetudine ha ottuso tutte le eccitazioni che possono essere provocate dalla vista, l'udito ed il tatto, ha creato tra queste persone una tranquilla affezione, e le rende incapaci di provocare l'eccitazione eretistica necessaria alla formazione della tumescenza sessuale.

Trovo strano che, parlando dell'innata avversione per i rapporti sessuali che provano persone che sono vissute insieme sin dall'infanzia, nello stesso tempo Westermarck veda in questa tendenza un'espressione psichica del fatto biologico che i matrimoni tra persone dello stesso sangue provocano un deterioramento della specie. È difficile ammettere che, nella sua manifestazione psicologica, un istinto biologico di questo genere s'inganni al punto da proibire, invece dei rapporti sessuali, nocivi alla specie, tra parenti di sangue, quelli, assolutamente innocui da ogni punto di vista, tra gli occupanti di una stessa casa. Non posso fare a meno di riportare la critica che il Frazer oppone all'affermazione del Westermarck. Infatti, il Frazer trova inesplicabile che oggi non vi sia nessun pregiudizio contro rapporti sessuali tra compagni di casa, mentre l'orrore per l'incesto, che secondo il Westermarck non sarebbe che una derivazione di questo pregiudizio, è oggi più forte che mai. Ancora più profonde sono le seguenti note del Frazer che qui riporto testualmente perché, nei punti essenziali, concordano con gli argomenti che io stesso ho svolto nel capitolo sul tabù.

Non si capisce perché un istinto umano profondamente radicato avrebbe bisogno di essere rafforzato da una legge. Non ci sono leggi che ordinino all'uomo di mangiare o di bere o che gli proibiscano di mettere le mani sul fuoco. Gli uomini mangiano, bevono, tengono le mani lontano dal fuoco, istintivamente, per paura di una pena naturale e non di una pena legale, che essi si cagionerebbero contravvenendo al loro istinto. La legge proibisce solo ciò che gli uomini farebbero sotto l'influsso di alcuni loro istinti. Ciò che la natura stessa proibisce e punisce non ha bisogno di essere proibito e punito dalla legge. Possiamo dunque ammettere senza esitare che i crimini che una legge proibisce sono effettivamente i crimini che molti uomini compirebbero facilmente per tendenza naturale. Se non vi fossero tendenze di questo tipo non vi sarebbero crimini; e se non vi fossero crimini, che bisogno ci sarebbe di proibirli? Così, invece di dedurre dalla proibizione legale dell'incesto che ci sia per l'incesto un'avversione naturale, dovremmo piuttosto dedurne l'esistenza di un forte istinto naturale all'incesto, e che se la legge condanna questo istinto come tanti altri istinti naturali, è perché gli uomini civilizzati si sono resi conto che dal punto di vista sociale il soddisfacimento di questi istinti naturali sarebbe nocivo.

A questa considerevole argomentazione del Frazer posso ancora aggiungere che le esperienze della psicoanalisi provano l'impossibilità dell'esistenza di un'innata avversione per i rapporti incestuosi. Al contrario, esse dimostrano che i primi desideri sessuali dell'adolescente sono sempre di natura incestuosa, e che questi desideri repressi svolgono una parte molto rilevante come cause determinanti delle successive nevrosi.

Bisogna dunque abbandonare la concezione che vede nell'orrore per l'incesto un istinto innato. E lo stesso vale per un'altra concezione della proibizione dell'incesto, concezione che può vantare numerosi seguaci, cioè che, avendo ben presto constatato i pericoli per la specie che dal punto di vista della procreazione presentano i matrimoni tra consanguinei, i popoli primitivi avrebbero decretato la proibizione dell'incesto con piena cognizione di causa. A questo tentativo di spiegazione possono essere mosse diverse obiezioni. In primo luogo, a parte il fatto che la proibizione dell'incesto dev'essere di parecchio anteriore all'economia basata sull'uso di animali domestici, che sola avrebbe potuto fornire dei dati sugli effetti dell'incrocio tra consanguinei sulla qualità della razza, la natura nociva di questi effetti è, perfino ai giorni nostri, ancora lontana dall'essere ammessa e, per quanto riguarda l'uomo, difficile da provare. In secondo luogo, tutto ciò che sappiamo sui primitivi odierni rende poco verosimile l'ipotesi secondo la quale i loro più remoti antenati si sarebbero presi la cura di mettere i loro discendenti al sicuro dagli effetti nocivi delle unioni tra consanguinei. E quasi ridicolo attribuire a tali imprevidenti creature motivi igienici ed eugenici di cui a malapena si tiene conto al nostro attuale stato di civilizzazione.( Ch. Darwin dice a proposito dei selvaggi «They are not likely to reflect on distarti evils to their progeny».) [«Sono probabilmente incapaci di riflettere sui lontani mali dei loro discendenti»].

Si può infine obiettare che non è sufficiente ricondurre la proibizione delle unioni consanguinee a ragioni igieniche e puramente pratiche, per spiegare la profonda avversione per l'incesto che esiste nelle nostre società moderne. Come ho già dimostrato questo orrore per l'incesto è ancora più vivo e più forte tra i popoli primitivi ancora esistenti che tra i popoli civilizzati.

Mentre ci si poteva aspettare di aver così, per la spiegazione dell'orrore per l'incesto, la scelta tra cause sociologiche, biologiche e psicologiche - i fattori psicologici dovrebbero forse esser qui valutati come rappresentanti di forze biologiche - ci vediamo costretti, alla fine dell'analisi, ad aderire a quanto dice il Frazer: noi ignoriamo l'origine dell'orrore per l'incesto e non sappiamo nemmeno in quale direzione ricercarla. Nessuna delle soluzioni dell'enigma finora proposte ci sembra soddisfacente. («Thus the ultimate origin of exogamy and with it of the law of incesi - sirice exogamy was devised to prevent incesi - remains a problem nearty as dark as ever». Totemism and Exogamy, I, p. 165.) [«Così l'origine ultima dell'esogamia e di conseguenza del divieto dell'incesto - giacché l'esogamia è stata istituita al fine di prevenire l'incesto - resta un problema più che mai oscuro»].

Devo ricordare ancora un ultimo tentativo di spiegazione dell'origine dell'orrore per l'incesto. Questo tentativo differisce totalmente da quelli di cui ci siamo occupati finora, e potrebbe essere definito storico.

Esso si collega ad un'ipotesi di Ch. Darwin sullo stato sociale primitivo dell'umanità. Dalle abitudini di vita delle scimmie superiori, Darwin ha concluso che anche l'uomo in origine sarebbe vissuto in piccole orde, all'interno delle quali la gelosia del maschio più vecchio e più forte avrebbe impedito la promiscuità sessuale.

«Da quanto sappiamo sulla gelosia di tutti i mammiferi, molti dei quali sono perfino dotati di armi speciali, destinate a facilitare loro la lotta contro i rivali, possiamo effettivamente concludere che una generale promiscuità dei sessi allo stato di natura è un fatto estremamente poco probabile... Se dunque, risalendo molto indietro nel tempo, deduciamo dalle abitudini sociali dell'uomo di oggi, la conclusione più verosimile è che in origine l'uomo vivesse in piccole società, ogni uomo con tante donne quante ne poteva mantenere e ottenere, che difendeva gelosamente contro tutti gli altri uomini. Oppure, viveva per proprio conto con parecchie femmine, come il gorilla: infatti tutti gli indigeni dei paesi in cui vive il gorilla sono concordi nell'affermare che in un gruppo si può vedere un solo maschio. Quando il giovane maschio è cresciuto, egli entra in lotta con gli altri per il predominio, ed è il più forte che, dopo aver ucciso o scacciato tutti i rivali, si pone a capo della società (cfr. Savage, in «Boston Journal of Natur. Hist.», v, 1845-1847). I maschi più giovani, così scacciati, si faranno a loro volta un dovere, quando saranno finalmente riusciti a trovare una femmina, di impedire le unioni sessuali tra i membri della stessa famiglia». Atkinson sembra essere stato il primo a riconoscere che le condizioni che il Darwin attribuisce all'orda primitiva non potevano, in pratica, che favorire l'esogamia per i giovani maschi. Ognuno degli scacciati poteva fondare un'orda simile, all'interno della quale la proibizione di relazioni sessuali era assicurata e mantenuta dalla gelosia del capo; nessun rapporto sessuale tra i membri della stessa orda. Dopo l'introduzione del totemismo, questa regola si è trasformata nell'altra: nessun rapporto sessuale all'interno del totem.

A. Lang si è associato a questa spiegazione dell'esogamia. Ma nella stessa opera egli si dimostra seguace dell'altra teoria (quella del Durkheim) che vede nell'esogamia una conseguenza delle leggi totemiche. Non è facile conciliare i due punti di vista; per il primo, l'esogamia sarebbe esistita prima del totemismo; per il secondo, ne sarebbe l'effetto.( «If it be granted that exogamy existed in practice, on the lines of Mr. Darwin's theory, before the totem beliefs lent to the practice a sacred sanction, our task is relatively easy. The first practical mie would be that of the jealous sire, "No males to touch the females in my camp", with expulsion of adolescent sons. In efflux oftime that rule, become habitual, would be, "No marriage within the local group". Next, let the locai groups receive names, such as Emus, Crows, Opossums, Snipes, and the rule becomes, "No marriage within the local group of animal name: no Snipe to marry Snipe". But if the primal groups were not exogamous, they would become so, as soon as totemic myths and tabus were developped out of the animal, vegetable, and other names of small local groups». Secret of the Totem, p. 143. Nelle sue ultime parole in proposito («Folk-Lore», dicembre 1911) A. Lang dice d'altronde che ha rinunciato all'idea di dedurre l'esogamia dal general totemic tabù.) [«Se è vero che l'esogamia, secondo la teoria darwiniana, di fatto esistesse prima che le credenze totemiche avessero introdotto nella pratica una sanzione sacra, il nostro compito viene relativamente facilitato. La prima regola pratica sarebbe allora quella del geloso capo dell'orda: "Nessun maschio deve toccare una femmina nel mio campo", rinforzata dall'espulsione degli adolescenti. Col tempo, questa regola, divenuta abituale, avrebbe preso questa forma: "Niente matrimoni all'interno del gruppo". In seguito i gruppi locali assunsero nomi come Emù, Corvo, Opossum, Beccaccia, e la regola divenne: "Niente matrimoni all'interno del gruppo distinto dal nome dello stesso animale: niente matrimonio tra una beccaccia ed una beccaccia". Ma se i gruppi primitivi non erano esogamici, lo sono dovuti diventare da quando i nomi di animali, di vegetali, ecc., con cui venivano designati i piccoli gruppi locali hanno dato origine ai miti ed ai tabù totemici»].

3.

L'esperienza psicoanalitica getta un po' di luce in questa oscurità.

L'atteggiamento del bambino presenta numerose analogie con quello del primitivo nei confronti degli animali. Il bambino non prova ancora l'orgoglio proprio all'adulto civilizzato che traccia una netta linea di demarcazione tra sé e tutti gli altri rappresentanti del regno animale. Egli considera senz'altro l'animale un suo uguale; per la franca e sincera ammissione dei suoi bisogni, egli si sente più vicino all'animale che all'uomo adulto, il quale gli appare senza dubbio più enigmatico.

