SIGMUND FREUD *

4. Psicoterapia dell'isteria

* [Sul problema dei fenomeni isterici Freud aggiunge qui all'illustrazione della tecnica di Breuer, una serie di considerazioni teoriche che in larga misura si spingono ben più in là di quanto il collega più anziano non fosse disposto a concedere]

Nella «Comunicazione preliminare» abbiamo riferito che nel corso della nostra ricerca sull'etiologia dei sintomi isterici, trovammo anche un metodo terapeutico che ci sembrò di importanza pratica. Infatti abbiamo scoperto, inizialmente con grande stupore, che ogni singolo sintomo isterico scompariva immediatamente e permanentemente nel caso in cui fossimo riusciti a riportare chiaramente alla luce il ricordo dell'avvenimento dal quale esso era stato provocato, e a suscitare lo stato affettivo che ad esso si accompagnava; purché il paziente descrivesse l'avvenimento in questione il più particolareggiatamente possibile e accompagnasse le parole con il corrispondente stato emotivo.

In seguito ci siamo sforzati di spiegare il modo in cui agisce il nostro metodo psicoterapeutico. «Esso viene a esaurire l'energia attiva dell'idea che, originariamente, non aveva subito l'abreazione, permettendo allo stato emotivo soffocato di trovare sfogo attraverso le parole; inoltre lo sottopone a una correzione associativa introducendola grazie alla suggestione del curante, come avviene nei sonnambulismo accompagnato da amnesia.»

Adesso tenterò di fornire un resoconto articolato dei risultati che il metodo ci dà, sotto quali rispetti questi siano superiori a quelli conseguiti da altri metodi, secondo quale tecnica vada applicato e quali difficoltà .presenti. Gran parte della essenza del metodo è già contenuta nelle storie cliniche di cui alla prima parte del libro, per cui non potrò non ripetermi nel resoconto che segue.

1.

Per quanto mi riguarda, posso dire di ritenere tuttora valido quanto pubblicato nella «Comunicazione Preliminare». Comunque devo confessare che, negli anni che sono trascorsi da allora, - durante i quali mi sono occupato incessantemente dei problemi di cui essa tratta — nella mia mente si sono formate nuove convinzioni. Queste mi hanno condotto a raggruppare e a interpretare, almeno in parte, differentemente il materiale scientifico a mia disposizione in quel tempo. Non sarebbe bello se volessi accollare una porzione troppo grande della responsabilità di questa evoluzione al mio onorato amico Dott. Josef Breuer. Per tale ragione le considerazioni che seguono sono quasi del tutto sotto la mia responsabilità. Quando ho tentato di applicare ad un numero relativamente grande di pazienti il sistema di cura di Breuer per il trattamento dei sintomi isterici mediante la loro ricerca e abreazione sotto ipnosi, mi sono imbattuto in due difficoltà, la cui considerazione mi ha indotto a modificare sia la tecnica sia il modo di interpretare i fatti.

1. Ho scoperto che non tutti coloro che presentavano segni indubitabili di isterismo potevano essere ipnotizzati, pur essendo governati, con tutta probabilità, dallo stesso meccanismo psichico;

2. mi sono veduto costretto a prendere posizione sulla questione di ciò che, in fin dei conti, caratterizza l'isteria e la distingue dalle altre nevrosi.

Rimanderò a più tardi la descrizione di come ho superato la prima difficoltà e di che cosa ho appreso da essa e comincerò con l'illustrare l'attitudine da me assunta nella pratica quotidiana nei confronti del secondo problema.

È molto difficile farsi un'idea precisa di un caso di nevrosi prima di averlo sottoposto ad un'approfondita analisi, analisi che, in effetti, non può essere condotta che con il metodo di Breuer. Ma bisogna prendere una decisione sulla diagnosi e sul tipo di terapia da adottare, prima ancora di arrivare a questa completa conoscenza del caso. Dunque l'unico partito cui potevo attenermi era quello di scegliere, per il trattamento catartico, quei casi che potevano essere diagnosticati provvisoriamente come isteria, in quanto presentavano una o più stigmate e sintomi caratteristici dell'isteria. A volte accadeva che, nonostante la diagnosi di isteria, i risultati terapeutici fossero piuttosto scarsi e che nemmeno l'analisi riuscisse a portare alla luce qualcosa di interessante. In altre occasioni ancora, ho tentato di applicare il metodo di Breuer alla cura di nevrosi che nessuno avrebbe scambiato per isteria e ho scoperto che in questo modo era possibile esercitare su di esse un'influenza e chiarirle efficacemente. Ho fatto questa esperienza, per esempio, con le idee ossessive, vere e proprie del tipo di Westphal, in casi senza un solo segno che ricordasse l'isteria.

Pertanto il meccanismo psichico descritto nella «Comunicazione Preliminare» non poteva essere patognomonico dell'isteria. Nemmeno potevo risolvermi, solo per conservare a quel meccanismo il suo carattere distintivo, ad accomunare all'isteria tutte queste altre nevrosi. Alla fine trovai una soluzione a tutti questi dubbi che mi assillavano nel sistema di trattare tutte le altre nevrosi in questione alla stessa maniera dell'isteria. Decisi di studiare la loro etiologia e la natura del loro meccanismo psichico in tutti i casi e di lasciare che la decisione se la diagnosi di isteria fosse giustificata dipendesse dall'esito della ricerca.

Dunque, prendendo le mosse dal metodo di Breuer, mi trovai impegnato a studiare l'etiologia e il meccanismo delle nevrosi in generale. Ebbi la ventura di arrivare a risultati di qualche utilità pratica in tempo relativamente breve. In primo luogo fui costretto a riconoscere che, nei limiti in cui si può parlare di cause determinanti che conducono all'acquisizione delle nevrosi, la loro etiologia dev'essere ricercata nei fattori sessuali. Ne seguì la scoperta che fattori sessuali differenti, nel senso più generale, producono diversi quadri di disturbi nevrotici. Quindi divenne possibile, nei limiti di convalida di questo rapporto, arrischiarsi a far uso dell'etiologia allo scopo di caratterizzare le nevrosi e di tracciare nette linee di demarcazione tra i quadri clinici delle diverse nevrosi. La cosa era naturalmente giustificata nei casi in cui le caratteristiche etiologiche coincidevano esattamente con quelle cliniche.

In questo modo trovai che la nevrastenia presentava un quadro clinico monotono in cui, secondo quanto dimostrava la mia analisi, non entrava in gioco un «meccanismo psichico». Vi era una netta distinzione tra nevrastenia e «nevrosi ossessiva» (nevrosi con idee ossessive propriamente detta). In quest'ultima potei individuare un complesso meccanismo, un'etiologia simile a quella dell'isteria e una grande possibilità di ridurlo mediante la psicoterapia. D'altro canto, mi parve assolutamente necessario separare dalla nevrastenia un complesso di sintomi nevrotici che dipendevano da un'etiologia del tutto differente, addirittura agli antipodi. I sintomi costituenti questo complesso sono accomunati da una caratteristica già riconosciuta da Hecker. Infatti essi sono o sintomi o equivalenti di manifestazioni di ansia, e, per tale ragione, ho dato a questo complesso, che dev'essere distinto dalla nevrastenia, il nome di «nevrosi d'angoscia» e ho sostenuto che essa insorge per accumulo di tensione fìsica, la quale a sua volta è, anch'essa, di origine sessuale.

Neppure questa nevrosi ha alcun meccanismo psichico, ma esercita immancabilmente un'influenza sulla vita mentale, di modo che l'«attesa ansiosa», le fobie, l'ipersensibilità al dolore, ecc., sono tra le sue abituali manifestazioni. Questa nevrosi ansiosa, nel senso che io do al termine, senza dubbio coincide in parte con la nevrosi che, sotto il nome di «ipocondria», trova posto in molte trattazioni a fianco dell'isteria e della nevrastenia. Ma non posso considerare i limiti, assegnati all'ipocondria in nessuno di questi lavori, come definiti, e l'applicabilità di questo nome mi sembra pregiudicata dal rapporto fisso tra questo termine e il sintomo della «paura della malattia».

Dopo aver fissato in questo modo i semplici quadri della nevrastenia, della nevrosi d'ansia e delle idee ossessive, ho proseguito col prendere in considerazione i casi di nevrosi che comunemente si riuniscono sotto la diagnosi di isteria. Ho riflettuto che non era giusto etichettare come isteria una nevrosi nel suo insieme, solo perché nel complesso dei suoi sintomi si stagliavano alcuni segni isterici. E' un modo di fare che posso ben capire, dato che l'isteria, di tutte le nevrosi allo studio, è la più antica, la meglio conosciuta e la più impressionante; ma si tratta di un abuso perché attribuisce all'isteria tanti segni di perversione e di degenerazione. Ogni qualvolta un segno isterico, come un'anestesia o una crisi tipica, era osservato in un caso complesso di degenerazione psichica, la condizione nel suo insieme veniva descritta come attinente all'«isteria», per cui non è sorprendente se sotto questa etichetta si trovavano riunite insieme le cose peggiori e più eterogenee. Ma come era sicuro che tale diagnosi fosse errata, era altrettanto sicuro che noi dovevamo distinguere tra di loro l'isteria e le varie nevrosi; e poiché ci sono familiari la nevrastenia, la nevrosi d'ansia, ecc., in forma pura, non vi era più bisogno di confonderle in un quadro composito.

Pertanto l'ipotesi seguente ci sembrava la più attendibile. Le nevrosi che più comunemente si osservano, per lo più devono essere considerate «miste». La nevrastenia e le nevrosi d'ansia si trovano facilmente anche in forma pura, soprattutto nei giovani. Le forme pure di isteria e di nevrosi ossessiva sono rare; di regola queste due nevrosi sono combinate con la nevrosi d'ansia. La ragione per cui le nevrosi miste sono tanto frequenti è che i loro fattori etiologici sono assai commisti, talora solo per caso, talora in ragione di rapporti causali tra i processi da cui derivano i fattori etiologici delle nevrosi. Non vi sono difficoltà nell'evidenziare questo fatto e dimostrarlo particolareggiatamente. Però, per quanto riguarda l'isteria, risulta che questa malattia non può essere separata, a scopo di studio, dai suoi legami con le nevrosi sessuali, e che di solito essa rappresenta soltanto un aspetto di un complesso caso di nevrosi, per cui solo in casi limite può essere osservata e curata isolatamente. In moltissimi casi potremo forse dire: a potiori fit denominatio (vale a dire, il nome è stato dato in base alla caratteristica predominante).

Ora esaminerò i casi clinici già descritti allo scopo di vedere se depongano a favore della mia opinione che l'isteria non è un'entità clinica indipendente.

La paziente di Breuer, Anna O., sembra contraddire alla mia opinione ed essere un esempio di turba isterica allo stato puro. Però questo caso, che è stato tanto fruttuoso per la nostra conoscenza dell'isteria, non fu affatto considerato dal suo osservatore sotto il punto di vista della nevrosi sessuale, per cui ora è del tutto inutile per questo scopo. Quando presi ad analizzare la seconda paziente, Frau Emmy von N., era ben lontana dalla mia mente l'idea che la base dell'isteria fosse una nevrosi sessuale. Ero da poco uscito dalla scuola di Charcot e consideravo il legame tra l'isteria e la questione della sessualità come una specie di offesa, proprio come fanno le stesse pazienti. Oggi, quando rivedo i miei appunti su questo caso, non mi sembra ci sia alcun dubbio sul fatto che lo si debba considerare come una grave nevrosi d'angoscia accompagnata da attesa ansiosa e da fobie, nevrosi d'angoscia che trasse origine dall'astinenza sessuale e si combinò con l'isteria.

Il caso III, Miss Lucy R., può essere meglio descritto come un caso limite di isteria pura. Fu un'isteria di breve durata con un decorso episodico ed etiologia inconfondibilmente sessuale; quale si adatterebbe a una nevrosi ansiosa. La paziente era una ragazza eccessivamente matura con un bisogno di essere amata, i cui affetti erano stati destati troppo frettolosamente per via di un malinteso. Però la nevrosi d'angoscia non divenne manifesta o mi sfuggì. Il caso IV, Katharina, era esattamente il modello di quella che ho descritto come «angoscia verginale». Era una combinazione di nevrosi d'angoscia ed isteria. La prima creava i sintomi, mentre la seconda li reiterava ed operava con essi. Sia detto di sfuggita, era un caso tipico di un gran numero di nevrosi dei giovani, descritte come «isteria». Il caso V, Fräulein Elisabeth von R., non fu neppure esso studiato come nevrosi sessuale. Io potei solo esprimere, senza confermarlo il sospetto che alla base vi fosse una nevrastenia spinale. In ogni modo, devo aggiungere che nel frattempo i casi di isteria pura sono diventati rari nella mia esperienza.

Se mi è stato possibile riunire i quattro casi sotto la diagnosi di isteria e se, nel descriverli, sono stato capace di trascurare quei punti di vista che sarebbero importanti in rapporto alle nevrosi sessuali, ciò dipende dal fatto che queste storie risalgono ad un tempo passato in cui io non sottoponevo, come faccio ora, i casi come questi a una deliberata e approfondita ricerca dei loro fondamenti nevrotici sessuali. E se non ho descritto, in luogo di questi quattro casi, altri dodici casi, l'analisi dei quali ci dà la conferma di quel meccanismo dei fenomeni isterici, che abbiamo ipotizzato, si è trattato di una reticenza necessaria per il fatto che l'analisi rivelava che quei casi erano contemporaneamente nevrosi sessuali, ai quali nessun diagnostico avrebbe rifiutato il nome di isteria. Ma un'illustrazione di queste nevrosi sessuali travalicherebbe i limiti della presente pubblicazione in collaborazione.

Non mi piacerebbe che si pensasse erroneamente che io non voglia ammettere che l'isteria è un'affezione nevrotica indipendente, che io la consideri semplicemente come una manifestazione psichica della nevrosi d'angoscia e che le attribuisca esclusivamente dei sintomi «ideogeni» e trasferisca i sintomi somatici (come le zone isterogene e le anestesie) alla nevrosi d'angoscia. Niente di tutto ciò. Secondo me si può trattare l'isteria, liberata da ogni commistione, come un fatto indipendente, sotto tutti gli aspetti eccettuata quello della terapia, perché in terapia abbiamo a che fare con un fine pratico: sbarazzarci dello stato patologico nel suo complesso. E se in genere l'isteria appare come una delle componenti di una nevrosi mista, la situazione si avvicina a quella esistente in un'infezione mista, dove salvare la vita costituisce un problema che non coincide con quello di combattere l'attività di un particolare agente patogeno.

