CasisticaSigmund FreudCASO III. MISS LUCY R., TRENTENNE |
Verso la fine del 1892 un collega di mia conoscenza mi inviò una signorina che era stata in cura presso di lui per rinite cronica suppurativa ricorrente. A un certo punto si era scoperto che l'ostinazione di questa affezione era dovuta a carie dell'etmoide. Più tardi ella aveva accusato certi altri sintomi che quel medico ben informato non poteva più attribuire all'affezione locale. La paziente aveva perduto completamente l'odorato ed era pressoché continuamente tormentata da una o due sensazioni olfattive, che trovava quanto mai penose. Per di più era giù di morale e affaticata, si lamentava di pesantezza alla testa, riduzione dell'appetito e perdita dell'efficienza. La signorina, che faceva la governante nella casa del direttore amministrativo di una fabbrica alla periferia di Vienna, veniva da me di tanto in tanto nelle mie ore di visita. Era una inglese, di costituzione delicata, poco colorita, ma era in buona salute, se si esclude l'affezione nasale. Le sue prime dichiarazioni confermarono ciò che il medico mi aveva riferito: soffriva di depressione e stanchezza ed era tormentata da sensazioni olfattive soggettive. Per quanto riguarda i sintomi isterici, presentava un'analgesia generale assai netta, senza perdita della sensibilità tattile, e a un esame grossolano (con la mano) non era possibile evidenziare alcun restringimento del campo visivo. La cavità nasale era totalmente analgesica e priva di riflessi; in questa zona era sensibile alla pressione delle dita, ma la percezione propria dell'organo di senso era assente, sia di fronte a stimoli specifici che ad altri stimoli (p. es. ammoniaca o acido acetico). Proprio in quel momento la rinite catarrale purulenta era in fase di miglioramento. Nel nostro primo tentativo di rendere comprensibile la malattia fu necessario interpretare le sensazioni olfattive soggettive, in quanto si trattava di allucinazioni ricorrenti appartenenti alla categoria dei sintomi isterici cronici. La sua depressione poteva essere forse lo stato affettivo legato al trauma e si sarebbe potuto riuscire a scoprire un'esperienza in cui questi odori, divenuti ora soggettivi, erano stati oggettivi. Questa esperienza doveva essere stato il trauma che le ricorenti sensazioni olfattive simboleggiavano nella sua memoria. Forse era più corretto considerare le allucinazioni olfattive ricorrenti, insieme con la depressione che le accompagnava, quali equivalenti di un attacco isterico. E, a dire il vero, la stessa natura delle allucinazioni ricorrenti rende queste poco atte al ruolo di sintomi cronici. Ma tale questione non si poneva in un caso come questo che dimostrava solo uno sviluppo rudimentale. Era però essenziale che le sensazioni olfattive soggettive avessero un'origine specifica di qualche genere che giustificasse la loro derivazione da un particolare oggetto reale. La mia aspettativa fu prontamente soddisfatta. Quando le domandai da quale odore fosse più frequentemente disturbata, mi rispose: «Odore di dolce bruciato». Dunque mi bastava supporre che un odore di dolce bruciato si fosse prodotto effettivamente nell'esperienza che aveva agito da trauma. Senza dubbio è assai raro che sensazioni olfattive vengano scelte come simboli mnemonici di un trauma, ma non fu difficile rendersi conto di questa scelta. La paziente soffriva di rinite suppurativa e quindi la sua attenzione era particolarmente focalizzata sul naso e sulle sensazioni nasali. Ciò che mi era noto sulle circostanze della vita della paziente si limitava al fatto che i due bambini affidati alle sue cure non avevano la mamma, morta di una malattia acuta qualche anno prima. Decisi dunque di prendere, come punto di partenza dell'analisi, l'odore di dolce bruciato. Descriverò il corso di questa analisi come se si fosse svolta in condizioni favorevoli. In effetti, invece di un'unica seduta ce ne furono parecchie. Ciò dipendeva dal fatto che la paziente poteva venire da me soltanto nel mio orario di visita, in cui non potevo dedicarmi a lei che per breve tempo. Inoltre, una sola discussione di questo genere occupava di solito più di una settimana perché le sue mansioni non le permettevano di compiere molto spesso il lungo tragitto dalla fabbrica fino alla mia abitazione. Quindi avevamo l'abitudine di interrompere dopo un po' la nostra conversazione per riprendere il filo allo stesso punto la volta dopo. Miss Lucy non cadeva in stato di sonnambulismo quando cercavo di ipnotizzarla. Pertanto feci a meno del sonnambulismo e condussi tutta l'analisi mentre lei si trovava in uno stato che in effetti differiva ben poco dallo stato normale. Devo dare maggiori particolari di questo elemento del mio procedimento tecnico. Quando visitai la clinica di Nancy nel 1889, sentii dire dal Dott. Liébeault, decano dell'ipnotismo: «Basterebbe che avessimo il sistema per mettere tutti i pazienti in stato di sonnambulismo, perché la terapia ipnotica fosse la più potente di tutte». Sembrerebbe quasi che nella clinica di Bernheim esistesse realmente quest'arte, almeno da quanto ci è dato di apprendere dallo stesso Bernheim. Ma non appena cercai di metterla in pratica con i miei pazienti, mi accorsi che almeno i miei poteri erano soggetti a forti limitazioni, e che se non riuscivo a indurre il sonnambulismo in un paziente ai primi tre tentativi, non possedevo i mezzi per provocarlo. Nella mia esperienza la percentuale di casi, in cui era possibile ottenere il sonnambulismo, era di gran lunga inferiore a quella riportata da Bernheim. Mi trovavo quindi di fronte al dilemma di abbandonare il metodo catartico nella maggior parte dei