Storia del movimento psicoanalitico

1914

FLUCTUAT NEC MERGITUR (Nello stemma della città dì Parigi)

1.

Se con quanto segue porto alcuni contributi alla storia del movimento psicoanalitico, nessuno dovrà meravigliarsi della loro impronta soggettiva, né della parte che vi ha la mia persona. Infatti la psicoanalisi è una mia creazione: sono stato per dieci anni il solo che se ne sia interessato, e tutta la contrarietà suscitata nei contemporanei da questo nuovo fenomeno si è abbattuta su di me sotto forma di critica. Mi reputo perciò autorizzato ad affermare che ancora oggi, sebbene io non sia da tempo l'unico psicoanalista, nessuno può sapere più di me che cosa sia la psicoanalisi, in cosa si differenzi da altri metodi di indagine della vita psichica, e cosa il suo nome voglia indicare o, per meglio dire, cosa debba essere denominato altrimenti. Rifiutando dunque ciò che considero una ardita usurpazione, indirettamente darò ai lettori alcune delucidazioni sugli eventi che hanno portato a cambiare la redazione e la forma esteriore dello «Jahrbuch».

Quando nel 1909 per la prima volta mi fu consentito di parlare in pubblico di psicoanalisi nell'aula di un'università americana1, emozionato dall'importanza del momento per le mie aspirazioni, sostenni di non essere stato colui che aveva creato la psicoanalisi, in quanto questo merito spettava a un altro, Josef Breuer, il quale lo aveva acquisito quando io ero ancora studente e occupato a dare esami (1880-1882). Da allora, però, parecchi amici ben intenzionati mi hanno spinto a riflettere se io non avessi manifestato a sproposito la mia gratitudine. Mi dissero, come in circostanze precedenti, che avrei dovuto ossequiare il «procedimento catartico» di Breuer come fase precedente alla psicoanalisi, ma far cominciare questa solo con la mia rinuncia alla tecnica ipnotica e con l'introduzione delle associazioni libere. In ogni caso è abbastanza irrilevante far cominciare la storia della psicoanalisi con il procedimento catartico o con la mia successiva modificazione.

Se mi soffermo tanto su questa questione di scarso interesse, è solo perché alcuni miei oppositori, al momento opportuno, hanno l'abitudine di ricordare che questa tecnica psicoanalitica non fa per niente capo a me, ma a Breuer. Ovviamente ciò si verifica solo qualora la loro posizione consenta di ritenere alcuni aspetti della psicoanalisi come degni di nota, perché quando, al contrario, la respingono indiscriminatamente, allora essa è sempre ed indiscutibilmente opera mia. Non sono mai venuto a sapere che Breuer si sia tirato addosso scherno e riprovazione in misura proporzionale al suo grande apporto alla psicoanalisi. Avendo oramai capito da tempo che è un destino ineluttabile della psicoanalisi quello di esasperare gli uomini e di suscitare in loro spirito di contraddizione, ne ho tratto da solo la conclusione che devo essere il vero autore di tutto ciò. Mi fa piacere aggiungere che nessuno dei tentativi di sminuire la mia parte nella tanto vituperata psicoanalisi è mai provenuto da Breuer né si è potuto vantare del suo sostegno.

Il contenuto della scoperta di Breuer è stato esposto così spesso che possiamo tralasciarne in questa sede una più ampia trattazione; dato di fatto fondamentale è che i sintomi degli isterici derivano da scene incisive, ma dimenticate, della loro vita (traumi); la terapia che vi si basa consiste nel far loro rievocare e riprodurre in stato ipnotico queste esperienze (catarsi); da ciò discende quella piccola parte della teoria per cui questi sintomi corrispondono a un impiego abnorme di quantità di eccitamento che non sono state consumate (conversione). Ogni volta che, nel suo contributo teorico agli Studi sull'isteria (1892-95), deve far cenno alla conversione, Breuer aggiunge tra parentesi il mio nome, come se questo primo tentativo di spiegazione teorica mi competesse. Ritengo che questa attribuzione si riferisca solo alla denominazione, poiché siamo giunti a tale concezione in modo simultaneo e condiviso.

È risaputo inoltre che, dopo la sua prima esperienza, per vari anni Breuer non si interessò del trattamento catartico, e che vi ritornò solo dopo che io ve lo ebbi indotto, dopo esser tornato dal mio soggiorno presso Charcot. Egli era un internista occupato in una vasta prassi medica; io invece ero diventato medico solo malvolentieri ma avevo, a quel tempo, un forte incentivo per voler aiutare i malati nervosi, o quantomeno capire qualcosa del loro stato. Avevo confidato nella terapia fisica, e mi ritrovai titubante di fronte alle delusioni provocatemi dalla «elettroterapia» di Erb, così fertile peraltro di suggerimenti e di indicazioni. Se allora non arrivai da solo all'opinione, che il Mòbius fece in seguito prevalere, per cui i successi del trattamento elettrico nei disturbi nervosi siano effetto della suggestione, la causa fu solo l'assenza dei successi che mi ero aspettato. Un sostituto soddisfacente della terapia elettrica abbandonata mi apparve allora il trattamento attraverso suggestioni in ipnosi profonda, che appresi a conoscere dalle dimostrazioni estremamente incisive di Liébeault e Bernheim. Ma l'indagine di pazienti in stato d'ipnosi, di cui venni a conoscenza per merito di Breuer, doveva apparire - per gli effetti automatici che produceva e il simultaneo appagamento della mia avidità di sapere - immensamente più attraente che le monotone e violente proibizioni del metodo suggestivo che impedivano qualsiasi ulteriore indagine.

Abbiamo di recente ricevuto, come uno degli ultimi arricchimenti della psicoanalisi, l'incitamento a mettere in primo piano nell'analisi il conflitto attuale e le circostanze della malattia. Bene, questo è precisamente quanto Breuer e io abbiamo fatto con il metodo catartico all'inizio dei nostri lavori. Volgevamo direttamente l'attenzione del malato sulla scena traumatica in cui il sintomo si era originato; cercavamo di intuire in essa il conflitto psichico liberandone poi l'affetto represso. Arrivammo così a conoscere il decorso tipico dei processi psichici della nevrosi, da me denominato in seguito "regressione". L'associazione del malato risaliva dalla scena da chiarire a esperienze anteriori, portando l'analisi, la cui funzione era quella di correggere il presente, ad interessarsi del passato. Questa regressione portò sempre più indietro, in un primo tempo normalmente fino all'epoca della pubertà; poi insuccessi e manchevolezze nella nostra comprensione condussero il lavoro analitico verso gli anni anteriori dell'infanzia, che erano stati fino ad allori preclusi a qualunque tipo di ricerca. Questa impostazione regressiva divenne una caratteristica rilevante dell'analisi. Si comprese che la psicoanalisi non era in grado di spiegare niente di attuale se non facendo riferimento a qualcosa del passato, e che ogni esperienza patogena ne presuppone una anteriore, di per sé non patogena, ma che dà la sua impronta patologica all'evento successivo. La tentazione di trattenermi sull'occasione nota, attuale, era tuttavia tanto forte che ho ceduto ad essa anche in analisi successive. Nel trattamento della paziente da me chiamata "Dora", effettuato nel 1899, mi era già nota la scena che aveva causato l'insorgere della attuale malattia. Infinite volte mi adoperai per portare all'analisi questa esperienza, senza tuttavia ottenerne mai, al mio diretto invito, risposta diversa da quella stessa esile ed incompleta esposizione. Solo dopo lunghe divagazioni che riguardavano la primissima infanzia della paziente, ella fece un sogno attraverso la cui analisi ricordò i particolari, sino ad allora dimenticati della scena, e ciò rese accessibile la comprensione e la soluzione dell'attuale conflitto. Questo esempio basta ad illustrare quanto sia fallace il monito prima accennato, e quanta regressione scientifica si manifesti nel suggerimento di tralasciare la regressione nella tecnica psicoanalitica.

La prima divergenza tra Breuer e me si presentò riguardo al profondo meccanismo psichico dell'isteria. Egli preferiva una teoria ancora, per così dire, fisiologica, intendendo spiegare la scissione psichica degli isterici in base alla mancanza di comunicazione tra i vari stati psichici (o, come dicevamo allora, stati di coscienza): istituì così la teoria degli "stati ipnoidi" i cui risultati dovevano introdursi nella coscienza vigile come corpi estranei, non assimilati. Io mi ero posto in una prospettiva meno scientifica, intuendo dappertutto tendenze e disposizioni affini a quelle della vita quotidiana e vedendo la stessa scissione psichica come esito di un processo che denominai allora "difesa", in seguito "rimozione". Effettuai poi un breve tentativo di far coesistere i due meccanismi l'uno accanto all'altro, ma poiché l'esperienza seguitava ad indicarmi costantemente la stessa ed unica cosa, la mia dottrina della difesa non tardò a contrapporsi alla sua teoria ipnoide.

Tuttavia sono assolutamente certo che questa divergenza non era affatto collegata alla nostra separazione, che si verificò poco dopo. Questa aveva motivazioni più profonde, ma si manifestò in modo tale che in un primo momento non la compresi, imparando a spiegarla solo in seguito, dopo, una serie di buoni indizi. Certo si ricorderà che Breuer sostenne come un fatto sorprendente che nella sua famosa prima paziente il fattore sessuale era scarsamente sviluppato e non aveva mai recato un apporto al suo nutrito quadro clinico. Mi sono sempre stupito che i critici non abbiano più spesso opposto questa asserzione di Breuer alla mia opinione sulla eziologia sessuale delle nevrosi e non so, ancora oggi, se considerare questa omissione una prova della loro discrezione o della loro distrazione. Chi rilegga l'anamnesi di Breuer alla luce dell'esperienza acquisita negli ultimi vent'anni non si ingannerà sul simbolismo dei serpenti, della contrattura, della paralisi al braccio, e tenendo presente la situazione al capezzale del padre, intuirà agevolmente la reale interpretazione di quei sintomi, sicché la sua opinione sulla importanza della sessualità nella vita psichica della ragazza si scosterà considerevolmente da quella del medico di lei.

Breuer potè disporre, per il ristabilimento della malata, del più intenso rapporto suggestivo, che può servirci esattamente come esempio di ciò che oggi denominiamo "transfert". Bene, io ho buoni motivi per credere che, dopo l'eliminazione di tutti i sintomi, Breuer dovette comprendere la spiegazione sessuale di questo transfert in base a nuovi indizi, ma che non capì il carattere generale di questo fenomeno inaspettato, cosicché a questo punto, come colto da un untoward evenf, interruppe l'indagine. Non m'informò di ciò direttamente, fornendomi però continuamente indizi sufficienti a legittimare questa deduzione. Quando poi cominciai a sostenere sempre più decisamente la rilevanza della sessualità tra le cause della nevrosi, egli fu il primo a manifestarmi quella reazione di indignato rifiuto che doveva in seguito divenirmi così familiare, ma che allora non avevo riconosciuto ancora come un mio incontrastabile destino.

Il fatto che nel corso di ogni trattamento di nevrosi si manifesti un transfert in senso affettuoso od ostile, di carattere grossolanamente sessuale, pur non essendo desiderato o provocato né dall'analista né dal paziente, mi è sempre sembrato la conferma più irrefutabile che le forze motrici della nevrosi dipendono dalla vita sessuale. L'argomento non è stato ancora valutato con sufficiente serietà, perché, se ciò si verificasse, non resterebbe all'indagine altra scelta. Per la mia convinzione è rimasto decisivo, accanto e al di là dei risultati specifici del lavoro analitico.

Un conforto per l'accoglienza negativa che la mia teoria sulla eziologia sessuale delle nevrosi aveva ricevuto anche nell'ambito della più intima cerchia di amici - infatti intorno alla mia persona non tardò a formarsi il vuoto - consisteva però nella sicurezza di avere intrapreso una battaglia per un'idea nuova ed originale. Poi un giorno si chiarirono in me alcuni ricordi che sconvolsero questa soddisfazione, in compenso permettendomi di comprendere a fondo lo svolgimento della nostra attività creativa e il carattere della nostra conoscenza. La teoria di cui ero ritenuto responsabile non si era affatto originata in me. Essa mi era stata presentata da tre persone il cui parere poteva fare affidamento sul mio profondo rispetto: da Breuer stesso, da Charcot e dal ginecologo della nostra università, Chrobak, forse il più illustre dei nostri medici viennesi. Questi tre uomini mi avevano ispirato un'idea che, a rigor di termini, essi stessi non possedevano. Due di essi, quando in seguito lo ricordai loro, negarono il loro contributo; il terzo - il grande maestro Charcot - avrebbe fatto probabilmente lo stesso, se mi fosse stato permesso di rivederlo. Questi vari identici cenni recepiti senza comprenderli avevano però dormicchiato in me per anni, fino a che un giorno si risvegliarono nella forma di una conoscenza all'apparenza originale. Mentre un giorno, giovane medico ospedaliero, facevo compagnia a Breuer in una passeggiata per la città, gli si avvicinò un uomo che aveva urgente bisogno di parlargli. Io restai indietro, e Breuer, quando fu nuovamente solo, mi comunicò, nel suo modo garbatamente pedagogico, che quello era il marito di una paziente, latore di una notizia su di lei. La donna, continuò, in compagnia agiva in un modo così strano che gli era stata affidata in trattamento come un caso nervoso. Questi, concluse infine, sono sempre segreti d'alcova. Incuriosito domandai cosa volesse dire ed egli mi chiarì il termine "alcova" perché non capiva come la cosa potesse risultarmi nuova.