Per me è molto importante distinguere tra la parte sostenuta dall'isteria nel quadro delle nevrosi miste da quella sostenuta dalla nevrastenia, dalla nevrosi d'angoscia, ecc., perché, dopo aver fatto questa distinzione, sarò in grado di illustrare concisamente il valore del metodo catartico. Infatti sono incline ad arrischiare l'affermazione che il metodo è - teoricamente almeno - perfettamente atto a eliminare i sintomi isterici, mentre, come si può facilmente comprendere, è del tutto impotente contro i fenomeni di nevrastenia e solo di rado, e per vie traverse, è capace di influire sugli effetti psichici della nevrosi d'angoscia. La sua efficacia terapeutica in alcuni casi particolari dipenderà quindi dal fatto che le componenti isteriche del quadro clinico assumono o non assumono una posizione di importanza pratica in rapporto alle altre componenti nevrotiche.

Vi è un altro ostacolo sul cammino dell'efficacia del metodo catartico, che già abbiamo indicata nella «Comunicazione Preliminare». Esso non può agire sulle cause che stanno alla base dell'isteria: quindi non può impedire a sintomi nuovi di sostituirsi a quelli che sono stati eliminati. Nel complesso, però, debbo reclamare un posto di preminenza per il nostro metodo terapeutico impiegato entro lo schema curativo delle nevrosi, ma vorrei mettere in guardia contro l'idea di affermarne la validità di applicazione fuori di detto schema. Però, siccome non posso in queste pagine, presentare una «terapia delle nevrosi» del genere richiesto dal medico pratico, quanto ho testé affermato equivale a differire la mia trattazione dell'argomento a una possibile pubblicazione futura. Ma penso di essere in grado di aggiungere le seguenti osservazioni a guisa di ampliamento e delucidazione.

1. Non pretendo di aver effettivamente eliminato tutti i sintomi isterici che ho provato a trattare col metodo catartico. Però a mio avviso gli ostacoli si trovavano nella situazione personale del paziente e non erano inerenti alla teoria. Mi sento giustificato se lascio questi casi non risolti al di fuori della mia relazione su come sono giunto a formulare il mio giudizio, così come il chirurgo non tiene conto dei decessi dovuti all'anestesia, a emorragie postoperatorie, a sepsi accidentali, ecc., nel prendere una decisione su una nuova tecnica. Più tardi, nel trattare delle difficoltà e degli inconvenienti del metodo, riprenderò in esame gli insuccessi dovuti ad esso.

2.Il metodo catartico non deve essere considerato privo di valore perché sintomatico e non causale. Infatti una terapia causale di regola è soltanto profilattica; essa arresta gli effetti ulteriori dell'agente nocivo ma non elimina necessariamente i risultati già provocati dall'agente patogeno. Di solito occorre una seconda fase curativa per condurre a termine quest'altro compito e, nei casi di isteria, il metodo catartico non ha alcuna efficacia sotto questo profilo.

3. Nel caso che sia stato superato un periodo di produzioni isteriche, un parossismo isterico acuto, tutto quello che rimane è rappresentato da sintomi isterici in forma di fenomeni residui, e il metodo catartico risponde a tutte le indicazioni e ottiene successi completi e permanenti. Una costellazione terapeutica favorevole di questo tipo non raramente si incontra proprio nell'ambito della vita sessuale, a causa delle ampie oscillazioni nell'intensità dei bisogni sessuali e della complessità delle condizioni necessarie a determinare un trauma sessuale. In questo caso il metodo catartico dà tutto quello gli si può chiedere, in quanto il medico non può pretendere di accollarsi l'onere di modificare una costituzione quale quella isterica. Egli deve accontentarsi di eliminare le turbe cui tende tale costituzione e che possono manifestarsi in concomitanza con circostanze esteriori. Sarà soddisfatto se la paziente riacquisterà la capacità lavorativa. Inoltre non si sentirà disarmato per il futuro, avendo presente la possibilità di una ricaduta. E consapevole della principale caratteristica dell'etio-logia delle nevrosi, cioè che la loro genesi di solito è sovradeterminata, che diversi fattori possono confluire a produrre questo risultato; ed egli può sperare che questa convergenza non si ripeta subito anche se alcuni singoli fattori etiologici rimangono operanti.

Si potrebbe obiettare, che in casi di isteria come questo, in cui la malattia ha fatto il suo corso, i sintomi residui dileguano in ogni caso spontaneamente. Però si potrebbe dire di rimando che una guarigione spontanea di questo genere molto spesso non è rapida né abbastanza completa e può essere straordinariamente aiutata dal nostro intervento terapeutico. Per ora possiamo benissimo lasciare senza risposta la domanda se con la terapia catartica curiamo solo quel che è suscettibile di guarigione o anche quello che non si sarebbe risolto spontaneamente.

4. Nel caso che ci si trovi di fronte a un'isteria acuta, che sta attraversando il periodo di più ricca produzione di sintomi isterici, quando l'ego è continuamente sopraffatto dai prodotti della malattia, (ossia nella psicosi isterica), nemmeno il metodo catartico otterrà grandi risultati nei confronti dell'aspetto e dell'andamento della turba. In queste circostanze ci troviamo di fronte alla nevrosi nella stessa situazione di un medico alle prese con una malattia infettiva acuta. I fattori etiologi hanno compiuto la loro opera con sufficiente efficacia in un periodo ormai trascorso e quindi di là dalla portata di qualsivo glia influenza, e ora, superata la fase di incubazione, sono diventati manifesti. Non è possibile stroncare la malattia. Bisogna aspettare che faccia il suo corso cercando intanto di rendere il più favorevole possibile le condizioni della paziente. Se, durante una fase acuta di questo tipo, eliminiamo le produzioni della malattia (i sintomi isterici appena generati), dobbiamo essere preparati a vedere che i sintomi, di cui ci siamo sbarazzati, vengano prontamente sostituiti da altri. Al medico non sarà risparmiata la deprimente sensazione di essere impe gnato in un lavoro di Sisifo. La mole immensa di lavoro e l'insoddisfazione della famiglia della paziente, per la quale l'inevitabile lunghezza di una nevrosi acuta probabilmente non sarà così ovvia come l'analogo caso di una malattia infettiva acuta, - queste e altre difficoltà renderanno praticamente sempre impossibile, in tutti i casi del genere, l'applicazione sistematica del metodo catartico. Ciononostante dovrà sempre essere argomento di seria considerazione il problema se sia o non sia vero che, persino in un'isteria acuta, la sistematica elimina zione dei prodotti della malattia possiede un'efficacia curativa in quanto sostiene l'ego normale della paziente, impegnato in un lavoro di difesa, e gl'impedisce di essere sopraffatto e di cadere in una psicosi o addirittura in uno stato confusionale permanente.

Il caso clinico di Anna O., nel quale Breuer apprese per la prima volta a utilizzare il metodo catartico, ha chiaramente dimostrato quando possa questo procedimento psicoterapeutico persino nell'isteria acuta e fino a qual punto esso limiti addirittura la produzione di nuovi sintomi patologici, sì da aver importanza pratica.

5. Qualora si tratti di isterie ad andamento cronico, accompagnate da una produzione modesta ma costante di sintomi isterici, troviamo il più forte motivo per dolerci della mancanza di una terapia effettivamente causale, ma abbiamo anche un buon fondamento per apprezzare il valore del procedimento catartico quale terapia sintomatica. In tali casi siamo di fronte a una situazione infausta provocata da una condizione etiologica cronicamente persistente. Tutto dipende dalla possibilità di rafforzare la capacità di resistenza del sistema nervoso del paziente; dobbiamo riflettere che l'esistenza di un sintomo isterico sta a significare un indebolimento della resistenza di quel sistema nervoso e rappresenta un fattore predisponente all'isteria. Come si può rilevare dal meccanismo dell'isteria monosintomatica, un nuovo sintomo isterico si instaura più facilmente in connessione e in analogia con uno già presente. Il punto attraverso il quale un sintomo già una volta è riuscito a irrompere forma un locus minoris resistentiae attraverso la quale potrà fare irruzione il nuovo sintomo. Un gruppo psichico, che sia stato in precedenza scisso, assume il ruolo di cristallo «esca» intorno al quale si inizia con la massima facilità un processo di cristallizzazione che altrimenti non avrebbe avuto luogo. Sbarazzarsi dei sintomi già presenti, annullare le modificazioni che sottostanno a essi, vuol dire restituire alle pazienti tutta la loro capacità di resistenza di modo che possano contrastare con successo gli effetti dell'agente nocivo. Si può far moltissimo per queste pazienti grazie a una prolungata sorveglianza e ad occasionali «spazzature del camino».

6. Mi rimane da far cenno all'apparente contraddizione tra il riconoscimento che non tutti i sintomi isterici sono psicogeni e l'affermazione che tutti possono essere eliminati mediante il procedimento terapeutico. La soluzione sta nel fatto che alcuni di questi sintomi non psicogeni sono sì indizi di malattia, ma non possono essere definiti vere turbe, per cui all'atto pratico non ha importanza se persistono dopo una riuscita terapia della malattia. Per quanto riguarda gli altri sintomi, sembra che in questo caso essi siano eliminati, con qualche meccanismo indiretto, insieme con i sintomi psicogeni, forse alla stessa maniera in cui essi, sempre per qualche via traversa, dopo tutto hanno una causalità psichica.

E ora debbo prendere in considerazione le difficoltà e gli svantaggi del nostro procedimento terapeutico nei limiti in cui non appaiono evidenti a ciascuno, grazie ai casi clinici descritti più oltre. Più che analizzare tali difficoltà enumererò e indicherò queste difficoltà.

Per il medico il procedimento è indaginoso e lungo. Presuppone un grande interesse per i fatti psicologici oltre a una preoccupazione personale verso il paziente. Non posso immaginare di risolvermi a fruare nei meccanismi psichici dell'isteria di qualcuno che mi abbia colpito con la sua volgarità o repulsività o che, in seguito a una conoscenza più approfondita, non sia capace di suscitare una simpatia umana, mentre posso intraprendere la cura di un tabetico o un reumatico a prescindere da questa adesione personale da parte mia. Non inferiori sono le esigenze imposte al paziente.

Il procedimento non è applicabile affatto al di sotto di un certo livello di intelligenza ed è reso molto più difficile dalla minima traccia di debolezza mentale. Sono necessari l'incondizionato consenso e la totale attenzione del paziente, ma sopra ogni cosa tutta la sua confidenza, dato che l'analisi porta sempre alla rivelazione degli avvenimenti psichici più intimi e segreti. Un buon numero di pazienti, che sarebbero adatti a questa forma di terapia, abbandonano il medico non appena comincia a sorgere in loro il sospetto della direzione verso la quale tende la ricerca. Per pazienti come questi il medico è rimasto un estraneo. Con altri, i quali hanno deciso di mettersi nelle sue mani e di riporre in lui la propria fiducia - passo che in questa situazione non può essere fatto se non volontariamente e mai su richiesta del medico - con questi altri pazienti, dico, è praticamente inevitabile che i rapporti tra medico e paziente vengano, almeno per un certo tempo, a porsi indebitamente in primo piano. In effetti pare quasi che un'influenza di questo genere da parte del medico sia una condizione sine qua non per la soluzione del problema.

Io non penso che vi sia una differenza essenziale sotto questo profilo sia che si possa ricorrere all'ipnosi sia che questa debba essere lasciata da parte e sostituita con qualche altra cosa. Ma la ragione esige che si ponga l'accento sul fatto che questi inconvenienti, sebbene inseparabili dal nostro procedimento, non possono essere lasciati sulla soglia. Al contrario, è chiarissimo che essi dipendono dalle condizioni predeterminanti le nevrosi che devono essere curate e necessariamente interessano qualsiasi attività medica che comporti un intenso lavoro sul paziente e porti a mutamenti di ordine psichico. Pur facendo largo uso della ipnosi in alcuni dei miei casi, non mi è mai capitato di dover imputare ad essa alcun effetto nocivo né alcun pericolo. Là dove ho provocato un danno, le ragioni di questo si trovano altrove ed erano più profonde. Se rivado con la mente agli sforzi terapeutici da me compiuti negli ultimi anni, dopo che la comunicazione presentata dal mio onorato maestro e amico Josef Breuer mi insegnò l'impiego del metodo catartico, credo che, nonostante tutto, ho fatto molto più bene, e molto più di frequente, che male, ed ho ottenuto risultati che nessun altro procedimento terapeutico avrebbe potuto conseguire. Nel complesso, come dimostra la «Comunicazione Preliminare», il metodo ha apportato «considerevoli vantaggi terapeutici».

Vi è un altro vantaggio nell'uso di questo procedimento, che debbo mettere in luce. Non conosco metodo migliore per comprendere un caso grave di nevrosi complicata con una più o meno grande componente isterica, del sottoporlo ad analisi mediante il metodo di Breuer. Nel contempo apprendo nel corso dell'analisi a interpretare i fenomeni residui e a individuarne l'etiologia. In questo modo mi assicuro una solida piattaforma per decidere quali armi dell'arsenale terapeutico contro le nevrosi siano indicate nel caso in questione. Quando pongo mente alla differenza che di solito trovo tra il mio giudizio su di un caso prima e dopo un'analisi del genere, sono quasi incline a considerare un'analisi come essenziale per la comprensione di un'affezione nevrotica. Inoltre ho preso l'abitudine di combinare la psicoterapia catartica con una cura dj riposo che, se necessario, può essere integrata con un completo trattamento alla Weir Mitchell. Ciò mi dà il vantaggio di riuscire, da un lato, ad evitare l'introduzione, quanto mai disturbatrice, di nuove impressioni psichiche durante la psicoterapia e, d'altra parte, ad allontanare la noia di una cura di riposo, durante la quale i pazienti spesso prendono l'abitudine a un nocivo sognare a occhi aperti.

Ci si potrebbe attendere che il lavoro psichico spesso gravoso imposto al paziente, durante il trattamento catartico, e le eccitazioni risultanti dalla rievocazione delle esperienze traumatiche, dovebbero esercitare un'influenza opposta a quella perseguita con la cura di riposo di Weir Mitchell, compromettendo i successi che siamo soliti ottenere grazie a essa. Ma in effetti avviene proprio il contrario. Una combinazione del genere tra il procedimento di Breuer e quello di Weir Mitchell ottiene tutti i vantaggi fisici che ci attenderemmo dal secondo come pure una profonda influenza psichica quale non si avrebbe mai con una cura di riposo senza psicoterapia.

2.

Adesso riandrò alla mia precedente osservazione che, nei miei tentativi di applicare più estensivamente il metodo di Breuer, mi sono incontrato con la difficoltà che tanti pazienti non potevano essere ipnotizzati, pur essendo la diagnosi quella di isteria e pur sembrando probabile che il meccanismo fosse attivo in loro. Avevo bisogno dell'ipnosi per allargare la loro memoria allo scopo di individuare i ricordi patogeni non presenti nella coscienza ordinaria. Quindi ero costretto o a rinunciare all'idea di curare questi pazienti oppure a sforzarmi di ottenere detto allargamento in qualche altro modo.