casi in cui sarebbe stato adatto o di arrischiare l'esperimento di applicarlo senza sonnambulismo in quei casi in cui l'influsso ipnotico appariva modesto, o in cui la sua stessa esistenza fosse incerta. Mi sembrava indifferente a quale livello ipnotico, rapportato a una delle varie scale di misura proposte, si giungesse in questo stato non sonnambolico. Infatti, come è noto, ciascuna delle varie forme prese dalla suggestionabilità è indipendente in ogni caso da tutte le altre, e il manifestarsi di una catalessi, di movimenti automatici, ecc., non lavora né prò né contro ciò che io ricercavo per i miei fini, che erano di rendere più facile il risveglio di memorie dimenticate. Inoltre, abbandonai ben presto la pratica di eseguire delle prove per stabilire il livello di ipnosi raggiunto, dato che in moltissimi casi ciò suscitava la resistenza del paziente e scuoteva la sua fiducia, che mi era necessaria per condurre il più importante lavoro psichico. E poi cominciavo a stancarmi di pronunciare assicurazioni e comandi, come: «Si sta addormentando!... dorma!» e di sentire il paziente ribattere, ciò che spesso accadeva quando l'ipnosi era di grado lieve, «ma, dottore, non sto dormendo», il che mi costringeva a entrare in sottili distinzioni come: «Come vede, Lei è ipnotizzato, non può aprire gli occhi (ecc.) e in ogni caso, non è necessario che si addormenti» ecc. ecc. Sono certo che molti altri medici, che praticano la psicoterapia, riescono a cavarsi da questi impacci meglio di me. Se così è, potranno adottare un procedimento diverso dal mio. Però mi sembra che se uno si viene a trovare di frequente in imbarazzo per aver usato una certa parola, sarà opportuno per lui evitare sia la parola che l'imbarazzo. Dunque, quando il primo tentativo non conduceva né al sonnambulismo né a un grado di ipnosi, tale da comportare rilevanti modificazioni fìsiche, abbandonavo ostentatamente l'ipnosi e richiedevo solo «concentrazione». Ordinavo al paziente di distendersi e di chiudere volontariamente gli occhi come mezzo per ottenere questa «concentrazione». È possibile che in questo modo ottenessi, solo con un leggero sforzo, il più profondo livello di ipnosi raggiungibile in quel particolare caso. Ma lavorando senza sonnambulismo potevo trovarmi privato di una condizione preliminare senza la quale il metodo catartico sembrava inapplicabile. Infatti questo metodo si fondava, per i pazienti che si trovavano in uno stato di coscienza modificato, sulla possibilità, di accedere ai ricordi e sulla capacità di individuare quelle connessioni che non risultano presenti nel normale stato di coscienza. Se mancava questo allargamento sonnambolico della memoria non sussisteva nemmeno la possibilità di stabilire alcuna delle cause determinanti che il paziente potesse rivelare al medico come cosa allo stesso paziente ignota. E, naturalmente, sono proprio i ricordi patogeni che, come già abbiamo detto nella nostra «Comunicazione Preliminare» sono assenti dalia memoria del paziente, quando questi è in stato psichico normale, oppure sono presenti in forma assolutamente sommaria. Fui liberato da questo nuovo imbarazzo ricordando d'aver visto io stesso Bernheim addurre prova che i ricordi di avvenimenti evocati nel sonnambulismo sono solo apparentemente dimenticati nello stato di veglia e possono essere rievocati con una parola gentile di comando e con una pressione della mano intesa a indicare un differente stato di coscienza. Per esempio, egli aveva suscitato in una donna, in stato di sonnambulismo, l'allucinazione negativa che egli stesso non fosse più presente e poi si era sforzato di attirare su di sé l'attenzione di lei in moltissime maniere, comprese alcune nettamente aggressive. Non ci era riuscito. Dopo che ella si era ridestata egli le aveva chiesto di dirgli che cosa le aveva fatto mentre lei credeva che non fosse presente. Aveva risposto meravigliata che non ne sapeva niente. Ma egli non accettò la risposta. Insistette che lei poteva ricordare tutto e le posò una mano sulla fronte per aiutarla a ricordare. E guarda un po'!, ella aveva finito col descrivere tutto ciò che, manifestamente, non aveva percepito durante il sonnambulismo e, manifestamente, non ricordava nello stato di veglia. Questo esperimento stupefacente e istruttivo mi servì di modello. Stabilii di partire dal presupposto che le mie pazienti sapessero tutto quello che aveva un qualsivoglia significato patogeno e che era soltanto questione di costringerle a dirlo. Dunque, quando arrivavo a un punto in cui, dopo aver posto a una paziente domande come: «Da quanto tempo ha questo sintomo» o: «quale ne è l'origine?», ricevevo la risposta: «Non lo so davvero», io procedevo nel seguente modo. Mettevo la mano sulla fronte della paziente o le prendevo la testa fra le mani e dicevo: «Lei ci penserà sotto la pressione della mia mano. Nell'istante in cui rilascerò la pressione lei vedrà qualche cosa davanti a sé o qualcosa le verrà in mente. La fermi, è ciò che stiamo cercando. - Bene, che cosa ha veduto o che cosa le è venuto in mente?». La prima volta che impiegai questo procedimento (non era con miss Lucy R.) io stesso rimasi stupito del fatto che esso mi forniva proprio i risultati di cui avevo bisogno Posso affermare con certezza che finora non mi ha quasi mai lasciato nei pasticci. Esso indicava sempre la direzione che dovevo prendere e mi ha messo in condizioni di portare a termine tutte queste analisi senza ricorrere al sonnambulismo. Alla fine acquistai una tale fiducia in esso, che se le pazienti rispondevano «Non vedo nulla» o «Non mi ricordo di nulla», io mi sentivo in grado di respingere queste risposte