Nel corso di una delle serate di Charcot, qualche anno dopo, capitai vicino all'illustre maestro, che stava proprio esponendo a Brouardel una vicenda molto interessante presa dalla pratica del giorno. Non sentii bene l'inizio, ma il racconto attrasse gradualmente la mia attenzione. Una giovane coppia di sposi del lontano Oriente, lei molto sofferente, lui impotente o ben poco capace. «Tàchez donc», udii Charcot ripetere, «je vous assure, vous y arriverez»3. Poi Brouardel, che parlava a voce meno alta, deve aver manifestato la sua meraviglia che apparissero in simili circostanze sintomi come quelli della donna, perché Charcot esclamò all'improvviso, con viva animazione: «Mais dans des cas pareils c'est toujours la chose genitale, toujours, toujours»4. E dicendo ciò incrociò le mani sullo stomaco saltellando parecchie volte su e giù con l'esuberanza che gli era propria. So che fui preso per un istante da uno stupore quasi paralizzante; mi dicevo tra me: «Ma se lo sa, perché non lo dice mai?». Ma l'impressione fu ben presto dimenticata, tutta l'attenzione fu occupata dall'anatomia cerebrale e dalla riproduzione sperimentale di paralisi isteriche.

Un anno dopo cominciavo a Vienna la mia pratica medica come libero docente di neuropatologia, ed ero rimasto così ingenuo e ignorante rispetto a tutto ciò che riguardava l'eziologia delle nevrosi quanto ci si può aspettare da una promessa accademica, quando un giorno fui sorpreso da un cortese invito di Chrobak a prendere in cura una sua paziente, alla quale non poteva dedicare abbastanza tempo per via della sua nuova posizione di professore universitario. Arrivai dalla malata prima di lui e venni a sapere che soffriva di inspiegabili attacchi di angoscia, che potevano essere placati solo se era informata, in ogni momento della giornata, del luogo esatto in cui si trovava il suo medico. Quando Chrobak arrivò, mi prese da parte e mi svelò che l'angoscia della paziente derivava dal fatto che, nonostante diciotto anni di matrimonio, essa era virgo intacta.W marito era completamente impotente.

In casi di questo genere il medico non può far altro che difendere con la sua reputazione l'avversa sorte familiare, e sopportare che la gente dica di lui: «Un altro incapace, se in tutti questi anni non l'ha rimessa in sesto». Conosciamo bene, continuò, la sola ricetta per simili sofferenze, ma non possiamo prescriverla. Essa è la seguente:

Recipe - Penis normalis dosim repetatur!

Io non avevo sentito parlare di una ricetta di questo genere, ed avrei volentieri scrollato il capo per il cinismo del mio benefattore.

Ho indicato l'egregia fonte della esecrabile idea, non di certo in quanto intenda riversarne sugli altri la responsabilità. Comprendo bene che una cosa è esprimere un'idea come breve apercu una o più volte, altra cosa è prenderla in seria considerazione, alla lettera, guidarla attraverso tutti i particolari sfuggenti e farle ottenere la sua posizione tra le verità riconosciute. È la differenza che sussiste tra un superficiale flirt e un matrimonio legittimo, con tutti i suoi doveri e le sue difficoltà. Épouser les idées de... e, almeno in francese, espressione corrente.

Sottolineo, tra gli altri elementi che in virtù del mio lavoro si aggiunsero al procedimento catartico, trasformandolo nella psicoanalisi, la teoria della rimozione e della resistenza, l'introduzione della sessualità infantile, l'interpretazione e l'uso dei sogni per la conoscenza dell'inconscio. Di certo ho elaborato in modo autonomo la teoria della rimozione; non mi risulta di nessun influsso che mi abbia avvicinato ad essa, e per molto tempo ritenni questa idea originale, finché Rank ci segnalò il brano del Mondo come volontà e rappresentazione di Schopenhauer in cui il filosofo cerca di fornire una spiegazione della follia5. Ciò che lì è detto sulla riluttanza ad accettare una parte penosa della realtà corrisponde in maniera così piena al contenuto del mio concetto di rimozione che dovetti ancora una volta essere grato alle lacune della mia cultura, che mi avevano consentito di fare una scoperta. Infatti, altri hanno letto quel brano senza indugiarvi, senza arrivare a questa scoperta, e forse a me sarebbe successo lo stesso se negli anni giovanili avessi provato più piacere nella lettura di autori filosofici. Più tardi mi sono precluso l'elevato godimento delle opere di Nietzsche, in base alla consapevole ragione che non volevo essere ostacolato da nessuna aspettativa nella elaborazione delle impressioni tratte dalla psicoanalisi. Dovevo in cambio essere disposto - e lo sono volentieri - a rinunciare ad ogni pretesa di priorità nei ripetuti casi in cui la laboriosa indagine psicoanalitica può solo avvalorare le cognizioni acquisite dai filosofi su base intuitiva.

La teoria della rimozione è ora il sostegno su cui si basa l'edificio della psicoanalisi, il suo elemento fondamentale, tanto che essa non è che l'espressione teorica di un'esperienza ripetibile a proprio piacere, purché si effettui senza ricorrere all'ipnosi, l'analisi di un nevrotico Allora si percepisce una resistenza che avversa il lavoro psicoanalitico e avanza il pretesto di un'assenza di memoria per renderlo infruttuoso. L'impiego dell'ipnosi copre necessariamente tale resistenza; perciò la storia della psicoanalisi vera e propria inizia solo con l'innovazione tecnica dell'abbandono dell'ipnosi. La considerazione teorica del fatto che questa resistenza trova riscontro in un'amnesia porta poi ineluttabilmente a quella visione dell'attività psichica inconscia che è caratteristica della psicoanalisi, e che comunque si discosta non poco dalle considerazioni filosofiche sull'inconscio. Si può pertanto affermare che la dottrina psicoanalitica è un tentativo di rendere comprensibili due fatti sperimentali, che si manifestano in maniera sorprendente ed inattesa nel tentativo di riportare alle loro fonti, nell'ambito storico della sua vita, i sintomi morbosi di un nevrotico: il dato di fatto del transfert e quello della resistenza. Ogni genere d'indagine che ammetta questi due fattori e li prenda come punto di partenza del proprio lavoro può essere denominata "psicoanalisi", anche se arriva a risultati diversi dai miei. Chi invece tratterà altri aspetti di questo problema allontanandosi da questi due presupposti si sottrarrà difficilmente, se continuerà a definirsi uno psicoanalista, all'accusa di mimetizzarsi per violare l'altrui proprietà.

Mi rifiuterei violentemente se qualcuno intendesse includere la teoria della rimozione e della resistenza tra le premesse invece che tra i risultati della psicoanalisi. Simili premesse di carattere generalmente psicologico e biologico esistono e sarebbe bene parlarne, in altra sede, ma la teoria della rimozione è una conquista del lavoro psicoanalitico, legittimamente conseguita come nucleo teorico da una quantità indefinitamente vasta di esperienze. Analogamente, una conquista solo temporalmente posteriore fu la rivelazione della sessualità infantile, della quale non si faceva cenno nei primi anni della indagine analitica, che avanzava ancora a tentoni. In un primo momento si comprese solo che si doveva riferire l'effetto di impressioni attuali a cose passate. Però il «ricercatore scopre sempre più di quanto non si attenda». Si fu spinti a risalire sempre più indietro in questo passato, e si sperò infine di potersi arrestare alla pubertà, l'epoca del tradizionale risveglio degli istinti sessuali. Inutilmente, perché le tracce riportavano ancora più addietro, all'infanzia ed ai suoi primi anni. Durante questo percorso si doveva scampare a un errore che per poco non sarebbe risultato fatale al nuovo metodo. Sotto il condizionamento della teoria traumatica dell'isteria che si ricollega a Charcot si propendeva facilmente a ritenere veritieri ed eziologicamente significativi i racconti ei malati, che riferivano i loro sintomi a esperienze sessuali passive vute nell'infanzia, cioè in parole povere, alla seduzione. Quando questa eziologia cadde per la sua stessa inverosimiglianza e per il contrasto con situazioni confermabili con certezza, seguì una fase di assoluta perplessità. Per una giusta via l'analisi aveva portato a questi traumi sessuali infantili, ed essi però erano falsi. Ci si era dunque staccati dalla realtà. Allora avrei abbandonato volentieri tutto il lavoro, come aveva fatto, in occasione della sua sgradevole scoperta, il mio stimato predecessore Breuer. Persistetti forse solo perché non avevo alternative. Infine compresi che, quando si è delusi nelle proprie aspettative, non si ha il diritto di perdersi d'animo, ma occorre riesaminare tali aspettative. Se gli isterici riferiscono i loro sintomi a traumi inventati, il dato nuovo è dunque che essi creano queste scene nella fantasia, e la realtà psichica richiede di essere valutata accanto alla realtà effettiva. A ciò seguì, poco dopo, l'idea che queste fantasie sono destinate a celare, abbellire e porre su di un piano più elevato l'attività autoerotica dei primi anni d'infanzia; e allora, dietro a queste fantasie, comparve, in tutta la sua vastità, la vita sessuale del bambino.

Anche la costituzione congenita aveva poi la sua parte in tutta questa attività sessuale dei primi anni dell'infanzia. Qui si collegavano, in una indivisibile unità eziologica, disposizione ed esperienza, in quanto la disposizione elevava le impressioni a traumi capaci di provocare stimoli e fissazioni; impressioni che, essendo assolutamente insignificanti, sarebbero altrimenti rimasti inefficaci; le esperienze, d'altra parte, risvegliavano elementi della disposizione, che senza di esse avrebbero dormicchiato lungamente, senza potersi forse mai svolgere. L'ultima parola sul problema dell'eziologia traumatica fu detta, in seguito, da Abraham, il quale fece osservare come proprio la speciale costituzione sessuale del bambino possa causare esperienze sessuali di genere particolare, cioè i traumi6.

In un primo momento le mie teorie sulla sessualità infantile si basavano in modo quasi esclusivo sui risultati dell'analisi di adulti, che risaliva verso il passato. Mi mancava il modo di esaminare il bambino in modo diretto. Fu perciò uno straordinario successo quando, qualche anno dopo, si potè avvalorare la maggior parte dei miei risultati attraverso le osservazioni e l'analisi diretta di bambini di tenera età, un successo che fu gradualmente sminuito dal pensiero che la scoperta era di genere tale che in definitiva bisognava vergognarsi di averla fatta. Quanto più si approfondiva l'osservazione del bambino, tanto più la cosa appariva ovvia, ma anche tanto più strano il fatto che ci si fosse adoperati in ogni modo per tralasciarla.

Questa salda convinzione dell'esistenza e del significato della sessualità infantile può in realtà ottenersi solo se si segue il percorso dell'analisi, risalendo dai sintomi e dalle caratteristiche dei nevrotici alle fonti ultime, la cui scoperta spiega e modifica quanto di essi è spiegabile e suscettibile di mutamento. Comprendo che si possa giungere a diversi risultati se, come ha fatto di recente C.G. Jung, ci si configura prima una rappresentazione teorica del carattere della pulsione sessuale, movendo dalla quale poi si vuol capire la vita del bambino. Questa rappresentazione non può che essere scelta in modo arbitrario, o in base a considerazioni marginali, e corre il rischio di diventare inidonea al campo cui si vuole applicarla. Certamente anche il procedimento analitico porta, in fin dei conti, a ostacoli e oscurità riguardanti la sessualità e il suo rapporto con la vita complessiva dell'individuo, ma queste problematiche non possono essere eliminate per mezzo di speculazioni, ma devono sussistere fino a quando non giungano a una soluzione in virtù di altri generi di osservazioni, o di osservazioni effettuate in campi diversi.

Riguardo all'interpretazione dei sogni, poche parole mi sono sufficienti. Essa mi apparve come primo risultato dell'innovazione tecnica dopo che, dando ascolto a un vago presentimento, avevo deciso di sostituire l'ipnosi con le associazioni libere. Il mio desiderio di sapere non era sin dall'inizio rivolto alla comprensione dei sogni. Mi sono ignoti influssi che abbiano diretto il mio interesse o che mi abbiano fornito una provvidenziale aspettativa. Ebbi appena il tempo, prima di troncare i miei rapporti con Breuer, di informarlo con una sola frase che ormai potevo interpretare i sogni. In conseguenza del modo in cui questa scoperta si verificò, il simbolismo del linguaggio onirico fu al-l'incirca l'ultima cosa del sogno che mi fu accessibile, perché le associazioni del sognatore scarsamente giovano alla comprensione dei simboli. Poiché avevo mantenuto l'abitudine di studiare le cose prima di ricorrere ai libri, potei impossessarmi del simbolismo del sogno prima che mi cadesse sotto gli occhi lo scritto di Scherner. Solo in seguito ho apprezzato questo modo di espressione del sogno in tutta la sua ampiezza, in parte sotto l'influenza dei lavori di Wilhelm Stekel, ricercatore ricco di meriti che è poi andato del tutto fuori strada. Solo molti anni dopo mi si rivelò lo stretto rapporto dell'interpretazione psicoanalitica dei sogni con l'antica arte, tanto apprezzata un tempo, di interpretare i sogni. Ritrovai il punto più peculiare e saliente della mia teoria dei sogni, quello che collega la deformazione onirica a un conflitto interiore, a una specie di interiore insincerità, in un autore cui era rimasta sì aliena la medicina, ma non la filosofia, il noto ingegnere I. Popper, il quale aveva pubblicato nel 1899 sotto il nome di Lynkeus le Fantasie di un realista.