Come gli altri, anche io non riuscivo a spiegare perché una persona può essere ipnotizzata e un'altra no; dunque non potevo adottare un metodo casuale per superare l'ostacolo. Però notavo che in taluni pazienti l'ostacolo era situato ancora prima: essi respingevano persino ogni tentativo di ipnosi. Allora un giorno mi venne l'idea che i due casi fossero identici e che entrambi potessero significare un'opposizione volontaria, che i soggetti non ipnotizzabili avessero qualche obiezione psichica contro l'ipnosi, fosse l'obiezione espressa come volontaria opposizione o no. Non sono sicuro se posso continuare a sostenere quest'opinione.

Però il problema era come accantonare l'ipnosi eppure ottenere ugualmente rievocazioni patogene. Vi riuscii nel seguente modo.

Quando, durante la prima visita, chiedevo ai pazienti se rammentassero che cosa aveva originato inizialmente i sintomi in questione, in qualche caso mi dicevano di non saperne nulla, mentre in altri casi mi riferivano qualcosa che definivano come un oscuro ricordo e non potevano andare avanti. Nel caso che io, seguendo l'esempio di Bernheim allorché rievocava nei suoi pazienti in stato sonnambulico impressioni evidentemente obliate, diventassi insistente e li assicurassi che lo sapevano, e che se ne sarebbero ricordati, allora nei primi sorgeva veramente qualche ricordo e nei secondi si aveva un progresso. Dopo di che, diventavo ancor più insistente. Dicevo ai pazienti di distendersi e chiudere gli occhi volontariamente per «concentrarsi», ciò che aveva almeno una certa analogia con l'ipnosi. Mi accorgevo allora che, senza alcuna ipnosi, emergevano nuovi ricordi che risalivano ancor più nel passato e probabilmente avevano rapporti con quel che ci interessava. Esperienze come queste mi fecero pensare che sarebbe stato effettivamente possibile riportare alla luce, con la sola insistenza, i gruppi di idee patogene che, in fin dei conti, erano certamente presenti, e siccome questa insistenza comportava uno sforzo da parte mia e quindi suggeriva l'idea che avessi avuto da superare una resistenza, questa situazione mi portò subito a formulare la teoria che con il mio lavoro psichico avevo dovuto sopraffare una forza psichica nei pazienti che si opponeva a che le idee patogene divenissero consce (venendo ricordate).

Una nuova comprensione sembrò aprirsi ai miei occhi quando mi venne in mente che si doveva senza dubbio trattare della stessa forza psichica che aveva avuto un ruolo nel determinismo del sintomo isterico e nel contempo aveva impedito all'idea patogena di diventare cosciente. Che genere di forza poteva agire in questi casi e che movente poteva averla scatenata? Mi potei agevolmente formare un'opinione in proposito. Infatti io già disponevo di alcune analisi complete, durante le quali ero venuto a conoscenza di idee che erano patogene ed erano state obliate ed estromesse dalla coscienza. Da ciò trassi una caratteristica universale di queste idee; possedevano tutte una natura spiacevole, atta a suscitare le emozioni della vergogna, dell'autorimprovero e del dolore morale, e la sensazione di essere danneggiati; appartenevano tutte a un tipo che si sarebbe preferito non sperimentare, che si sarebbe fatto meglio a dimenticare. Da tutto ciò nasceva, in maniera realmente automatica, il pensiero di difesa.

In effetti si ammette generalmente dagli psicologi che l'accettazione di una nuova idea (accettazione nel senso di credervi e di riconoscerla per reale) dipende dalla natura e dalla tendenza delle idee già unite all'ego, per cui costoro hanno escogitato speciali nomi tecnici per questo processo di censura al quale la nuova arrivata deve sottoporsi. L'ego del paziente era stato avvicinato da un'idea che risultava essere incompatibile, e che provocava da parte dell'ego stesso una forza di repulsione il cui scopo era la difesa contro la stessa idea incompatibile. Difatti questa difesa aveva successo. L'idea in questione veniva estromessa dalla coscienza e dalla memoria. La sua traccia psichica era evidentemente persa di vista. Ciononostante questa traccia doveva esserci. Se mi sforzavo di dirigere l'attenzione del paziente su di essa, mi rendevo conto, sotto forma della resistenza, dell'esistenza della medesima forza che s'era rivelata sotto la forma della repulsione quando il sintomo era stato generato. Se, a questo punto, mi fosse riuscito di far apparire probabile che l'idea era diventata patogena proprio in conseguenza della sua espulsione e repressione, la catena sarebbe risultata completa. In parecchie discussioni sui nostri casi clinici e in un breve lavoro sulle «Neuropsicosi di difesa», ho cercato di abbozzare le ipotesi psicologiche per mezzo delle quali si potrebbe dimostrare questa connessione causale (il fatto della conversione).

Dunque una forza psichica, l'avversione da parte dell'ego, aveva escluso originariamente l'idea patogena dall'associazione e ora si opponeva al suo ritorno nella memoria. Il «non sapere» del paziente di fatto era un «non voler sapere», un non volere quello che sarebbe stato cosciente in misura più o meno grande. Quindi il compito del terapeuta consiste nel superare, mediante il suo lavoro psichico, queste resistenze all'associazione. Egli lo fa in primo luogo «insistendo», ricorrendo alla costrizione psichica per dirigere l'attenzione dei pazienti sulle tracce di idee delle quali è alla ricerca. Però i suoi sforzi non si risolvono in questo, ma, come dimostrerò, assumono altre forme nel corso di un'analisi e richiamano altre forze psichiche che li sostengono.

Devo intrattenermi ancora un po' sulla questione dell'insistenza. Semplici assicurazioni, come «certo che lo sa», «me lo dica lo stesso», «se ne ricorderà tra un momento», non ci porteranno molto lontano. Persino in pazienti in stato di «concentrazione» il filo si spezza dopo poche frasi. Però non va dimenticato che qui si tratta sempre di un confronto quantitativo, di una lotta tra moventi dotati di diversi gradi di forza o intensità. L'insistenza da parte di un medico estraneo, non familiarizzato con quel che sta succedendo, non è abbastanza potente da domare la resistenza all'associazione di un caso di isteria grave. Occorre pensare a mezzi più energici.

In questi casi mi avvalgo in primo luogo di un piccolo artificio tecnico. Informo il paziente che tra un attimo gli applicherò una pressione sulla fronte e lo assicuro che, finché dura la pressione, egli vedrà dinanzi a sé una rievocazione sotto l'aspetto di immagine ovvero questa sarà presente nel suo pensiero in forma di idea; io gli ingiungo di comunicare questa immagine o questa idea, qualunque essa sia. Non deve tenersela per sé se gli capita di pensare che non è quello che si cerca o che non è la cosa giusta, o se è troppo sgradevole per lui esprimerla. Non vi dovranno essere critiche o reticenze, né per ragioni emotive né perché la cosa non è ritenuta importante. Solo così potremo trovare quel che cerchiamo, però lo troveremo infallibilmente. Detto questo esercito per qualche secondo una pressione sulla fronte del paziente, che sta disteso davanti a me; poi lo lascio andare e gli chiedo tranquillamente, come se non ci fossero possibilità di insuccesso: «Che cosa vede?» oppure «Che cosa le è apparso?».

Questo procedimento mi ha insegnato molte cose e ha sempre ottenuto lo scopo. Attualmente non posso più farne a meno. Naturalmente so bene che la pressione sulla fronte potrebbe essere sostituita da qualunque altro segnale o da qualche altra influenza fisica esercitata sul paziente, ma poiché questi è disteso davanti a me, premergli la fronte o prendergli la testa fra le mani sembra il modo più conveniente di applicare la suggestione per lo scopo che mi sono prefisso. Mi sarebbe possibile dire, a guisa di spiegazione dell'efficacia di questo artificio, che esso corrisponde a una «ipotesi momentaneamente intensificata»; però il meccanismo dell'ipnosi è talmente enigmatico che preferisco non ricorrere ad esso per una spiegazione. Piuttosto sono dell'opinione che il vantaggio di questo procedimento risieda nel fatto che per mezzo di esso io dissocio l'attenzione del paziente dalle sue indagini e riflessioni coscienti - in breve da tutto ciò su cui egli può esercitare la sua volontà — nello stesso modo in cui si può farlo fissando una boccia di cristallo, e così via.

La conclusione che ho tratto dal fatto che quel che sto cercando si manifesta sempre sotto la pressione delle mie mani è la seguente. L'idea patogena, che è stata manifestatamente dimenticata, è sempre «a portata di mano» e può essere raggiunta mercé associazioni facilmente accessibili. E solo questione di rimuovere qualche ostacolo dal cammino. Questo ostacolo sembra essere di nuovo la volontà del paziente e persone differenti possono apprendere, con diversi gradi di facilità, a liberarsi da soli dei propri pensieri volontari e ad adottare un'attitudine di osservazione assolutamente obiettiva verso i processi psichici che si svolgono dentro di loro.

Quel che emerge sotto la pressione della mia mano non sempre è un ricordo «dimenticato»; soltanto in rarissimi casi i ricordi veramente patogeni sono così facilmente a portata di mano in superficie. E molto più frequente che emerga un'idea che costituisce un anello intermedio della catena di associazioni tra l'idea dalla quale siamo partiti e l'idea patogena che stiamo cercando; oppure può essere un'idea che rappresenta il punto di partenza di una nuova serie di pensieri e di ricordi al termine della quale si troverà l'idea patogena. È vero che, quando questo accade, la pressione non ha rivelato l'idea patogena - che, in ogni caso, sarebbe incomprensibile, così avulsa dal suo contesto e raggiunta in modo non graduale -, però ha indicato la via che conduce ad essa e ha segnalato la direzione che deve essere presa dalla successiva ricerca. L'idea provocata per prima dalla pressione può in tali casi essere un ricordo familiare, che non è mai stato represso. Se, durante il nostro cammino verso l'idea patogena, il filo conduttore si spezza un'altra volta, basterà ripetere il procedimento della pressione per avere nuovi indizi e un nuovo punto di partenza.

In altri casi ancora, la pressione della mano suscita un ricordo, in sé familiare al paziente, ma la cui ricomparsa lo stupisce perché egli ha dimenticato il rapporto tra quest'idea e quella da cui abbiamo preso le mosse. Poi questo rapporto sarà confermato nell'ulteriore corso dell'analisi. Tutti questi effetti della pressione danno l'ingannevole impressione che al di fuori della coscienza del paziente ci sia un'intelligenza supcriore che conserva una gran quantità di materiale psichico, predisposto per scopi particolari e che ha stabilito un ordine prefissato, secondo il quale esso deve ritornare nella coscienza. Io però sospetto che questa seconda intelligenza inconscia altro non sia che un'apparenza.

In tutte le analisi piuttosto complicate il lavoro viene esplicato mediante l'impiego reiterato, in realtà continuativo, del procedimento della pressione sulla fronte. Certe volte questo procedimento, prendendo le mosse dal punto in cui le rievocazioni retrospettive del paziente in stato di veglia si interrompono bruscamente, indica la via da percorrere attraverso ricordi dei quali egli è rimasto consapevole; talora evoca e riordina ricordi, rimasti per molti anni esclusi dalla coscienza, ma che possono tuttavia essere riconosciuti quali ricordi, talvolta; infine, raggiungendo il massimo della riuscita sulla via delle rievocazioni, il procedimento fa emergere quel che il paziente non riconoscerà mai per suo, che mai ricorderà, pur ammettendo che il contesto lo implica inesorabilmente, mentre si convince che sono proprio queste idee che portano alla conclusione dell'analisi e all'eliminazione dei sintomi.

Cercherò di elencare qualche esempio degli eccellenti risultati conseguiti grazie a questo procedimento tecnico.

Avevo in cura una ragazza affetta da un'insopportabile tosse nervosa che si trascinava da sei anni. Naturalmente la tosse traeva incentivo da ogni banale catarro, ma in ogni modo doveva avere forti motivazioni psichiche. Da molto tempo tutti gli altri tipi di terapia si erano rivelati impotenti. Tentai quindi di rimuovere il sintomo per mezzo dell'analisi psichica. Tutto ciò che ella sapeva era che la tosse nervosa era cominciata all'età di quattordici anni quando si trovava a vivere con una zia. Sosteneva di non aver cognizione di alcuna agitazione psichica a quell'epoca e non pensava di avere alcun motivo di lamentarsi. Sotto la pressione dalla mia mano innanzi tutto ricordò un grosso cane. Poi riconobbe il quadro presente nella sua memoria: era un cane della zia, che le si era affezionato, la seguiva ovunque, e così via. A questo punto si rammentò, senza ulteriori sollecitazioni, che questo cane era morto e che i bambini gli avevano dato solenne sepoltura e che la tosse era cominciata al ritorno dal funerale. Le domandai il perché, ma dovetti un'altra volta far ricorso all'ausilio della pressione. In quel momento le era venuto in mente il pensiero: «Ora sono sola al mondo. Qui nessuno mi ama. Questa creatura era il mio unico amico e adesso l'ho perduta». Ella proseguì il suo racconto: «La tosse scomparve quando lasciai la casa della zia ma mi è ritornata diciotto mesi fa». «E come mai?» «Non lo so.» Esercitai di nuovo la pressione. Lei ricordò che alla notizia della morte di suo zio la tosse era riapparsa e ricordò anche di aver avuto pensieri analoghi. Lo zio sembrava essere stato l'unico componente della famiglia che avesse dimostrato un sentimento verso di lei, che l'avesse amata. Qui dunque stava l'idea patogena. Nessuno l'amava, preferivano chiunque altro a lei, lei non meritava d'essere amata, e così via. Ma all'idea di «amore» era legata qualche cosa che incontrava una forte resistenza ad essermi comunicata. L'analisi fu interrotta prima che la questione fosse chiarita.