come impossibili e di assicurarle che esse erano certamente consapevoli di ciò che si ricercava, ma che si rifiutavano di credere che le cose stessero così per cui avevano respinto il fatto. Dicevo loro di essere pronto a ripetere il procedimento quante volte volessero e che ogni volta avrebbero visto la stessa cosa. Risultava che avevo sempre ragione. Le pazienti non avevano ancora imparato a rilassare le loro facoltà critiche. Avevano respinto il ricordo che era venuto loro in mente o l'idea che avevano concepito, partendo dal presupposto che si trattasse di un'interruzione inutile e senza importanza e, dopo che glielo avevo detto, risultava sempre che era proprio quello che cercavamo. Talvolta, dopo che avevo finalmente estorto l'informazione, con tre o quattro pressioni, la paziente affermava: «A dire il vero lo sapevo fin dalla prima volta, ma era proprio quel che non volevo dire», oppure: «Spero che non si tratti di questo». L'impresa di allargare una coscienza presumibilmente ristretta era, in fin dei conti, tanto faticosa se non di più, quanto un'indagine durante il sonnambulismo. Ma, ciononostante, mi rendeva indipendente dal sonnambulismo e mi permetteva di comprendere i motivi che spesso determinano l'«oblio» dei ricordi. Posso affermare che questo oblio spesso è intenzionale e desiderato e il suo successo è soltanto apparente. Trovai forse anche più sorprendente come fosse possibile, grazie allo stesso procedimento, riportare alla coscienza numeri e date scomparsi da molto tempo dalla superficie della memoria, dimostrando quanto la memoria possa essere inopinatamente precisa. Il fatto che, quando ricerchiamo un numero o una data, la nostra possibilità di scelta sia tanto limitata, ci consente di invocare un'affermazione resaci familiare dalla teoria dell'afasia, vale a dire che il riconoscimento di qualcosa è talora un compito più lieve per la memoria di quanto non sia il pensarvi spontaneamente. Dunque, se una paziente è incapace di ricordare l'anno, o il mese o il giorno in cui si è verificato un dato evento, noi potremo enumerarle gli anni in cui presumibilmente è accaduto, elencare i nomi dei dodici mesi e i trentuno numeri dei giorni del mese, assicurandola che, quando citeremo il numero giusto o il giusto mese, i suoi occhi si apriranno da soli, oppure che avrà la sensazione che è quello giusto. Assai di frequente (come nel caso di Frau Càcilie M.) è possibile comprovare con documenti di quel periodo che la data è stata correttamente riconosciuta, mentre in altri casi e altre circostanze, la sicura precisione della data può essere dedotta dal contesto dei fatti ricordati. Per esempio, dopo che l'attenzione di una paziente era stata attirata sulla data ottenuta col metodo delle «enumerazioni», costei disse: «Toh!, è il compleanno di mio padre!» e aggiunse: «Ma è naturale! Proprio perché era il suo compleanno, io mi aspettavo il fatto di cui parlavamo». Qui non posso che accennare all'argomento di sfuggita. La conclusione che trassi da tutte queste osservazioni fu che le esperienze che hanno avuto un ruolo nella patogenesi, e tutti i fatti concomitanti e accessori, sono esattamente ritenuti dalla memoria della paziente persino quando sembrano dimenticati e la paziente non riesce a richiamarli alla mente. (Come esempio della tecnica, descritta in precedenza, di condurre le osservazioni in stati non sonnambulici, - vale a dire stati in cui non vi è allargamento della coscienza - descriverò un caso che mi è capitato di analizzare in questi ultimi anni. Avevo in cura una donna di trentotto anni affetta da nevrosi d'ansia (agorafobia, accessi di paura della morte, ecc.). Come molti pazienti del suo tipo ella era reticente ad ammettere di aver acquisito quei disturbi durante la vita coniugale e avrebbe voluto anticiparli alla prima giovinezza. Dunque mi disse di aver avuto i primi attacchi di vertigine a diciassette anni, con ansia e senso di mancamento, nella strada della sua cittadina natale, e che questi attacchi erano tornati di tanto in tanto fino a che, pochi anni prima erano stati soppiantati dall'attuale malattia. Io sospettai che questi primi accessi di vertigine, nei quali l'ansia diventava sempre più un indistinto sottofondo, fossero isterici e decisi di intraprenderne l'analisi. In primo luogo ella sapeva solo che il primo attacco le era venuto mentre faceva compere nella via principale. «Che cosa era andata a comperare?» «Diverse cose, credo; servivano per un ballo al quale ero stata invitata.» «Quando doveva esserci questo ballo?» «Mi pare due giorni dopo». «Deve essere accaduta qualcosa che l'ha messa in agitazione, qualche giorno prima, qualche cosa che le ha fatto impressione». «No so a che pensare. Dopo tutto è stata ventun anni fa.» «Questo non importa. Se ne ricorderà lo stesso. Le comprimerò la testa e, quando rilascerò la pressione, lei ricorderà o vedrà qualcosa, e mi dirà di che si tratta.» Misi in atto la manovra ma lei rimase in silenzio. «Ebbene non le è venuto in mente niente?» «Ho pensato a qualcosa ma non può aver nessun rapporto con questo.» «Me lo dica lo stesso». «Ho pensato a una mia amica, una ragazza, che è morta; ma è morta che io avevo diciotto anni, dunque un anno più tardi.» «Vedremo. Soffermiamoci su questo punto. Che successe a questa sua amica?» «La sua morte fu un forte colpo per me, dato che la vedevo spesso. Qualche settimana prima era morta un'altra ragazza e questo aveva suscitato molta commozione in città. Beh! Dopo tutto dovevo avere diciassette anni a quell'epoca.» «Ecco, vede: le ho detto che potevamo fidarci delle cose che le sono venute in mente sotto la pressione della mia