L'interpretazione dei sogni divenne per me un conforto e un punto di riferimento in quei primi difficili anni dell'analisi, quando dovevo nello stesso tempo maturare le mie conclusioni sulla tecnica, sulla clinica e sulla terapia delle nevrosi, quando ero assolutamente isolato e avevo spesso paura di perdere l'orientamento e la fiducia nel meandro dei problemi e nell'assommarsi delle difficoltà. La conferma della mia ipotesi, che una nevrosi può divenire comprensibile attraverso l'analisi, spesso si faceva attendere nel malato per un periodo di allarmante lunghezza; nei loro sogni, configurabili come fenomeni analoghi ai loro sintomi, questa ipotesi trovava quasi sempre la propria conferma.

Solo questi successi mi consentirono di persistere. Ho perciò preso l'abitudine di valutare l'intelligenza di un lavoratore in campo psicologico in base alla sua posizione riguardo ai problemi dell'interpretazione dei sogni, e mi ha fatto piacere constatare che la maggior parte degli oppositori della psicoanalisi evitavano addirittura di penetrare in questo campo oppure, quando ci si provavano, si comportavano in modo molto impacciato. Ho effettuato la mia autoanalisi, la cui esigenza mi si manifestò ben presto, con il contributo di una serie di sogni che mi avevano accompagnato in tutte le vicende degli anni della mia infanzia, e sono ancor oggi dell'idea che questo tipo di analisi possa essere sufficiente per un buon sognatore ed un uomo non troppo fuori del normale.

Esponendo la storia dell'evoluzione della psicoanalisi, credo di avere indicato meglio che con una descrizione sistematica cosa sia la psicoanalisi stessa. In un primo momento non compresi il carattere particolare delle mie scoperte. Senza esitare sacrificai la mia nascente notorietà di medico e l'affluenza dei nevrotici al mio ambulatorio perché sistematicamente facevo ricerche sulla motivazione sessuale delle loro nevrosi, il che mi consentì di fare una serie di esperienze che definitivamente consolidarono la mia convinzione sulla rilevanza pratica del fattore sessuale. Mi presentai, ignaro, alla Società viennese di psichiatria e neurologia, allora presieduta da von Krafft-Ebing, come un oratore che si aspetta di essere ricompensato con l'interesse e la riconoscenza dei colleghi per i danni materiali che si è procurato volontariamente. Consideravo le mie scoperte normali apporti alla scienza e lo stesso mi attendevo dagli altri. Furono il silenzio che si levava alla fine delle mie conferenze, il vuoto che si faceva intorno alla mia persona, le allusioni che mi venivano riportate che gradualmente mi fecero capire che dichiarazioni sulla funzione della sessualità nell'eziologia delle nevrosi non potevano attendere l'accoglienza concessa ad apporti scientifici di diverso tipo. Mi resi conto che da allora in poi sarei rientrato tra quelli che «hanno scosso il sonno del mondo», secondo l'espressione di Hebbel, e che non mi era lecito fare affidamento né su obiettività né su indulgenza. Ma poiché la mia convinzione sull'esattezza, in linea di massima, delle mie osservazioni e deduzioni via via cresceva, e poiché la fiducia nel mio giudizio e il mio vigore morale non era niente affatto misera, l'esito di questa situazione non poteva essere incerto. Mi convinsi a pensare che mi era spettata la fortuna di rivelare nessi particolarmente significativi, e mi ritrovai disposto ad addossarmi la sorte che è talvolta collegata a simili scoperte.

Mi raffiguravo questo destino nel modo seguente: probabilmente sarei riuscito a mantenermi in virtù dei successi terapeutici del nuovo trattamento, ma la scienza non si sarebbe accorta di me finché fossi restato in vita. Dopo qualche decennio un altro si sarebbe inevitabilmente imbattuto nelle stesse cose per le quali, oggi, i tempi non sono maturi, ne avrebbe ottenuto il giusto riconoscimento, elevandomi così agli onori come predecessore necessariamente fallito. Nel frattempo, come un Robinson, mi stabilii nella mia isola solitaria nel modo più confortevole possibile. Se, dai turbamenti e dagli affanni del presente, mi volgo a guardare quegli anni di solitudine, quello mi appare un periodo bello ed eroico; la splendici isolation non era priva di vantaggi e di attrattive. Non dovevo leggere pubblicazioni, né ascoltare avversari male informati, non ero soggetto ad alcun condizionamento, non subivo alcuna pressione. Appresi a frenare le tendenze speculative e, seguendo il consiglio indelebile del mio maestro Charcot, ad osservare continuamente le stesse cose fino a quando non cominciavano a parlare da sé.

Le mie pubblicazioni che riuscii anche, un po' a fatica, a collocare, potevano restare molto arretrate rispetto alle mie conoscenze, potevano essere rimandate come si voleva, dato che non c'era nessuna contestata "priorità" da salvaguardare. Ad esempio, L'interpretazione dei sogni, già pronta nella sostanza all'inizio del 1896, fu elaborata solo nell'estate del 1899. Il trattamento di "Dora" fu terminato alla fine del 1899, la storia della sua malattia fu fissata nei successivi quindici giorni, ma pubblicata solo nel 1905. Frattanto i miei scritti non erano recensiti nella letteratura specializzata, oppure venivano rifiutati con altezzosa o compassionevole superiorità se straordinariamente ciò si verificava. Al momento opportuno un collega non si esimeva dal rivolgermi, in una sua pubblicazione, un apprezzamento molto breve e non eccessivamente lusinghiero, come testardo, estremista, molto bizzarro. Una volta capitò che un assistente della clinica di Vienna, dove tenevo il mio corso semestrale, mi domandò il permesso di esservi presente. Stette attentamente a sentire, non disse nulla, ma alla fine dell'ultima lezione si offrì di accompagnarmi fuori. Durante questa passeggiata mi svelò che, d'accordo con il suo capo, egli aveva scritto un libro contro la mia teoria, ma che rimpiangeva vivamente di averne approfondito la conoscenza solo in seguito alle mie lezioni, perché a proposito di certe cose si sarebbe espresso in modo diverso. Egli si era certamente informato presso la clinica se dovesse prima leggere L'interpretazione dei sogni, ma gliel'avevano sconsigliato, dicendo che non ne valeva la pena. Poi egli stesso paragonò l'edificio della mia teoria, così come l'aveva ora compresa, per la robustezza della sua connessione interna, con la Chiesa cattolica. Voglio pensare, nell'interesse della salvezza della sua anima, che questa affermazione contenesse un po' di riconoscimento. Però concluse che era troppo tardi per rettificare il suo libro, poiché era già stampato. Lo stesso collega non ha ritenuto necessario ragguagliare in seguito i suoi simili del suo cambiamento di idee circa la psicoanalisi, preferendo invece seguirne l'evoluzione con noterelle argute, in qualità di abituale recensore di una rivista medica.

In quegli anni la mia suscettibilità fu, con mio vantaggio, attenuata. Tuttavia a salvarmi dall'amarezza fu una circostanza che non viene in aiuto a tutti gli scopritori isolati. Infatti questi ultimi sono soliti angosciarsi ricercando i motivi del disinteresse e del rifiuto dei loro contemporanei, atteggiamenti che essi avvertono come spiacevolmente in contrasto con la certezza delle loro convinzioni. Ciò mi fu risparmiato, in quanto la dottrina psicoanalitica mi metteva in grado di capire questo atteggiamento del mondo come inevitabile conseguenza delle principali ipotesi analitiche. Se era vero che i nessi da me rilevati venivano tenuti lontani dalla coscienza dei malati da profonde resistenze affettive, queste resistenze dovevano apparire anche nei sani, non appena il materiale rimosso fosse ripresentato loro mediante una comunicazione dall'esterno. Non era sorprendente che essi riuscissero a spiegare con motivazioni intellettuali il rifiuto affettivo. La stessa cosa si verificava altrettanto spesso nei malati, e gli argomenti avanzati - gli argomenti sono comuni come le more, per dirla con Falstaff - erano gli stessi, e non precisamente tra i più arguti. La differenza consisteva solo nel fatto che per i malati si avevano a disposizione mezzi di pressione perché si accorgessero delle loro resistenze e le superassero, mentre per i sedicenti sani si era privi di questo aiuto. Come questi sani potessero essere indotti a rivedere con freddezza e con obiettività scientifica tutta la faccenda era un problema insoluto, la cui soluzione era meglio lasciare al tempo. È accaduto spesso nella storia della scienza, che la stessa affermazione che in un primo momento non aveva suscitato che contestazioni venisse in seguito accettata senza che si fossero addotte in suo favore nuove prove.

Nessuno, tuttavia, pretenderà che in quegli anni, in cui ero il solo rappresentante della psicoanalisi, in me si fossero formati un particolare rispetto per il giudizio del mondo o una tendenza alla condiscendenza intellettuale.

2.

Dal 1902 un gruppo di giovani medici mi si schierò intorno con l'intento preciso di imparare a praticare e diffondere la psicoanalisi. Li aveva spinti a ciò un collega, che aveva verificato su di sé i validi effetti della terapia analitica. In determinate sere ci si raccoglieva nella mia abitazione, si discuteva secondo certe regole, si tentava di trovare un orientamento in questo campo di ricerca sorprendente per la sua novità, e di ottenere per esso l'interesse degli altri. Un giorno ci si presentò uno scolaro che aveva terminato la scuola professionale, con un manoscritto che rivelava un'intelligenza fuori del comune. Lo spingemmo a fare gli studi liceali, ad iscriversi alla università e ad indirizzarsi alle applicazioni non mediche della psicoanalisi. La piccola associazione ebbe così un segretario zelante e fidato, e io trovai in Otto Rank l'aiutante e collaboratore più fedele7.

Il gruppo si ampliò ben presto, modificando più volte, nel corso degli anni seguenti, la propria composizione. Potevo dire a me stesso che, nel complesso, per l'abbondanza e varietà di ingegni che lo costituivano, esso era di poco inferiore allo stato maggiore di qualunque docente clinico. Vi parteciparono fin dall'inizio quegli uomini che in seguito avrebbero avuto nella storia del movimento psicoanalitico parti così rilevanti, sebbene non sempre piacevoli. A quel tempo non si poteva ancora però indovinare questo sviluppo. Potevo considerarmi soddisfatto, e ritengo di aver fatto tutto il possibile per rendere comprensibile agli altri quanto io sapevo e avevo sperimentato. Erano di cattivo auspicio solo due circostanze, che finirono per allontanarmi spiritualmente da quel gruppo. Non mi riuscì di stabilire tra i componenti quell'intesa amichevole che dovrebbe esserci tra uomini che svolgono lo stesso difficile lavoro, né di sedare le dispute di priorità, cui il lavoro in comune dava frequenti motivi. Le difficoltà nell'insegnamento della pratica psicoanalitica, particolarmente grandi e responsabili di molti contrasti odierni, erano già avvertite, del resto, nell'Associazione psicoanalitica privata di Vienna. Io stesso non osavo proporre una tecnica ancora incompleta e una teoria in costante sviluppo con quella autorità che probabilmente avrebbe evitato alcune deviazioni e definitivi deragliamenti. Dal punto di vista psicologico, l'indipendenza dei ricercatori, la loro precoce autonomia dal maestro sono sempre positivi; tuttavia, da un punto di vista scientifico, se ne trae vantaggio solo se in questi ricercatori si realizzano certe condizioni personali che non sono molto diffuse. Proprio la psicoanalisi avrebbe preteso una lunga, rigorosa disciplina e un'abitudine all'autocontrollo. Per il coraggio che si dimostrava nella dedizione ad una causa tanto schernita e disperata, tendevo a permettere ai membri della Società cose che altrimenti mi avrebbero irritato. Il gruppo d'altra parte non comprendeva solo medici, ma anche persone colte che avevano visto nella psicoanalisi qualcosa di significativo: scrittori, artisti e via dicendo. L'interpretazione dei sogni, il libro sul Motto di spirito, e altri lavori, avevano sin dall'inizio reso evidente che le teorie sulla psicoanalisi, suscettibili come sono di essere applicate ad altre svariate scienze umane, non possono venir limitate al campo medico.

Dal 1907 la situazione, contrariamente ad ogni aspettativa, si modificò, e ciò accadde d'improvviso. Si venne a sapere che la psicoanalisi aveva silenziosamente destato interessi e trovato amici, che anzi c'erano scienziati disposti ad esercitarla. Già in precedenza una lettera di Bleuler mi aveva informato che i miei lavori erano studiati ed utilizzati al Burghòlzli. Nel gennaio del 1907 arrivò a Vienna il dottor Eitingon8, il primo membro della clinica zurighese, e si susseguirono presto altre visite che diedero inizio a un vivace scambio di opinioni; infine, su proposta di Cari Gustav Jung, a quell'epoca ancora assistente al Burghölzli, fu organizzato nella primavera del 1908 un primo incontro a Salisburgo, che raccolse gli amici della psicoanalisi da Vienna, Zurigo e altri luoghi. Risultato di questo primo Congresso psicoanalitico fu la fondazione di una rivista che cominciò ad uscire nel 1909 come «Annuario di ricerche psicoanalitiche e psicopatologiche», diretto da Bleuler e Freud, e redatto da Jung. Si manifestò, in questa pubblicazione, la stretta comunanza di lavoro tra Vienna e Zurigo.