In questo perfetto accordo tra il bambino e l'animale, subentra talvolta un singolare sconvolgimento. Tutt'a un tratto il bambino comincia ad aver paura di certi animali e a fuggire il contatto e perfino la vista di tutti gli esemplari di una data specie. Si assiste allora alla produzione del quadro clinico della zoofobia, una delle malattie psiconevrotiche più frequenti a quest'età e, forse, la prima forma di queste malattie. In genere la fobia riguarda animali per i quali fino ad allora il bambino aveva dimostrato il più vivo interesse e non ha nessun rapporto con il singolo animale. Nella città la scelta degli animali che possono divenire oggetto di fobia è abbastanza limitata. Sono cavalli, cani, gatti, più raramente uccelli, molto spesso animaletti piccolissimi come gli scarabei e le farfalle. Talvolta sono animali che il bambino conosce solo dai suoi album illustrati o dalle favole che gli sono state raccontate; essi divengono l'oggetto dell'irragionevole e smisurata angoscia che accompagna queste fobie. Di rado si riesce a scoprire quale avvenimento abbia provocato la scelta dell'animale oggetto della fobia. Devo a K. Abraham l'informazione di un caso in cui il bambino stesso ha spiegato la sua paura delle vespe dicendo che il colore e le striature del corpo di quell'insetto gli facevano pensare alla tigre, animale di cui, secondo quanto aveva sentito dire, bisogna aver paura.

Le zoofobie dei bambini non hanno ancora costituito oggetto di un attento esame analitico, sebbene certamente lo meritino. Ciò si spiega con le difficoltà che presenta l'analisi di bambini molto piccoli. Così non si potrebbe dire di conoscere il significato generale di queste malattie, ed io non credo possa trattarsi di un significato comune a tutti gli ammalati. Tuttavia, alcuni casi di fobia di grossi animali si sono mostrati accessibili all'analisi, ed hanno rivelato il loro mistero. Si trattava in tutti i casi della stessa cosa: quando i bambini esaminati erano maschi, l'angoscia era ispirata dal padre ed era solo stata spostata sull'animale.

Tutti coloro che hanno una certa familiarità con la psicoanalisi hanno certamente notato casi di questo genere e ricevuto la stessa impressione. Tuttavia le pubblicazioni esaurienti su questo argomento non sono affatto numerose. Però la mancanza riguarda solo la letteratura e si sbaglierebbe traendone la conclusione che la nostra affermazione si basi solo su osservazioni isolate. Citerò, ad esempio, un autore che si è occupato in modo intelligente delle nevrosi infantili, il dottor Wulff di Odessa. A proposito della storia clinica di un ragazzo di nove anni, egli racconta che questo giovane ammalato a quattro anni soffrì di fobia dei cani. Quando per la strada vedeva un cane che correva verso di lui, si metteva a piangere e a gridare: «Cagnetta caro, non mordermi, sarò buono». Per essere buono intendeva non suonare mai più il violino (cioè non masturbarsi più).

Lo stesso autore riassume poi il caso in questo modo: «La sua fobia dei cani non è altro, in fondo, che la paura del padre che è stata spostata sui cani, perché la strana esclamazione: "cane, sarò buono" (cioè "non mi masturberò") è in realtà rivolta a suo padre che gli ha proibito la masturbazione». L'autore aggiunge poi in una nota qualcosa che concorda perfettamente con le mie osservazioni, e nello stesso tempo attesta l'abbondanza di questi casi: «Credo che queste fobie (fobie di cavalli, di cani, di gatti, di polli e di altri animali domestici) nel bambino siano almeno tanto frequenti quanto il pavor nocturnus ed all'analisi si rivelano sempre come dipendenti dallo spostamento su di un animale della paura di uno dei genitori. Deriverebbe dallo stesso meccanismo la tanto diffusa fobia dei topi e dei ratti? Non saprei affermarlo».

Nel primo volume dello Jahrbuch für psychoanalytische und psychopathologische Forschungen, ho pubblicato l’Analisi della fobia di un bambino di cinque anni, il cui materiale era stato messo a mia disposizione dal padre del piccolo paziente.

Il bambino aveva una fobia per i cavalli, tanto forte che si rifiutava di uscire in strada. Egli temeva di vedere il cavallo entrare nella sua camera per morderlo. In seguito risultò che in tutto ciò egli vedeva un castigo per la caduta (la morte) che egli augurava al cavallo. Quando al bambino fu tolta la paura che provava davanti al padre, ci si accorse che egli aveva lottato contro il desiderio dell'assenza (la partenza, la morte) del padre. Nel padre, come fece chiaramente intendere, egli vedeva un rivale che gli contendeva l'affetto della madre, verso la quale erano vagamente diretti i suoi impulsi sessuali. Di conseguenza, egli si trovava nella tipica situazione del bambino maschio, situazione che noi definiamo come complesso d'Edipo e nella quale riconosciamo il complesso centrale delle nevrosi. Il fatto nuovo che l'analisi del piccolo Hans ci ha rivelato è molto interessante dal punto di vista della spiegazione del totemismo: il bambino ha chiaramente spostato su di un animale parte dei suoi sentimenti per il padre.

L'analisi ha permesso di scoprire i nessi associativi, sia quelli più significativi dal punto di vista del contenuto sia quelli occasionali, che danno luogo ad un simile spostamento. L'odio sorto dalla rivalità con il padre non si è potuto liberamente esplicare nella vita psichica del bambino, perché neutralizzato dall'affetto e dall'ammirazione che per quella stessa persona egli aveva sempre provato. Il bambino viene perciò a trovarsi in una situazione equivoca, ambivalente, nei confronti del padre, una lotta a cui si sottrae spostando i suoi sentimenti di ostilità e di paura su di un oggetto sostitutivo. Ma questo spostamento non è in grado di risolvere il conflitto tracciando una netta distinzione tra sentimenti affettuosi e sentimenti ostili. In seguito allo spostamento il conflitto viene ripreso nei confronti dell'oggetto sostitutivo: l'ambivalenza lo investe. Certamente il piccolo Hans non prova solo paura per i cavalli, ma anche rispetto ed interesse. Appena la sua paura è diminuita, si è egli stesso identificato con l'animale temuto, e mettendosi a saltare come un cavallo, è lui a mordere suo padre. In un'altra fase risolutiva della fobia, egli identifica facilmente i suoi genitori con altri grossi animali.

In queste zoofobie dei bambini non si può non riconoscere, in forma negativa, alcuni aspetti del totemismo. Dobbiamo però a S. Ferenczi la bella e rara osservazione di un caso che si può considerare come una manifestazione di un totemismo positivo in un bambino. Nel piccolo Arpad, di cui il Ferenczi ci narra la storia, le tendenze totemiche non si destano in diretto rapporto col complesso d'Edipo, ma indirettamente, in rapporto all'elemento narcisistico di questo complesso, alla paura della castrazione. Ma, riferendoci alla storia precedente, quella del piccolo Hans, ugualmente vi si trovano numerose prove dell'ammirazione che il bambino provava per li padre, che possedeva un grande organo genitale, e in cui vedeva una minaccia per i propri genitali. Nel complesso d'Edipo, come nel complesso di castrazione, il padre svolge la stessa parte, quella del temuto rivale negli interessi sessuali infantili. La castrazione o l'accecamento, queste sono le punizioni da lui minacciate.

Quando il piccolo Arpad aveva due anni e mezzo volle, un giorno che era in campagna, urinare nel pollaio; un gallo lo beccò, o cercò di beccargli il membro. L'anno dopo, tornato nello stesso luogo, immaginò di essere egli stesso un gallo. S'interessò solo al pollaio e a tutto ciò che vi accadeva e cambiò il suo linguaggio umano in schiamazzi da pollaio. All'epoca cui si riferisce l'osservazione (egli aveva allora cinque anni), aveva riacquistato il suo linguaggio, ma parlava solo di polli e di altri volatili. Non conosceva nessun altro giocattolo e cantava solo canzoni in cui si parlava di volatili. II suo atteggiamento nei confronti del suo animale totem era nettamente ambivalente: odio ed amore eccessivi. Il suo passatempo preferito era fingere d'ammazzare polli.

«Uccidere polli era per lui una vera festa. Era capace di ballare per ore intorno ai cadaveri dei polli, in preda ad una grande eccitazione». Poi si metteva a baciare ed accarezzare la bestia ammazzata, a pulire e lisciare il giocattolo che prima aveva maltrattato.

Il piccolo Arpad aveva egli stesso cura di non lasciare nessun dubbio sul significato del suo strano comportamento. A volte esprimeva i suoi desideri trasponendo il linguaggio totemico in quello della vita quotidiana. «Mio padre è il gallo», disse una volta. «Ora io sono piccolo, sono un pulcino, ma quando sarò più grande, diventerò un pollo, e quando sarò più grande ancora, diventerò un gallo». Un'altra volta desiderò improvvisamente mangiare della «mamma lessa» (per analogia col pollo lesso). Molto spesso minacciava gli altri di castrazione, essendone lui stesso stato minacciato per la masturbazione del suo membro.

Quanto alla ragione dell'interesse che egli provava per tutto ciò che accadeva nel pollaio, non c'era, per il Ferenczi, il minimo dubbio: «I frequenti rapporti sessuali fra il gallo e la gallina, la deposizione delle uova e la nascita del pulcino» soddisfacevano la sua curiosità sessuale che, in realtà, era rivolta a quanto accadeva nella vita familiare umana. Conformando gli oggetti dei suoi desideri secondo quanto aveva visto nel pollaio, un giorno disse ad una vicina: «Io la sposerò, lei e sua sorella e le mie tre cugine e la cuoca... No, anzi, la mamma invece della cuoca».

Più in là completeremo l'esame di queste osservazioni. Accontentiamoci per il momento di rilevare due punti di analogia tra il nostro caso ed il totemismo: la completa a identificazione con l'animale totemico e l'atteggiamento ambivalente nei suoi confronti. Basandoci su queste osservazioniii, crediamo di poter sostituire, nella formula del totemismo (quuando si tratta di un maschio), il padre all'animale totemico. Ma,a, operata questa sostituzione, ci accorgiamo di non essere affatto progrediti, e, soprattutto, di non aver fatto nessun passo particolarmente azzardato. I primitivi stessi ci dicono quanto noi crediamo di aver scoperto, e ovunque ancora vige il sistema totemico il totem è considerato antenato e padre primario. Tutto ciò che abbiamo fatto è aver preso alla lettera un'affermazione di questi popoli, di cui gli etnologi non sapevano cosa fare e avevano perciò trascurata. Viceversa, la psicoanalisi ci porta a mettere in evidenza proprio questo punto e a riallacciarvi un tentativo di spiegazione del totemismo. (Devo a O. Rank la comunicazione di un caso di fobia dei cani di un giovane intelligente, la cui spiegazione richiama da vicino la teoria totemica degli Arunta, prima ricordata. Egli credeva di aver appreso dal padre che sua madre, durante la gravidanza, era stata spaventata da un cane.)  Il primo risultato che ricaviamo da questa sostituzione è molto interessante: i fondamentali comandamenti del totemismo, le due prescrizioni che ne costituiscono il nocciolo, cioè la proibizione di uccidere il totem e quella di sposare una donna dello stesso totem, coincidono, nel contenuto, con i due crimini di Edipo, che ha ucciso il padre e ha sposato la madre, e con i primi desideri del bambino, la cui insufficiente rimozione o il cui risveglio costituiscono forse il nocciolo di tutte le nevrosi. Se questa analogia non è un semplice gioco del caso, essa ci permette di scoprire la remotissima origine del totemismo. In altre parole, noi riusciremo a dimostrare che il sistema totemico è sorto dalle condizioni del complesso di Edipo, proprio come la zoofobia del «piccolo Hans» e la perversione del «piccolo Arpad». Per dimostrare ciò, esamineremo, nelle pagine seguenti, una particolarità del sistema totemico, o, potremmo dire, della religione totemica, di cui non abbiamo ancora parlato.