Qualche tempo fa mi fu chiesto di liberare un'anziana signora dai suoi attacchi di ansia, per quanto dalle caratteristiche del suo carattere io la giudicassi poco adatta a un trattamento del genere. Sin dalla menopausa era diventata eccessivamente pia e soleva ricevermi a ciascuna visita munita di un piccolo crocefisso d'avorio nascosto nel palmo della mano, quasi che io fossi il Maligno. Gli attacchi di ansia, a carattere isterico, risalivano alla prima adolescenza e, secondo lei, avevano tratto origine dall'uso di un preparato di iodio somministratole per ridurre una modesta tumescenza della tiroide. Ovviamente io respinsi questa motivazione e tentai di trovarne un'altra che meglio si accordasse con le mie opinioni sull'etiologia delle nevrosi. In primo luogo la interrogai per trovare un'impressione di gioventù che stesse in rapporto causale con i suoi attacchi di angoscia, e, sotto la pressione della mia mano, riemerse il ricordo della lettura di ciò che viene definito un libro «di edificazione», nel quale si accennava, in tono abbastanza castigato, ai fatti sessuali. Il passo in questione fece alla ragazza un'impressione esattamente contraria a quella che era nelle intenzioni dell'autore: scoppiò in lacrime e gettò via il libro. Questo accadeva precedentemente al primo attacco di ansia. Una seconda pressione sulla fronte della paziente evocò un nuovo ricordo, di un tutore dei suoi fratelli che aveva manifestato una grande ammirazione per lei, che a sua volta aveva provato una certa tenerezza nei confronti di lui. Questo ricordo culminò con la rievocazione di una serata in casa dei genitori di lei, durante la quale erano tutti seduti intorno al tavolo con il giovane e si erano immensamente dilettati con una piacevole conversazione. La notte successiva ella era stata destata dal primo attacco di angoscia che, possiamo tranquillamente affermarlo, aveva a che fare più con la repressione di un impulso sessuale che con qualsiasi simultanea somministrazione di iodio. Con qualsiasi altro metodo, che prospettive avrei avuto di mettere in luce questa connessione, contro le idee e le dichiarazioni di questa paziente recalcitrante, così piena di pregiudizi verso di me e verso ogni forma di terapia mondana?

Un altro esempio riguarda una giovane, felicemente maritata. Sin dalla prima adolescenza veniva trovata di tanto in tanto al mattino in stato stuporoso, gli arti irrigiditi, la bocca aperta e la lingua protundente, e attualmente soffriva di nuovo, al risveglio, di attacchi molto simili, anche se non gravi. Siccome non riuscivo ad ottenere un'ipnosi profonda, cominciai la mia indagine con la paziente in stato di concentrazione. Con la prima pressione l'assicurai che avrebbe veduto qualche cosa direttamente correlata con le cause del suo stato nell'infanzia. Ella era tranquilla e pronta a collaborare. Rivide la casa in cui aveva trascorso la prima adolescenza, la sua camera, la posizione del letto, la nonna, che a quell'epoca viveva con loro, e una delle sue governanti alla quale era molto affezionata. Si susseguirono molte scenette, tutte prive d'importanza, che accadevano in quelle stanze tra quelle persone; esse terminavano con la partenza della governante che se ne andava per sposarsi. Non cavai nulla da tutti questi ricordi, non riuscendo a stabilire alcun rapporto tra di essi e l'etiologia delle crisi. Però diverse circostanze indicavano che essi appartenevano allo stesso periodo in cui erano comparsi i primi attacchi. Ma prima di procedere con l'analisi ebbi occasione di parlare con un collega che negli anni andati era stato il medico di famiglia dei genitori della mia paziente. Egli mi fornì la seguente informazione. Al tempo in cui aveva in cura la ragazza, che si approssimava alla maturità ed era molto ben sviluppata fisicamente, per i suoi primi attacchi, rimase colpito dall'eccessiva tenerezza nei rapporti tra lei e la governante che era allora in casa. Entrò in sospetto e indusse la nonna a tener d'occhio quella relazione. Dopo un po' di tempo l'anziana signora potè riferirgli che la governante aveva l'abitudine di visitare la fanciulla a letto di notte e che dopo queste nottate la fanciulla era presa, al mattino, dall'attacco. Non ebbero esitazione dopo di ciò ad allontanare silenziosamente questa corruttrice della gioventù. Si fece credere ai figlioli e persino alla madre che la governante se ne era andata per sposarsi. La mia terapia, coronata da immediato successo, consisté nel dare alla giovane l'informazione che avevo ricevuto.

Le rivelazioni, che si ottengono col procedimento della pressione, a volte appaiono in forma molto notevole e in circostanze tali da rendere ancor più attraente l'ipotesi che esista un'intelligenza inconscia. A questo proposito ricordo una signora che per molti anni aveva sofferto di ossessioni e fobie e che faceva risalire l'origine della malattia all'epoca della sua infanzia per altro senza saper affatto dire a che cosa dovesse essere imputata. Era aperta e intelligente e offriva una resistenza cosciente quanto mai scarsa (tra parentesi posso rilevare che il meccanismo psichico delle ossessioni ha una grande affinità intrinseca con i sintomi isterici e che la tecnica analitica è la medesima per entrambi). Allorché domandai a questa signora se, sotto la pressione della mia mano, avesse visto o ricordato alcunché, mi rispose: «Né l'uno né l'altro però mi è venuta tutto a un tratto in mente una parola». «Una parola sola?» «Sì, ma è troppo stupida.» «Me la dica lo stesso.» «Portinaio.» «Nient'altro?» «No.» Ripetei la pressione e di nuovo le balenò nella mente una parola: «Camicia da notte». A questo punto compresi che quello era un nuovo modo di rispondere e, esercitando ripetute pressioni, trassi fuori quella che sembrava una serie di parole senza senso: «Portinaio - camicia da notte - letto - città - calesse». «Che significa tutto ciò?» domandai. Lei rifletté per un momento e le venne il seguente pensiero: «Dev'essere la storia che mi è appena venuta in mente. Quando avevo dieci anni, una mia sorella di poco più grande di me, dell'età di dodici anni, una notte divenne pazza furiosa e dovettero legarla e portarla in città con il calesse. Ricordo perfettamente che fu il portinaio ad averne ragione e che poi andò anche con lei fino al manicomio». Proseguimmo con questo sistema di investigazione e il nostro oracolo pronunciò un'altra serie di parole, le quali per quanto non riuscissimo a interpretarle tutte, resero possibile la continuazione della storia e il passaggio da un racconto all'altro. Ben presto fu chiaro il significato di questo ricordo. La malattia della sorella le aveva fatto un'impressione tanto profonda perché le due condividevano un segreto. Dormivano nella stessa camera e una notte erano state entrambe sottoposte agli assalti sessuali di un certo individuo. La rievocazione di questo trauma sessuale della fanciullezza della paziente non soltanto rivelava l'origine delle sue prime ossessioni ma anche il trauma che in seguito avrebbe prodotto gli effetti patologici.

La particolarità di questo caso stava esclusivamente nell'affioramento di parole-chiave isolate, che dovevano essere combinate in frasi; infatti l'apparenza di sconnessione e futilità, che caratterizzava le parole pronunciate in questa maniera oracolare, vale anche per le idee e scene complete che vengono di solito evocate dalla mia pressione. Ma se le si segue, succede sempre che le reminiscenze, apparentemente sconnesse, risultano invece strettamente collegate e conducono direttamente al fattore patogeno che stiamo cercando. Per tal ragione sono lieto di riferire un caso di analisi in cui la mia fiducia sui risultati della pressione fu dapprima messa a dura prova ma poi brillantemente giustificata.

Una giovane maritata, molto intelligente ed apparentemente felice, si era rivolta a me per un ostinato dolore addominale che resisteva alle cure. Mi accorsi che il dolore era localizzato nella parete muscolare addominale per cui ordinai una terapia locale. Qualche mese dopo rividi la paziente che mi disse: «Il dolore mi è passato dopo la cura che mi ha ordinato, ed è rimasto assente per molto tempo. Ma ora mi è ritornato in forma nervosa. So che è cosi perché non ce l'ho più, come una volta, quando facevo certi movimenti, ma solo in momenti particolari, per esempio quando mi sveglio al mattino e quando sono agitata in un certo modo». La diagnosi della signora era esattissima. Ora si trattava di scoprire la causa del dolore ed ella non mi poteva aiutare in ciò mentre era in stato normale. Quando le domandai, durante la concentrazione e sotto la pressione della mia mano, se le venisse in mente o vedesse qualche cosa, ella si decise a favore del vedere e prese a descrivermi le sue immagini visive. Vedeva qualcosa di simile a un sole con raggerà, che naturalmente interpretai come fosfeni provocati dalla pressione sugli occhi. Aspettavo che seguisse qualcosa di più utile, ma ella continuò: «Stelle di uno strano azzurro pallido come il chiaro di luna» e così via, tutte cose che per me non erano che scintillamenti, lampi e macchie luminose davanti ai suoi occhi. Ero già pronto a considerare questa esperienza come un fallimento e mi domandavo come avrei potuto ritirarmi senza dare nell'occhio, quando la mia attenzione fu attirata da uno dei fenomeni che mi descriveva. Vedeva pendere dall'alto una grande croce nera, i contorni alonati di luce come tutte le altre visioni, e con una fiammella palpitante all'incrocio dei bracci. Era chiaro che questa volta non poteva più trattarsi di fosfeni. Adesso ascoltai attentamente.

Apparvero molte immagini immerse nella stessa luce, strani segni che rassomigliavano a caratteri sanscriti; figure simili a triangoli e tra esse un grande triangolo; di nuovo la croce... Questa volta sospettai un significato allegorico e le chiesi che cosa poteva essere la croce. «Probabilmente significa dolore» mi rispose. Le obiettai che di solito la croce rappresenta un fardello morale. Che cosa si nascondeva dietro il dolore? Non sapeva dirlo e continuò e con le sue visioni: un sole con raggi dorati. E anche questa volta seppe darne l'interpretazione. «E' Dio, la forza primordiale.» Poi venne una gigantesca lucertola che la guardava con espressione interrogativa ma non minacciosa. Poi un groviglio di serpi. Quindi ancora una volta il sole ma con miti raggi argentei e, davanti, tra lei e questa sorgente di luce, un'inferriata che nascondeva ai suoi occhi il centro del sole. Era un po' di tempo che avevo intuito che si trattava di allegorie e d'improvviso le chiesi il significato dell'ultima immagine. Mi rispose senza esitazione: «Il sole è la perfezione, l'ideale e l'inferriata rappresenta le debolezze e le colpe che stanno tra me e l'ideale». «Allora lei si muove dei rimproveri? Non è soddisfatta di se stessa?» «No davvero.» «Da quando?» «Da quando sono membro della Società Teosofica e ne leggo le pubblicazioni. Ho sempre avuto uno scarso concetto di me stessa.» «Che cosa l'ha maggiormente impressionata negli ultimi tempi?» «Una traduzione dal sanscritto che sta uscendo a puntate proprio adesso.» Un minuto dopo venivo iniziato alle Sue lotte mentali e ai suoi autorimproveri e ascoltavo il resoconto di un piccolo episodio che aveva dato occasione a un auto-rimprovero, (una occasione nella quale ciò che in precedenza era stato un dolore organico per la prima volta si manifestava quale conseguenza della conversione di un'eccitazione). Le immagini, che a tutta prima avevo interpretato come fosfeni, erano simboli di serie di pensieri influenzati dall'occulto e forse erano effettivamente figure vedute sul frontespizio di libri di occultismo.

Da quel momento mi sono dimostrato talmente entusiasta nelle mie lodi dei risultati della pressione, impiegata quale procedimento ausiliario, ed ho in tutto questo tempo tanto trascurato l'aspetto della difesa o della resistenza, che certamente debbo aver dato l'impressione che questo piccolo artifizio ci ha messo in condizioni di dominare gli ostacoli psichici che si oppongono al trattamento catartico. Ma sarebbe un grave errore crederlo. Per quanto mi è dato sapere, non si devono cercare vantaggi di questo genere nella cura. Qui, come altrove, un grande cambiamento esige una gran quantità di lavoro. Questo procedimento della pressione altro non è che un inganno per cogliere di sorpresa un ego che si sforza di difendersi. In tutti i casi di una certa gravità, l'ego si riprende e continua a far resistenza.

Devo accennare alle diverse forme in cui si manifesta questa resistenza. Una è che di regola il procedimento della pressione fallisce alla prima o seconda occasione. Allora il paziente dichiara, assai contrariato: «Mi aspettavo che succedesse qualcosa, ma tutto quello che mi è venuto in mente è quanto intensa fosse la mia attesa. Non è successo niente». Il fatto che il paziente si metta sulla sdifensiva non costituisce ancora un ostacolo. Possiamo replicare: «È stato perché era troppo curioso. Funzionerà la prossima volta». E infatti funziona. E notevole quanto spesso pazienti, anche i più docili e intelligenti, dimentichino completamente gli impegni assunti, pur avendoli accettati in precedenza. Hanno promesso di riferire tutto quello che viene loro in mente sotto la pressione della mia mano, senza tener conto se a loro sembra importante o no, o se per loro sia o non sia piacevole a dirsi (ossia riferire senza scegliere e senza lasciarsi influenzare dalla critica o dall'emozione). Ma non mantengono la promessa; evidentemente farlo sarebbe più forte di loro. Il lavoro subisce degli arresti ed essi continuano a sostenere che questa volta non è venuto loro nulla in mente. Se lo dicono non dobbiamo crederci, ma dobbiamo sempre pensare, e dirlo anche a loro, che abbiano nascosto qualcosa perché la ritengono priva di importanza o la trovano spiacevole. Dobbiamo insistere, dobbiamo ripetere la pressione e dimostrarci come infallibili, sinché finalmente non ci dicono qualcosa. Allora il paziente aggiunge: «Potevo dirglielo fin dalla prima volta». «Ma perché non l'ha detto?» «Non potevo credere che si trattasse di questo. E stato solo dopo che mi è venuto in mente tutte le volte, che mi sono indotto a dirlo.» Oppure: «Speravo che non fosse niente di tutto ciò. Potevo benissimo fare a meno di riferirlo. E stato solo quando si è rifiutato di lasciarsi reprimere che ho capito che non dovevo trascurarlo». Dopo questo fatto, dunque, il paziente rivela i motivi di una resistenza che inizialmente si rifiutava di ammettere. Evidentemente non è capace d'altro che di inalberare questa resistenza.

Spesso questa resistenza si cela dietro qualche specioso pretesto. «Oggi la mia mente è distratta; l'orologio (o il pianoforte nella stanza accanto) mi disturba.» A queste osservazioni ho imparato a rispondere: «Niente affatto. In questo istante lei si è imbattuto in qualcosa che non le va di dire. Ma non farebbe niente di buono. Vada avanti e me lo dica». Quanto più è lungo l'intervallo tra la mia pressione e il momento in cui il paziente prende a parlare, tanto più io mi faccio sospettoso e c'è da temere che egli stia rimaneggiando quel che ha visto e che stia per darne un resoconto mutilato. Un indizio molto importante spesso viene annunciato come un accessorio pleonastico, a guisa di un principe del melodramma camuffato da mendicante. «Ora m'è venuto in mente qualcosa, ma non ha niente a che vedere con l'argomento. Glielo dico solo perché lei vuol sapere tutto.» Parole di accompagnamento di questa fatta precedono di solito la tanto cercata soluzione. Io tendo sempre gli orecchi quando sento un paziente parlare con tanta noncuranza di qualche cosa che gli è venuta in mente, perché è segno che la difesa è stata efficace se le idee patogene sembrano avere così poca importanza nel momento in cui emergono. Da ciò possiamo risalire per induzione a che cosa sia il processo di difesa: si tratta di trasformare in debole un'idea forte, di spogliarla del suo contenuto affettivo.