Ho più volte ammesso con riconoscenza i grandi meriti della scuola psichiatrica di Zurigo per la diffusione della psicoanalisi, grazie soprattutto a Bleuler e Jung, e oggi, sebbene in condizioni tanto cambiate, non esito a fare lo stesso. Non fu certamente solo l'atteggiamento della scuola di Zurigo a guadagnare alla psicoanalisi l'attenzione del mondo scientifico. Il periodo di latenza era terminato e la psicoanalisi divenne ovunque oggetto di crescente interesse. Ma questo afflusso di interesse altrove non provocò in un primo momento che un rifiuto violentemente intensificato, mentre a Zurigo l'accordo divenne in linea di massima la caratteristica fondamentale. In nessun altro luogo era raccolto un gruppo così solido di aderenti, o poteva essere messa a disposizione per l'indagine psicoanalitica una clinica pubblica, o si trovava un maestro che ponesse la dottrina psicoanalitica come parte integrante dell'insegnamento psichiatrico. Così quelli di Zurigo divennero il fulcro del piccolo stuolo che combatteva per il riconoscimento della psicoanalisi. Solo presso di loro c'era possibilità di apprendere la nuova tecnica e di svolgere lavori in proposito. La maggior parte dei miei odierni fautori e collaboratori, finanche quelli per cui Vienna era geograficamente molto più vicina, sono arrivati a me passando per Zurigo. Vienna è in posizione decentrata rispetto all'Occidente europeo, in cui sono i grandi centri della nostra cultura; la sua reputazione è da molti anni compromessa da gravi pregiudizi. Nella Svizzera, intellettualmente tanto vivace, convergono rappresentanti delle principali nazioni; un focolaio d'infezione posto lì doveva divenire particolarmente importante per la diffusione di una «epidemia psichica», come l'ha chiamata Hoche di Friburgo.

In base alla testimonianza di un collega che ha preso parte a ciò che si faceva al Burghölzli, si può affermare che la psicoanalisi vi suscitò interesse già molto presto. Nell'opera di Jung sui fenomeni occulti, pubblicata nel 1902, vi è già un primo riferimento all'interpretazione dei sogni. Dal 1903 o 1904, riporta il mio informatore, la psicoanalisi era già in primo piano. Da quando si erano stabiliti rapporti personali tra Vienna e Zurigo, anche al Burghölzli venne formata, alla metà del 1907, una libera associazione, che in riunioni regolari dibatteva i problemi della psicoanalisi. Nel rapporto che si costituì tra la scuola viennese e quella di Zurigo, gli svizzeri non erano affatto la parte puramente ricettiva. Essi avevano compiuto già un considerevole lavoro scientifico, i cui frutti si volsero a beneficio della psicoanalisi.

L'esperimento di associazione suggerito dalla scuola di Wundt era stato inteso da loro nel senso della psicoanalisi, e aveva permesso inaspettate applicazioni. Fu perciò possibile dare rapide dimostrazioni sperimentali di osservazioni psicoanalitiche, e presentare all'allievo relazioni singole che l'analista avrebbe potuto solo raccontare. Era lanciato il primo ponte che portava dalla psicologia sperimentale alla psicoanalisi. L'esperimento di associazione nel trattamento psicoanalitico consente una provvisoria analisi qualitativa del caso, ma non arreca un apporto sostanziale alla tecnica, ed è in definitiva superfluo nell'esecuzione delle analisi. Ma un altro risultato della scuola di Zurigo, cioè dei suoi due maestri, Bleuler e Jung, risultò più significativo. Il primo provò che, in tutta una serie di casi esclusivamente psichiatrici, la spiegazione dipendeva dagli stessi processi («meccanismi di Freud») che erano stati riscontrati, a proposito del sogno e delle nevrosi, attraverso la psicoanalisi. Jung applicò con successo il metodo interpretativo analitico ai più specifici ed oscuri fenomeni della dementia praecox, la cui fonte affiorava allora con evidenza dalla biografia e dagli interessi vitali dei malati. Gli psichiatri non poterono più, da quel momento, trascurare ancora la psicoanalisi. Completò questo successo il grande lavoro di Bleuler sulla schizofrenia, in cui si equiparava il metodo psicoanalitico a quello clinico-sistematico.

Non ometterò di far cenno ad una divergenza che già allora si manifestava nell'impostazione di lavoro delle due scuole. Nel 1896 avevo pubblicato l'analisi di un caso di schizofrenia, però di carattere paranoide, cosicché la sua soluzione non poteva sminuire l'impressione provocata dalle analisi junghiane. Per me non era stata importante la possibilità di interpretare dei sintomi, ma il meccanismo psichico della malattia e soprattutto la conformità di questo meccanismo con quello già scoperto nell'isteria. A quel tempo le divergenze tra i due meccanismi non furono ancora in nessun modo chiarite. Infatti già allora avevo in mente una teoria libidica destinata a spiegare tutti i fenomeni sia nevrotici che psicotici in base a vicende abnormi della libido, cioè in base a deviazioni della stessa dal suo impiego normale. Questa intuizione sfuggiva agli scienziati svizzeri. Per quel che ne so, ancora oggi Bleuler sostiene la causa organica delle varie forme di dementia praecox, e Jung, la cui opera su questa malattia era apparsa nel 1907, al nostro congresso di Salisburgo del 1908 ne difese l'origine tossica, tesi, questa, che trascura la teoria della libido, in realtà senza escluderla. Egli si è più tardi (1912) arenato sullo stesso punto, fondandosi troppo su quel materiale che prima non aveva voluto usare.

Non posso apprezzare troppo, come fa chi non è direttamente interessato, un terzo contributo della scuola svizzera, che va forse attribuito per intero a Jung. Mi riferisco alla teoria dei «complessi», che trasse origine dalle sue ricerche sulle associazioni verbali degli anni 1906-1909. Essa non ha né creato una teoria psicologica, né si è liberamente inserita nel quadro della teoria psicoanalitica. Il termine «complesso», invece, ha conquistato la sua posizione nella psicoanalisi come termine comodo e spesso necessario per la sommaria definizione di uno stato di fatto psicologico. Nessun altro dei termini e delle denominazioni creati per le esigenze della psicoanalisi ha conseguito una notorietà tanto vasta, né è incorso in tante applicazioni abusive e svantaggiose per più esatte formulazioni intellettuali. Nel gergo degli psicoanalisti si cominciò a parlare di «ritorno del complesso» riferendosi al «ritorno del rimosso», o si è presa l'abitudine di dire: «Ho un complesso contro di lui», nel caso in cui sarebbe stato esatto dire: Ho una resistenza contro di lui».

Negli anni a partire dal 1907, successivi all'unificazione delle scuole di Vienna e di Zurigo, la psicoanalisi conobbe quello straordinario sviluppo dal quale è ancora oggi contrassegnata, e che è illustrato sia dalla diffusione degli scritti in suo favore e dall'accrescersi del numero dei medici che intendono praticarla o impararla, sia dall'accumularsi degli attacchi lanciati contro di essa in congressi e dotti concili. Essa migrò nei paesi più lontani, non solo fece sussultare da per tutto gli psichiatri, ma fece ancor più drizzare le orecchie ai profani colti e a chi era occupato in altri settori. Havelock Ellis, che aveva seguito con simpatia la sua evoluzione, senza definirsene mai un fautore, nel 1911, in una relazione al congresso medico australasiatico, scrisse: «La psicoanalisi di Freud è ora promossa e praticata non soltanto in Austria e in Svizzera, ma anche negli Stati Uniti, in Inghilterra, in India, in Canada e, non ne dubito, in Australasia»9. Un medico del Cile, probabilmente tedesco, intervenne in favore dell'esistenza della sessualità infantile ed elogiò i successi della terapia psicoanalitica nei sintomi ossessivi al Congresso internazionale di medicina e igiene tenuto a Buenos Aires nel 1910 10; Berkeley, uno psichiatra inglese dell'India centrale, mi fece sapere, tramite un esimio collega venuto in Europa, che i maomettani dell'India, sui quali stava praticando la psicoanalisi, non lasciavano trasparire un'eziologia delle loro nevrosi diversa da quella dei nostri pazienti europei.

L'introduzione della psicoanalisi negli Stati Uniti si verificò sotto auspici particolarmente lusinghieri. Nell'autunno del 1909 Jung ed io fummo invitati da G. Stanley Hall, rettore della Clark University di Worcester, presso Boston, a tenere un certo numero di conferenze in tedesco per il ventesimo anniversario della fondazione dell'Istituto. Ci rendemmo conto, con nostra viva sorpresa, che gli uomini scevri da pregiudizio di quella piccola ma stimata università pedagogico-filosofica conoscevano tutti i lavori psicoanalitici e vi avevano fatto riferimento nelle loro lezioni. Almeno nelle sfere accademiche dell'America puritana si poteva dibattere liberamente e trattare scientificamente tutto ciò che nella vita era ritenuto sconveniente. Le cinque conferenze che avevo improvvisato a Worcester apparvero poi neh'«American Journal of Psychology» in versione inglese e poco dopo in tedesco con il titolo Uber Psychoanalyse. Jung trattò dei suoi studi di associazione verbale e dei conflitti dell'anima infantile. Ne fummo ricompensati con il titolo onorifico di LL.D. (dottori utroque iure). In quella settimana celebrativa di Worcester la psicoanalisi era rappresentata da cinque persone; oltre a Jung e me, c'erano Ferenczi, che mi aveva accompagnato nel viaggio, Ernest Jones, a quel tempo all'Università di Toronto (Canada), ora a Londra, e Brill, che già stava esercitando la pratica analitica a New York.

Il rapporto personale più saliente instaurato a Worcester fu quello con James J. Putnam, professore di neuropatologia alla Harvard University, che anni prima aveva manifestato un giudizio negativo sulla psicoanalisi ma che ora stava rapidamente prendendo confidenza con essa, caldeggiandola presso i suoi connazionali e colleghi in varie conferenze ricche di contenuto e attraenti nella forma. La stima di cui egli era circondato in America per la sua elevata moralità e il suo fermo amore per la verità giovarono alla psicoanalisi e la protessero dalle accuse cui ben presto avrebbe finito probabilmente per soggiacere. In seguito Putnam si è piegato troppo alle grandi esigenze etiche e filosofiche del suo carattere, avanzando la pretesa, secondo me eccessiva, di vedere la psicoanalisi in funzione di una certa concezione etico-filosofica del mondo; egli è rimasto tuttavia il fondamentale sostegno del movimento psicoanalitico nel suo Paes11.

Conseguirono i più grandi meriti per la successiva divulgazione di questo movimento Brill e Jones che, con una costanza piena di abnegazione, continuavano con le loro opere a far osservare ai connazionali i fatti principali facilmente riscontrabili della vita quotidiana, del sogno e della nevrosi. Brill ha accentuato questo influsso con la sua attività medica e la traduzione dei miei scritti, Jones con conferenze istruttive e significativi interventi ai congressi americani12. L'assenza di una profonda tradizione scientifica e la minore rigidità delle autorità ufficiali furono nettamente favorevoli alla iniziativa promossa in America da Stanley Hall. Fin dall'inizio una nota caratteristica fu che professori e direttori di manicomi si manifestarono interessati all'analisi quanto i medici liberi professionisti. Ma, proprio per questo, è evidente che la lotta per l'analisi si decide necessariamente dove si è formata la maggiore resistenza, cioè sul territorio degli antichi centri della cultura.

Tra i paesi europei, la Francia si è finora dimostrata il meno sensibile alla psicoanalisi, sebbene opere meritevoli in francese di A. Maeder di Zurigo abbiano procurato al lettore un comodo adito alle sue teorie. I primi indizi di partecipazione giunsero dalla provincia. Mourichau-Beauchant (Poitiers) fu il primo francese che esercitò pubblicamente la psicoanalisi. Régis e Hesnard (Bordeaux) hanno solo di recente (1913) cercato di dissolvere i pregiudizi dei loro compatrioti nei riguardi della nuova dottrina con una vasta presentazione, non sempre chiara, le cui obiezioni si rivolgono soprattutto al simbolismo. Nella stessa Parigi sembra predomini ancora la convinzione, di cui al Congresso medico internazionale di Londra del 1913 Janet dette una tanto loquace manifestazione, che tutto ciò che è valido della psicoanalisi ripeta, con innovazioni irrilevanti, le idee di Janet, e che tutto il resto sia esecrabile. Allo stesso congresso Janet dovette ascoltare una serie di rettifiche di Jones, che potè rimproverargli la sua scarsa cognizione di causa. Pur respingendone le posizioni, non possiamo trascurare i suoi meriti riguardo al lavoro sulla psicologia delle nevrosi.

In Italia, dopo alcuni inizi promettenti, venne meno un'ulteriore partecipazione. In Olanda l'analisi venne introdotta presto, per merito di relazioni personali; van Emden, van Ophuijsen, van Renterghem (Freud en zijn School, 1913) e i due Stärcke vi spiegano una attività sia teorica che pratica coronata da successo13. L'interesse degli ambienti scientifici inglesi per l'analisi si è accresciuto molto lentamente, ma tutto fa sperare in una prossima affermazione della psicoanalisi in Gran Bretagna, favorita dal senso pratico degli inglesi e dal loro amore per la giustizia.