4.

W. Robertson Smith (morto nel 1894), fisico, filologo, critico della Bibbia e archeologo, spirito universale, acuto, spregiudicato, nella sua opera sulla religione dei Semiti, pubblicata nel 1889, ha espresso l'opinione che una strana cerimonia, il cosiddetto banchetto totemico, facesse fin dalle origini parte integrante del sistema totemico. Egli aveva a disposizione, come fondamento della sua ipotesi, solo una descrizione del rito, tramandata dal v secolo dopo C, ma seppe tuttavia renderla verosimile con l'analisi del sacrificio presso gli antichi Semiti. Poiché il sacrificio presuppone una divinità, si trattava di risalire da una fase relativamente evoluta di rituale religioso a quella più primitiva, il totemismo.

Tenterò adesso di riportare, dall'eccellente lavoro del Robertson Smith, i passi più interessanti, relativi all'origine ed al significato del rito del sacrificio, trascurando i particolari spesso pieni di fascino e l'ulteriore sviluppo di questo rito. Devo avvertire il lettore di non aspettarsi di trovare, nel mio riassunto, la lucidità e l'efficacia dimostrativa dell'esposizione originale.

Robertson Smith dimostra che il sacrificio sull'altare costituiva la parte essenziale del rito delle religioni antiche. Esso aveva la stessa importanza in tutte le religioni, sicché la sua esistenza può essere spiegata con cause generalissime e che dappertutto esercitano la stessa azione.

Il sacrificio, l'atto sacro per eccellenza (sacrificium), in origine non aveva tuttavia il significato che ha poi acquistato nelle epoche successive: un'offerta fatta alla divinità per placarla e renderla propizia. (L'uso non religioso del termine è fondato sul suo significato secondario, quello di rinuncia.) Tutto porta a pensare che in origine il sacrificio non fosse altro che «atto di unione 72 sociale tra la divinità e i suoi adoratori», di comunione tra i fedeli e il loro Dio.

Si offrivano in sacrificio cibi e bevande, l'uomo sacrificava al suo dio ciò di cui egli stesso si nutriva: carne, cereali, frutti, vino, olio. Non c'erano limitazioni ed eccezioni, tranne che per quanto riguarda le carni sacrificabili. Gli animali offerti in sacrificio venivano consumati insieme dal dio e dai suoi adoratori; solo i sacrifici vegetali erano esclusivamente riservati al dio. È certo che i sacrifici di animali sono i più antichi e che a un tempo sono stati i soli. Il sacrificio di vegetali è sorto dall'usanza di offrire le primizie di tutti i frutti e rappresentava un tributo della terra e del paese al suo signore. Ma i sacrifici di animali sono anteriori all'agricoltura.

Alcune sopravvivenze linguistiche dimostrano con certezza che in origine la parte del sacrificio destinata al dio era considerata come suo reale nutrimento. Con la progressiva smaterializzazione della natura divina, questa concezione parve sconveniente; si tentò di evitarla tributando alla divinità solo la parte liquida del banchetto. In seguito, l'uso del fuoco, che dissolveva in fumo la carne della vittima, ha reso possibile una manipolazione del cibo umano più degna dell'essenza divina. Come bevanda, in origine veniva offerto il sangue degli animali sacrificati, in seguito sostituito dal vino. Il vino era considerato dagli antichi come il «sangue della vigna»: è il nome che ancora gli danno i poeti dei nostri giorni.

La più antica forma del sacrificio, anteriore all'agricoltura e all'uso del fuoco, è dunque rappresentata dal sacrificio animale, la cui carne e il cui sangue venivano consumati insieme dal dio e dai suoi adoratori. Era importante che ogni partecipante ricevesse la sua parte del banchetto.

Questo sacrificio era una cerimonia ufficiale, una festa celebrata da tutto il clan. La religione era in generale qualcosa che riguardava tutti, il dovere religioso era un obbligo sociale. Presso tutti i popoli sacrificio e festa coincidevano, ogni sacrificio comportava una festa, e non c'era festa senza sacrificio. Il sacrificio-festa era una gioiosa occasione per elevarsi al di sopra degli interessi propri e di riaffermare i vincoli che legavano i partecipanti tra di loro, e quelli che li legavano alla divinità.

La forza etica del banchetto sacrificale pubblico si fondava su antichissime concezioni del significato dell'atto del mangiare e del bere in comune. Mangiare e bere insieme era nello stesso tempo un simbolo e un rinvigorimento della comunanza sociale e degli obblighi reciproci; il banchetto nel sacrificio esprimeva direttamente il fatto della commensalità del dio e dei suoi adoratori, e questa commensalità implicava tutti gli altri rapporti che si supponeva esistessero tra quello e questi. Alcune usanze ancor oggi vigenti tra gli Arabi del deserto dimostrano che il banchetto in comune costituiva un legame, non per un motivo religioso, ma realmente per l'atto stesso del mangiare. Chiunque abbia diviso con un beduino un boccone o bevuto un sorso del suo latte, non deve più temere la sua inimicizia, ma può essere sempre sicuro del suo aiuto e della sua protezione, almeno per tutto il tempo che il cibo consumato insieme resta nel corpo. Il legame della comunanza è dunque concepito in modo puramente realistico; perché questo legame sia rinforzato e permanga, bisogna che l'atto venga spesso ripetuto.

Ma da dove proviene questa forza unificatrice che si attribuisce all'atto di mangiare e bere insieme? Nelle società più primitive c'è solo legame assoluto ed incondizionato, la comunanza di clan (Kinship). I suoi membri sono solidali tra di loro; un Kin è un gruppo di persone la cui vita forma una così intima unità fisica che ciascuna di esse può essere considerata un frammento di una vita comune. Quando un membro del Kin viene ucciso, non si dice: «Il sangue del tale è stato versato», ma «il nostro sangue è stato versato». La frase ebraica con la quale si definisce l'identità di stirpe dice: «Tu sei ossa delle mie ossa e carne della mia carne». Dunque Kinship significa far parte di una sostanza comune. Così la Kinship non è solo fondata sul fatto che l'individuo è una parte della sostanza della madre da cui è nato e del latte del quale si è nutrito, ma anche sulla possibilità d'essere acquisita e rinvigorita dal successivo nutrimento con cui il corpo si rinnova. Dividendo il pasto col proprio dio, si esprime la convinzione di essere fatti della sua stessa sostanza, e non si divide mai il pasto con chi è considerato un estraneo.

Dunque in origine il banchetto del sacrificio era un banchetto solenne che riuniva tutti i membri del clan o della tribù, secondo la legge per cui solo i membri del clan potevano mangiare insieme. Nella nostra società moderna, il pasto riunisce i membri della famiglia; ma il banchetto del sacrificio non riguarda affatto la famiglia. La Kinship è un'istituzione più antica della vita familiare; le più antiche famiglie di cui siamo a conoscenza si compongono generalmente di persone che appartengono a differenti gradi di parentela. Gli uomini sposano donne che fanno parte di altri clan; i figli seguono il clan della madre; non c'è nessuna parentela tribale tra l'uomo e gli altri membri della famiglia.

In una famiglia non c'è il pasto in comune. Ancora oggi i primitivi mangiano separatamente e i divieti religiosi del totemismo riguardo a determinati cibi rendono spesso impossibile il pasto insieme alle mogli ed ai figli.

Occupiamoci ora dell'animale vittima del sacrificio. Sappiamo già che non c'era riunione della tribù senza sacrificio di un animale, ma neanche (e il fatto è significativo) sacrificio di un animale fuori di queste occasioni solenni. Ci si nutriva di frutta, di selvaggina, del latte di animali domestici, ma scrupoli religiosi proibivano di uccidere un animale domestico per proprio uso privato. È indubbio, dice Robertson Smith, che ogni sacrificio era in origine sacrificio collettivo del clan e che l'uccisione della vittima era un atto proibito all'individuo e che era giustificato solo quando la tribù ne assumeva la responsabilità. Vi è, tra i primitivi, una sola categoria di azioni di questa natura, quelle che riguardano il carattere sacro del sangue comune della tribù. Una vita che nessun individuo può togliere e che può essere sacrificata solo con il consenso, con la partecipazione di tutti i membri del clan, è allo stesso livello della vita dei membri della tribù. La regola che impone ad ogni convitato che partecipa al banchetto sacrificale di consumare la carne dell'animale sacrificato, ha lo stesso significato della prescrizione per cui un membro della tribù che si sia macchiato di una colpa dev'essere giustiziato dall'intera tribù. In altri termini, l'animale sacrificato era trattato come un membro della tribù; la comunità che offriva il sacrificio, il suo dio e l'animale erano dello stesso sangue, membri di un unico clan.

Basandosi su numerosi dati, Robertson Smith identifica l'animale sacrificato con l'antico animale totem. Vi erano nell'antichità due tipi di sacrifici: i sacrifici di animali domestici, che generalmente venivano mangiati, e sacrifici straordinari di animali che erano proibiti in quanto impuri. Un esame più approfondito rivela che questi animali impuri erano animali sacri, che venivano sacrificati agli dèi ai quali erano sacri, che in origine erano identici agli dèi stessi e che, offrendo il sacrificio, i fedeli mettevano in qualche modo in rilievo la parentela di sangue che li legava all'animale e al dio. Questa differenza tra sacrifici ordinari e sacrifici mistici in tempi più antichi non esiste ancora. In origine tutti gli animali (sacrificati) sono sacri: è proibito cibarsi della loro carne, salvo che in occasioni solenni e con la partecipazione di tutta la tribù. L'uccisione dell'animale equivale a versare sangue tribale e può essere compiuta solo con le stesse cautele e le stesse garanzie contro ogni possibile rimprovero.

L'addomesticamento degli animali e l'introduzione dell'allevamento sembrano aver significato dappertutto la fine del totemismo vero e proprio delle origini. («The inference is that the domestication to which totemism invariabty leads (when there are any animals capable of domestication) is fatal to totemism». jevons, An Introduction to the History of Religion, 1911, ed. v, p. 120.) [«La conseguenza è che l'addomesticamento, cui il totemismo porta inevitabilmente - se ci sono animali che possono essere addomesticati - è fatale al totemismo»].3 Ma le tracce del carattere sacro che si ritrova in queste religioni «pastorali» bastano a far riconoscere in questi animali gli antichi totem. Ancora nell'epoca classica abbastanza avanzata, in certe località il rito prescriveva al sacrificatore, dopo che aveva compiuto il sacrificio, di fuggire, come se dovesse sottrarsi ad un castigo. In Grecia doveva essere un tempo generalmente diffusa l'opinione che l'uccisione di un bue fosse un vero crimine.

Nelle feste ateniesi delle «bufonie», al sacrificio seguiva un processo, con l'interrogatorio di tutti coloro che vi avevano preso parte. Finalmente ci si metteva tutti d'accordo nel senso di attribuire la colpa al coltello, che veniva gettato in mare.