mano. Ora, si può ricordare di quel che stava pensando quando si sentì le vertigini in strada?» «Non pensavo a nulla, mi sentivo solo girare la testa.» «Non è possibile. Stati del genere non vengono mai senza essere accompagnati da qualche idea. La premerò di nuovo e quei pensieri le torneranno in mente... Ebbene, che cosa le è venuto in mente?» «L'idea che io sono la terza.» «Che vuol dire?» «Quando mi colsero le vertigini debbo aver pensato: "Ora io sto per morire, come le altre due ragazze".» «Questa era dunque l'idea. Mentre lei aveva l'attacco ha pensato alla sua amica. Così la morte di questa deve averle fatto una grande impressione.» «Sì. Ora ricordo che quando seppi della sua morte sentii che era tremendo andare a un ballo mentre lei era morta. Ma aspettavo con tanto piacere quel ballo ed ero tanto indaffarata con i preparativi, che non volevo nemmeno pensare a quel che era accaduto.» (In questo caso possiamo rilevare una repressione volontaria della coscienza, che rese patogeno il ricordo dell'amica). Ora l'attacco era spiegato fino a un certo punto. Mi rimaneva ancora di venire a conoscenza di un fattore precipitante che aveva provocato il ricordo in quel momento particolare. Feci una supposizione che si rilevò felice. «Si ricorda esattamente della strada in cui stava camminando in quel momento?» «Certamente. Era la strada principale, con le vecchie case. Adesso posso vederle.» «E dov'è che abitava la sua amica?» «In una casa di quella stessa strada. Le ero appena passata davanti ed ebbi l'attacco un paio di isolati più avanti.» «Dunque, quando lei passò davanti alla casa, questa le ricordò l'amica morta, e allora fu di nuovo sopraffatta da quel contrasto interiore al quale non voleva pensare.» Non ero ancora soddisfatto. Ci doveva essere qualche altra cosa che aveva suscitato o rafforzato la disposizione isterica di una ragazza fino a quel momento normale. 1 miei sospetti si appuntarono sui suoi ricorsi mensili, quale fattore adeguato, e domandai: «Sa in che giorno del mese le veniva il flusso mestruale?». La domanda non era ben accetta. «Crede che debba ricordare anche questo? Posso dirle soltanto che mi venivano molto di rado e assai irregolarmente. A diciassette anni li ebbi una volta sola.» «Bene, scopriamo allora quando fu questa volta contando i mesi.» Nominai i mesi ed ella si decise senza esitazioni per un dato mese con qualche incertezza tra due giorni precedenti alla data di un certo giorno di festa. «Ha niente a che vedere con la data del ballo?» Rispose timidamente: «Il ballo era per quel giorno e ora mi ricordo anche l'impressione che mi fece il fatto che la mia unica mestruazione di quell'anno mi dovesse capitare proprio prima del ballo. Era il mio primo ballo». Adesso non vi sono più difficoltà nel ricostruire l'interdipendenza tra gli avvenimenti e possiamo comprendere il meccanismo di questo attacco isterico. E vero che la conquista di questo risultato aveva richiesto un bel po' di fatica. Da parte mia ci voleva una totale fiducia nella mia tecnica, ed occorreva che alla paziente tornassero in mente alcune idee chiave, prima di poter rievocare, dopo un intervallo di ventun anni, questi particolari di un'esperienza dimenticata in un soggetto scettico e per di più in stato di veglia. Ma tutto era giunto a buon fine e i vari pezzi combaciavano insieme.) Dopo questa digressione, lunga ma inevitabile, ritornerò sul caso di miss Lucy R. Come ho già detto i miei tentativi di ipnosi non riuscivano a produrre in lei il sonnambulismo. Se ne stava solo distesa tranquilla suscettibile a un modesto grado di influenza, con gli occhi chiusi per tutto il tempo, i tratti del volto un po' rigidi, senza muovere né le mani, né i piedi. Le chiesi se riusciva a ricordare in che occasione aveva sentito per la prima volta l'odore di dolce bruciato. «Oh, sì. Lo so con precisione. E stato circa due mesi fa, due giorni prima del mio compleanno. Ero nella stanza di studio con le piccole e giocavo con loro alla cuoca» (erano due). «Mi fu portata una lettera appena consegnata dal postino. Riconobbi dal timbro e dalla calligrafia che era di mia madre, da Glasgow, e volevo aprirla per leggerla. Ma le bimbe mi si gettarono addosso, mi strapparono di mano la lettera gridando: "No, non la leggerai adesso! Dev' essere per il tuo compleanno; noi te la conserveremo!" Mentre le bambine mi facevano questo scherzo si sentì subito un forte odore. Avevano dimenticato il dolce che stavano cuocendo, e ora bruciava. Sin da allora sono perseguitata dall'odore. C'è sempre e diventa più acuto quando sono agitata.» «Lei vede chiaramente la scena davanti agli occhi?» «A grandezza naturale, proprio come l'ho vissuta.» «Che ci poteva essere di tanto emozionante?» «Fui commossa nel vedere quanto mi fossero affezionate le bambine.» «Non lo erano sempre?» «Sì, ma lo dimostrarono proprio quando ricevetti la lettera della mamma.» «Non afferro che contrasto ci sia tra l'affetto delle bambine e la lettera della mamma, perché è questo che lei sembra voler suggerire». «Avevo l'intenzione di tornare da mia madre e il pensiero di lasciare le care bambine mi riempiva di tristezza.» «La mamma aveva qualcosa che non andava? Si sentiva sola e la mandò a chiamare? Oppure era malata in quel periodo e lei aspettava notizie?» «No; non è tanto robusta, ma non è propriamente malata, e poi, ha una compagnia.» «Allora, perché doveva lasciare le bambine?» «Non potevo più sopportare di rimanere in quella casa. La governante, la cuoca e l'istitutrice francese sembravano aver pensato che io volessi andar oltre la mia posizione. Si allearono in una piccola tresca contro di me e dissero ogni genere