Dunque una reminiscenza patogena è riconoscibile, fra l'altro, dal fatto che il paziente la descrive come priva di importanza oppure la riferisce facendo resistenza. Sono casi, questi, in cui il paziente tenta di ripudiarla anche dopo il suo ritorno. «Ora m'è venuta in mente qualche cosa ma è certo stato lei che me l'ha messa in testa.» Oppure «So quel che si aspetta che le risponda. Naturalmente lei ritiene che io abbia pensato a questo ova quello.» Un particolare metodo di disconoscimento sta nel dire: «E vero che adesso m'è venuta in mente una cosa, ma mi sembra come se ce l'avessi messa io deliberatamente. Non mi pare affatto che sia un pensiero rievocato». In tutti questi casi io mi mantengo incrollabilmente irremovibile. Evito di entrare in alcuna di queste distinzioni, ma spiego al paziente che si tratta solo di diversi aspetti della sua resistenza e di pretesti per evitare di riferire un determinato ricordo, che nonostante tutto, noi dobbiamo individuare.

Quando i ricordi ritornano in forma di immagini, il nostro compito in generale è più agevole di quando ritornano come pensieri. I pazienti isterici, che di solito sono del «tipo visivo», non presentano tali difficoltà all'analista come quelli affetti da ossessioni.

Allorché un'immagine è emersa dalla memoria del paziente, possiamo sentirlo dire che essa diventa frammentaria e oscura a mano a mano che egli procede nella descrizione. In effetti il paziente se ne sta sbarazzando col trasformarla in parole. Continuiamo a esaminare l'immagine mnemonica per scoprire in che direzione debba procedere il nostro lavoro. «Guardi di nuovo l'immagine. È scomparsa?» «In massima parte sì ma ancora vedo un particolare.» «Allora questo residuo deve ancora significare qualche cosa. O vedrà qualcosa di nuovo oltre a questo, o le verrà in mente qualcosa avente un nesso con questo.» Dopo che questo lavoro è stato compiuto, il campo visivo del paziente è di nuovo sgombro e possiamo evocare un'altra immagine. Però in altri casi un'immagine del genere rimarrà ostinatamente dinanzi all'occhio interiore del paziente, nonostante che egli l'abbia descritta, e questo per me è un indizio che egli ha ancora qualcosa di importante da dirmi a proposito dell'immagine. Appena fatto ciò l'immagine svanisce come un fantasma che sia stato esorcizzato.

Naturalmente per il processo dell'analisi bisogna sempre trovarsi nella giusta posizione di fronte al paziente, altrimenti ci si troverà sempre a dipendere da quel ch'egli sceglie di dire. Pertanto è consolante sapere che la tecnica della pressione, di fatto, non fallisce mai, se si esclude un solo caso del quale dovrò trattare più avanti, ma di cui posso dire fin d'ora che era legato a un particolare motivo di resistenza. Naturalmente può succedere che si faccia uso del procedimento in casi in cui non v'è nulla che esso sia in grado di rivelare. Per esempio, possiamo ricercare altre etiologie di un sintomo quando ce l'abbiamo già completamente davanti, oppure possiamo ricercare l'origine psichica di un sintomo, come un dolore, che in realtà è somatico. Anche in tali casi il paziente affermerà che non ha veduto nulla, ma questa volta avrà perfettamente ragione. Potremo evitare di fare un torto al paziente se rispetteremo la regola generale di tener d'occhio, durante tutta l'analisi, l'espressione del suo viso mentre giace tranquillo davanti a noi. Potremo allora imparare a distinguere senza alcuna difficoltà lo stato mentale di riposo, che accompagna l'effettiva assenza di rievocazioni, dalla tensione e dai segni di emozione con i quali egli cerca di scacciare i ricordi, che stanno emergendo, in obbedienza al principio di difesa. Inoltre esperienze del genere rendono possibile anche l'uso della tecnica della pressione ai fini della diagnosi differenziale.

Dunque, persino con l'ausilio della tecnica della pressione il lavoro non è per niente facile. L'unico vantaggio che otteniamo è quello di apprendere, dai risultati di questo procedimento, la direzione da seguirsi nelle nostre indagini e i punti sui quali dobbiamo insistere col paziente. In qualche caso questo è sufficiente. Il punto principale è che io dovrei intuire il segreto e dirlo apertamente al paziente che, allora, di regola è costretto ad allontanarne il diniego. In altri casi ci vuole di più. La persistenza della resistenza del paziente è segnalata dal fatto che i collegamenti si interrompono, la soluzione non viene, le immagini sono rievocate in maniera indistinta e incompleta. Se, durante la fase più avanzata di un'analisi, si ripensa alla fase precedente, si rimane molte volte stupiti nel rendersi conto in che stato di frammentarietà emergevano le idee e le scene che ottenevamo dal paziente col procedimento della pressione. Mancavano proprio gli elementi essenziali de! quadro - i rapporti col soggetto stesso o con i contenuti principali del suo pensiero — ragion per cui esso rimaneva inintelligibile.

Fornirò qualche esempio di come opera una censura del genere quando emergono per la prima volta i ricordi patogeni. Per esempio, il paziente vede la parte superiore di un corpo femminile col vestito non ben allacciato (per trascuratezza, si direbbe). Solo molto più tardi egli aggiungerà una testa al torso; rivelando così una particolare persona e i rapporti che egli ha con lei. Oppure rievoca un ricordo d'infanzia: due ragazzi. Egli è del tutto all'oscuro su chi sono quei due, ma sembra che siano rei di qualche malefatta. Soltanto dopo molti mesi, quando l'analisi sarà parecchio progredita, egli rivedrà quell'immagine e riconoscerà se stesso in uno dei ragazzi e suo fratello nell'altro.

Di quali mezzi disponiamo per superare questa continua resistenza? Pochi, però ne fanno parte quasi tutti quei mezzi con cui un uomo, ordinariamente, può esercitare un'influenza psichica su un altro. In primo luogo dobbiamo tener presente che si può risolvere una resistenza psichica solo lentamente e per gradi, soprattutto se sussiste da molto tempo, per cui dobbiamo aspettare con pazienza. In secondo luogo possiamo fare assegnamento sull'interesse intellettuale che il paziente comincia a provare dopo aver lavorato per qualche tempo. Spiegandogli le cose, fornendogli ragguagli sul mondo meraviglioso dei processi psichici nelle cui profondità possiamo penetrare solo grazie all'analisi, trasformiamo lo stesso paziente in collaboratore, lo induciamo a considerare se stesso con l'interesse obiettivo del ricercatore e così controbattiamo la sua resistenza, dato che essa poggia su una base emotiva. Ma alla fine - e questa è sempre la leva più efficace - noi ci dobbiamo adoperare, una volta scoperti i motivi della sua difesa, a togliere loro valore se non addirittura a sostituirli con altri più potenti. Senza dubbio è a questo punto che si ferma la possibilità di enunciare un'attività psicoterapeutica per mezzo di formule.

Si lavora il meglio che si può come chiarificatori (quando l'ignoranza ha provocato la paura), come maestri, come rappresentanti di una visione del mondo più libera o più alta, come padri confessori che danno l'assoluzione, come in effetti avviene, continuando a dimostrare simpatia e rispetto dopo che la confessione è stata fatta. Si cerca di dare al malato assistenza umana fino al massimo limite concesso dalle proprie capacità personali e dal grado di simpatia che si può sentire per quel caso in particolare. Presupposto essenziale per un'attività psichica del genere è che si sia più o meno intuita la natura del caso e i moventi della difesa operante in esso e, fortunatamente, la tecnica dell'insistenza e della pressione è capace di tanto.

Quanti più enigmi avremo risolto, tanto più facile troveremo l'indovinarne uno nuovo e tanto più presto saremo in grado di dare inizio al vero lavoro psichico curativo. Infatti è bene riconoscere chiaramente quanto segue: il paziente si libera dei sintomi isterici soltanto riproducendo le impressioni patogene che li hanno provocati, e dando sfogo ad esse con l'espressione di uno stato affettivo, per cui il compito terapeutico consiste semplicemente nel convincerlo a farlo; appena tale compito sia assolto, al medico più nulla rimane da rettificare e rimuovere. Quanto a questo scopo poteva servire sotto forma di controsuggestioni, già è stato impiegato nella lotta contro la resistenza. La situazione può essere paragonata al far scattare la serratura di una porta chiusa a chiave, dopo di che non si incontreranno ulteriori difficoltà nel girare la maniglia e aprire.

3.

Tenendo presente quel che ho detto nel paragrafo precedente circa le difficoltà della mia tecnica, difficoltà che ho esposto senza reticenze (dirò di sfuggita che le ho tratte dai casi peggiori e che tante volte le cose si mettono molto meglio), tenendo conto di tutto questo, dico, a ognuno verrà fatto di chiedere se non sarebbe preferibile, invece di invischiarsi in tutte queste pastoie, fare un impiego più energico dell'ipnosi oppure limitare l'applicazione del metodo catartico a quei soggetti che si possono mettere sotto ipnosi profonda. Quanto a quest'ultima proposta, dovrei rispondere che in questo caso, e per quanto riguarda la mia abilità, il numero dei pazienti adatti diverrebbe troppo esiguo, mentre al primo dei due consigli contrapporrei il sospetto che l'imposizione forzata dell'ipnosi potrebbe non risparmiarci molta resistenza. È abbastanza strano, ma le mie esperienze su questo punto non sono state numerose, per cui non posso andar oltre al semplice sospetto. Ma quando ho condotto un trattamento catartico sotto ipnosi, anziché sotto concentrazione, non mi sono accorto che ciò mi riducesse il lavoro che avevo da fare.

Non molto tempo fa ho portato a termine una cura del genere durante la quale feci scomparire una paralisi isterica delle gambe. La paziente entrava in uno stato, psichicamente assai diverso dalla veglia, che era caratterizzato fisicamente dal fatto che le era impossibile aprire gli occhi o alzarsi finché non le intimavo: «Si alzi, ora!». Eppure non ho mai incontrato tanta resistenza quanta in questo caso. Non detti troppa importanza a questi segni fisici e, verso il termine della cura, durata dieci mesi, essi non erano più rilevabili. Ma, ciononostante, lo stato della paziente, mentre eravamo al lavoro, non modificò mai le sue caratteristiche psichiche, cioè la capacità di ricordare il materiale inconscio e l'esistenza di un rapporto di tipo particolare con la figura del medico. D'altra parte, con la storia di Frau Emmy von N. ho fornito un esempio di trattamento catartico col più profondo sonnambulismo in cui la resistenza non aveva praticamente alcuna parte. Ma è anche vero che da quella signora non venni a sapere niente che non mi avrebbe detto da sveglia altro che dopo aver vinto particolari impedimenti, niente che non mi avrebbe raccontato anche in condizioni di veglia purché la nostra conoscenza datasse da qualche tempo ed ella avesse una grande stima di me. Non sono mai arrivato alle vere cause della sua malattia, senza dubbio identiche alle cause della ricaduta dopo la mia cura. Era questo infatti il mio primo tentativo con quel metodo. E l'unica volta che mi capitò di chiederle una rievocazione che comportava un elemento erotico, la trovai tanto riluttante e poco attendibile in ciò che diceva, quanto qualsiasi altra mia paziente esaminata più tardi senza sonnambulismo. Nella storia di quella signora ho già detto della resistenza che ella opponeva, persino durante il sonnambulismo, ad altre mie richieste e suggerimenti. Sono diventato alquanto scettico sul valore dell'ipnosi nel facilitare i trattamenti catartici, perché ho fatto l'esperienza di casi nei quali, durante il sonnambulismo profondo, v'era stata un'opposizione ostinata e assoluta alla terapia, mentre sotto altri aspetti le pazienti erano del tutto obbedienti. Ho già brevemente accennato a un caso del genere e potrei citarne altri. Posso anche ammettere che quest'esperienza ha corrisposto molto bene alle aspettative e insisto sul fatto che vi deve essere, nell'ambito psichico come in quello fisico, un rapporto quantitativo tra causa ed effetto.

In quanto sono venuto fin qui esponendo, l'idea di resistenza si è imposta in primo piano. Ho dimostrato come, nel corso del nostro lavoro terapeutico, abbiamo finito col formarci l'opinione che l'isteria si origina dalla rimozione, dovuta a un movente difensivo, di un'idea incompatibile. Secondo questa opinione, l'idea rimossa persisterebbe quale debole traccia mnemonica (avente scarsa intensità), mentre l'emozione, avulsa dall'idea, sarebbe impiegata in un'efferenza nervosa somatica (vale a dire che l'eccitazione è «convertita»). Sembrerebbe allora che, proprio attraverso questa rimozione, l'idea divenga causa di sintomi morbosi (ossia diventa patogena). A un'isteria provvista di tale meccanismo psichico può essere dato l'appellativo di «isteria da difesa».

Ora, sia Breuer che io abbiamo più volte parlato di altri due tipi di isteria alle quali abbiamo imposto i nomi di «isteria ipnoide» e «isteria da ritenzione». L'isteria ipnoide è stata, tra tutte, la prima a entrare nel nostro campo di studi Veramente non potrei trovare un esempio migliore del primo caso di Breuer, che si trova all'inizio delle nostre storie cliniche. Per questi casi di isteria ipnoide Breuer ha proposto un meccanismo psichico sostanzialmente differente da quello della difesa mediante conversione. Secondo la sua opinione, ciò che accade nell'isteria ipnoide è che un'idea diviene patogena perché è stata ricevuta durante uno speciale stato psichico e, fin da principio, è rimasta fuori dell'io. Quindi non è stata necessaria alcuna forza per separarla dall'io e non solleveremo alcuna resistenza introducendola nell'io con l'ausilio dell'attività mentale durante il sonnambulismo. E difatti il caso clinico di Anna O. non presenta alcun segno di tale resistenza.

Io considero questa distinzione talmente importante che grazie alla sua validità, ben volentieri accolgo l'ipotesi che esista un'isteria ipnoide. È alquanto strano che, nella mia esperienza personale, non mi sia mai imbattuto in una vera e propria isteria ipnoide. Tutto quello che mi è capitato tra le mani si è trasformato in isteria da difesa. Ciò non significa in effetti, che io non abbia mai avuto a che fare con sintomi che, dimostrabilmente, insorgevano durante stati di dissociazione della coscienza e per tal ragione dovevano per forza rimanere esclusi dall'io. Questo talvolta si osservava anche nei miei casi, ma dopo potevo dimostrare che il cosiddetto stato ipnoide doveva la sua separazione al fatto che in essi si manifestava un gruppo psichico precedentemente estromesso dalla difesa. Per farla breve, non posso eliminare il sospetto che in qualche punto le radici dell'isteria da difesa e di quella ipnoide confluiscono e che il fattore essenziale è la difesa. Però non posso dire nulla di più preciso.