Malgrado il timore che proteggeva la vita dell'animale sacro come fosse un membro della tribù, di tanto in tanto s'imponeva la necessità di sacrificarlo solennemente in presenza di tutta la comunità e di distribuire la sua carne ed il suo sangue ai membri della tribù. La ragione che ispirava queste azioni ci rivela il significato più profondo del sacrificio. Sappiamo che, in epoche più tarde, ogni pasto in comune, il condividere la stessa sostanza che penetra poi nei corpi creava tra i commensali un legame sacro, ma in epoche più antiche questo significato veniva attribuito solo all'assunzione in comune della carne di una vittima sacra. Il sacro mistero della morte sacrificale si spiega col fatto che solo così si può stabilire il legame che unisce i partecipanti tra di loro e al loro dio.

Questo legame non è altro che la vita stessa dell'animale sacrificato, questa vita che si trova nella sua carne, nel suo sangue, e nel banchetto del sacrificio si comunica a tutti coloro che vi prendono parte. Questa concezione è alla base di tutti i legami di sangue che gli uomini stabiliscono gli uni con gli altri, anche in epoche abbastanza recenti. La realistica concezione che vede nella comunanza di sangue un'identità di sostanza fa capire perché di tanto in tanto si ritenesse necessario rinnovare questa identità attraverso il procedimento puramente fisico del banchetto del sacrificio.

A questo punto interrompiamo il ragionamento di Robertson Smith, per riassumerne più brevemente possibile la sostanza. Quando sorse la concezione della proprietà privata, il sacrificio venne concepito come un dono fatto alla divinità, come la consegna a questa di una cosa appartenente all'uomo. Ma questa interpretazione lasciava inesplicate tutte le particolarità del rituale del sacrificio. In epoche molto antiche, l'animale era sacro, la sua vita intangibile, e poteva essergli tolta solo con la partecipazione e sotto la comune responsabilità di tutta la tribù, in presenza del dio, perché, assimilando la sua sacra sostanza, i membri del clan riaffermassero l'identità materiale che credevano li unisse tra di loro ed alla divinità. Il sacrificio era un sacramento, la vittima un membro del clan. In realtà, è attraverso l'uccisione e la consumazione dell'antico animale totem, del dio primitivo stesso, che i membri del clan rinnovano e rinvigoriscono la loro intima comunione con la divinità, per restare sempre simili ad essa.

Da quest'analisi del sacrificio, Robertson Smith trasse la conclusione che, nelle epoche precedenti al culto delle divinità antropomorfe, l'uccisione e la consumazione periodica del totem costituissero un elemento molto importante della religione totemica. Egli ritiene che il cerimoniale di un banchetto totemico di questo tipo si trovi nella descrizione di un sacrificio di epoca posteriore. San Nilo parla di un sacrificio dei beduini del deserto del Sinai, verso la fine del iv secolo dopo Cristo. La vittima, un cammello, veniva legata e stesa su di un rozzo altare di pietra; il capo della tribù faceva girare per tre volte i partecipanti intorno all'altare, cantando, dopodiché inferiva all'animale il primo colpo e beveva avidamente il sangue che sgorgava; poi, tutta la tribù si gettava sull'animale, ognuno asportava con la spada un pezzo della carne ancora palpitante e la divorava cruda, così rapidamente che nel breve intervallo tra lo spuntare della stella mattutina, cui il sacrificio era offerto, e l'impallidire dell'astro ai raggi del sole, tutta la vittima era consumata, dimodoché non restava né sangue, né pelle, né ossa, né interiora. Questo rito barbaro, che molto probabilmente risale ad epoca antichissima, non era certamente un'usanza isolata, in base alle testimonianze che possediamo, ma può essere considerato la generale forma primitiva del sacrificio totemico, che col tempo ha subito a poco a poco diverse attenuazioni.

Molti autori hanno esitato ad attribuire importanza alla concezione del banchetto totemico, perché essa non poteva venire confermata da osservazioni fatte su popoli in piena fase totemica. Lo stesso Robertson Smith si è però richiamato agli esempi in cui sembra accertato il carattere sacramentale dei sacrifici, per esempio nei sacrifici degli Aztechi e in altri che ricordano le condizioni del banchetto totemico, quali, ad esempio, i sacrifici di orsi nel clan dell'Orso tribù Ouatatouak in America, o le feste dell'orso presso gli Ainos del Giappone. Il Frazer ha descritto in modo particolareggiato questi casi ed altri simili nelle due parti di recente uscite della sua grande opera. Una tribù indiana della California, che venera un grande uccello da preda (il bozzago), tutti gli anni, nel corso di una solenne cerimonia, uccide un esemplare di questa specie, dopodiché l'uccello ucciso viene compianto, mentre la sua pelle e le sue piume vengono conservate. Gli indiani Zuni, del Nuovo Messico, si comportano nello stesso modo nei confronti della loro tartaruga sacra.

Nelle cerimonie Intichiuma delle tribù dell'Australia centrale, è stata osservata una particolarità che si accorda perfettamente con le ipotesi di Robertson Smith. Ogni clan che ha fatto ricorso a procedimenti magici per assicurare la moltiplicazione del suo totem (di cui esso non ha normalmente diritto di cibarsi), è tenuto, durante la cerimonia, a mangiare parte del suo totem prima che questo sia accessibile agli altri clan. Il più bell'esempio del pasto sacramentale di un totem, proibito in circostanze ordinarie, ci è fornito, secondo il Frazer, dai Bini dell'Africa occidentale e si collega al cerimoniale dei funerali presso queste tribù.

Noi aderiamo tuttavia all'opinione di Robertson Smith, per cui l'uccisione sacramentale e la consumazione in comune dell'animale totem, proibite in tempi normali, devono essere considerate caratteristiche molto significative della religione totemica.

5.

Immaginiamoci ora la scena di un banchetto totemico, aggiungendovi alcuni tratti probabili di cui in precedenza non abbiamo potuto tener conto. In un'occasione solenne, il clan uccide crudelmente il suo animale totem e lo divora crudo - carne, sangue, ossa; i membri del clan sono vestiti in modo da assomigliare al totem, di cui imitano i versi e i movimenti, come volessero mettere in risalto la loro identità con lui. C'è la coscienza di compiere un'azione che è proibita a ciascuno individualmente, ma che è giustificata dal momento in cui tutti vi prendono parte; d'altro lato, nessuno può sottrarvisi. Dopo che il fatto si è compiuto, l'animale ucciso viene compianto e rimpianto. Il pianto provocato da questa morte è imposto dal timore di un castigo ed ha soprattutto lo scopo, secondo l'osservazione di Robertson Smith riguardo ad un'occasione analoga, di sottrarre il clan alla responsabilità per l'uccisione compiuta. (Le obiezioni rivolte da molti autori  - Marillier, Hubert e Mauss ecc. -  contro questa teoria del sacrificio non mi sono ignote, ma non sono tali da modificare il mio atteggiamento nei confronti delle idee di Robertson Smith.)

Ma a questo lutto fa seguito la festa più strepitosa e più gioiosa, lo scatenarsi di tutti gli istinti e l'ammissione di ogni soddisfacimento. Qui vediamo veramente la natura, l'essenza della festa. È un eccesso permesso, quasi imposto, una solenne violazione d'un divieto. Gli uomini non commettono gli eccessi perché si rallegrano in virtù di una prescrizione; l'eccesso fa parte della natura stessa della festa; lo stato d'animo gioioso deriva dal permesso di fare ciò che in tempi normali è proibito.

Ma cosa significa il lutto in seguito alla morte dell'animale totem e che introduce questa festa gioiosa? Se si gioisce per l'uccisione del totem, un'azione normalmente proibita, perché allora lo si compiange?

Sappiamo che i membri del clan si santificano mangiando il totem, e rafforzano l'identità tra di loro e con lui. Lo stato d'animo gioioso e ciò che ne deriva potrebbe essere spiegato col fatto che gli uomini hanno assorbito la vita sacra di cui la sostanza del totem era l'incarnazione o, meglio, il veicolo.

La psicoanalisi ci ha rivelato che, in realtà, l'animale totem costituisce la sostituzione del padre, e questo ci spiega la contraddizione che prima avevamo notato: da un lato, il divieto di uccidere un animale; dall'altro, la festa, preceduta da un'esplosione di dolore, che fa seguito alla sua morte. L'atteggiamento affettivo ambivalente che, ancora oggi, caratterizza nei bambini il complesso del padre e talvolta si protrae fin nell'età adulta, nello stesso modo si estenderebbe all'animale totem che sostituisce il padre.

Ricollegando la concezione del totem suggerita dalla psicoanalisi con il banchetto totemico e con l'ipotesi darwiniana sullo stato primitivo della società umana, si può acquisire una più profonda comprensione e cogliere l'intuizione di un'ipotesi che può sembrare fantastica, ma presenta il vantaggio di realizzare un'inaspettata unità tra una serie di fenomeni isolati.

Ovviamente, la teoria del Darwin non accorda un posto alle origini del totemismo. Un padre violento, geloso, che tiene per sé tutte le femmine e scaccia i suoi figli man mano che crescono: ecco tutto ciò che essa suppone. Questo stato primitivo della società non è mai stato oggetto di analisi. L'organizzazione più primitiva di cui siamo a conoscenza, e che ancora attualmente esiste in certe tribù, consiste in una comunità di uomini che godono di uguali diritti e sono sottomessi alle limitazioni del sistema totemico, ivi compresa l'eredità in linea materna. Questa organizzazione potrebbe essere derivata da quella supposta dall'ipotesi darwiniana? Ed in che modo vi si sarebbe giunti? Basandoci sulla festa del banchetto totemico, possiamo rispondere così a questo interrogativo: un giorno (Le proposizioni finali della nota seguente permetteranno di comprendere l'esposizione che faremo e che, senza questo correttivo, sarebbe assai sorprendente per il lettore), i fratelli scacciati si sono riuniti, hanno ucciso e mangiato il padre, ponendo fine all'orda paterna. Una volta riuniti, si sono fatti audaci e sono stati in grado di realizzare ciò che ciascuno di loro, isolatamente, sarebbe stato incapace di fare. È possibile che un nuovo processo della civilizzazione, l'invenzione di una nuova arma, abbia dato loro la coscienza della loro superiorità. Che essi abbiano mangiato il cadavere del padre non ci stupisce, dato che si tratta di primitivi cannibali. Il violento progenitore costituiva certamente il modello invidiato e temuto di ciascuno dei membri di questa associazione fraterna. Essi realizzavano, con l'atto del pasto, la loro identificazione con lui, ciascuno si appropriava di parte della sua forza. Il banchetto totemico, che è forse la prima festa dell'umanità, sarebbe la riproduzione e come la commemorazione di questa azione memorabile e criminale che ha costituito il punto di partenza per tante cose: organizzazioni sociali, limitazioni morali, religioni. (