di cose sul mio conto al nonno delle bambine, e quando mi lamentai, i due signori non mi dettero tutto l'appoggio che mi aspettavo. Allora preannunciai il mio licenziamento al Direttore (il padre delle bimbe). Questi mi rispose molto amichevolmente che avrei fatto bene a pensarci su per un paio di settimane prima di prendere una decisione definitiva. In quei giorni mi trovavo nell'incertezza e pensavo che avrei lasciato la casa, ma poi sono rimasta.» «C'era qualche cosa di particolare, a parte il loro attaccamento per lei, che la legava alle bambine?» «Sì, la loro madre era una lontana parente di mia madre e io le avevo promesso, sul letto di morte, che mi sarei dedicata con tutte le mie forze alle bambine, che non le avrei lasciate e che avrei preso il posto della loro mamma. Licenziandomi avevo rotto questa promessa.» Ciò sembrava portare a termine l'analisi della sensazione odorosa soggettiva della paziente. Difatti avevo scoperto che originariamente era stata una sensazione oggettiva, sensazione inoltre intimamente associata a un'esperienza, un fatterello, in cui sentimenti erano entrati in conflitto: il dispiacere di lasciare le bambine e gli sgarbi che, ciononostante, la spingevano a risolversi a far ciò. La lettera della madre le aveva ricordato, in via del tutto naturale, le ragioni di questa decisione, dato che, lasciando il posto, aveva in mente di riunirsi alla madre. Il conflitto tra i suoi stati affettivi aveva elevato alla dignità di trauma il momento dell'arrivo della lettera, e la sensazione olfattiva associata a questo trauma persisteva quale simbolo di quest'ultimo. Era tuttavia necessario spiegare perché tra tutte le percezioni sensoriali offerte dalla scena, ella avesse scelto come simbolo quell'odore. Però io ero già preparato a invocare la sua affezione nasale cronica come un punto di appoggio per spiegare il fatto. In risposta a una domanda diretta mi rispose che proprio in quei giorni aveva avuto un tale raffreddore che sentiva a mala pena gli odori. Ciononostante, mentre si trovava in quello stato di agitazione, percepì l'odore del dolce bruciato, che era riuscito a vincere la perdita dell'olfatto provocata da cause organiche. Ma io non ero soddisfatto della spiegazione cui eravamo arrivati. Essa sembrava molto plausibile, però c'era qualcosa che mi sfuggiva, una ragione adeguata del perché queste agitazioni e questo conflitto di stati affettivi fossero sfociati nell'isteria anziché in qualche altra cosa. Perché l'intera faccenda non si era mantenuta al livello della vita psichica normale? In altri termini, qual era la giustificazione della conversione venutasi a manifestare? Perché ella non richiamava alla mente la stessa scena invece della sensazione associata che aveva isolato quale simbolo della rievocazione? Queste domande sarebbero state eccessivamente curiose e superflue se mi fossi trovato davanti a un'isterica di vecchia data nella quale il meccanismo di conversione è abituale. Ma questa ragazza era divenuta isterica solo dopo questo trauma, o quanto meno dopo questa storia di dispiaceri. Ora, già mi era noto dall'analisi di casi consimili che prima che l'isteria si instauri per la prima volta, deve realizzarsi una condizione essenziale: un'idea deve essere rimossa intenzionalmente dalla coscienza, e quindi esclusa da modifiche associative. Secondo il mio modo di vedere, questa repressione intenzionale è anche la base della conversione, totale o parziale che sia, della somma di eccitazione. La somma di eccitazione, venendo isolata dalle associazioni psichiche, trova, per ciò stesso, più facile sfogo lungo la via errata di un'efferenza nervosa somatica. La base della repressione stessa può essere soltanto un senso di spiacevolezza, un'incompatibilità tra l'idea singola che deve essere repressa e la massa dominante di idee che costituisce l'io. Però l'idea repressa si prende la sua rivincita diventando patogena. Di conseguenza poiché Miss Lucy R. era caduta in preda alla conversione isterica nel momento in questione, io dedussi che tra le cause determinanti il trauma ve ne doveva essere una che ella aveva cercato intenzionalmente di lasciare nell'oscurità e che si era sforzata di dimenticare. Se si mettevano insieme il suo affetto per le bambine e la suscettibilità nei confronti degli altri membri del personale domestico, se ne poteva trarre una sola conclusione. Fui abbastanza ardito da comunicare questa interpretazione alla mia paziente. Le dissi: «Non posso credere che siano queste tutte le ragioni dei suoi sentimenti verso le bambine. Credo che in realtà lei sia innamorata del suo datore di lavoro, il direttore, forse sia pure senza rendersene lei stessa conto, e che abbia la segreta speranza di prendere il posto della madre delle bambine in maniera reale. Di più, dobbiamo ricordare il risentimento che ora lei prova nei confronti dei domestici dopo essere vissuta in pace con loro per anni. Teme che costoro abbiano qualche sospetto delle sue speranze e che si burlino di lei». Mi rispose con la sua solita laconicità: «Sì, credo che sia vero». «Ma se sapeva di amare il suo datore di lavoro perché non me lo ha detto?» «Non lo so... o meglio, non volevo saperlo. Volevo togliermi questa idea dalla testa e non pensarci più e, più tardi, ho creduto di esserci riuscita.» (Non sono mai riuscito a dare una descrizione migliore di quello strano stato mentale in cui uno sa e non sa una cosa nello stesso tempo. E chiaramente impossibile concepirlo a meno di non esserci trovati noi stessi in questo stato. Io stesso ho avuto un'esperienza notevole di questo genere, che tuttavia è ben chiara ai miei occhi. Se cerco di