Per il momento anche il mio giudizio sull'«isteria da ritenzione» è altrettanto incerto, isteria nella quale il lavoro terapeutico dovrebbe ugualmente procedere senza resistenza. Ebbi un caso che consideravo come una tipica isteria da ritenzione e mi rallegravo della prospettiva di un successo facile e sicuro. Ma pur essendo veramente facile il lavoro, il successo non venne. Pertanto io sospetto, sia pure con tutte le riserve che dipendono dall'ignoranza, che anche alla base dell'isteria da ritenzione debba trovarsi un fattore di difesa che ha incanalato forzatamente l'intero processo in direzione dell'isteria. Si deve sperare che ulteriori osservazioni presto decideranno se sto correndo il rischio di cadere nell'unilateralità e nell'errore col favorire l'estensione del concetto di difesa a tutta l'isteria.

Finora ho trattato delle difficoltà e della tecnica del metodo catartico, e vorrei aggiungere qualche indicazione sulla forma assunta da un'analisi quando si adotta questa tecnica. Questo per me è un argomento molto interessante, ma non posso sperare che susciti un uguale interesse in altri, che ancora non abbiano condotto un'analisi di questo genere. E vero che tornerò a parlare della tecnica, ma questa volta a proposito di difficoltà intrinseche, delle quali non possiamo ritenere responsabili i pazienti, e che debbono essere in parte le stesse nell'isteria ipnoide o da ritenzione e nelle isterie da difesa, che tengo come modello davanti agli occhi. Affronto quest'ultima parte della mia esposizione con la speranza che le caratteristiche psichiche che saranno rivelate in essa possano acquistare un giorno un certo valore quale materia prima per la dinamica dell'ideazione.

La prima e più energica impressione, che si riceve durante questa analisi, è senz'altro il fatto che il materiale psichico patologico, che è stato sicuramente dimenticato, che non è a disposizione dell'io e non ha parte alcuna nell'associazione e nella memoria, nondimeno si trova a portata di mano nell'ordine corretto e adeguato. Si tratta soltanto di allontanare le resistenze che sbarrano il cammino al materiale. Sotto altri rispetti questo materiale è conosciuto allo stesso modo in cui possiamo conoscere qualsiasi cosa; esistono valide connessioni delle idee separate, tra di loro e tra esse e quelle non patogene, che vengono frequentemente ricordate; queste connessioni sono state concretate in passato e immagazzinate nella memoria. Il materiale psichico patologico sembra essere proprietà di un'intelligenza non necessariamente inferiore a quella dell'ego normale. La comparsa di una seconda personalità spesso si rivela nel modo più ingannatore.

Se questa impressione sia giustificata o se, nel pensare ad essa, noi retrodatiamo al periodo della malattia una disposizione del materiale psichico che in realtà ha avuto luogo dopo la guarigione, è un problema di cui preferisco non discutere ora, in queste pagine. In ogni modo, le osservazioni fatte durante queste analisi possono essere descritte più appropriatamente e chiaramente se le consideriamo dalla posizione che possiamo prendere dopo la guarigione, nell'intento di riesaminare il caso nel suo insieme.

In effetti, di solito la situazione non è così semplice come l'abbiamo rappresentata in casi particolari (quando, per esempio, vi è un solo sintomo, nato da un solo trauma importante). In genere non troviamo un singolo sintomo isterico, ma diversi sintomi, parte indipendenti gli uni dagli altri e parte intercollegati. Non dobbiamo sperare di imbatterci in un solo ricordo traumatizzante avente, quale nucleo, una sola idea patogena; dobbiamo essere preparati a trovare una sequela di traumi parziali e concatenazioni di serie di pensieri patogeni. Un'isteria traumatica monosintomatica corrisponde a un essere elementare, a un organismo unicellulare confrontato con la complessa struttura delle nevrosi relativamente gravi che siamo soliti osservare.

In questi casi di isteria il materiale psichico si presenta come una struttura pluridimensionale stratificata almeno in tre modi differenti. (Spero di riuscire a giustificare questo modo pittoresco di esprimersi). Per cominciare vi è un nucleo formato da ricordi di avvenimenti o da catene di pensieri, nei quali culmina il fattore traumatico ovvero l'idea patogena trova la sua più schietta manifestazione. Attorno a questo nucleo troviamo una quantità, spesso incredibilmente grande, di altri materiali mnemonici, che devono essere trattati mediante l'analisi, disposti, come si è detto, in triplice ordine.

In primo luogo vi è un ordine cronologico, inconfondibilmente lineare, attinente a ciascun tema separato. A conferma di ciò citerò la disposizione del materiale nell'analisi di Anna O. (Breuer). Prendiamo il tema della sordità, del non udire. Esso era differenziato secondo sette serie di determinanti, e sotto ciascuna di queste sette voci si raccoglievano da dieci a oltre cento singoli ricordi, disposti in serie cronologica. Era come se stessimo esaminando un dossier tenuto in buon ordine. L'analisi della mia paziente Frau Emmy von N. conteneva simili archivi di memorie sebbene non fossero altrettanto ben catalogate e descritte. Questi archivi costituiscono una caratteristica generale di ogni analisi e il loro contenuto emerge sempre in ordine cronologico, infallibilmente attendibile, così come, in una persona mentalmente normale, lo è la successione dei giorni della settimana o i nomi dei mesi. Essi rendono più difficile il lavoro di analisi in quanto, nel rievocare i ricordi, invertono l'ordine in cui sono stati originati. L'esperienza più nuova e recente dell'archivio appare per prima, a guisa di titolo, e per ultima viene l'esperienza con la quale la serie è di fatto cominciata.

Ho descritto tali raggruppamenti di memorie simili tra di loro come raccolte disposte secondo una sequenza lineare come uno schedario di documenti, un blocco di fogli, ecc., dicendo che costituiscono dei «temi». Questi temi presentano un'altra modalità di disposizione. Ciascuno è - non mi posso esprimere in altro modo - stratificato concentricamente attorno al nucleo patogeno. Non è difficile dire che cosa produce questa stratificazione, quale dimensione riducentesi o crescente è alla base di questa disposizione. Il contenuto di ciascuno strato particolare è caratterizzato da uno stesso grado di resistenza e questa cresce in proporzione alla vicinanza al nucleo. Quindi vi sono zone entro le quali vi è un ugual grado di modificazione della coscienza e i diversi temi si estendono attraverso esse. Gli strati più periferici contengono le memorie (o archivi) che, appartenendo a diversi temi, vengono facilmente ricordare e sono stati sempre chiaramente coscienti. Quanto più andiamo in profondo, tanto più diffìcile diventa il riconoscimento dei ricordi che emergono, sinché , in prossimità del nucleo, ci imbattiamo in ricordi che il paziente rinnega persino mentre li rievoca.

È questa caratteristica della stratificazione concentrica del materiale psichico patogeno che, come vedremo, conferisce al corso di queste analisi le loro tipiche caratteristiche. Un terzo genere di disposizione deve ancora essere ricordato; il più importante, ma sul quale è molto più difficile fare alcuna affermazione generale. Quella che ho in mente è una disposizione secondo il contenuto dei pensieri, il legame stabilito da un filo logico che arriva fino al nucleo e tende a prendere un andamento irregolare e contorto, diverso nei singoli casi. Questa disposizione ha un carattere dinamico in contrasto con quello morfologico delle due stratificazioni precedentemente ricordate. Mentre queste due sarebbero rappresentate, in un diagramma spaziale, da una linea continua, curva o retta, l'andamento della catena logica dovrebbe essere rappresentato da una linea spezzata che segue le vie più irregolari, andando dalla superficie agli strati più profondi e di nuovo indietro, pur dimostrando un generale avanzamento dalla periferia verso il nucleo centrale, ma toccando ogni punto intermedio: una linea che rassomiglia alla linea a zig zag del problema del cavallo negli scacchi che salta attraverso le caselle della scacchiera.

Devo intrattenermi ancora un po' su quest'ultima similitudine, per mettere in rilievo un punto in cui essa non si attaglia alle caratteristiche del fenomeno. La catena logica non corrisponde soltanto a una linea a zig zag e contorta, ma ancor meglio a un sistema di linea ramificato e, più esattamente a un sistema convergente. Contiene punti nodali in cui due o più fili s'incontrano per poi procedere uniti; e di solito parecchi fili, che corrono indipendentemente, o che in vari punti sono collegati da tratti collaterali, finiscono con lo sboccare nel nucleo. Per dirla con altre parole, è notevole quanto spesso un sintomo sia determinato in molti modi o sia «superdeterminato».

Il mio tentativo di illustrare l'organizzazione del materiale psichico patologico sarà completo dopo aver introdotto un'altra complicazione.

Infatti può succedere che vi sia più di un nucleo nel materiale patologico; se, per esempio, dobbiamo analizzare un secondo attacco di isteria, che ha un'etiologia sua propria, ma ciononostante è collegato col primo accesso di isteria acuta, guarito anni prima. E facile immaginare, così stando le cose, quali aggiunte devono essersi fatte sugli strati e quali nuove vie di pensiero si devono essere stabilite perché si istituisca una connessione tra due nuclei patologici.

Farò ora alcune ulteriori osservazioni sul quadro testé definito riguardante l'organizzazione del materiale. Abbiamo detto che questo materiale si comporta a guisa di corpo estraneo dal tessuto vivente. Adesso siamo in grado di vedere dove questa similitudine è inesatta. Un corpo estraneo non entra in alcun rapporto con gli strati di tessuto che lo circondano, ancorché li alteri e renda necessaria in essi una reazione infiammatoria. Il nostro gruppo psichico patologico non si lascia, d'altra parte, estirpare nettamente fuori dall'io. I suoi strati esterni si insinuano in ogni direzione entro parti di io normale e in effetti appartengono tanto a quest'ultimo quanto all'organizzazione patologica. Nell'analisi, il limite tra i due è fissato in maniera puramente convenzionale, ora in un punto ora in un altro mentre in qualche tratto non può essere affatto tracciato. Gli strati interni dell'organizzazione patologica sono progressivamente più estranei per l'io ma anche questa volta senza che vi sia alcun limite visibile in cui comincia il materiale patologico. Infatti l'organizzazione patologica non si comporta come un corpo estraneo ma molto più come un infiltrato. In questa similitudine la resistenza è ciò che si è infiltrato. E nemmeno la cura consiste nell'estirpare qualche cosa - la psicoterapia attualmente non è in grado di farlo - ma nel far sì che la resistenza si ammorbidisca mettendo in tal modo la circolazione in grado di fluire in una regione fino ad ora tagliata fuori.

(Qui sto facendo uso di diverse similitudini, le quali hanno tutte una somiglianza molto limitata con il mio argomento e che, inoltre, sono incompatibili tra di loro. Mi rendo conto che è così e non corro il rischio di sopravvalutare il loro valore. Ma il mio scopo nel ricorrere ad esse è quello di illuminare da diversi punti di vista un argomento estremamente complicato, finora non affrontato. Pertanto nelle pagine che seguono mi permetterò di continuare a introdurre similitudini sempre nello stesso modo, pur sapendo che ciò non va esente da critiche.)

Se, dopo che il caso è stato completamente chiarito, fosse possibile mostrare ad una terza persona il materiale patogeno illustrandone l'organizzazione, che sappiamo complessa e multidimensionale, questa ci domanderebbe con ragione come un cammello di tal fatta sia passato per la cruna dell'ago. Infatti è abbastanza giustificato parlare della «strettoia» "della coscienza. La parola acquista significato e vivezza per un medico che conduca un'analisi del genere. Un solo ricordo alla volta può entrare nella coscienza dell'ego. Un paziente occupato a rievocare questo ricordo non vede nulla di ciò che si sta facendo strada dietro di esso e dimentica quello che già è venuto fuori. Se vi sono delle difficoltà nel modo di dominare questo singolo ricordo patogeno - come, per esempio, se il paziente non allenta lo stato di resistenza o se cerca di reprimerlo o di mutilarlo - allora il passaggio rimane, per così dire, bloccato. Il lavoro segna una battuta d'arresto, niente può più apparire e l'unica reminiscenza, che era in procinto di emergere, rimane dinanzi al paziente finché questi non l'assume nella dimensione del proprio ego. L'intera massa, estesa spazialmente, di materiale psicogeno viene, in tal modo forzata attraverso una stretta fenditurav e quindi arriva alla coscienza veramente tagliata a pezzi o strisce. È compito dello psicoterapeuta ricomporli insieme nell'organizzazione che egli presume esistesse. Chiunque provi la bramosia da altre similitudini può a questo punto pensare a un gioco di pazienza a incastro.

Se ci troviamo a dover intraprendere un'analisi del genere, in cui si abbia ragione di prevedere una tale organizzazione del materiale patologico, ci verrà in aiuto quanto l'esperienza ci ha insegnato, ossia che è impresa assolutamente disperata tentare di penetrare direttamente nel nucleo dell'organizzazione patologica. Persino se noi stessi potessimo arrivarci, il paziente non saprebbe che fare della spiegazione fornitagli e non ne sarebbe psicologicamente trasformato.

Non c'è altro da fare che partire dalla periferia della struttura psichica. Cominciamo col far dire al paziente quel che sa e rammenta nel mentre che già indirizziamo la sua attenzione e vinciamo le sue lievi resistenze ricorrendo al procedimento della pressione. Ogni qual volta apriamo una nuova via, grazie alla pressione sulla fronte, possiamo sperare che egli avanzi per un certo tratto senza nuove resistenze.

Dopo aver lavorato per un po' in questa maniera, il paziente, di regola, comincia a collaborare con noi. Adesso gli vengono in mente numerosi ricordi senza che lo si debba interrogare o che gli si debbano imporre dei compiti. Abbiamo aperto una via verso uno strato interno, entro il quale il paziente trova adesso da solo del materiale disponibile dotato di uno stesso livello di resistenza. È meglio lasciarlo rievocare per qualche tempo questo materiale senza influenzarlo. È pur vero che egli stesso non è in condizione di scoprire nessi importanti, però gli si può lasciar mettere ordine nel materiale compreso in uno stesso strato. Le cose, ch'egli porta in questo modo alla luce, sembrano spesse volte sconnesse, ma offrono un materiale che potrà essere collocato, quando, più tardi, si sarà scoperto il legame.

E qui dobbiamo mettere genericamente in guardia contro due cose. Se interferiamo col paziente nella sua rievocazione delle idee che pullulano in lui, possiamo «seppellire» cose che dovranno essere di nuovo tirate fuori più tardi e con gran fatica. Inoltre non dobbiamo sopravvalutare l'«intelligenza» inconscia del paziente, lasciando ad essa l'intera direzione del lavoro. Se volessimo dare un quadro schematico del nostro modo di operare, forse potrei dire che noi pratichiamo le aperture verso gli strati interni mentre il paziente cura la dimensione periferica del lavoro.