L'ipotesi apparentemente mostruosa del rovesciamento e dell'uccisione del padre tirannico da parte dei figli scacciati e associatisi tra di loro sarebbe, secondo atkinsons, una diretta conseguenza delle condizioni dell'orda primitiva, come la vede il Darwin: «A youthful band of brothers living together in forced celibacy, or at most in potyandrous relation with some single female captive. A horde as yet weak in their impubescence they are, but they would, when strength was gained with time, inevitably wrench by combined attacks renewed again and again, both wife and life from the patemal tyrant». [«Un gruppo di giovani fratelli, che vivono insieme in regime di forzato celibato o, tutt'al più, in relazioni poliandriche con una sola femmina prigioniera. Un'orda debole, per l'immaturità dei suoi membri, ma che, quando avrà col tempo acquisito una forza sufficiente, il che è inevitabile, finirà per liberare, con attacchi combinati e continuamente ripetuti, sia la femmina sia la propria vita dalla tirannide paterna»]. (Frimai Law, pp. 220-21). atkinsons, che ha passato la vita nella Nuova Caledonia, dove potè comodamente studiare gli indigeni, si richiama al fatto che le condizioni dell'orda primitiva supposte dal Darwin possono essere facilmente osservate nelle mandrie di buoi e di cavalli e portano inevitabilmente all'uccisione del padre. Egli suppone che in seguito all'uccisione del padre si verifica la disgregazione dell'orda, per le lotte accanite che insorgono tra i figli vittoriosi. In simili condizioni non si arriverebbe mai ad una nuova organizzazione della società. «An ever recurring violent succession to the solitary patemal tyrant by sons, whose parricidal hands were so soon again clenched in fratricidal strife». [«I figli succedono con la violenza al tirannico padre e ben presto rivolgono la loro violenza gli uni contro gli altri, per consumarsi nella lotta fratricida»], p. 228. atkinsons, che non aveva a disposizione i dati della psicoanalisi e che non conosceva gli studi di Robertson smith, trova una fase di transizione meno brusca tra l'orda primitiva ed il successivo stadio sociale, rappresentata da una comunità in cui molti uomini vivono tranquillamente insieme. L'amore materno, secondo lui, avrebbe ottenuto che prima i figli più giovani, poi gli altri restino nell'orda, dove riconoscono il privilegio sessuale del padre, rinunciando ad ogni desiderio nei confronti della madre e delle sorelle. Questa è, in un breve riassunto, la teoria dell'Atkinson, che, nei punti essenziali, concorda con la mia; ma le sue divergenze lo costringono a rinunciare ad utilizzare tanti altri dati. L'indecisione, l'abbreviazione del fattore tempo e la concisione dei dati riportati in queste considerazioni mi sono state imposte dalla natura stessa del soggetto. Sarebbe assurdo ricercare l'esattezza in queste materie, come sarebbe ingiusto ricercarvi la certezza.)

 Per trovare attendibili queste conseguenze, a prescindere dalle loro premesse, è sufficiente riconoscere che il gruppo dei fratelli ribelli fosse animato, nei confronti del padre, dai sentimenti contraddittori che, come sappiamo, costituiscono l'ambivalente contenuto del complesso del padre nei nostri bambini e nelle nevrosi. Essi odiavano il padre, che, con tanta violenza, si opponeva ai loro desideri e alle loro esigenze sessuali, e tuttavia l'amavano e l'ammiravano. Dopo averlo eliminato, dopo aver placato il loro odio e realizzato la propria identificazione con lui, essi dovettero dar sfogo agli impulsi affettuosi che erano stati sopraffatti. (Questo atteggiamento affettivo dev'essere stato ancora favorito dal fatto che l'azione omicida non poteva soddisfare pienamente nessuno dei complici. Era un'azione sotto certi aspetti inutile. Nessuno dei figli poteva realizzare il suo primitivo desiderio di prendere il posto del padre. L'insuccesso, come sappiamo, favorisce una reazione morale molto più di quanto non lo faccia il successo.)

Lo fecero sotto forma di pentimento; provavano un senso di colpa che in questo caso coincide col rimorso sentito collettivamente. Il morto divenne più potente del vivo; tutte cose che anche oggi ritroviamo nelle vicende umane. Ciò che prima il padre aveva impedito con la sua presenza, i figli ora se lo proibivano da soli, nella situazione psichica nota in psicoanalisi come «ubbidienza postuma». Essi rinnegarono la loro azione, proibendo la uccisione del totem, sostituto del padre, e rinunciarono a goderne i frutti, rifiutando di aver rapporti sessuali con le donne che ora erano libere. Così il rimorso filiale ha generato i due tabù fondamentali del totemismo che coincidono perciò con i due desideri rimossi del complesso di Edipo. Chi contravveniva a questi tabù si rendeva colpevole dei due soli crimini che interessassero la società primitive («Murder and incesi, or offences of a like kind against the sacred laws of blood are in primitive society the only crimes of which the community as such takes cognizance...» [«Omicidio ed incesto, ed altre simili violazioni della sacra legge del sangue; questi sono, nelle società primitive, i due soli crimini di cui la comunità come tale abbia coscienza»]. Smith, cit., p. 419.)

I due tabù del totemismo coi quali comincia la morale umana non hanno lo stesso valore psicologico. Solo l'atteggiamento di rispetto nei confronti dell'animale totem si basa esclusivamente su motivi affettivi: il padre è morto e, stando così le cose, praticamente non c'è più niente da fare. Ma l'altro tabù, la proibizione dell'incesto, aveva anche una grande importanza pratica. L'esigenza sessuale non unisce gli uomini, anzi li divide. Se i fratelli si erano uniti quando si trattava di uccidere il padre, divenivano però rivali quando si trattava d'impadronirsi delle donne. Ciascuno di loro le avrebbe volute tutte per sé, come il padre, e la lotta generale che ne sarebbe derivata avrebbe portato alla rovina della piccola società. Non c'era più un uomo, superiore a tutti gli altri, che potesse assumersi la parte che era stata del padre. Cosicché i fratelli, se volevano vivere insieme, avevano una sola possibilità: dopo aver probabilmente superato gravi discordie, istituirono il divieto dell'incesto, per cui tutti loro rinunciarono alle donne tanto desiderate, che avevano appunto costituito il motivo dell'uccisione del padre. Così essi salvarono l'organizzazione che li aveva resi forti e che era probabilmente basata su sentimenti e pratiche omosessuali acquisiti al tempo del loro esilio. Fu forse questa situazione a far sorgere le istituzioni del matriarcato, descritto dal Bachofen, rimasto in vigore fino all'organizzazione della famiglia patriarcale.

Invece nell'altro tabù, quello che proteggeva la vita dell'animale totem, possiamo scorgere le ragioni per cui il totemismo può essere considerato il primo tentativo di una religione. Se i figli vedevano nell'animale il logico e naturale sostituto dal padre, nel comportamento che era loro imposto nei suoi confronti potevano esprimere qualcosa di più che il semplice bisogno di manifestare il proprio pentimento. Potevano tentare, con questo comportamento, di mitigare il senso di colpa da cui erano tormentati, di realizzare una specie di riconciliazione con il padre. Il sistema totemico era una specie di contratto concluso col padre, per cui questi prometteva tutto ciò che l'immaginazione infantile poteva desiderare da lui, protezione, cura e benevolenza, in cambio dell'impegno di rispettare la sua vita, cioè di non ripetere su di lui l'atto che aveva ucciso il vero padre. Nel totemismo c'era anche un tentativo di giustificazione. «Se il padre ci avesse trattati come noi trattiamo il totem, non saremmo mai stati tentati di ucciderlo». Così il totemismo serviva a spianare le cose e a far dimenticare l'episodio da cui aveva tratto origine.

Sono apparsi allora dei caratteri che si ritroveranno in ogni religione. La religione totemica è sorta dal senso di colpa dei figli come un tentativo per acquietare questo sentimento e per ottenere la riconciliazione col padre ucciso con un'ubbidienza postuma. Tutte le religioni successive sono altrettanti tentativi per risolvere lo stesso problema, e differiscono tra di loro solo a seconda dello stato di civilizzazione in cui sono sorte e della strada seguita per trovare questa soluzione: ma tutte rappresentano delle reazioni contro il grande avvenimento da cui è iniziata la civilizzazione e che da allora non ha cessato di tormentare l'umanità.

Già a questo punto il totemismo presenta un altro aspetto che da allora la religione ha fedelmente conservato. La tensione ambivalente era troppo forte perché se ne potesse assicurare l'equilibrio con una qualsiasi organizzazione, come anche le condizioni psicologiche non erano in genere favorevoli all'eliminazione di queste contraddizioni affettive. Si può constatare che l'ambivalenza inerente al complesso del padre sussiste sia in pieno totemismo che, in generale, nelle varie religioni. La religione del totem non comprende solo manifestazioni di pentimento e tentativi di riconciliazione, essa serve anche a ricordare il trionfo riportato sul padre. Ecco perché è stata istituita la festa commemorativa del banchetto totemico, in occasione della quale cadono tutte le limitazioni imposte dall'obbedienza postuma; allora si deve riprodurre, attraverso il sacrificio dell'animale totem, il crimine commesso sul padre, e questo avviene ogni volta che il beneficio del crimine, l'assimilazione, l'appropriazione delle qualità del padre minaccia di svanire sotto l'influenza di nuove condizioni d'esistenza. Non ci meraviglieremo trovando, anche nelle formazioni religiose successive, un qualcosa di provocatorio, una rivolta filiale anche se velata e dissimulata.

Interrompo a questo punto la mia analisi delle conseguenze che l'atteggiamento di affetto nei confronti del padre, trasformato poi in pentimento, ha prodotto nella religione e nel codice morale, ancora così poco differenziati, del totemismo. Voglio solo richiamare l'attenzione sul fatto che, tutto considerato, sono le tendenze che avevano spinto al parricidio a conservare il sopravvento. Da questo momento, le tendenze sociali di fraternità eserciteranno una profonda influenza sull'evoluzione della società. Troveranno espressione nella santificazione del sangue comune, nella formazione della solidarietà fra tutte le vite di cui si compone il clan. Così, garantendosi reciprocamente la vita, i fratelli s'impegnano a non trattare mai uno di loro come essi tutti hanno trattato il padre. Escludono che la sorte toccata al padre possa ripetersi per uno di loro. Al divieto (di natura religiosa) di uccidere il totem, si aggiunge ormai quello (di natura sociale) del fratricidio. Passerà ancora molto tempo prima che questo divieto, scavalcando i limiti del clan, assuma la semplice e breve forma del comandamento «Non uccidere». L'orda paterna è stata sostituita dal clan fraterno, fondato sui vincoli di sangue. La società si poggia su una colpa comune, su un crimine di cui tutti sono stati complici; la religione, sul senso di colpa e sul pentimento; la morale, sulla necessità di questa società, da una parte, sul bisogno di espiazione generato dal senso di colpa, dall'altra.

In contrasto con le più recenti concezioni del totemismo ed in conformità con quelle più antiche, la psicoanalisi ci rivela una stretta correlazione tra il totemismo e l'esogamia, ed attribuisce loro un'origine comune e contemporanea.

6.

Ho parecchie e valide ragioni per non esporre la successiva evoluzione delle religioni dalla loro origine nel totemismo fino al loro stato attuale. Voglio seguire per un poco solo due fini che risaltano particolarmente nell'intricata trama di quest'evoluzione: il motivo del sacrificio totemico e l'atteggiamento del figlio nei confronti del padre.

Robertson Smith ci ha mostrato che nella primitiva forma del sacrificio torna il banchetto totemico. Il significato dell'atto è lo stesso: la santificazione mediante la partecipazione al pasto comune; resta anche il senso di colpa, che può essere placato solo dalla solidarietà di tutti i partecipanti. L'elemento nuovo è rappresentato dalla divinità del clan che, invisibile, assiste al sacrificio e prende parte al banchetto, proprio come un compagno di tribù, e con la quale ci s'identifica partecipando tutti allo stesso atto. Come mai il dio si ritrova in questa situazione che in origine gli era estranea?