ricordare che cosa succedeva in quel momento nella mia mente posso afferrare ben poco. Mi successe di assistere a qualcosa che non rientrava affatto nelle mie aspettative, eppure non permisi che ciò che vedevo disturbasse menomamente il mio piano, ancorché quella percezione potesse arrestarlo. Non ero cosciente di alcuna contraddizione in ciò, né ero consapevole dei miei sentimenti di repulsione, che, ciononostante, dovevano essere stati responsabili del fatto che quella percezione non avesse prodotto alcun effetto psichico. Ero afflitto da quella cecità che è tanto sorprendente nell'atteggiamento delle madri verso le figlie, dei mariti verso le mogli e dei potenti verso i loro favoriti.) «Perché mai era reticente ad ammettere questa inclinazione? Si vergognava di amare un uomo?» «Oh, no. Non sono irragionevolmente pudibonda. In ogni modo noi non siamo responsabili dei nostri sentimenti. Era spiacevole per me soltanto perché egli è il mio datore di lavoro e io sono al suo servizio e vivo in casa sua. Non sento verso di lui la stessa completa indipendenza che potrei sentire verso chiunque altro. E poi io sono solo una ragazza povera e lui è un uomo tanto ricco, di buona famiglia. La gente riderebbe di me se avesse la minima idea di ciò.» A questo punto ella non oppose resistenza a illuminare l'origine di questa inclinazione. Mi disse che per i primi cinque anni era vissuta felice in quella casa, accudendo alle sue mansioni e libera da ogni desiderio irrealizzabile. Però, un giorno, il suo datore di lavoro, uomo serio e molto occupato, il cui comportamento nei suoi confronti era sempre stato riservato, attaccò a discutere con lei sulla falsariga da seguirsi nell'educazione delle piccole. Egli si dimostrò più affabile e cordiale del solito e le disse quanto dipendesse da lei per la cura delle due bimbe orfane di madre e, mentre parlava, la guardava significativamente... Il suo amore per lui era nato in quel momento ed ella si concedeva persino di cullarsi nelle dolci speranze che aveva fondato su quel colloquio. Ma non c'era stato nessun ulteriore sviluppo e, dopo aver atteso invano un'altra ora di intimo scambio di idee, stabilì di bandire tutto l'affare dalla mente. Era interamente d'accordo con me che lo sguardo, che aveva colto durante la conversazione, probabilmente era nato in lui dal ricordo della moglie e ammetteva perfettamente che non vi erano speranze che i suoi sentimenti per lui venissero contraccambiati. Mi aspettavo che questa discussione portasse a un mutamento radicale della sua condizione. Ma per qualche tempo ciò non accadde. Seguitava a essere giù di morale e depressa. Si sentiva un po' rianimata al mattino in seguito a un trattamento idroterapico che le avevo prescritto. L'odore di dolce bruciato non scomparve completamente. Ritornava, disse, solo quando era molto agitata. La persistenza di questo simbolo mnemonico mi indusse nel sospetto che esso riassumesse non solo la scena principale ma anche i molti piccoli traumi accessori della scena stessa. Pertanto ricercammo qualsiasi altro elemento che potesse ricollegarsi al fatto del dolce bruciato. Entrammo nella questione dell'attrito con i domestici, del comportamento del nonno, e così via, e, man mano che andavamo avanti, l'odore di bruciato si attenuava sempre di più. A questo punto la cura fu interrotta a lungo a causa di un nuovo attacco del disturbo nasale, che portò alla scoperta della carie etmoidale. Quando ritornò mi disse che a Natale aveva ricevuto tanti regali dai due signori di casa e persino dai domestici, quasi che fossero ansiosi di far pace con lei e di cancellare il ricordo dei conflitti degli ultimi mesi. Ma questi segni di buona volontà non le avevano fatto alcuna impressione. Allorché mi informai di nuovo sull'odore di dolce bruciato, mi rispose che era completamente scomparso ma che era disturbata da un altro analogo odore, rassomigliante al fumo di sigaro. Questo esisteva anche prima, pensava lei, ma, in realtà, era coperto dall'odore del dolce. Ora emergeva a sua volta. Non ero molto soddisfatto dei risultati della cura. Quel che era successo era precisamente ciò che si suole addurre contro i trattamenti puramente sintomatici: io avevo eliminato un sintomo solo per farne prendere il posto ad un altro. Cionondimeno non esitai ad accingermi al compito di sbarazzarla, mediante l'analisi, di questo nuovo simbolo mnemonico. Ma questa volta ella non sapeva donde traesse origine questa sensazione olfattiva soggettiva, ossia in quale importante occasione essa fosse stata oggettiva. «La gente fuma ogni giorno a casa nostra» disse «e veramente non so se l'odore che sento si riferisca a qualche occasione particolare.» Allora insistetti affinché cercasse di ricordare sotto la pressione della mia mano. Ho già detto che i suoi ricordi avevano la qualità di una plastica vivacità, essendo ella un tipo «visivo». E infatti, in seguito alle mie insistenze, emerse a poco a poco dinanzi a lei un quadro, inizialmente incerto e frammentario. Si trovava nella sala da pranzo della casa, dove attendeva con le bambine che i due signori tornassero a pranzo dalla fabbrica. «Ora ci troviamo tutti seduti intorno alla tavola, i signori, l'istitutrice francese, la governante, le bimbe e io stessa. Ma è quello che avviene ogni giorno.» «Prosegua nella descrizione, si svilupperà e diventerà più specifica.» «Sì, c'è un ospite. E' il capo contabile. È un vecchio, affezionato alle bimbe, come se fossero le sue nipotine. Ma viene a pranzo tanto spesso che non c'è niente di speciale nemmeno in questo.» «Abbia pazienza e seguiti a osservare la scena. Di certo succederà qualcosa.» «Non sta