In Svezia P. Bjerre, continuatore dell'attività medica di Wetterstrand, ha abbandonato, almeno per il momento, la suggestione ipnotica in favore del trattamento analitico. R. Vogt (Cristiania) fin dal 1907, nel suo Psykiatriens grundtraek, ha valutato favorevolmente la psicoanalisi, sicché il primo manuale di psichiatria che ha preso in considerazione la psicoanalisi fu redatto in norvegese. In Russia la psicoanalisi è generalmente conosciuta e diffusa; quasi tutti i miei scritti, come pure quelli di quasi tutti i fautori dell'analisi sono stati tradotti in russo. Ma in Russia non si è ancora arrivati a un maggiore approfondimento delle teorie analitiche. I contributi dei medici russi sono per ora da considerare irrilevanti. Solo Odessa ha un'analista preparata nella persona di M. Wulff. L'introduzione della psicoanalisi nella scienza e letteratura polacca è soprattutto merito di L. Jekels. L'Ungheria, dal punto di vista geografico così intimamente unita all'Austria, dal punto di vista scientifico così estraniata da essa, ha dato finora alla psicoanalisi un solo collaboratore, Ferenczi, tale però da equivalere a un intero stuolo14.

La condizione della psicoanalisi in Germania è illustrata semplicemente dalla circostanza che essa è posta al centro della discussione scientifica, provocando in medici e profani espressioni del più netto rifiuto, le quali, tuttavia, finora non sono terminate ma si fanno anzi sentire continuamente e ogni tanto si ravvivano. Fino ad oggi nessuna istituzione scolastica pubblica ha accolto la psicoanalisi e non esiste che un esiguo numero di medici professionisti di successo che la praticano; solo pochi istituti, come quelli di Binswanger a Kreuzlingen (in territorio svizzero) e di Marcinowski nello Holstein, l'hanno accolta. Si sta affermando, sulla difficile atmosfera di Berlino, Karl Abraham, ex assistente di Bleuler, uno dei rappresentanti più illustri dell'analisi. Ci si potrebbe meravigliare che questa situazione si mantenga inalterata da ormai molti anni, se non si sapesse che la suddetta descrizione non rispecchia che l'apparenza esteriore. Non si deve sopravvalutare l'importanza del rifiuto dei rappresentanti ufficiali della scienza, dei direttori d'istituto e della nuova generazione che dipende da loro. È comprensibile che gli avversari alzino la voce, mentre i fautori tacciono spauriti. Molti di questi ultimi, infatti, i cui primi apporti all'analisi avevano suscitato buone aspettative, si sono allontanati dal movimento sotto la pressione delle circostanze. Il movimento però avanza silenziosamente con marcia inarrestabile, conquista sempre nuovi aderenti, sia tra gli psichiatri che tra i profani, conduce un numero sempre crescente di lettori alla letteratura psicoanalitica, costringendo proprio per questo gli avversari a tentativi di difesa sempre più energici. Durante questi anni almeno una dozzina di volte ho avuto modo di leggere, in relazioni sui lavori di determinati congressi e di sedute di associazioni scientifiche, o in resoconti su certe pubblicazioni, che la psicoanalisi ormai era morta, decisamente superata e finita. La risposta sarebbe dovuta assomigliare al telegramma che Mark Twain mandò al giornale che per sbaglio ne aveva annunciato la morte: «Notizia del mio decesso fortemente esagerata». Dopo ogni dichiarazione di morte la psicoanalisi ha acquisito nuovi aderenti e collaboratori, o si è creata nuovi organi. Comunque dichiararla morta costituisce un progresso nei confronti della congiura del silenzio.

Contemporaneamente alla suddetta diffusione della psicoanalisi, ebbe luogo un'evoluzione del suo contenuto con l'estendersi dalla nevrosi e dalla psichiatria a diversi rami del sapere. Non indugerò sulla descrizione di questa parte della storia dello sviluppo della nostra dottrina, dato che esiste un ottimo libro di Rank e Sachs il quale descrive in modo particolareggiato proprio questi risultati del lavoro analitico15. D'altro canto, qui tutto è ancora alla fase iniziale, scarsamente elaborata; in generale si tratta solo di primi tentativi e a volte di semplici propositi. Chiunque sia ragionevole non vedrà in ciò un motivo di biasimo. L'immensa quantità di problemi è affrontata da un esiguo numero di lavoratori, la maggior parte dei quali ha altrove la propria attività principale e deve fronteggiare i peculiari problemi di una scienza estranea con una preparazione dilettantistica. Questi ricercatori provenienti dalla psicoanalisi non nascondono il loro dilettantismo, vogliono solo mostrare il cammino e fissare il posto per gli specialisti, raccomandare loro le tecniche e le premesse analitiche quando quelli si accingeranno personalmente al lavoro. Se i risultati sino ad oggi ottenuti non sono comunque irrilevanti, ciò è da una parte merito della fecondità del metodo analitico, dall'altra della circostanza che già ora vi sono degli scienziati che, senza essere medici, hanno scelto come compito della loro vita l'applicazione della psicoanalisi alle scienze dello spirito.

La maggior parte di queste applicazioni, com'è evidente, si collegano all'impulso impresso dai miei primi lavori analitici. L'indagine analitica dei nervosi e dei sintomi nevrotici degli individui normali spinse a ipotizzare rapporti psicologici che assolutamente non potevano essere validi solo per il campo in cui si erano rivelati. Fu così che l'analisi non solo ci diede la spiegazione di fatti patologici, ma ne illustrò anche la relazione con la vita psichica normale e svelò insospettati rapporti tra la psichiatria e le scienze più varie, il cui contenuto fosse un'attività psichica. Ad esempio alcuni sogni tipici fornirono la possibilità di comprendere miti e favole. Riklin e Abraham, seguendo questo spunto, intrapresero quelle ricerche sui miti che furono poi completate da Rank, le cui opere sulla mitologia soddisfano tutte le pretese degli specialisti. La traccia del simbolismo onirico condusse al centro dei problemi della mitologia, del folklore (Jones, Storfer) e delle astrazioni religiose. Ad uno dei congressi psicoanalitici, tutti gli ascoltatori rimasero profondamente scossi quando un allievo di Jung provò la conformità delle creazioni fantastiche schizofreniche con le cosmogonie di tempi e popoli primitivi. Più tardi il materiale delle mitologie subì un'elaborazione nelle opere di Jung, che volevano fungere da intermediari tra la nevrosi, le fantasie religiose e quelle mitologiche, con risultati molto interessanti sebbene non sempre indiscutibili.

Un'altra strada portò dalla indagine sui sogni all'analisi sulle creazioni poetiche e infine dei poeti e degli artisti stessi. Nella sua prima fase si constatò che i sogni inventati dai poeti rispetto alla analisi si comportano spesso come autentici (Gradiva, 1907). La concezione dell'attività psichica inconscia consentì una prima rappresentazione dell'essenza del lavoro creativo poetico; l'aver dovuto riconoscere, grazie allo studio dei nevrotici, il valore dei moti pulsionali, ci permise di identificare le fonti della creazione artistica, ponendoci di fronte al problema di come l'artista reagisca a tali impulsi e del modo in cui riesca a camuffare le sue reazioni16. Quasi tutti gli analisti con interessi generali hanno contribuito nei loro lavori ad analizzare questi problemi, che sono tra i più attraenti tra quelli che si prospettano nelle applicazioni della psicoanalisi. Neppure in questo campo, ovviamente, è mancata da parte di chi non aveva confidenza con l'analisi un'avversione simile a quella che trovava espressione in analoghi equivoci e violenti rifiuti sul terreno originario della psicoanalisi. Fin dall'inizio infatti c'era da aspettarsi che, in qualunque territorio si introducesse, la psicoanalisi avrebbe dovuto sostenere con gli indigeni la stessa lotta. Resta solo da dire che non in tutti i campi i tentativi di penetrazione hanno ancora suscitato quell'attenzione che il futuro riserva loro. La più considerevole tra le applicazioni strettamente scientifiche della psicoanalisi alla letteratura è l'accurata opera di Rank sulla ragione dell'incesto, il cui oggetto può fare affidamento sulla più vasta impopolarità. Per ora ci sono solo poche opere scientifico-linguistiche e storiche su base psicoanalitica. Io stesso ho tentato per primo di accostare i problemi religioso-psicologici, abbozzando un parallelo tra il cerimoniale religioso e quello nevrotico17. Il pastore Pfister di Zurigo, nella sua opera sulla religiosità del conte von Zinzendorf (ed anche in altri contributi), ha potuto riferire l'esaltazione religiosa all'erotismo perverso; si verifica più facilmente, negli ultimi lavori della scuola di Zurigo, che l'analisi si compenetri di rappresentazioni religiose, anziché l'inverso cui si tendeva.

Nei quattro saggi che compongono Totem e tabù (1912-13) ho effettuato il tentativo di esaminare dal punto di vista analitico quei problemi della psicologia dei popoli che ci riportano direttamente alle fonti delle principali istituzioni della nostra civiltà: gli ordinamenti statali, la moralità, la religione, ma anche il divieto dell'incesto e la coscienza morale. Oggi, non è ancora dato accertare fino a che punto le conclusioni che ne sono derivate reggeranno alla critica.

Per quanto concerne l'applicazione del pensiero analitico a temi dell'estetica, il mio libro sul motto di spirito (1905) ne è stato un primo esempio. Tutto il resto attende ancora un'elaborazione; proprio su questo terreno, coloro che vi si dedicheranno possono fare affidamento su un abbondante raccolto. Qui, come altrove, manca la collaborazione dei rispettivi specialisti, per attrarre i quali Hanns Sachs ha fondato nel 1912 la rivista «Imago», diretta da lui stesso e da Rank. In essa Hitschmann e von Winterstein hanno cominciato a illustrare, sotto il profilo psicoanalitico, sistemi e personalità filosofiche; non resta che augurarci la continuazione e l'approfondimento di tali indagini.

Le rivoluzionarie scoperte della psicoanalisi sulla vita psichica del bambino, sulla funzione degli impulsi sessuali nello stesso (von Hug-Hellmuth) e sulla sorte di quelle forme della sessualità che sono superflue per l'atto della procreazione non tardarono a portare l'attenzione sulla pedagogia e suscitarono il tentativo di mettere in primo piano, in questo campo, il punto di vista analitico. E merito del pastore Pfister avere iniziato con genuino entusiasmo questa applicazione della psicoanalisi ed averla caldeggiata ai curatori d'anime e agli educatori18. In Svizzera egli è riuscito ad attirare ai suoi interessi tutta una serie di pedagoghi. Sembra che altri suoi colleghi condividano le sue opinioni, preferendo però prudentemente restare in secondo piano. Una parte di analisti viennesi allontanatisi dalla psicoanalisi sembra sia arrivata a una specie di pedagogia medica.

Con questi cenni incompleti ho cercato di mostrare la vastità ancora incommensurabile delle relazioni costituitesi tra la psicoanalisi medica e altri rami della scienza. C'è materiale per il lavoro di una generazione di ricercatori, e non dubito che questo lavoro sarà effettuato non appena superate le resistenze che sul suo territorio nativo vengono opposte alla analisi19.

Penso che al momento attuale scrivere la storia di questa resistenza sia inutile ed inopportuno. Essa non è granché lusinghiera per gli uomini di scienza dei nostri tempi. Ma voglio aggiungere subito che non ho mai pensato di condannare in massa come spregevoli gli avversari della psicoanalisi per il solo fatto di essere tali, ciò a prescindere da alcuni individui indegni, dagli avventurieri e impostori che siamo soliti trovare, in periodo di lotta, da entrambe le parti. D'altronde riuscivo a capire l'atteggiamento dei miei oppositori e avevo inoltre imparato che la psicoanalisi mette in evidenza gli aspetti peggiori di ogni individuo. Tuttavia decisi di non ribattere e, per quanto si estendeva la mia influenza, di trattenere dalla polemica anche altri. Mi pareva assai dubbio, date le speciali condizioni della lotta riguardo alla psicoanalisi, il vantaggio di discussioni pubbliche o letterarie, mentre sapevo come si formano le maggioranze nei congressi e nelle assemblee di associazioni, e avevo poca fiducia nella giustizia o nella nobiltà dei signori avversari. L'esperienza insegna che pochissime persone riescono a serbare un atteggiamento corretto, e meno ancora obiettivo, nelle discussioni scientifiche, e io ho sempre odiato le liti scientifiche. Forse questo mio atteggiamento è stato equivocato, forse si è creduto che fossi così mite o di essere riusciti a intimidirmi al punto che non valesse più la pena di occuparsi di me. A torto; so litigare ed infierire come chiunque altro, ma non sono capace di rendere in forma letterariamente adeguata gli affetti che ne stanno alla base, per cui preferisco astenermi del tutto dalla polemica.

Sotto molti aspetti sarebbe stato meglio se avessi lasciato prorompere le passioni in me e quelle intorno a me. Tutti noi siamo a conoscenza dell'interessante tentativo di spiegare le origini della psicoanalisi muovendo dall'ambiente viennese; ancora nel 1913 Janet non ha spregiato servirsene, sebbene egli sia certamente orgoglioso di essere parigino e Parigi non possa avanzare la pretesa di essere una città dai costumi più severi di Vienna. In base a questa spiegazione, la psicoanalisi, cioè l'affermazione che le nevrosi dipendono da disturbi della vita sessuale, può essere nata solo a Vienna, in un'atmosfera di sensualità e d'immoralità ignota ad altre città, e la psicoanalisi non sarebbe che il riflesso, la proiezione teoretica, per così dire, di queste specifiche condizioni dell'ambiente viennese. Bene, non sono certo un campanilista, ma questa tesi mi è sempre sembrata particolarmente insensata, tanto insensata che talvolta sono stato propenso a ritenere che l'accusa di «viennesismo» fosse solo un eufemismo per sostituire un altro tipo di accusa che non piace esprimere in pubblico. Se le premesse fossero opposte, si potrebbe attribuire importanza alla cosa. Supposto che ci sia una città i cui abitanti si siano imposti particolari limitazioni nel soddisfare i bisogni sessuali e che nello stesso tempo abbiano manifestato una particolare disposizione verso gravi malattie nevrotiche, questa città sarebbe senz'altro il terreno su cui ad un ricercatore potrebbe venire in mente di connettere i due fatti, e di far derivare l'uno dall'altro.