Si potrebbe rispondere che l'idea del dio, non si sa come, era sorta nel frattempo, si era impadronita di tutta la vita religiosa e che il banchetto totemico, come tutto ciò che volle sussistere accanto a lui, abbia dovuto adattarsi al nuovo sistema. Ma dall'esame psicoanalitico dell'individuo scaturisce con particolare evidenza che ciascuno conforma il proprio dio a immagine del padre, che l'atteggiamento di ciascuno nei confronti del dio dipende dal suo atteggiamento nei confronti del proprio padre carnale, varia e si trasforma come questo atteggiamento, e che in fondo il dio non è altro che un padre di un ordine più elevato. Anche in questo caso, come nel totemismo, la psicoanalisi ci consiglia di prestar fede al credente, quando egli parla del suo dio come di suo padre, così come gli abbiamo prestato fede quando parlava del totem come di un suo antenato. Se vogliamo tenere in considerazione i dati della psicoanalisi, dobbiamo ammettere che, a prescindere da altre possibili origini e da altri significati del dio su cui la psicoanalisi non è in grado di dare una spiegazione, l'elemento paterno ha una parte molto rilevante nell'idea di dio. Se questo è vero, il padre figurerebbe due volte nel sacrificio primitivo prima come dio, poi come animale del sacrificio; e per quanto siano limitate le soluzioni psicoanalitiche possibili, dobbiamo chiederci se quanto affermiamo è attendibile e, in caso affermativo, quale significato si debba attribuirgli.

Sappiamo che vi sono parecchi rapporti tra il dio e l'animale sacro (totem, animale del sacrificio): 1. in genere ad ogni dio è consacrato un animale, talvolta più di uno; 2. in certi sacrifici particolarmente solenni è proprio l'animale sacro al dio che gli viene offerto in sacrificio; il dio è spesso adorato e concepito in forma animale (o, da un punto di vista diverso, l'animale fu adorato come dio) molto dopo l'epoca del totemismo; 4. nel mito il dio si trasforma spesso in un animale, perlopiù nell'animale che gli è sacro. Sembrerebbe dunque naturale ammettere che il dio sia l'animale totem, dal quale si sarebbe originato in una successiva fase dell'evoluzione del sentimento religioso. Ma da ogni ulteriore discussione ci dispensa l'ammissione che il totem stesso non è che una rappresentazione sostitutiva del padre. Esso sarebbe dunque la prima forma di questo surrogato di cui il dio sarebbe la forma più avanzata, nella quale il padre ha ripreso una figura umana. Questa nuova creazione, nata dalla stessa radice di ogni formazione religiosa, cioè dalla nostalgia del padre, si è resa possibile solo in seguito a certi cambiamenti essenziali sopravvenuti nell'atteggiamento nei confronti del padre, e forse anche dell'animale.

È facile constatare questi cambiamenti, anche a prescindere dall'allontanamento psichico che si è verificato nei confronti dell'animale e dal decadere del totemismo per effetto dell'addomesticamento. («To us modems for whom the breach which divides the human and the divine as deepe-ned into an impassable gulfsuch mimicry may appear impious, but it was otherwise with the ancients. To their thinking gods and men were akin, for many families traced their descent from a divinity and the deìfication ofa man probably seemed as little extraordinary to them as the canonization ofa saint seems to a modem catholic». frazer, Golden Bough, 1. The Magic Art and the Evolution of King, II, p. 177. [«A noi moderni, che tra l'umano ed il divino abbiamo scavato un'insuperabile breccia, un tale adattamento può sembrare empio, ma per gli antichi le cose stavano diversamente. Per loro c'era una stretta parentela tra gli dèi e gli uomini, perché molte famiglie facevano risalire le loro origini ad una divinità, e la divinazione di un uomo indubbiamente appariva loro così poco straordinaria quanto ad un cattolico moderno la canonizzazione di un santo»].) Nella situazione creata con l'eliminazione del padre vi era un elemento che doveva, col tempo, portare ad uno straordinario rinvigorimento dell'amore per il padre. Ognuno dei fratelli che si erano uniti per compiere il parricidio doveva desiderare di divenire uguale al padre, e cercava di soddisfare questo desiderio assimilando, durante il banchetto totemico, parte dell'animale che ne rappresentava il surrogato. Ma questo desiderio doveva restare insoddisfatto, data la pressione che il clan fraterno esercitava su ciascuno dei suoi membri. Nessuno più poteva o doveva arrivare all'onnipotenza del padre, cui tutti aspiravano. Così, il risentimento nei confronti del padre, che aveva portato alla sua uccisione, col tempo svanì, per cedere il posto all'amore e ad un ideale di assoluta sottomissione a questo stesso padre primitivo che si era combattuto e di una sua illimitata potenza. A causa dei profondi cambiamenti sopravvenuti nello stato di civilizzazione, non potè più mantenersi la primitiva uguaglianza democratica di tutti i membri del clan; apparve allora la tendenza a ravvisare l'antico ideale paterno, elevando al rango di dèi individui che, per certe loro qualità, erano superiori agli altri. Che un uomo possa diventare un dio o che un dio possa morire, sono cose che a noi appaiono assurde, ma che l'antichità classica considerava ancora come assolutamente possibili e naturali. L'elevazione del padre ucciso al rango di dio, da cui la tribù faceva discendere le sue origini, era tuttavia un mezzo di espiazione più considerevole di quanto non lo fosse stato il patto concluso col totem.

Non saprei dire dove possano essere collocate, in quest'evoluzione, le divinità materne, che forse hanno ovunque preceduto gli dèi-padri. Ma certamente il cambiamento di atteggiamento nei confronti del padre non è rimasto limitato al campo religioso, ma si è ugualmente ripercosso nell'organizzazione sociale che aveva anch'essa, in precedenza, subito gli effetti della sua eliminazione. Con l'istituzione di divinità paterne, la società senza padre si è a poco a poco trasformata in società patriarcale. La famiglia è divenuta una restaurazione dell'orda primitiva di un tempo ed ai padri vengono restituiti molti dei diritti di cui avevano goduto in questa orda. Ci furono nuovamente dei padri, ma le conquiste sociali del clan fraterno non andarono perdute, e la distanza che sussisteva tra il nuovo padre di famiglia e il padre assoluto sovrano dell'orda primitiva era abbastanza grande da assicurare la persistenza del bisogno religioso, e la conservazione dell'amore sempre vivo per il padre. Così, nella scena del sacrificio offerto al dio dalla tribù, il padre è realmente presente due volte: come dio e come animale del sacrificio. Ma dobbiamo guardarci bene, nei nostri tentativi per comprendere questa situazione, dalle interpretazioni in cui questa situazione è rappresentata semplicemente come un'allegoria, senza che si tenga conto delle stratificazioni storiche. La duplice presenza del padre corrisponde a due significati successivi della scena, nella quale hanno trovato un'espressione plastica l'atteggiamento ambivalente nei confronti del padre ed il trionfo dei sentimenti affettuosi dei figli sui loro sentimenti ostili. La sconfitta del padre e la sua profonda umiliazione hanno fornito il materiale per la rappresentazione del suo supremo trionfo. L'importanza che ovunque il sacrificio ha acquisito sta appunto nel fatto che con lo stesso atto con cui il padre era stato umiliato gli si offre ora soddisfazione per questa umiliazione, pur perpetuandone il ricordo. In seguito, l'animale perde il suo carattere sacro, e cessano i rapporti tra il sacrificio e la festa totemica. Il sacrificio diviene un semplice omaggio reso alla divinità, un'autoprivazione in favore del dio. Dio si trova ormai talmente al di sopra degli uomini, che ora si può comunicare con lui solo per mezzo del sacerdote. A capo dell'organizzazione sociale si trovano allora dei re rivestiti di un carattere divino e che estendono allo Stato il sistema patriarcale. Bisogna dire che il padre, ristabilito nei suoi diritti, si vendica ora crudelmente ed esercita un'autorità dispotica. I figli sottomessi approfittano delle nuove condizioni per liberarsi ancora maggiormente dalla responsabilità per il crimine commesso. Ormai non sono più loro, in effetti, i responsabili del sacrificio. È il dio stesso che lo esige e lo ordina. Appartengono a questa fase alcuni miti in cui è il dio che uccide l'animale che gli è sacro e che in fondo viene ad essere egli stesso. È l'estrema negazione del grande crimine che ha segnato le origini della società e il sorgere del senso di responsabilità. Questo modo di concepire il sacrificio presenta ancora un altro significato, che si coglie facilmente: la soddisfazione che gli uomini provarono abbandonando il culto del totem per quello della divinità, cioè un surrogato inferiore del padre per uno superiore. La traduzione apertamente allegorica della scena coincide a questo punto con la sua interpretazione psicoanalitica. Quella ci dice: dio ha superato la parte animale del suo essere. (II rovesciamento di una generazione di dèi da parte di un'altra, di cui parlano tutte le mitologie, sta evidentemente a simboleggiare il processo storico della sostituzione di un sistema religioso ad un altro, sia in seguito alla conquista da parte di un popolo straniero, sia in conseguenza dell'evoluzione psicologica. In quest'ultimo caso, il mito si accosterebbe a ciò che h. silberer chiama i «fenomeni funzionali». L'affermazione di c.g. jung (cit.) che il dio che uccide l'animale è un simbolo della libido, suppone una concezione della libido diversa da quella finora vigente, ed in generale mi sembra discutibile.)

Sarebbe tuttavia un errore credere che le tendenze ostili nei confronti del padre, che fanno parte del complesso paterno, siano ormai completamente spente. Anzi, nelle prime fasi delle due nuove formazioni sostitutive del padre, cioè degli dèi e dei re, ritroviamo più che mai le manifestazioni di questa ambivalenza che resta caratteristica della religione.

Nella sua grande opera The Golden Bough, il Frazer ha avanzato l'ipotesi che i primi re delle tribù latine fossero stranieri che assumevano la parte di una divinità, e in questa veste venivano sacrificati in forma solenne nel corso di determinate feste. Il sacrificio (o l'auto-sacrificio) annuale di un dio sembra essere stato un aspetto caratteristico delle religioni semitiche. Il cerimoniale dei sacrifici umani, nei punti più disparati della terra abitata, dimostra senza possibilità di dubbio che questi uomini venivano sacrificati quali rappresentanti della divinità, e questa usanza si ritrova ancora in epoca abbastanza tarda, con la sola differenza che gli uomini vengono sostituiti da modelli inanimati (fantocci). Il sacrificio divino teantropico, che purtroppo non posso in questa sede trattare in modo particolareggiato come il sacrificio animale, getta una luce sul passato e ci rivela il significato delle più antiche forme di sacrificio; ci dimostra con assoluta certezza che l'oggetto dell'atto sacrificale è sempre lo stesso, quello che ora viene adorato come dio, cioè il padre. Si trova ora una facile soluzione del problema dei rapporti tra sacrifici animali e sacrifici umani. Il sacrificio animale primitivo era già destinato a sostituire un sacrificio umano, l'uccisione del padre, e quando questa rappresentazione sostitutiva del padre riebbe una figura umana, il sacrificio animale potè nuovamente trasformarsi in un sacrificio umano.