Come si sa, i progressi si ottengono vincendo la resistenza nel modo già indicato. Ma di solito, prima di questo, c'è un altro compito da eseguire. Dobbiamo afferrare un tratto del filo logico perché solo con questa guida possiamo sperare di penetrare nell'interno. Non possiamo sperare che le comunicazioni libere fatte dal paziente, materiale degli strati più superficiali, rendano facile per l'analista il riconoscimento del punto in cui la via conduce in profondità o l'individuazione dei punti di partenza delle connessioni che sta ricercando. Al contrario, è proprio questo che viene accuratamente nascosto: il resoconto fornito dal paziente suona come se fosse completo e definitivo. A tutta prima è come trovarsi davanti a una muraglia che copre ogni prospettiva e c'impedisce di avere alcuna idea se c'è qualcosa di là da essa, e, se sì, che cosa.

Ma se esaminiamo con occhio critico il resoconto fornitoci dal paziente senza molto sforzo né resistenza, vi troveremo immancabilmente lacune e imperfezioni. A un certo punto la catena di pensieri apparirà visibilmente interrotta e rabberciata alla meglio dal paziente con un giro di parole o una spiegazione del tutto inadeguata. In un altro punto troveremo un motivo, che una persona normale avrebbe definito debole. Il paziente non riconoscerà queste manchevolezze allorché faremo convergere la sua attenzione su di esse, ma il medico avrà ragione nel ricercare, dietro ai punti deboli, un accesso al materiale degli strati più profondi sperando di individuare proprio là i tratti di collegamento di cui va alla ricerca con il procedimento della pressione. Di conseguenza, noi diremo al paziente: «Lei è in errore; quel che sta descrivendo può non aver nulla a che fare con l'argomento in questione. Dobbiamo attenderci di trovare qualcos'altro, e questo le verrà in mente sotto la pressione della mia mano».

Infatti possiamo esigere da un paziente isterico, come faremmo con un individuo normale, un andamento logico e una motivazione sufficiente in una sequenza di pensieri anche se essa si estende nell'inconscio. Non è nei poteri di queste nevrosi rompere tali rapporti. Se, nei nevrotici e negli isterici in particolare, la catena di idee produce un'impressione differente, se in essi l'intensità relativa delle diverse idee sembra inesplicabile solo con le motivazioni psicologiche, noi già ne abbiamo scoperto la ragione, che potremo attribuire all'esistenza di motivi inconsci nascosti. Dunque possiamo sospettare la presenza di tali motivi segreti tutte le volte che si evidenzia una breccia di questo genere in una concatenazione di pensieri, o quando la forza attribuita dal paziente ai propri motivi va molto oltre il normale.

Nell'eseguire questo lavoro dobbiamo naturalmente mantenerci liberi dal pregiudizio teorico di avere a che fare con i cervelli anormali di dégénérés e déséquilibrés, i quali in ragione della loro tara, godono della libertà di rovesciare le comuni leggi psicologiche che governano il collegamento delle idee, e nei quali un'idea occasionale può diventare esageratamente intensa senza alcun motivo, mentre un'altra può diventare indistruttibile senza alcuna ragione psicologica. L'esperienza dimostra che nell'isteria è vero il contrario. Una volta che abbiamo scoperto i motivi nascosti, rimasti molte volte inconsci, e che li abbiamo tenuti nel debito conto, nelle connessioni dei pensieri isterici non rimane nulla di enigmatico o di contrario alle regole più che nei pensieri normali.

In tal maniera, dunque, individuando le lacune della prima descrizione del paziente - lacune spesse volte mascherate da «false connessioni» - riusciamo a impadronirci di un tratto del filo logico in periferia e da questo punto apriamo un nuovo cammino mediante la tecnica della pressione.

E' molto raro che con questo riusciamo ad aprirci una strada diretta verso l'interno seguendo sempre uno stesso filo. Di solito questo a mezza via si interrompe; la pressione fallisce e non ottiene alcun risultato oppure un risultato che non può essere né chiarito né perfezionato a onta di tutti gli sforzi. Quando succede, impariamo presto a evitare gli errori in cui potremmo incorrere. L'espressione del volto del paziente deve stabilire se veramente siamo giunti al termine, o se si tratta di un fatto che non richiede una spiegazione psichica, oppure se è l'eccessiva resistenza che ha portato il lavoro a un punto morto. In quest'ultimo caso, se non possiamo superare subito la resistenza, ci è lecito presumere di aver seguito il filo sino a uno strato che per il momento è ancora impenetrabile. Lo lasciamo cadere e prendiamo un altro filo che forse potremo seguire fino alla stessa profondità. Quando saremo giunti a questo strato seguendo tutti i fili ed avremo scoperto i grovigli a causa dei quali non è possibile seguire isolatamente fili in precedenza separati, potremo pensare ad attaccare con nuova lena la resistenza che ci si para dinanzi.

È facile immaginarsi quanto possa essere complicato un lavoro del genere. Ci apriamo a forza la strada negli strati interni superando in continuazione delle resistenze; arriviamo a conoscere i temi accumulati in uno di questi strati ed i fili che li percorrono, e ci rendiamo conto fino a che punto potremo spingerci con gli attuali mezzi e la conoscenza che abbiamo acquisito. Otteniamo dei dati preliminari sul contenuto degli strati successivi ricorrendo alla tecnica della pressione; lasciamo cadere dei fili e li raccogliamo di nuovo; li seguiamo fino a dei punti nodali; di continuo risolviamo gli arretrati; e, ogni volta che seguiamo una serie di ricordi siamo condotti verso qualche via laterale che però alla fine si ricongiunge. Con questo metodo arriviamo alla fine a un punto in cui possiamo smettere di lavorare per strati e possiamo penetrare direttamente nel nucleo dell'organizzazione patologica. Con il che la battaglia è vinta, anche se non finita. Dobbiamo tornare indietro e riprendere gli altri fili per esaurire il materiale. Ma ora il paziente ci fornisce un aiuto energico. La sua resistenza è in massima parte infranta.

In queste ultime fasi del lavoro sarà utile riuscire a intravedere il modo in cui le cose sono collegate e dirlo al paziente prima di averlo scoperto. Se avremo indovinato giusto, il corso dell'analisi risulterà accelerato; ma anche un'ipotesi errata ci è d'aiuto, dato che obbliga il paziente a prendere posizione e lo porta a energiche negazioni che tradiscono la sua certamente migliore conoscenza.

Da ciò apprendiamo con sbalordimento che non siamo in condizioni di ottenere nulla dal paziente in cose di cui è evidentemente ignorante o di influire sui risultati dell'analisi suscitando uno stato di attesa. Neppure una volta sono riuscito, preconizzando qualche cosa, ad alterare o falsificare la rievocazione delle memorie o il collegamento degli eventi, perché, se ci fossi riuscito, alla fine il fatto sarebbe stato rivelato da qualche contraddizione nel materiale. Se qualche cosa risultava quale l'avevo prevista, essa era sempre provata da un gran numero di reminiscenze impeccabili, che io al massimo avevo intuito esattamente. Pertanto non dobbiamo aver paura di dire al paziente quale pensiamo che sarà la connessione successiva dei suoi pensieri. Non gli farà male.

Un'altra osservazione, costantemente ripetuta, si riferisce alle rievocazioni spontanee del paziente. Si può affermare che ogni singola reminiscenza che emerge in un'analisi del genere ha un significato. Infatti non si verifica mai un'intrusione di immagini mnemoniche irrilevanti (che in un modo o nell'altro si trovano ad essere associate con quelle importanti). Si dà un'eccezione, che non contraddice alia regola, eccezione riguardante ricordi che, in sé privi di importanza, sono però indispensabili come ponte, nel senso che soltanto attraverso essi si può avere l'associazione tra due ricordi importanti.

La durata del tempo di permanenza di un ricordo nella strettoia situata di fronte alla coscienza del paziente è, come già si è spiegato, direttamente proporzionale alla sua importanza. Un'immagine che rifiuta di scomparire è un'immagine che richiede ulteriore considerazione, un pensiero che non può esser messo da parte necessita di essere approfondito. Inoltre, una rievocazione non torna mai una seconda volta dopo che sia stata dominata; l'immagine sarà accompagnata da una nuova serie di pensieri, e l'idea avrà nuove implicazioni. In altre parole, esse non sono state dominate completamente. Ancora, capita di frequente che un'immagine o un pensiero ricompaiano con gradi diversi di intensità, dapprima come un barlume e più tardi in completa chiarezza. Però ciò non contraddice a quanto ho già affermato.

Tra le incombenze che toccano all'analisi vi è quella di sbarazzarsi di sintomi capaci di aumentare d'intensità o di ritornare: dolori, sintomi dipendenti da certe stimolazioni (come il vomito), sensazioni e contratture. Mentre stiamo lavorando su uno di questi sintomi, ci incontriamo nell'interessante e non desiderato fenomeno dell'«inseri-mento nella conversazione». Il sintomo problematico ricompare, o si manifesta con maggiore intensità, non appena raggiungiamo la regione dell'organizzazione patologica che contiene l'etiologia del sintomo stesso, e da allora in poi accompagna il lavoro con oscillazioni caratteristiche, istruttive per il medico. L'intensità del sintomo (prendiamo per esempio un desiderio di vomitare) aumenta man mano che approfondiamo uno dei ricordi patogeni più importanti; essa raggiunge il massimo poco prima che il paziente esprima questo ricordo; e quando ha finito diminuisce improvvisamente o addirittura scompare del tutto per un po' di tempo. Se, a causa della resistenza, il paziente ritarda a lungo la confessione, la tensione della sensazione -il desiderio di vomitare - diventa insopportabile e se non riusciamo a farlo parlare, comincia a vomitare veramente. In tal modo noi otteniamo un'espressione plastica del fatto che il «vomito» prende il posto di un'azione psichica (in questo caso l'atto della confessione), proprio secondo quanto sostiene la teoria della conversione nell'isteria.

Questa oscillazione d'intensità da parte del sintomo isterico viene allora ripetuta tutte le volte che ci avviciniamo ad un ricordo che sia patogeno nei confronti del sintomo. Potremmo dire che il sintomo è sempre all'ordine del giorno. Se siamo costretti a lasciar andare temporaneamente il filo cui il sintomo è collegato, anche il sintomo si ritira nell'oscurità per riemergere in una fase più avanzata dell'analisi. Questo comportamento va avanti finché il lavoro condotto sul materiale patologico non elimina il sintomo una volta per tutte.

In tutto ciò il sintomo isterico, a stretto rigore, non si comporta affatto diversamente dall'immagine mnemonica o dal pensiero rivissuto che noi evochiamo con la pressione della mano. In entrambi i casi troviamo il medesimo ostinato e ossessivo ritorno nella memoria del paziente, che dobbiamo eliminare. La differenza sta soltanto nel manifestarsi evidentemente spontaneo dei sintomi isterici, mentre, come ben si ricorderà, le scene e le idee sono evocate dai noi. Infatti vi è una serie ininterrotta, estendentesi dai residui mnemonici immodificati, di esperienze emotive e di attività ideative fino ai sintomi isterici, rappresentata dai simboli mnemonici di quelle esperienze e quei pensieri.

Il fenomeno dei sintomi isterici che si inseriscono nella conversazione durante l'analisi comporta un inconveniente pratico col quale dovremmo essere in grado di riconciliare il paziente. E assolutamente impossibile effettuare l'analisi di un sintomo in una stessa seduta o distribuire gli intervalli del nostro lavoro in modo che si confacciano esattamente con le pause nel processo di trattamento dei sintomi. Al contrario, le interruzioni che sono inappellabilmente prescritte da circostanze accidentali del trattamento, come un ritardo ad un appuntamento, hanno spesse volte nei momenti meno convenienti, proprio quando si sta per pervenire a una decisione o quando sta emergendo un nuovo elemento. Qualsiasi lettore di giornali soffre per lo stesso inconveniente nel leggere la puntata giornaliera del romanzo di appendice, quando, subito dopo il discorso decisivo dell'eroina o dopo che lo sparo ha echeggiato, arriva alla parola: «continua». Nel nostro caso, la questione che è stata sollevata ma non risolta ed il sintomo che è diventato temporaneamente più intenso, ma ancora non è stato spiegato, persistono nella mente del paziente e forse possono essere più fastidiosi per lui di quanto non lo fossero in precedenza. Egli dovrà cavarsela alla meno peggio; non c'è altro da fare. Vi sono pazienti che, nel corso di un'analisi, non riescono a liberarsi di una questione che è stata sollevata e ne rimangono ossessionati durante l'intervallo tra una seduta e l'altra. Poiché da soli non sanno far nulla per sbarazzarsene, soffrono le prime volte più di quanto non soffrissero prima dell'inizio della cura. Ma persino questi pazienti alla fine imparano ad aspettare il medico concentrando tutto l'interesse che nutrono per la liberazione dal materiale patologico, sulle ore di trattamento, dopo di che cominciano a sentirsi più liberi negli intervalli.

Anche la condizione generale dei pazienti durante un'analisi di questo genere è degna di nota. Per un certo tempo essa non è influenzata dalla cura e seguita ad essere l'espressione dei fattori che erano operanti in precedenza. Ma, dopo, arriva un momento in cui il trattamento si impadronisce del paziente, incatenandone l'interesse e da allora in poi le sue condizioni generali diventano vieppiù dipendenti dallo stato del lavoro. Ogni volta che viene messo in chiaro qualcosa di nuovo, oppure viene raggiunto uno stadio importante nel processo di analisi, il paziente si sente anch'egli sollevato e pregusta l'imminente liberazione. Tutte le volte che il lavoro si ferma e la confusione incombe, si appesantisce il fardello psichico dal quale è oppresso; il sentimento di infelicità e la incapacità al lavoro peggiorano. Ma nulla di tutto ciò può durare per più di un breve tempo. Infatti l'analisi continua tranquillamente se il paziente al momento si sente bene, e prosegue per la sua via senza tener conto dei periodi di abbattimento. In generale siamo soddisfatti quando abbiamo sostituito le oscillazioni spontanee della sua condizione con oscillazioni provocate da noi stessi e che quindi comprendiamo, come pure siamo soddisfatti quando vediamo che la successione spontanea dei sintomi è sostituita da un ordine del giorno corrispondente allo stato dell'analisi.