Ora, per quanto riguarda Vienna, non si realizza nessuna delle due premesse. I viennesi non sono né più astinenti né più nevrotici di altri abitanti di grandi città. I rapporti sessuali sono un po' più liberi, la pruderie è minore di quella delle città occidentali e settentrionali orgogliose della loro castità. Queste particolarità dei viennesi, più che illuminare il presunto ricercatore sulla causa delle nevrosi, dovrebbero piuttosto disorientarlo. La città di Vienna ha fatto tutto il possibile per negare la sua parte nella nascita della psicoanalisi. A Vienna più che altrove l'analista sente con chiara evidenza l'ostile indifferenza degli ambienti scientifici e colti. Ne sono forse responsabile anch'io, con la mia politica di evitare il vasto pubblico. Se avessi consentito o fatto sì che la psicoanalisi divenisse oggetto di discussione nelle numerose assemblee delle società mediche viennesi, tutte le passioni avrebbero avuto sfogo, e tutte le accuse e gli insulti che l'uno ha contro l'altro sulla punta della lingua o in testa avrebbero trovato espressione, e oggi sarebbe forse superato il bando contro la psicoanalisi, e questa avrebbe smesso di essere un'estranea nella propria città natale. Così, invece, deve avere ragione il poeta che fa dire al suo Wallenstein:

Questo i Viennesi non mi perdoneranno mai che di uno spettacolo li frodai.

Il compito, superiore alle mie forze, di rimproverare suaviter in modo agli oppositori della psicoanalisi la loro iniquità e le loro arbitrarietà fu realizzato nel modo più degno da Bleuler20. È così ovvio un elogio da parte mia a questa critica su due fronti che mi affretto a esporre ciò che su di esso ho da ridire. Mi sembra ancora uno scritto di parte, troppo clemente verso gli errori degli oppositori, troppo inclemente verso le manchevolezze dei fautori. Questa particolarità del lavoro di Bleuler chiarirà forse perché il giudizio di uno psichiatra di fama tanto illustre, di tanto sicura competenza e autonomia, non abbia esercitato sui suoi colleghi un'influenza maggiore. L'autore dell' Affet ti vita2' non deve meravigliarsi se l'effetto di un'opera appare determinato non dalla validità dei suoi argomenti, ma dalla sua intonazione affettiva. Un altro profilo di questo aspetto - quello sui fautori della psicoanalisi - fu in seguito eliminato da Bleuler stesso, che mise in rilievo il rovescio della propria posizione nei confronti della psicoanalisi, distruggendo una parte tanto grande dell'edificio della dottrina psicoanalitica22 che gli oppositori potrebbero essere ben soddisfatti dell'appoggio fornito loro da questo difensore.

Bleuler non sceglie come filo conduttore di questa critica della psicoanalisi nuovi argomenti o più valide considerazioni, ma ricorre soltanto allo stato del proprio sapere di cui non ammette più, come nelle precedenti opere, l'insufficienza.

Sembrò quindi che la psicoanalisi corresse il rischio di una perdita difficilmente compensabile. Però, nel suo ultimo scritto23, di fronte agli assalti che gli ha provocato l'aver incluso nel suo ultimo libro sulla schizofrenia la psicoanalisi, Bleuler osa quello che egli stesso definisce un atto di presunzione. «Adesso, però, voglio fare un atto di presunzione: penso che le varie psicologie attuali abbiano assai scarsamente contribuito al chiarimento dei rapporti tra i sintomi e le malattie psicogenetiche, ma che la psicologia del profondo fornisca una parte di quella psicologia ancora da creare di cui il medico necessita per capire e guarire in modo razionale i propri malati, e penso addirittura che con la mia Schizofrenia io sia progredito di un piccolissimo passo verso tale comprensione. Le prime due affermazioni sono certamente esatte, l'ultima potrà essere falsa».

Dato che per «psicologia del profondo» non si intende che la psicoanalisi, possiamo per ora accontentarci di questa professione di fede.

3.

Sii breve! Al giudizio finale ciò non sarà che un peto.

Goethe

Due anni dopo il primo ci fu il secondo congresso privato degli psicoanalisti, stavolta a Norimberga (marzo 1910). Frattanto, sotto l'impressione dell'accoglienza in America, della crescente avversione nei paesi di lingua tedesca e dell'inatteso appoggio degli zurighesi, aveva via via preso forma in me un progetto che esposi a quel secondo congresso con l'aiuto del mio amico Sandor Ferenczi. Volevo organizzare il movimento psicoanalitico, trasferirne il centro a Zurigo e assegnargli un capo che avesse cura del suo futuro. Dato che questa mia fondazione ha suscitato molti contrasti tra i fautori dell'analisi, voglio esprimere più particolareggiatamente le mie ragioni. Spero così di potermi reputare giustificato, anche se dovesse risultare che non ho fatto, in effetti, una cosa saggia.

Pensavo che il legame con Vienna fosse nocivo, anziché propizio, al giovane movimento. Una città come Zurigo, nel centro dell'Europa, in cui il titolare della cattedra aveva dato accesso nel proprio istituto alla psicoanalisi, mi sembrava ben più ricca di prospettive. Inoltre ritenevo che la mia persona fosse un altro ostacolo, poiché i giudizi su di essa erano troppo confusi per via della simpatia o dell'avversione dei partiti: da un lato mi si paragonava a Colombo, Darwin, Keplero; dall'altro mi si ingiuriava definendomi un paralitico. Perciò volevo ritirarmi in secondo piano, insieme alla città da cui era provenuta la psicoanalisi. Inoltre non ero più giovane, scorgevo una lunga strada da percorrere e avvertivo come un peso la responsabilità di essere a capo di un movimento in età così matura. Però pensavo che un capo dovesse esserci. Conoscevo troppo bene quali errori attendevano chiunque si disponesse all'analisi e speravo che, creando un'autorità che fosse pronta a insegnare e consigliare, molti ne potessero essere evitati.

Questa autorità era in un primo momento spettata a me, grazie all'incolmabile vantaggio di quindici anni di esperienza. Mi premeva molto, perciò, di delegare questa autorità a un uomo più giovane, che divenisse naturalmente il mio sostituto in seguito al mio ritiro. Questi non poteva essere che C.G. Jung, perché Bleuler era mio coetaneo, mentre deponevano in favore di Jung il suo straordinario talento, i contributi che già aveva recato all'analisi, la sua posizione indipendente e l'impressione di sicuro vigore che proveniva dalla sua persona. Egli d'altra parte sembrava disposto a instaurare rapporti amichevoli con me, a rinunciare per me ai pregiudizi razziali che fino ad allora si era concesso di avere. A quel tempo non prevedevo che, nonostante tutti i vantaggi suddetti, questa scelta fosse così infelice, e che essa riguardasse una persona che, incapace di tollerare l'autorità altrui, lo era ancor più di fondarne una propria e la cui energia si consumava nel perseguire senza scrupoli i propri interessi.

Reputavo necessaria la forma di un'associazione ufficiale, perché temevo gli abusi che sarebbero stati compiuti in nome della psicoanalisi, appena essa fosse divenuta popolare. Bisognava che ci fosse una sede legittimata a dire: «L'analisi non ha niente a che vedere con tutte queste frottole, questa non è psicoanalisi». Nelle assemblee dei gruppi locali di cui l'associazione internazionale era composta, si doveva insegnare il modo di praticare la psicoanalisi e impartire l'istruzione ai medici sulla cui attività si potesse dare una specie di garanzia. Inoltre mi sembrava auspicabile che gli aderenti alla psicoanalisi si incontrassero per mantenere rapporti amichevoli e aiutarsi scambievolmente, visto che la scienza ufficiale aveva decretato contro di loro la grande messa al bando e sabotato i medici e gli istituti che praticavano la psicoanalisi.

Tutto questo e niente di più io intendevo ottenere con la fondazione della Associazione psicoanalitica internazionale. Era probabilmente più di quanto si potesse raggiungere. Come i miei oppositori dovettero sperimentare che non si poteva arrestare il nuovo movimento, così a me spettò l'esperienza che esso non si lasciava nemmeno indirizzare nella direzione che volevo imprimergli. La mozione presentata a Norimberga da Ferenczi fu accolta: Jung fu eletto presidente, Riklin suo segretario, fu anche stabilita la pubblicazione di un bollettino che mantenesse i contatti tra il centro e i gruppi locali. Scopo della Associazione fu dichiarato: «Esercitare e promuovere la scienza psicoanalitica fondata da Freud, sia come psicologia pura sia nella sua applicazione alla medicina e alle scienze dello spirito; garantire reciproco sostegno ai membri dell'Associazione in tutti gli sforzi tesi ad acquisire e divulgare le nozioni psicoanalitiche». Solo i viennesi si opposero vivacemente al progetto. Adler manifestò con intensa eccitazione il timore che si tendesse ad una censura e a una limitazione della libertà scientifica. Alla fine i viennesi cedettero, dopo aver ottenuto che sede della Associazione non fosse Zurigo, ma il domicilio del rispettivo presidente eletto ogni due anni.

Al congresso stesso furono formati tre gruppi locali, quello di Berlino sotto la presidenza di Abraham, quello di Zurigo che aveva ceduto il proprio capo alla direzione centrale dell'Associazione, e il gruppo viennese, la cui direzione lasciai ad Adler. Un quarto gruppo, quello di Budapest, potè costituirsi solo più tardi. Bleuler, impedito da una malattia, non aveva preso parte al congresso; in seguito manifestò di essere in linea di massima riluttante a partecipare all'Associazione; vi si fece poi convincere da me dopo un colloquio privato, ma ne uscì nuovamente dopo poco tempo a causa di contrasti con Zurigo. Cosi ebbero fine i rapporti con il gruppo locale di Zurigo e l'istituto del Burghölzli.

Altro risultato del congresso di Norimberga fu la fondazione del «Zentralblatt fùr Psychoanalyse» [Rivista centrale di Psicoanalisi], che fu il risultato degli sforzi di Adler e Stekel. All'inizio esso aveva chiaramente lo scopo di rappresentare l'opposizione e tendeva a riconquistare a Vienna l'egemonia minacciata dall'elezione di Jung. Ma quando i due promotori della rivista, indotti dalla difficoltà di trovare un editore, mi assicurarono i loro pacifici intenti, dandomi come pegno dei loro sentimenti un diritto di veto, accettai di assumere la direzione e partecipai con assiduità al nuovo organo, il cui primo numero uscì nel settembre del 1910.

Procedo nella storia dei congressi psicoanalitici. Il terzo fu tenuto a Weimar nel settembre del 1911, e superò anche quelli precedenti per animazione e interesse scientifico. Putnam, che era stato presente a questa assemblea, in seguito manifestò in America il suo compiacimento e la sua stima per the meritai attitude dei partecipanti e riferì una mia frase che devo aver usato a proposito di questi ultimi: «Hanno imparato a sopportare una parte di verità»24. Effettivamente chiunque avesse preso parte a congressi scientifici doveva risentire di un'impressione positiva dell'Associazione psicoanalitica. Io stesso avevo presieduto i due congressi precedenti, concedendo ad ogni relatore il tempo necessario per le sue informazioni e rimandando allo scambio privato di idee il dibattito in merito. Jung che, come presidente, a Weimar assunse la direzione dell'assemblea, reintrodusse la discussione dopo ogni informazione, senza però che questo allora costituisse un intralcio.

Un quadro assolutamente diverso fu quello presentato due anni dopo a Monaco, nel settembre 1913, dal quarto Congresso, del quale tutti i partecipanti conservano ancora vivo il ricordo. Fu diretto da Jung in modo sgarbato e scorretto, i relatori avevano il tempo ristretto, le discussioni strozzavano le comunicazioni. Per un malvagio capriccio del caso quello spirito maligno di Hoche aveva scelto come suo domicilio lo stesso edificio in cui gli analisti tenevano le loro sedute. Hoche avrebbe potuto convincersi di quanto gli analisti corrispondano, fino all'assurdità, alla sua descrizione di una setta fanatica che segue con obbedienza cieca il suo capo. Gravose e antipatiche trattative condussero alla rielezione di Jung a presidente della Associazione psicoanalitica internazionale, carica che egli accettò quantunque due quinti dei presenti gli negassero la loro fiducia. Ci si congedò senza desiderio di rivedersi.

All'epoca di questo congresso il patrimonio della Associazione psicoanalitica internazionale era il seguente: i gruppi locali di Vienna, Berlino e Zurigo erano già stati formati durante il congresso di Norimberga nel 1910. Nel maggio del 1911 vi si aggiunse un gruppo a Monaco sotto la presidenza di L. Seif. Nel medesimo anno si costituì il primo gruppo locale americano, The New York Psychoanalytic Society, sotto la presidenza di A. A. Brill. Al Congresso di Weimar fu approvata la fondazione di un secondo gruppo americano, che si costituì negli anni seguenti come American Psychoanalytic Association, che includeva membri provenienti dal Canada e da tutta l'America ed elesse Putnam a presidente e Jones a segretario. Poco prima del Congresso di Monaco, nel 1913, il gruppo di Budapest cominciò la sua attività sotto la presidenza di Ferenczi. Poco tempo dopo Jones, trasferitosi a Londra, vi fondò il primo gruppo inglese. Il numero dei membri degli otto gruppi locali ormai esistenti non fornisce ovviamente una misura per apprezzare il numero dei discepoli e fautori non organizzati della psicoanalisi.