succedendo niente. Ci alziamo da tavola. Le bambine salutano e come sempre salgono con noi al secondo piano.» «E poi?» «Dopo tutto è un'occasione speciale. Ora riconosco la scena. Mentre le bambine salutano, il contabile cerca di baciarle. Il mio datore di lavoro si inquieta e addirittura gli grida: "Non baci le bambine!". Io sento un tuffo al cuore e siccome i signori già stanno fumando, il fumo del sigaro mi si fissa nella memoria.» Questa, allora, era un'altra scena, ancor più profondamente nascosta, che, come la prima, aveva agito da trauma e aveva lasciato un simbolo mnemonico dietro di sé. Ma a che cosa doveva questa scena la sua efficacia? «Quale delle due scene è la più antica,» le domandai «questa o quella del dolce bruciato?» «La scena che le ho raccontato ora è la più vecchia, di quasi due mesi.» «Allora perché sentì quel tuffo al cuore quando il padre delle bambine fermò il vecchio? Il suo rimprovero non era indirizzato a lei.» «Non aveva il diritto di gridare a un vecchio, che era uno stimato amico e per di più un ospite. Avrebbe potuto dirglielo con calma.» «Dunque fu solamente la violenza che egli mise nel suo atto che la urtò? Si sentì imbarazzata per lui? O forse ha pensato: se può essere tanto violento, per una cosa tanto piccola, con un vecchio amico e un ospite, quanto di più potrebbe esserlo se fossi sua moglie.» «No, non è questo.» «Ma ha a che fare con la sua violenza, vero?» «Sì, perché le bambine venivano baciate. Non gli era mai piaciuto.» Ed ora, sotto la pressione della mia mano, emerse il ricordo di una terza scena, ancora più antica, che era il vero trauma operante e che aveva conferito alla scena col capo contabile la sua efficacia traumatizzante. Alcuni mesi prima una signora, conoscente del suo datore di lavoro, era venuta a far loro visita e, nell'andarsene, aveva baciato le due bimbe sulla bocca. Il padre, che era presente, riuscì a controllarsi e a non dir nulla alla signora, ma dopo che questa se ne era andata, la sua furia era scoppiata sul capo dell'infelice istitutrice. Aveva detto che la considerava responsabile se chiunque avesse baciato le bambine sulla bocca e che era colpevole di negligenza nei suoi doveri se lo permetteva. Se fosse successo un'altra volta avrebbe affidato la cura delle bambine ad altre mani. Questo era accaduto al tempo in cui ella ancora credeva che lui l'amasse e si aspettava una ripetizione del loro amichevole colloquio. La scena aveva distrutto le sue speranze. Si era detta: «Se può andare in collera con me in questa maniera e minacciarmi così per un fatto tanto poco importante del quale per di più non sono minimamente responsabile, mi devo essere sbagliata. Lui non può aver mai avuto alcun sentimento di amore per me, altrimenti questo gli avrebbe insegnato a trattarmi con maggior riguardo». Ovviamente era il ricordo di questa scena penosa che le era ritornato alla mente quando il capo contabile aveva cercato di baciare le bambine ed era stato rimproverato dal loro padre. Dopo quest'ultima analisi, quando, due giorni dopo, Miss Lucy torna a farmi visita, non potei fare a meno di domandarle che cosa fosse accaduto che la rendeva tanto felice. Ella sembrava trasfigurata: sorrideva e teneva alta la testa. Pensai per un momento che dopo tutto, mi ero sbagliato nel considerare la situazione e che l'istitutrice delle bambine fosse diventata la fidanzata del direttore. Ma lei dissipò questa mia idea. «Non è successo nulla. E solo che lei non mi conosce. Mi ha sempre veduta malata e depressa. Di regola sono sempre allegra. Quando mi sono svegliata ieri mattina non avevo più quel peso nel cervello, e da allora mi sento bene.» «E che pensa delle sue speranze in quella casa?» «Ho le idee ben chiare in proposito. So di non aver nessuna speranza, e non mi renderò infelice per questo.» «E ora andrà d'accordo col personale di servizio?» «Credo che la mia ipersensibilità sia stata responsabile della maggior parte di quei dissapori.» «Ed è sempre innamorata del suo datore di lavoro.» «Sì, certo che lo sono, ma non fa nessuna differenza. In fin dei conti posso avere pensieri e sentimenti per mio conto.» Allora le esaminai il naso e trovai che la sensibilità dolorifica e l'eccitabilità riflesse erano quasi completamente ristabilite. Era in grado di distinguere gli odori, sia pure con qualche incertezza e soltanto se erano forti. Però un problema rimane irrisolto: fino a che punto la rinite aveva avuto parte nella menomazione del suo olfatto. La cura era durata in tutto nove settimane. Quattro mesi dopo incontrai per caso la paziente in uno dei nostri soggiorni estivi. Era di buon umore e mi assicurò che la guarigione si era mantenuta. DiscussioneNon sono incline a sottovalutare l'importanza del caso che ho qui descritto, anche se la paziente era affetta soltanto da una forma leggera e benigna di isteria con scarsi sintomi. Anzi, mi sembra un fatto istruttivo che persino una malattia di questo genere, tanto improduttiva se considerata come una nevrosi, si rifacesse a tante determinanti psichiche. Invero, quando esamino la storia di questo caso più da vicino, sono tentato di considerarla come un esempio tipico di un particolare genere di isteria, vale a dire quella forma di malattia che può essere ereditata anche da una persona con eredità normale, in conseguenza di particolari esperienze. Si intende che con ciò voglio dire un'isteria indipendente da qualunque disposizione preesistente. E probabile che una tale isteria non esista. Ma noi non riconosciamo una disposizione del genere in un individuo, finché non sia divenuto effettivamente isterico, in quanto in precedenza non vi erano segni dell'esistenza