Per cominciare, il lavoro si fa più oscuro e difficile, di solito, quanto più penetriamo in profondo nella struttura psichica stratificata che ho descritto in precedenza. Ma quando ci saremo aperti la via fino al nucleo, comincerà a farsi luce e non dovremo temere che lo stato generale del paziente vada più soggetto a periodi di grave abbattimento. Tuttavia potremo sperare nella ricompensa delle nostre fatiche - la sparizione dei sintomi - solo dopo che si sarà completata l'analisi di ciascun sintomo; e in effetti, se i singoli sintomi sono collegati da diversi punti nodali, non saremo incoraggiati durante il lavoro nemmeno dal successo parziale. Grazie alle ricchissime connessioni causali, ogni idea patogena di cui non ci si è ancora sbarazzati, agisce quale motivazione di tutti i prodotti della nevrosi ed è solo con l'ultima parola dell'analisi che scompare l'intero quadro clinico, così come avviene dei ricordi rievocati individualmente. Se un ricordo o un collegamento patogeno, precedentemente eliminato dalla coscienza dell'io, viene scoperto dal lavoro di analisi e introdotto nell'io, noi troviamo che la personalità psichica, in tal modo arricchita, ha diverse maniere di esprimersi in rapporto a ciò che ha acquisito.

Succede con particolare frequenza che, dopo che abbiamo faticosamente introdotto qualche elemento nella coscienza del paziente, questi dichiari: «L'ho sempre saputo e glielo avrei potuto dire prima». Coloro che sono dotati di una certa intuizione più tardi riconoscono di essersi ingannati e si rimproverano di essere ingrati. A prescindere da ciò, l'atteggiamento assunto dall'io nei confronti di questa nuova acquisizione dipende in generale dallo strato dell'analisi da cui trae origine l'acquisizione stessa. Le cose appartenenti agli strati esterni sono riconosciute senza difficoltà; in effetti esse sono sempre rimaste in possesso dell'io e l'unica novità è la loro connessione con gli strati più profondi del materiale patologico. Le cose portate alla luce da questi strati più profondi sono anch'esse ammesse e riconosciute ma spesso solo dopo molti dubbi ed esitazioni. Le immagini mnemoniche visive naturalmente sono più difficili a ripudiarsi che non le tracce mnemoniche di semplici associazioni di pensieri. Non è affatto raro che il paziente cominci col dire: «E possibile che io l'abbia pensato, però non me ne ricordo». E solo dopo che egli si sarà assuefatto per un po' all'ipotesi, finirà con l'ammetterlo; ricorderà - e confermerà anche il fatto con collegamenti secondari - di aver effettivamente avuto quel pensiero. Però io, di regola, durante l'analisi faccio una mia valutazione del ricordo che emerge, indipendentemente dal riconoscimento del paziente. Non mi stancherò mai di ripetere che siamo tenuti ad accogliere qualunque cosa il nostro procedimento porti alla luce. Se in esso vi è qualcosa di non genuino o corretto, sarà più tardi il contesto a dirci di rifiutarlo. Ma posso dire, di sfuggita, che non ho quasi mai avuto occasione di rifiutare, in un secondo momento, un ricordo accettato provvisoriamente. Tutto ciò che è emerso si è comunque rivelato corretto, nonostante avesse il più ingannevole aspetto di una palese contraddizione.

Le idee provenienti dalle più grandi profondità e che costituiscono il nucleo dell'organizzazione patologica, sono anche quelle che il paziente riconosce con il massimo di difficoltà. Persino quando è tutto finito, e i pazienti sono stati dominati dalla forza della logica e sono stati convinti dall'effetto curativo che accompagna l'emergere proprio di queste idee - quando, dico, i pazienti stessi accettano il fatto di aver pensato questa o quella cosa, - pure spesso aggiungono: «Ma non posso ricordare di averci pensato». E' facile mettersi d'accordo dicendo che i pensieri erano inconsci. Ma come può un tale stato di cose adattarsi alle nostre opinioni psicologiche? Dovremo trascurare questa negazione di riconoscimento da parte del paziente, quando, ora che il lavoro è finito, egli non ha più alcun motivo di far così? Oppure dovremo supporre di aver veramente a che fare con pensieri mai passati per la mente, che avevano soltanto una possibilità di esistere, di modo che la cura consisterebbe nel perfezionamento di un atto psichico che non ha avuto luogo nel passato? E chiaramente impossibile dire qualche cosa su questo - ossia sullo stato in cui si trovava il materiale patologico prima dell'analisi - finché non saremo pervenuti a un completo chiarimento delle nostre vedute psicologiche fondamentali, specialmente sulla natura della coscienza. Rimane una cosa che penso meriti una seria considerazione: che noi, nelle nostre analisi, possiamo seguire una catena di pensieri dalla coscienza all'inconscio (ossia a qualche cosa assolutamente non riconoscibile come ricordo), che possiamo rintracciarne il cammino per un certo tratto nuovamente attraverso la coscienza e che possiamo vederla finire di nuovo nell'inconscio, senza che questo alternarsi di «illuminazioni psichiche» porti ad alcuna modificazione nella stessa catena di pensieri, nella sua consistenza logica e nella connessione tra le sue varie parti. Quando questa concatenazione di pensieri si presenterà ai miei occhi nella sua integrità non riuscirò più a capire quale parte di essa fu riconosciuta come ricordo dal paziente e quale no. In effetti io vedo solo le cime della catena di pensieri che si sprofonda nell'inconscio (il contrario di quanto si ha nei nostri processi psichici normali).

Infine debbo discutere ancora un altro fatto, che ha un'importanza purtroppo notevole nella condotta di analisi catartiche di questo genere. Ho già ammesso la possibilità che la tecnica della pressione fallisca, non riuscendo a suscitare alcuna reminiscenza nonostante tutte le assicurazioni e insistenze. Se ciò accade, ripeto, vi sono due possibilità: o nel punto che stiamo esplorando non c'è veramente altro da trovare (lo possiamo riconoscere dall'assoluta tranquillità dell'espressione del paziente) o ci siamo scontrati con una resistenza che potrà essere superata solo più tardi e ci troviamo davanti a un nuovo strato in cui non possiamo ancora penetrare (ciò che, anche questa volta, potremo dedurre dall'espressione del paziente, tesa e con i segni dello sforzo mentale). Ma vi è pure una terza possibilità, che testimonia ugualmente di un ostacolo, esterno però, non inerente al materiale. Ciò avviene quando il rapporto tra paziente e medico è disturbato, e questo è l'ostacolo peggiore che ci possa capitare. Però possiamo aspettarci di incontrarlo in ogni analisi di una certa importanza.

Ho già accennato all'importante ruolo che ha la figura del medico nel creare motivazioni che annullino la forza psichica di resistenza. In non pochi casi, donne specialmente, in cui si tratti di chiarire concatenazioni di pensieri erotici la collaborazione del paziente diventa un sacrificio personale, che dev'essere compensato da qualche surrogato dell'amore. La pena che si dà il medico e la sua premurosa attenzione devono essere sufficienti a questo fine. Se questo rapporto tra la paziente e il medico è turbato, la collaborazione della paziente viene anch'essa meno. Quando il medico tenta di esplorare una nuova idea patologica, la paziente è trattenuta dal fatto che le sue lagnanze nei riguardi dei medico, che si sono venute accumulando, emergono nella coscienza. Secondo la mia esperienza questo ostacolo insorge in tre circostanze principali.

1. Se vi è un estraniarsi personale - se, per esempio, la paziente si sente trascurata, o troppo poco apprezzata od offesa, oppure se ha udito commenti sfavorevoli sul conto del medico e del suo metodo di cura. Questa è la circostanza meno grave. L'ostacolo sarà agevolmente superato dalla discussione e dalla spiegazione, anche se la sensibilità e la sospettosità delle pazienti isteriche può talora arrivare a livelli incredibili.

2. Se la paziente è colta dal timore di abituarsi eccessivamente ad avere rapporti personali col medico, di perdere la propria indipendenza nei suoi confronti e forse, addirittura, di diventare sessualmente dipendente da lui. Questa è una circostanza più importante perché i fattori che la determinano sono di natura meno personale. La causa di questo ostacolo risiede nella natura specifica della terapia. La paziente allora ha un nuovo motivo di resistenza, che si manifesta non solo in rapporto a un determinato ricordo ma ad ogni tentativo terapeutico. È molto comune che la paziente accusi un mal di testa quando si comincia il procedimento della pressione, in quanto il nuovo motivo di resistenza rimane inconsco e si manifesta attraverso la produzione di un nuovo sintomo isterico. La cefalea indica la sua avversione a lasciarsi influenzare.

3. Se la paziente si spaventa accorgendosi di trasferire sulla persona del medico le idee penose che sorgono dal contenuto dell'analisi. Si tratta di una circostanza frequente e, in molte analisi, persino normale. Il transfert sul medico avviene tramite una falsa connessione. Devo dare un esempio. In una mia paziente l'origine di un particolare sintomo isterico stava nel desiderio, provato molti anni prima e tosto relegato nell'inconscio, che l'uomo col quale stava conversando prendesse arditamente l'iniziativa e le desse un bacio. Una volta, al termine di una seduta, le venne un simile desiderio nei miei confronti. Ne rimase inorridita, passò una notte insonne, e, durante la seduta seguente, quantunque non rifiutasse di essere curata, il lavoro fu quasi inutile. Dopo che ebbi scoperto e rimosso l'ostacolo, il lavoro potè procedere, e, strano a dirsi, il desiderio che tanto aveva spaventato la paziente fu il primo ricordo patogeno a fare la sua comparsa, essendo l'unico che potesse essere richiesto dal contesto logico. Ecco dunque quel che era successo. Il contenuto del desiderio era comparso innanzi tutto nella coscienza della paziente senza alcun ricordo delle circostanze concomitanti che l'avrebbero fatto attribuire al passato. Quindi il desiderio attuale, per via della coazione all'associazione dominante nella sua coscienza, si collegò alla mia persona, del che la paziente si sentì a buon diritto preoccupata, e, in conseguenza di questa mesaillance - che descrivo come «falsa connessione» - venne a manifestarsi lo stesso affetto che, molto tempo prima, aveva costretto la paziente a respingere quel desiderio proibito. Da quando ho scoperto ciò, mi sono sentito autorizzato, tutte le volte che sono rimasto coinvolto personalmente in maniera analoga, a presumere che si fossero verificati un transfert ed una falsa connessione. E strano, poi, che la paziente rimane ingannata tutte le volte che il fatto si ripete.

E' impossibile portare a termine qualunque analisi se non sappiamo come far fronte alle resistenze sorte in questi tre modi. Però possiamo trovare la maniera di farlo se ci rendiamo conto che questo nuovo sintomo, prodotto secondo il vecchio modello, dev'essere trattato nello stesso modo degli altri sintomi. Il nostro primo compito consisterà nel rendere l'«ostacolo» conscio alla paziente. Ad esempio, in una mia paziente, il procedimento della pressione perse d'improvviso la sua efficacia. Avevo ragione di supporre che vi fosse un'idea inconscia del genere menzionato nel paragrafo 2. e riuscii ad afferrarla al primo tentativo cogliendo la paziente di sorpresa. Le dissi che doveva essere sorto qualche ostacolo al proseguimento della cura, ma che il procedimento della pressione aveva quanto meno il potere di indicarle quale fosse questo ostacolo. Le premetti la fronte ed ella disse con stupore: «Vedo lei seduto qui sulla sedia; ma questo non ha senso. Cosa può significare?». Allora fui in grado di illuminarla. Con un'altra paziente l'«ostacoIo» non compariva direttamente in seguito alla mia pressione, però riuscivo sempre a scoprirlo se riconducevo la paziente al momento in cui esso era stato originato. Il metodo della pressione non mancava mai di rievocare quel momento. Quando l'ostacolo era stato scoperto e spiegato, la prima difficoltà era sgombrata dal cammino. Ma ne rimaneva una più grande, che consisteva nella difficoltà di indurre la paziente a fornire informazioni là dove si trattava evidentemente di rapporti personali e dove l'altra persona coincideva con la figura del medico.

Inizialmente ero molto seccato da questo aumento del mio lavoro psicologico finché non compresi che l'intero processo seguiva una legge, e allora mi accorsi anche che un transfert di questo genere non portava un notevole aumento di quanto avevo da fare. Per la paziente il lavoro restava lo stesso: essa doveva superare l'emozione penosa subita per aver nutrito un tal desiderio, sia pure per un istante, né sembrava che ci fossero differenze ai fini del successo della terapia se ella, come tema di lavoro, doveva ripudiare psichicamente quel desiderio nella situazione storica ovvero in quella attuale, riferita alla mia persona. Le pazienti, inoltre, a poco a poco imparavano che si trattava, in questi transfert sulla persona del medico, di coazioni e di illusioni che dileguavano con la conclusione dell'analisi. Però credo che se avessi trascurato di chiarir loro la natura dell'«ostacolo», avrei dato loro solo un nuovo sintomo isterico, anche se più mite, in cambio di un altro generatosi spontaneamente.

Credo di aver fornito sufficienti indicazioni sul modo in cui sono state condotte queste analisi e sulle osservazioni che ho fatto nel corso di esse. Quel che ho detto forse potrà far sembrare le cose più complicate di quanto non siano. Molti problemi si risolvono da soli quando noi ci troviamo impegnati nel lavoro. Non ho elencato le difficoltà del lavoro con lo scopo di creare un'impressione che, tenendo presenti le esigenze che un'analisi catartica impone sia al medico che al paziente, valga la pena di intraprenderlo solo nei casi più rari. Io lascio che le mie attività mediche siano regolate da un presupposto contrario, quantunque sia vero che non posso enunciare indicazioni esattamente definite per l'applicazione del metodo terapeutico descritto in queste pagine, senza addentrarsi nell'esame della questione, più importante e comprensiva, del trattamento delle nevrosi in generale. Spesso dentro di me ho paragonato la psicoterapia catartica all'intervento chirurgico. Ho descritto le mie cure come operazioni psicoterapeutiche e ho messo in rilievo la loro analogia con l'apertura di una cavità piena di pus, il raschiamento di una zona necrotica, ecc. Un'analogia di questo genere trova giustificazione non tanto nella rimozione di ciò che è patologico quanto nello stabilire condizioni che abbiano maggiori probabilità di incanalare il corso del processo verso la guarigione.

Allorché ho promesso ai miei pazienti aiuto o miglioramento mediante un trattamento catartico, mi sono spesso trovato di fronte a questa obiezione: «Ebbene, lei stesso mi dice che la mia malattia probabilmente è collegata a circostanze ed eventi della mia vita. Lei non può modificarli in nessun modo. Allora, come pensa di aiutarmi?» E io ero in grado di dare la seguente risposta: «Certo riuscirebbe più facile al destino che a me liberarla dalla sua malattia. Ma lei potrà convincersi che avremo ottenuto un bel guadagno se riusciremo a trasformare la sua disgrazia isterica in ordinaria infelicità. E con una vita psichica restituita alla salute, lei sarà meglio armata contro questa infelicità».