Merita un breve accenno anche lo sviluppo della letteratura periodica della psicoanalisi. La prima collezione di monografie al servizio dell'analisi furono gli «Schriften zur angewandten Seelenkunde» [«Scritti di psicologia applicata»], che uscirono in libera successione sin dal 1907 e che ora sono arrivati al quindicesimo numero (editori prima Hugo Heller, di Vienna, poi Franz Deuticke, Lipsia-Vienna). Hanno pubblicato lavori di Freud (nn .1,7), Riklin, Jung, Abraham (nn .4,11), Rank (nn. 5,13), Sadger, Pfister, Max Graf, Jones, (nn. 10,14), Storfer e von Hug-Hellmuth25. La fondazione di «Imago», di cui si parlerà più avanti , ha sminuito parecchio la validità di questo tipo di pubblicazioni. Dopo l'incontro a Salisburgo nel 1908 fu creato lo «Jahrbuch für psychoanalytische und psychopathologische Forschungen» [«Annuario di ricerche psicoanalitiche e psicopatologiche»], che ha conosciuto, sotto la redazione di Jung, cinque annate e che ora si è ripresentato al pubblico con due nuovi editori e con il titolo mutato in «Jahrbuch der Psychoanalyse» [«Annuario di psicoanalisi»]. Contrariamente agli anni precedenti non si propone più di essere un archivio che riunisce contributi di argomento psicoanalitico, ma di adempiere alla propria funzione per mezzo di una attività redazionale che cerchi di considerare tutti gli avvenimenti e tutte le conquiste nel campo della psicoanalisi26. Il «Zen-tralblatt für Psychoanaly se», promosso, come abbiamo detto, da Adler e Stekel dopo la fondazione dell'Associazione psicoanalitica internazionale (Norimberga 1910), ha conosciuto in un breve lasso di tempo un movimentato destino. Già il decimo numero del primo volume riporta in testa la notizia che il dottor Alfred Adler, a causa di dissensi scientifici con il direttore, ha stabilito, di propria volontà, di lasciare la redazione. Da allora Stekel è rimasto redattore unico (estate 1911). Al congresso di Weimar il «Zentralblatt» fu innalzato a organo ufficiale dell'Associazione internazionale e reso accessibile a tutti i membri, grazie all'incremento del contributo annuale a cui ciascuno era tenuto. Dal terzo numero del secondo volume27 (dicembre 1912) in poi, Stekel diventò unico responsabile del contenuto dell'organo. La sua inqualificabile condotta in pubblico mi aveva spinto a lasciarne la direzione e a fondare in tutta fretta un nuovo organo per la psicoanalisi nella «Internationale Zeitschrift für ärztliche Psychoanalyse» [«Rivista internazionale di psicoanalisi medica»]. Con l'appoggio di quasi tutti i collaboratori e del nuovo editore Hugo Heller, il primo fascicolo di questa rivista potè uscire nel gennaio 1913 e sostituire il «Zentralblatt» come organo ufficiale dell'Associazione psicoanalitica internazionale.

Frattanto, con l'inizio del 1912 Hanns Sachs e Otto Rank avevano fondato una nuova rivista, «Imago» (edita da Heller), destinata in modo esclusivo all'applicazione della psicoanalisi alle scienze dello spirito. «Imago» è ora a metà del suo terzo volume e gode del crescente interessamento anche di quei lettori che hanno poco a che vedere con l'analisi medica28.

A parte queste quattro pubblicazioni periodiche («Schriften zur angewandten Seelenkunde», «Jahrbuch», «Internationale Zeitschrift», «Imago»), anche altre riviste in lingua tedesca e straniera pubblicano opere che meritano un posto nel quadro della letteratura psicoanalitica. Il «Journal of abnormal Psychology», diretto da Morton Price, in genere contiene tanti eccellenti contributi che deve essere considerato il principale rappresentante della letteratura analitica in America. Nell'inverno del 1913 White e Jelliffe hanno fondato a New York una nuova rivista dedicata in modo esclusivo alla psicoanalisi, «The Psychoanalytic Review», che, evidentemente, fa affidamento sul fatto che il tedesco costituisce una difficoltà per la maggior parte dei medici americani interessati all'analisi29.

Devo ora ricordare due movimenti di defezione avvenuti nella cerchia degli aderenti alla psicoanalisi: il primo tra la fondazione dell'Associazione nel 1910 e il congresso di Weimar nel 1911, il secondo, iniziato dopo questo congresso, manifestatosi nel 1913 a Monaco. Avrei potuto evitare la delusione che mi provocarono se avessi rivolto maggior attenzione ai processi che si verificano in chi viene sottoposto al trattamento psicoanalitico. Infatti mi rendevo molto bene conto del fatto che al primo approccio con le sgradevoli verità analitiche ci si potesse volgere in fuga; io stesso avevo sempre sostenuto che la comprensione di ognuno viene ostacolata dalle sue stesse rimozioni (cioè dalle resistenze che le sorreggono), sicché non si può arrivare, nella comprensione dell'analisi, oltre un certo punto. Ma non mi sarei mai aspettato che chi avesse compreso l'analisi fino ad un certo livello di profondità potesse poi rinunciare alla propria comprensione e perderla completamente. Eppure l'esperienza quotidiana acquisita sui malati aveva provato che il rifiuto completo delle conoscenze analitiche può provenire da qualsiasi strato profondo nel quale si trovi una resistenza particolarmente intensa; se nel caso di un malato siamo riusciti con lavoro gravoso a fare in modo che egli acquisisca parti delle conoscenze analitiche e le adoperi come suo patrimonio, ciò non toglie che egli butti all'aria, alla prima resistenza, tutto ciò che aveva imparato e si ribelli come nel bel mezzo dei suoi primi giorni di terapia. Dovetti constatare che durante l'analisi le cose possono andare con gli psicoanalisti così come con i malati.

Non è compito semplice né invidiabile scrivere la storia di questi due movimenti di defezione, in quanto da un lato non sono spinto da forti ragioni personali - non mi sono mai aspettato riconoscenza, né sono abbastanza vendicativo -, dall'altro so che agendo così mi espongo alle invettive di oppositori scarsamente rispettosi e fornisco agli avversari dell'analisi lo spettacolo assai gradito di come "gli psicoanalisti si sbranano l'un l'altro". Sono riuscito con tanta fatica a proibirmi di combattere con gli avversari fuori dell'analisi e mi vedo ora costretto ad affrontare la lotta con i miei vecchi seguaci e con quelli che ancora oggi pretendono di definirsi tali. Ma non mi resta altra scelta: tacere sarebbe facile o vile e nuocerebbe alla causa più che ammettere chiaramente i danni subiti. Chi si sia interessato di altri movimenti scientifici saprà che turbamenti e dissapori assolutamente simili sogliono presentarsi ovunque. Altrove, forse, sono tenuti nascosti con maggior cura; la psicoanalisi, che respinge molti ideali tradizionali, è più franca anche in queste cose.

Un altro inconveniente molto importante è che non posso completamente evitare di sottoporre i due campi opposti a una spiegazione di tipo analitico. L'analisi non è però adeguata a scopi polemici; essa presuppone senz'altro il consenso dell'analizzato e una situazione da superiore a sottoposto. Dunque chi si accinge ad una analisi con propositi polemici deve sapere che a sua volta l'analizzato applicherà l'analisi contro di lui e che il dibattito arriverà a un punto tale che è escluso che un terzo spettatore imparziale possa esser convinto. Perciò limiterò al minimo l'impiego dell'analisi e con ciò l'indiscrezione e l'aggressività verso i miei avversari, e aggiungerò che non intendo usare questo mezzo per fondare la mia critica scientifica. Non affronto l'eventuale contenuto di verità delle teorie che respingo e non ne tento la confutazione. Ciò resta riservato ad altri lavoratori qualificati nel campo della psicoanalisi e in parte è già stato fatto. Voglio solo dimostrare come e in quali punti queste teorie contravvengano ai princìpi fondamentali dell'analisi, e che, per questo, non devono essere conosciute sotto tale nome. Mi avvarrò dunque dell'analisi per illustrare come potessero sorgere negli analisti questi sviamenti dell'analisi. Nei punti controversi dovrò certamente difendere il buon diritto della psicoanalisi con considerazioni esclusivamente critiche.

Come primo compito, la psicoanalisi ha affrontato la spiegazione delle nevrosi. Essa ha scelto come punti di partenza i due dati di fatto della resistenza e del transfert e, tenendo conto di un terzo dato di fatto - l'amnesia -, ha dato ragione di essi nelle teorie della rimozione, delle forze pulsionali sessuali della nevrosi e dell'inconscio. Non ha mai preteso di presentare una teoria compiuta della vita psichica umana in quanto tale, ma solamente che i suoi risultati fossero usati per perfezionare e rettificare le nostre cognizioni altrimenti acquisite. Ora, la teoria di Alfred Adler si spinge molto oltre questo scopo; essa vuole rendere comprensibile il comportamento e il carattere degli uomini con gli stessi mezzi con cui vengono spiegate le malattie psichiche e nevrotiche; in realtà questa teoria può essere applicata a tutti i campi salvo che a quello delle nevrosi, per quanto essa insista, tuttavia, per coerenza con le proprie origini, a porlo in primo piano. Per molti anni ebbi modo di osservare Adler e non ho mai negato che egli possedesse una mente considerevole, con attitudini particolarmente speculative. Posso far osservare, come prova delle "persecuzioni" che egli sostiene di aver subito da parte mia, che dopo la fondazione dell'Associazione gli affidai la direzione del gruppo viennese. Solo le insistenti richieste di tutti i membri dell'Associazione mi spinsero a riassumere la presidenza nelle sedute scientifiche.

Una volta compreso il suo scarso talento nella valutazione del materiale inconscio, le mie aspettative su di lui cambiarono, e pensai che egli sarebbe riuscito a scoprire i rapporti che legano la psicoanalisi alla psicologia e ai fondamenti biologici dei precessi pulsionali; in un certo senso mi autorizzavano a sperare ciò i suoi pazienti studi sull'inferiorità degli organi. Egli creò effettivamente qualcosa di simile, ma il suo lavoro riuscì "come se" - per esprimermi nel suo stesso "gergo" - fosse rivolto a dimostrare che la psicoanalisi sbaglia in tutto e che sostiene l'importanza delle forze pulsionali sessuali solo per la sua credulità nei riguardi delle affermazioni dei nevrotici. La ragione personale della sua opera può essere citata anche in pubblico, giacché l'ha egli stesso svelata di fronte ad un piccolo pubblico di aderenti al gruppo viennese. «Pensa davvero che a me piaccia restare nella Sua ombra per tutta la vita?». Non trovo nulla di riprovevole nel fatto che un uomo abbastanza giovane manifesti apertamente l'ambizione che, comunque, si può supporre sia uno degli incentivi del suo lavoro. Ma anche se dominati da questo motivo, si dovrebbe evitare di divenire ciò che gli inglesi definiscono con il loro sottile tatto sociale unfair ["sleale"] e per cui i tedeschi dispongono solo di un termine molto più grossolano. Che Adler non ci sia riuscito affatto lo dimostrano le numerosissime grette perfidie che deformano i suoi lavori e i segni di una smodata ambizione di priorità che in essi si rivela. Un giorno, alla Società psicoanalitica di Vienna, ci disse apertamente che egli rivendicava la priorità dell'idea dell'"unità delle nevrosi" e della "concezione dinamica" delle stesse. Per me fu una grande sorpresa, giacché avevo sempre pensato che questi due princìpi fossero stati enunciati da me ancor prima che conoscessi Adler.

Del resto, questa aspirazione di Adler ad un posto al sole ha avuto una conseguenza che la psicoanalisi deve intendere come positiva. Una volta emersi gli inconciliabili dissensi scientifici, spinsi Adler a dimettersi dalla redazione del «Zentralblatt»; egli lasciò anche l'Associazione e ne fondò una nuova che in un primo momento ebbe il buon gusto di chiamarsi "Società per una libera psicoanalisi". Però la gente di fuori, estranea alla psicoanalisi, è evidentemente altrettanto incapace di valutare le divergenze nelle opinioni di due psicoanalisti quanto lo sono gli europei di riconoscere i dettagli che differenziano due visi cinesi. La "libera" psicoanalisi restò all'ombra di quella "ufficiale", "ortodossa", e fu trattata solo come accessoria a quella. Fu a questo punto che Adler fece l'encomiabile passo di spezzare ogni legame con la psicoanalisi per distinguere, come "psicologia individuale", la propria dottrina. C'è posto per tutti su questa Terra, ed è certo giusto che chiunque ne sia capace vi si muova a suo piacere, ma non è desiderabile che si continui a convivere sotto lo stesso tetto quando non ci sono più né comprensione né intesa. Oggi la "psicologia individuale" di Adler è uno dei tanti indirizzi contrari alla psicoanalisi, il cui sviluppo ulteriore non interessa quest'ultima.

Fin dall'inizio la teoria di Adler fu un "sistema", esattamente ciò che la psicoanalisi evitava accuratamente di essere. E anche un ottimo esempio di "elaborazione secondaria", del genere, ad esempio, di quella effettuata sul materiale onirico dal pensiero da svegli. Il materiale onirico è costituito, nel caso di Adler, dal materiale tratto dagli studi psicoanalitici, che, visto esclusivamente dall'angolo di visuale dell'Io, viene sottoposto alle solite categorie dell'Io, tradotto, rigirato e esattamente come succede per la formazione del sogno, equivocato. D'altro lato, la dottrina di Adler è caratterizzata non tanto da ciò che sostiene, quanto da ciò che nega; è perciò composta di tre fattori assai eterogenei: i buoni contributi alla psicologia dell'Io, le traduzioni -inutili, ma ammissibili - nel nuovo gergo dei dati di fatto analitici, i travisamenti e le deformazioni di questi ultimi quando non si adeguano ai presupposti dell'Io.