Così il ricordo di questo primo grande sacrificio si è dimostrato indistruttibile, malgrado tutti gli sforzi per cancellarlo dalla memoria; e proprio quando ci si voleva il più possibile allontanare dai motivi che l'hanno generato, ci si è trovati di fronte alla sua fedele ed esatta riproduzione sotto forma di sacrificio divino. Non posso a questo punto stare a ricercare in seguito a quali realizzazioni progressive del pensiero religioso si sia reso possibile questo «ritorno». Robertson Smith, che come noi fa risalire il sacrificio a quel grande evento della vita primitiva dell'umanità, ci informa che le cerimonie delle feste in cui gli antichi Semiti celebravano la morte di una divinità, vennero interpretate come «una commemorazione di una tragedia mitica», e che i lamenti che le accompagnavano non avevano il carattere di un'espressione spontanea, ma sembravano imposti, ordinati, per timore della collera divina. (Cit., pp. 412-13. «The mouming is not a spontaneous expression ofsympaty with the divine tragedy bui obligatory and enforced by fear of supematural anger. And a chiefobject of the moumers is to disclaim responsability for the god's death, a point which as already come before us in connection with theanthropic sacrifices, such as "the ox-murder at At-hens"».) («Il lutto non è un'espressione spontanea di simpatia per la tragedia divina, ma è obbligatorio ed imposto dal timore della collera sovrannaturale. E l'uomo manifesta il suo lutto soprattutto per negare la propria responsabilità nella morte del dio, un punto che abbiamo già segnalato a proposito del sacrificio teantropico, come "l'uccisione del bue ad Atene"».]

Crediamo di poter considerare esatta questa interpretazione e di riconoscere nei sentimenti di coloro che prendevano parte alla festa un diretto effetto della situazione che abbiamo descritto.

Accettiamo dunque come cosa certa il fatto che, anche nel corso della successiva evoluzione delle religioni, il senso di responsabilità del figlio e la sua tendenza alla rivolta non vengano mai meno. I tentativi di risolvere il problema religioso, di conciliare le due opposte tendenze psichiche, via via falliscono, probabilmente sotto l'influenza combinata di cambiamenti sopravvenuti nello stato di civilizzazione, di eventi storici e di interiori trasformazioni psichiche.

Diviene sempre più evidente lo sforzo del figlio di prendere il posto del dio-padre. Con l'introduzione dell'agricoltura, l'importanza del figlio nella famiglia patriarcale aumenta. Egli può concedersi nuove manifestazioni della sua libido incestuosa, che trova una soddisfazione simbolica nella lavorazione della terra madre. Ecco allora apparire le figure divine di Attis, Adone, Tammuz ecc., nello stesso tempo spiriti della vegetazione e divinità giovanili, che godono dei favori amorosi delle divinità materne e si abbandonano, in onta al padre, all'incesto con la madre. Il senso di colpa, che non è placato da queste creazioni, trova espressione nei miti nei quali a questi giovani amanti delle dee-madri è destinata una vita molto breve, o il castigo della castrazione, o la collera del dio-padre sotto forma di animale. Adone viene ucciso dal cinghiale, l'animale sacro ad Afrodite, Attis, l'amante di Cibele, muore evirato. (II timore della castrazione ha un'estrema importanza, nei nostri giovani nevrotici, per la determinazione del loro atteggiamento nei confronti del padre. La bella osservazione del Ferenczi ci ha mostrato come il bambino identifichi il proprio totem nell'animale che voleva prendere il suo membro. Quando i nostri bambini sentono parlare della circoncisione rituale, la uguagliano alla castrazione. Per quanto ne so, non è stato ancora indicato il parallelo a quest'atteggiamento del bambino nella psicologia collettiva. La circoncisione, tanto frequente tra i popoli primitivi, fa parte dell'iniziazione alla maturità, in cui trova una qualche giustificazione, e solo in un secondo tempo è stata trasportata ad un'età inferiore. Il fatto interessante, in linea generale, è che presso i primitivi la circoncisione era combinata o sostituita con il taglio dei capelli e con l'estrazione dei denti, e che i nostri bambini, che però non sanno niente di tutto ciò, nelle loro reazioni angosciose si comportano, nei confronti di queste due operazioni, come se le considerassero equivalenti alla castrazione.) I lamenti che accompagnano la morte di questi dèi e la gloria che saluta la loro resurrezione, sono divenuti parte integrante del rituale di un'altra divinità-figlio destinata ad un duraturo successo.

Quando il cristianesimo cominciò la sua penetrazione nel mondo antico, incontrò la rivalità della religione di Mitra e per un po' di tempo fu dubbia la vittoria tra le due divinità.

La figura inondata di luce del giovane dio persiano rimane tuttavia oscura per noi. Le leggende che raffigurano Mitra che uccide dei buoi ci inducono a concludere che egli rappresentasse il figlio che, avendo da solo portato a termine il sacrificio del padre, ha liberato i fratelli dal senso di colpa che li tormentava in seguito a questo crimine. Vi era un'altra via per eliminare questo senso di colpa, e questa fu seguita da Cristo: sacrificando la propria vita, egli redense tutti i suoi fratelli dal peccato originale.

La dottrina del peccato originale è di origine orfica; si è conservata nei misteri ed è poi penetrata nelle scuole filosofiche dell'antica Grecia. Gli uomini erano discendenti dei Titani, che hanno ucciso e sbranato il giovane Dioniso-Zagreo; il peso di questo crimine li opprimeva. In un frammento di Anassimandro si legge che l'unità del mondo è stata distrutta in tempi antichissimi da un delitto e tutto quanto ne era derivato doveva sopportarne il castigo. Se l'impresa dei Titani ci ricorda in modo abbastanza preciso, per la complicità nell'uccisione e per lo smembramento, quanto viene compiuto nel sacrificio descritto da San Nilo (come d'altronde è per molti altri miti dell'antichità, ad esempio la morte di Orfeo), resta tuttavia la inquietante differenza che il delitto è stato compiuto su di un giovane dio.

Nel mito cristiano, il peccato originale deriva incontestabilmente da un'offesa commessa nei confronti di Dio Padre. Bene, se il Cristo ha liberato gli uomini dal peso del peccato originale col sacrificio della propria vita, noi dobbiamo concludere che questo peccato consistesse in una uccisione. Secondo la legge del taglione, profondamente radicata nello spirito umano, un'uccisione può essere espiata solo col sacrificio di un'altra vita; il sacrificio di se stesso significa l'espiazione per un atto omicida. (L'impulso al suicidio dei nostri nevrotici si rivela regolarmente come la ricerca di una punizione per i loro istinti omicidi nei confronti di altri.)

E quando questo sacrificio della propria vita deve portare alla riconciliazione col Dio Padre, il crimine da espiare non può essere che l'uccisione del padre.

Così nella dottrina cristiana l'umanità confessa francamente l'azione delittuosa primeva, poiché solo nel sacrificio di questo unico figlio ha trovato piena espiazione. La riconciliazione col padre è tanto più completa in quanto, contemporaneamente al sacrificio, si proclama la rinuncia alla donna, che è stata la causa della ribellione contro il padre. Ma a questo punto si manifesta, ancora una volta, la fatalità psicologica dell'ambivalenza. Nello stesso tempo e con lo stesso atto, il figlio, che offre al padre l'espiazione più piena, realizza i suoi desideri contro il padre. Diviene egli stesso dio accanto al padre, o meglio al posto del padre. La religione del figlio si sostituisce alla religione del padre. E per segnare questa sostituzione, viene rimesso in vita l'antico banchetto totemico in forma di Comunione, in cui i fratelli riuniti si cibano della carne e del sangue del figlio, e non del padre, per santificarsi e identificarsi con lui. Così, seguendo attraverso le varie epoche successive l'identità del banchetto totemico con il sacrificio animale, con il sacrificio umano teantropico e con l'Eucarestia cristiana, in tutte queste solennità si ritrovano le conseguenze del crimine che in modo tanto opprimente pesava sugli uomini, che pure avrebbero dovuto esserne fieri. Ma la Comunione cristiana è, in fondo, una nuova soppressione del padre, una ripetizione dell'atto che richiede espiazione. E noi comprendiamo quanto il Frazer abbia ragione, quando dice che «la Comunione cristiana ha assorbito in sé un sacramento molto più antico del cristianesimo». («The Christian communion has absorbed within itself a sacrament which is doubtless far older than Christianity». Cit. Eating the God, p. 51. Nessuno, che abbia un poco di familiarità con le opere su questo argomento, supporrà che il collegamento della comunione cristiana col banchetto totemico sia un'idea dell'autore del presente saggio.)

7.

Un atto come quello della soppressione del padre primiero da parte di tutti i suoi figli, lasciò tracce incancellabili nella storia e si espresse in formazioni sostitutive tanto più numerose quanto meno lo si richiamava alla memoria. Mi sottraggo alla tentazione di seguire queste tracce nella mitologia, dove tuttavia esse possono essere rintracciate facilmente, e rivolgo l'attenzione ad un altro campo secondo un accenno di S. Reinach in un interessante lavoro sulla morte di Orfeo.

Nella storia dell'arte greca c'è una situazione che presenta evidenti analogie, ed insieme profonde differenze, con la scena del banchetto totemico descritta da Robertson Smith. Parliamo delia situazione che si ritrova nella forma più antica della tragedia greca. Un gruppo di persone, tutte dallo stesso nome e vestite in modo uguale, sta intorno ad un solo uomo, e ciascuna dipende dalle sue parole e dai suoi gesti: è il coro, schierato intorno all'attore che in origine era solo a rappresentare l'eroe. In seguito nella tragedia sono stati introdotti un secondo, poi un terzo eroe, per rappresentare l'antagonista dell'eroe e le sue varie derivazioni. Ma il carattere dell'eroe e i suoi rapporti con il coro restarono invariati. L'eroe della tragedia doveva soffrire; questo è ancora oggi il principale carattere della tragedia. Egli si è addossato la cosiddetta «colpa tragica», di cui non si può sempre comprendere le ragioni; spesso questa colpa non ha niente in comune con ciò che noi consideriamo come tale nella vita corrente. Nella maggior parte dei casi essa consisteva in una ribellione contro un'autorità divina o umana, e il coro accompagnava l'eroe, partecipava ai suoi sentimenti, cercava di trattenerlo, di metterlo in guardia, e lo compiangeva quando, dopo aver realizzato la sua sconsiderata impresa, egli trovava la pena meritata.

Ma per quale ragione l'eroe della tragedia deve soffrire e qual è il significato della sua «colpa tragica»? Eviteremo la discussione con una rapida risposta. Egli deve soffrire, perché lui è il padre primitivo, l'eroe della grande tragedia delle origini, di cui abbiamo parlato e che trova qui una rappresentazione tendenziosa; quanto alla colpa tragica è quella che egli deve addossarsi, per liberarne il coro. Gli eventi che si svolgono sulla scena rappresentano una deformazione, potremmo dire raffinata ed ipocrita, della scena storica. In quell'antica realtà erano proprio i membri del coro che causavano le sofferenze dell'eroe; e, invece, essi si esauriscono in lamenti e in manifestazioni di rimpianto e l'eroe stesso è causa delle proprie sofferenze. Il crimine che gli viene imputato, la tracotanza e la ribellione contro una grande autorità, è proprio il delitto che, in realtà, pesa sui membri del coro, sulla schiera dei fratelli. Così l'eroe tragico può, contro la sua volontà, divenire il redentore del coro.