di questa disposizione; una predisposizione nevropatica, quale è generalmente intesa, e qualcosa di differente. Questa è già rivelata prima dell'instaurazione della malattia dalla quantità di stigmate ereditarie del soggetto o dal complesso nelle sue anomalie psichiche individuali. Per quanto mi sia dato sapere, in Miss Lucy non vi erano tracce di nessuno di questi fattori. Dunque la sua isteria può definirsi un'isteria acquisita, che non aveva altro presupposto che la paziente avesse una tendenza probabilmente molto diffusa: la tendenza ad ammalarsi di isteria. Ora come ora, abbiamo ben poche nozioni di quali possano essere le caratteristiche di questa tendenza. Però, in casi di questo genere, il massimo dell'importanza va attribuito alla natura del trauma, anche se considerato, naturalmente, in congiunzione con la reazione del soggetto. Risulta essere condizione sine qua non per l'acquisizione dell'isteria che venga a crearsi un'incompatibilità tra l'ego e alcune idee che si presentano ad esso. Spero di riuscire a dimostrare, in un altro lavoro, come nascono disturbi nevrotici differenti dai diversi sistemi adottati dall'«io» al fine di sfuggire a questa incompatibilità. Il sistema isterico di difesa - per il quale è indispensabile possedere una particolare tendenza - si basa sulla conversione dell'eccitazione in un'efferenza nervosa somatica, e il vantaggio di questo è che l'idea incompatibile viene rimossa dalla coscienza dell'ego. In contraccambio questa coscienza ora contiene le reminiscenza fisica che si è instaurata in seguito alla conversione (nel nostro caso la sensazione olfattiva soggettiva della paziente) e soffre a causa dello stato affettivo più o meno chiaramente legato proprio a quella reminiscenza. La situazione che si è così instaurata non è più suscettibile di ulteriore mutamento in quanto, grazie alla rimozione e alla conversione, non esiste più l'incompatibilità che sarebbe stata necessaria per rimuovere lo stato affettivo. Dunque il meccanismo che produce l'isteria, da un lato rappresenta un atto di vigliaccheria morale, e, dall'altro, una misura difensiva a disposizione dell'ego. Abbastanza spesso dobbiamo ammettere che difendersi dalle crescenti eccitazioni sviluppando una isteria, in certe circostanze, è la cosa migliore che si possa fare; naturalmente più spesso dobbiamo concludere che una più alta dose di coraggio morale sarebbe stata vantaggiosa per l'individuo in questione. Il momento traumatico affettivo è , allora, quello in cui l'incompatibilità cerca di forzare l'ego e questo decide di ripudiare l'idea incompatibile. Quest'idea, però, non è annullata da un ripudio di questo genere, ma è semplicemente rimossa nell'inconscio. Quando questo processo si verifica per la prima volta, viene a costituirsi un nucleo, centro di cristallizzazione per la formazione di un gruppo psichico avulso dall'io, - un gruppo attorno al quale si raccoglie successivamente tutto quel che implicherebbe un'accettazione dell'idea incompatibile -. In conseguenza lo sdoppiamento della coscienza, in questi casi di isteria acquisita, è deliberato ed intenzionale. Quanto meno è spesso introdotto da un atto della volontà, in quanto lo sviluppo effettivo è alquanto differente da quello desiderato dal soggetto. Quello che egli desiderava era liberarsi di un'idea, come se non fosse mai esistita, mentre tutto quello che gli riesce è di isolarla psichicamente. Nella storia di questa paziente il momento traumatico fu il momento dello scoppio di furore del datore del lavoro contro di lei perché le bambine erano state baciate dalla signora. Però, per un certo tempo, questa scena non ebbe un effetto palese (può darsi che la sua ipersensibilità e depressione siano derivate da questo, ma non ne posso essere sicuro). I sintomi isterici non cominciarono che più tardi, in momenti che potrebbero essere definiti «ausiliari». L'elemento caratteristico di questo momento ausiliario, è, credo, il fatto che due gruppi psichici separati convergono temporaneamente verso questi, come avviene nella coscienza allargata propria del sonnambulismo. Nel caso di Miss Lucy R. il primo momento ausiliario, durante il quale ebbe luogo la conversione, fu la scena a tavola quando il capo contabile tentò di baciare le bambine. Qui la memoria traumatica stava sostenendo il suo ruolo: ella non si comportava come se si fosse sbarazzata di tutto ciò che era connesso alla sua devozione per il datore di lavoro (nella storia di altri casi questi momenti differenti coincidono; la conversione ha luogo quale effetto immediato del trauma). Il secondo momento ausiliario ripete il meccanismo del primo con grande esattezza. Una forte impressione riunì temporaneamente la coscienza della paziente e la conversione vsegui anche questa volta il sentiero tracciato nella prima occasione. E interessante notare che il secondo sintomo che si sviluppò mascherò il primo, cosi che il primo non fu percepito chiaramente se non dopo l'eliminazione del secondo. Mi sembra anche degno di nota che questa inversione di andamento venga seguita anche dall'analisi. Ho fatto la medesima esperienza in un gran numero di casi: i sintomi comparsi più tardi mascheravano i più antichi e la chiave di tutta la situazione si trovava nell'ultimo dei sintomi raggiunti dall'analisi. Il procedimento terapeutico in questo caso consisteva nel costringere il gruppo psichico, che era stato dissociato a ricongiungersi con la coscienza dell'io. Abbastanza stranamente, il successo non seguiva di pari passo il quantitativo di lavoro fatto. Solo quando l'ultima fase del lavoro fu completata si verificò improvvisamente la guarigione. |