Se, nella tragedia greca, il contenuto della rappresentazione era costituito dalle sofferenze del divino capro Dioniso e dai pianti e lamenti del coro dei capri che con lui s'identificavano, si comprende facilmente come il dramma ormai spento abbia trovato una nuova vitalità nel Medioevo, impadronendosi della passione di Cristo.

Potrei dunque terminare e riassumere questa rapida ricerca rilevando che nel complesso di Edipo si ritrovano i princìpi insieme della religione, della morale, della società e dell'arte, e ciò in piena conformità coi dati della psicoanalisi che vede in questo complesso la sostanza di tutte le nevrosi, per ciò che della loro natura siamo finora riusciti a penetrare. Ed è sorprendente che anche questi problemi relativi alla vita psichica dei popoli possano essere risolti muovendo da un solo punto concreto, il rapporto col padre. Possiamo forse entrare in quest'ordine d'idee anche per un altro problema psicologico. Abbiamo più volte avuto occasione di notare come alla radice di numerose formazioni sociali si trovi l'ambivalenza affettiva nel suo senso proprio, cioè come coincidenza di odio ed amore per lo stesso oggetto. Ignoriamo totalmente le origini di questa ambivalenza. Si può supporre che essa costituisca un fenomeno fondamentale della nostra vita affettiva. Ma è anche possibile che questa ambivalenza, inizialmente estranea alla vita affettiva, sia stata acquisita dall'umanità col complesso paterno (o più esattamente col complesso dei genitori), nel quale, secondo quanto ci indica la psicoanalisi, essa trova ancora oggi la sua più intensa espressione.  (Al fine di evitare malintesi, ritengo non sia inutile rilevare espressamente che stabilendo queste conclusioni non perdo affatto di vista la natura complessa dei fenomeni in esame e che la mia sola pretesa è quella di avere aggiunto alle cause conosciute o non ancora conosciute della religione, della morale e della società, un nuovo elemento che risulta dalla considerazione di implicazioni psicoanalitiche. Devo lasciare ad altri il compito di sintetizzare tutti questi elementi. Ma il nuovo elemento è di natura tale che certamente avrà una parte fondamentale nella futura sintesi, anche quando, per assegnargli questa parte, si dovessero superare forti resistenze affettive.)

Prima di terminare voglio sottolineare che, malgrado la concordanza delle conclusioni che abbiamo ottenuto e che convergono tutte nello stesso punto, non dobbiamo dimenticare tutte le incertezze delle nostre premesse e tutte le difficoltà presentate dai nostri risultati. Voglio rilevarne due che, probabilmente, il lettore avrà già notato.

Anzitutto, non sarà sfuggito a nessuno che noi prendiamo come base l'esistenza di un'anima collettiva nella quale i processi mentali si sviluppano come accade nell'anima individuale. In particolare postuliamo che per millenni sia esistito un sentimento di colpa che si è trasmesso di generazione in generazione e che deriva da un crimine, tanto antico che di esso gli uomini di epoche successive non potevano sapere nulla. Ammettiamo che il processo affettivo, che poteva sorgere in una generazione di figli maltrattati dal padre, continuasse presso nuove generazioni che si erano invece sottratte a questo trattamento con la soppressione del padre tirannico. Sono considerazioni che possono sollevare gravi obiezioni, e senz'altro conveniamo che sarebbe preferibile una qualsiasi altra interpretazione che non avesse bisogno di appoggiarsi a simili premesse.

Ma riflettendo meglio il lettore potrà constatare che noi non siamo i soli responsabili di questa ardita ipotesi. Senza la premessa di un'anima collettiva, di una continuità nella vita psichica dell'uomo, che consente di non tener conto delle interruzioni degli atti psichici per la scomparsa dei singoli individui, la psicologia collettiva, la psicologia dei popoli, non potrebbe esistere. Se i processi psichici non si trasmettessero da una generazione all'altra, se ogni generazione fosse obbligata ad acquisire ex novo il proprio atteggiamento di fronte alla vita, si escluderebbe ogni progresso e ogni evoluzione. Ci si propongono, a questo punto, due nuovi interrogativi: quanto può essere attribuito alla continuità psichica nella sequenza delle generazioni? Di quali mezzi una generazione si serve per trasmettere le sue condizioni psichiche alla generazione seguente? A questi due interrogativi non è stata ancora data una risposta soddisfacente; e la trasmissione diretta e la tradizione, a cui dapprima si è tentati di pensare, sono lontane dal presentare la spiegazione richiesta. In generale, la psicologia collettiva si preoccupa ben poco di sapere in che modo avvenga la continuità della vita psichica delle generazioni che si susseguono. Questa continuità viene in parte assicurata dall'ereditarietà delle disposizioni psichiche che hanno tuttavia bisogno, per divenire efficaci, di essere stimolate da eventi della vita individuale. In questo senso vanno intese le parole del poeta: «Ciò che hai ereditato dai tuoi padri, acquistalo per possederlo». Il problema potrebbe apparire ancora più complesso, se avessimo ragione di ammettere l'esistenza di fatti psichici che possano venir rimossi in modo tale da avvenire senza lasciare traccia. Ma non esistono fatti di questo genere. Per quanto la rimozione possa essere intensa, una tendenza non scompare mai senza lasciare moti d'animo sostitutivi e conseguenti reazioni. Dobbiamo perciò ammettere che non ci siano processi psichici che una generazione sia in grado di celare a quella successiva. La psicoanalisi ci ha insegnato che l'uomo possiede, nella sua attività psichica inconscia, un apparato che gli consente di interpretare le reazioni di altri uomini, cioè di raddrizzare, di correggere le deformazioni che i suoi simili imprimono all'espressione dei loro moti affettivi. Grazie a questa inconscia comprensione di costumi, cerimonie e precetti sopravvissuti al primitivo rapporto col padre, le generazioni successive potrebbero essere riuscite ad assimilare quell'eredità affettiva.

Si presenta un'altra obiezione, sollevata proprio dal metodo d'osservazione psicoanalitico.

Abbiamo detto che le prime prescrizioni etiche e le prime limitazioni morali delle società primitive dovevano essere concepite come una reazione ad un'azione che costituì per i suoi autori la sorgente stessa della nozione di delitto. Pentiti di quest'azione, avevano deciso che essa non dovesse mai più ripetersi e non dovesse mai più procurare vantaggi a nessuno. Questo sentimento di colpa che ha dato luogo a tante reazioni, non è ancora spento tra noi. Lo ritroviamo nei nevrotici, in cui si esprime in modo asociale, stabilendo nuove prescrizioni morali, immaginando nuove limitazioni ad espiazione dei misfatti commessi e misure preventive contro futuri misfatti possibili. Ma quando ricerchiamo le azioni che hanno provocato queste reazioni nei nevrotici, restiamo profondamente delusi. Non troviamo azioni ma impulsi, tendenze emotive che aspirano al male tenute soggette. Il sentimento di colpa nel nevrotico poggia su realtà psichiche, e non su realtà materiali. La nevrosi è caratterizzata dal fatto che essa pone \a realtà psichica al di sopra della realtà affettiva, che reagisce a dei pensieri con la stessa serietà con la quale gli esseri normali reagiscono di fronte a fatti reali.

La stessa cosa non può essere accaduta nei popoli primitivi?

Sappiamo già che, data la loro organizzazione narcisistica, essi attribuiscono un'importanza straordinaria ai loro atti psichici. Così le tendenze ostili nei confronti del padre, l'esistenza dell'immaginario desiderio di ucciderlo e di divorarlo sarebbero state sufficienti a provocare la reazione morale che ha dato luogo al totemismo e al tabù. Ci sottrarremmo così alla necessità di far risalire le origini della nostra civiltà di cui siamo così fieri, e a giusto titolo, a un delitto orrendo che offende tutti i nostri sentimenti. Nessuna obiezione ne deriverebbe per la concatenazione causale che da queste origini perdura fino ai nostri giorni, perché la realtà psichica basterebbe a spiegare tutte queste conseguenze. A ciò si potrebbe obiettare che il passaggio dalla forma sociale caratterizzata dall'orda paterna alla forma caratterizzata dal clan fraterno costituisce tuttavia un fatto incontestabile. L'argomento, sebbene forte, non è tuttavia decisivo. La trasformazione della società potrebbe essersi verificata in modo meno violento, pur presentando le condizioni favorevoli alla manifestazione della reazione morale. Finché si faceva sentire l'oppressione esercitata dall'antico progenitore, i sentimenti ostili nei suoi confronti erano giustificati ed il rimorso che si provava a causa di questi sentimenti doveva aspettare, per manifestarsi, un altro momento. Ugualmente poco plausibile è la seconda obiezione, per cui tutto ciò che deriva dall'atteggiamento ambivalente nei confronti del padre, cioè tabù e prescrizioni relative al sacrificio, presenterebbe i caratteri della più profonda serietà e della realtà più completa. Il cerimoniale e le inibizioni degli ammalati di nevrosi ossessiva presentano gli stessi caratteri eppure derivano soltanto da realtà psichiche, da intenzioni, e non dalla loro esecuzione. Noi dobbiamo guardarci dall'applicare al mondo del primitivo e del nevrotico, ricco solo di eventi interiori, il disprezzo che il nostro mondo prosaico, pieno di valori materiali, prova per ciò che è solo pensato o desiderato.

 

A questo punto ci troviamo di fronte a una decisione che ci rende perplessi. Cominciamo tuttavia col dire che questa differenza, che ad alcuni potrebbe apparire fondamentale, non tocca l'aspetto essenziale della questione. Se desideri e impulsi hanno per il primitivo tutto il valore di fatto, noi dobbiamo cercare di comprendere questa concezione e non ostinarci a modificarla secondo il nostro modo di vedere. Cerchiamo dunque di farci un'idea più precisa della nevrosi che ha sollevato in noi questi dubbi. Non è vero che i nevrotici ossessivi, che subiscono la pressione di una supermorale, si difendano solo contro una realtà psichica e considerino come delitti che debbono essere puniti quelli che in loro sono solo semplici impulsi. C'è in questo quadro una buona parte di realtà storica; nell'infanzia questi individui provarono solo impulsi cattivi e, nella misura in cui ciò era consentito dalle loro risorse infantili, tradussero questi impulsi in azioni. Ognuno di questi uomini oggi moralissimi ha conosciuto, nella sua infanzia, un periodo di cattiveria, una fase di perversione che preparava e preannunciava la loro successiva fase supermorale. L'analogia tra il primitivo e il nevrotico appare quindi molto più concreta se ammettiamo che nel primo la realtà psichica, di cui conosciamo la indubbia conformazione, abbia coinciso in origine con la realtà concreta, cioè che i primitivi abbiano realmente compiuto ciò che, secondo tutte le testimonianze, avevano intenzione di compiere. Non lasciamoci, d'altro lato, influenzare troppo, nei nostri giudizi sui primitivi, dalla loro analogia coi nevrotici. Bisogna anche tener conto delle rispettive differenze. Certamente, né il primitivo né il nevrotico conoscono quella distinzione netta e precisa che noi tracciamo tra il pensiero e l'azione. Nella nevrosi l'azione è assolutamente inibita e totalmente sostituita dal pensiero. Il primitivo, invece, non conosce questa inibizione; i suoi pensieri si trasformano immediatamente in azione; si potrebbe giungere a dire che in lui l'azione sostituisce il pensiero. Perciò, senza pretendere di chiudere la discussione con una decisione assoluta e definitiva, possiamo arrischiare questa proposizione: «In principio era l'Azione».