I fattori del primo tipo non sono mai stati rinnegati dalla psicoanalisi, quantunque essa non fosse in dovere di volgere loro particolare attenzione; la psicoanalisi era maggiormente interessata a dimostrare che componenti libidiche si frammischiano a tutte le tendenze dell'Io. La teoria di Adler pone in risalto il rovescio di ciò, ossia la componente egoistica dei moti pulsionali libidici. Ciò costituirebbe un concreto guadagno se Adler non facesse uso di questa constatazione per rinnegare sempre l'impulso libidico in favore della componente pulsionale dell'Io. In tal modo la sua teoria si comporta come si comportano tutti i malati e come in genere si comporta il nostro pensare cosciente, cioè si serve della razionalizzazione, come Jones l'ha definita, per tenere nascosto il motivo inconscio. In questo Adler spinge la sua coerenza fino ad esaltare come l'elemento propulsivo più forte dell'atto sessuale l'intento dell'uomo di mostrarsi alla donna quale suo padrone, di "starle sopra". Non so se anche nei suoi scritti abbia propugnato queste cose orrende.

La psicoanalisi aveva ben presto scoperto che ogni sintomo nevrotico deve la propria possibilità di esistenza ad un compromesso. Perciò il sintomo nevrotico, in un modo o nell'altro, deve rendere giustizia alle esigenze dell'Io che effettua la rimozione: fornendo un vantaggio e consentendo un utile impiego, perché altrimenti subirebbe la stessa sorte dell'originario moto pulsionale respinto. L'espressione "vantaggio della malattia" ha tenuto conto di questa situazione; saremmo anche autorizzati a distinguere il vantaggio primario per l'Io, che deve manifestarsi già al primo apparire del sintomo, da un contributo "secondario" che, appoggiandosi ad altri intenti dell'Io, subentra se il sintomo è destinato a persistere. Inoltre l'analisi sapeva da tempo che la sottrazione di questo vantaggio della malattia, o il suo venir meno per un mutamento reale delle circostanze esterne, dà luogo ad uno dei meccanismi di guarigione del sintomo. La teoria di Adler pone l'accento soprattutto su queste relazioni, facilmente riscontrabili e comprensibili, tralasciando completamente il fatto che l'Io innumerevoli volte fa solo di necessità virtù, poiché sopporta il sintomo più sgradevole che gli viene imposto per il vantaggio che esso comporta, ad esempio quando accetta l'angoscia come misura di salvaguardia. L'Io vi sostiene la ridicola parte del pagliaccio che vuol convincere con i suoi gesti gli spettatori che tutti i cambiamenti avvengono nel circo grazie ai suoi ordini. Ma solo i più giovani tra gli spettatori gli credono.

Per quanto riguarda la seconda componente della teoria di Adler, la psicoanalisi deve difenderla come propria. Del resto si tratta solo di un concetto psicoanalitico che l'autore ha attinto alle fonti accessibili a tutti in dieci anni di lavoro in comune, e che poi ha fatto passare come suo patrimonio cambiandone la nomenclatura. Io stesso, per esempio, penso che «misura di salvaguardia» sia un'espressione migliore di quella di «misura di protezione» da me impiegata, ma non riesco a scorgervi un significato nuovo. Nello stesso modo, se si sostituisse "finto, fittizio e finzioni" con gli originari "fantastico" e "fantasia", dalle asserzioni adleriane risulterebbe una quantità di concetti noti da tempo. Questa identità verrebbe sostenuta da parte della psicoanalisi anche se l'autore non avesse preso parte al lavoro in comune per molti anni.

La terza componente della dottrina di Adler - le reinterpretazioni e le deformazioni dei fatti analitici scomodi - contiene ciò che distingue in modo definitivo dall'analisi quella che ormai è la "psicologia individuale". Il pensiero fondamentale del sistema adleriano afferma, com'è risaputo, che l'aspirazione all'autoaffermazione dell'individuo, la sua "volontà di potenza", è ciò che, come "protesta virile", si manifesta in maniera preponderante nel modo di vivere, nella formazione del carattere e nella nevrosi. Questa protesta virile, che è il motore della teoria adleriana, non è altro che la rimozione scissa dal proprio meccanismo psicologico, e per di più sessualizzata, e questo mal si concilia con la vantata esclusione della sessualità dalla sua parte nella vita psichica. Certamente la protesta virile esiste ma, considerandola la forza motrice della vita psichica, l'osservazione sperimentale si è ridotta alla funzione di un trampolino che si abbandona dopo averlo usato per lanciarsi in alto. Prendiamo una delle situazioni fondamentali del desiderio infantile, l'osservazione dell'atto sessuale tra adulti da parte del bambino. Nelle persone la cui vicenda in seguito sarà oggetto dell'interesse del medico, l'analisi dimostra che in quel momento si sono impossessati dell'immaturo spettatore due impulsi; se si tratta di un maschio, l'uno è di mettersi al posto dell'uomo attivo, e l'altro impulso, opposto a quello, è di identificarsi con la donna passiva. Entrambi gli impulsi esauriscono insieme le possibilità di piacere derivanti da quella situazione. Il primo può essere compreso sotto il concetto di protesta virile, se mai questo concetto debba avere un senso. Il secondo, della cui sorte Adler non si occupa o che non conosce, è tuttavia quello che acquisterà l'importanza maggiore per la futura nevrosi. Adler si è a tal punto identificato con la gelosa limitatezza dell'Io da prendere in considerazione solo quei moti pulsionali che sono graditi all'Io e che da esso sono promossi: proprio il caso della nevrosi, in cui questi impulsi si oppongono all'Io, resta fuori del suo orizzonte.

In rapporto al tentativo, reso inevitabile dalla psicoanalisi, di collegare alla vita psichica del bambino il principio basilare della teoria, si sono presentate per Adler le più profonde divergenze dalla realtà della osservazione e le più grandi confusioni concettuali. Nella sua teoria sono messi insieme in un disperato miscuglio il significato biologico, sociale e psicologico di "maschile" e "femminile". È impossibile e confutabile in base all'osservazione che il bambino - maschio o femmina - possa basare il proprio programma di vita su un originario disprezzo del sesso femminile, scegliendo come proprio "filo conduttore" il desiderio "voglio diventare un vero uomo". In un primo momento il bambino non comprende il significato della differenza sessuale, ma muove dalla premessa che lo stesso genitale (maschile) appartenga ad entrambi i sessi, non intraprende la propria indagine sessuale con il problema della differenza sessuale, ed è assolutamente lontano dalla sottovalutazione sociale della donna. Vi sono donne nella cui nevrosi il desiderio di essere uomo non ha avuto parte alcuna. Quella parte di "protesta virile" che in esse è riconoscibile può essere facilmente riferita al turbamento del narcisismo originario (dovuto alla minaccia di castrazione), cioè ai primi ostacoli che incontra l'attività sessuale. Ogni disputa sulla psicogenesi delle nevrosi finisce per essere decisa sul campo delle nevrosi infantili. L'analisi accurata di una nevrosi nell'età della prima infanzia pone termine a tutti gli errori riguardanti l'eziologia delle nevrosi e a tutti i dubbi sulla parte che vi hanno le pulsioni sessuali. Perciò Adler nella sua critica all'opera di Jung Conflitti dell'anima infantile (1910) dovette far ricorso all'insinuazione che i fatti accaduti nel caso in esame fossero stati presentati in modo unilaterale «certamente dal padre»30.

Non mi tratterrò oltre sull'aspetto biologico della teoria adleriana, né indagherò se l'evidente "inferiorità organica" o la sensazione soggettiva di essa - non è ben chiaro quale delle due - possa veramente costituire la base del sistema adleriano. Mi sia solo consentita la considerazione che in questo caso la nevrosi diventerebbe una conseguenza collaterale di ogni genere di deperimento fisico, mentre l'osservazione dimostra che un numero enorme di brutti, deformi, storpi e miserabili non reagisce affatto alle proprie deficienze sviluppando una nevrosi. Non mi curo neanche dell'interessante notizia per cui il senso di inferiorità sarebbe da riportare alla sensazione di essere un bambino. Essa ci mostra sotto quale camuffamento venga riproposto nella "psicologia individuale" il motivo dell'infantilismo tanto ribadito dalla psicoanalisi. È mio dovere, invece, mettere in rilievo come in Adler vengano meno tutte le acquisizioni psicologiche della psicoanalisi. Nel suo libro Uber den nervòsen Charakter31 l'inconscio si presenta ancora come una particolarità psicologica, che manca però di una qualsiasi relazione con il sistema. Più tardi egli coerentemente affermò che per lui era indifferente che una rappresentazione fosse conscia o inconscia. Fin dall'inizio Adler ha mostrato di non essere in grado di comprendere la rimozione. Nella relazione di una conferenza tenuta presso la Società viennese (febbraio 1911) egli scrisse che le risultanze di un particolare caso denotavano che il paziente non aveva mai rimosso la sua libido, ma si era costantemente "salvaguardato" contro di essa32. Poco dopo, nel corso di una discussione a Vienna, disse: «Se domandate donde derivi la rimozione, vi rispondono: dalla civiltà. Ma se poi domandate donde derivi la civiltà vi rispondono: dalla rimozione. Potete dunque constatare che è solo un gioco di parole». Una piccola parte dell'acume con cui Adler ha smascherato le tecniche di difesa del suo "temperamento nervoso" sarebbe stata sufficiente per mostrargli la via d'uscita da questo cavilloso argomento. Il fatto è che la civiltà si basa sui risultati delle rimozioni delle precedenti generazioni, e che a ogni nuova generazione si chiede di effettuare le stesse rimozioni se vuole mantenere questa civiltà. Ho sentito parlare di un bambino che si credeva preso in giro e si era messo a piangere perché alla domanda: «Da dove vengono le uova?», la risposta era stata: «Dalle galline»; e all'altra domanda: «Da dove vengono le galline?», aveva ottenuto come risposta: «Dalle uova». E tuttavia al bambino non era stato risposto con un gioco di parole, ma era stata detta la verità.

Adler ha detto cose altrettanto insignificanti e meschine sul sogno, questo scibboleth della psicoanalisi. In un primo tempo egli riteneva il sogno come una conversione dalla linea femminile verso la maschile, e così non faceva altro che tradurre nel linguaggio della "protesta virile" la teoria dell'appagamento di desiderio. Più tardi scoprì che l'essenza del sogno consisteva nel fatto che in esso l'uomo inconsciamente si concede ciò che consciamente gli è precluso. Adler è stato anche il primo a confondere sogno e pensieri onirici latenti, e basa su questo equivoco la nozione di "tendenza prospettica" del sogno, poi seguita da Maeder. Con questa nozione si vuole tralasciare il fatto che l'interpretazione di tutti quei sogni che nella loro espressione manifesta non dicono assolutamente nulla di chiaro si basa esattamente sul metodo dell'interpretazione dei sogni le cui premesse e i cui risultati vengono contestati. Della resistenza Adler sa dire soltanto che essa serve al malato contro il medico. Ciò è indubbiamente vero, ma equivale a dire: serve alla resistenza. Donde provenga e come accada che i suoi fenomeni servano al malato Adler non si prende la fatica di spiegarlo, perché ciò non ha importanza per l'Io. Non sono tenuti in nessun conto i singoli meccanismi dei sintomi e dei fenomeni morbosi, né la motivazione della pluralità delle malattie e delle manifestazioni morbose, poiché tutto è ugualmente asservito alla protesta virile, all'autoaffermazione, all'innalzamento della personalità. Il sistema è compiuto. È costato un immenso lavoro di reinterpretazione, ma non è riuscito a offrire in cambio neanche una sola osservazione nuova. Ritengo di aver dimostrato come non abbia nulla a che vedere con la psicoanalisi. La raffigurazione della vita che risulta dal sistema adleriano è basata completamente sulle pulsioni aggressive; non lascia spazio all'amore. Potrebbe meravigliare che una visione del mondo tanto disperata sia stata presa in considerazione, ma non dobbiamo trascurare il fatto che l'umanità, sottomessa al giogo dei suoi bisogni sessuali, è disposta ad accettare tutto quando le si fa intravedere il miraggio del "superamento della sessualità".

La defezione di Adler ebbe luogo prima del Congresso di Weimar nel 1911; dopo questa data si compì la defezione degli svizzeri. Singolarmente essa cominciò con alcune dichiarazioni di Riklin in articoli divulgativi, pubblicati in Svizzera, da cui il mondo, prima ancora dunque dei più vicini colleghi, venne a sapere che la psicoanalisi aveva superato alcuni deplorevoli errori che l'avevano screditata. Nel 1912, in una lettera dall'America, Jung si vantò delle sue innovazioni alla psicoanalisi, le quali avrebbero spezzato la resistenza di molte persone, fino ad allora ostili. Ribattei che questo non era motivo di gloria, e che quanto più egli sacrificava le verità psicoanalitiche gravosamente conquistate, tanto più avrebbe sentito venir meno la resistenza. L'innovazione, della cui introduzione gli svizzeri si manifestavano tanto orgogliosi, non era altro che la modificazione teorica della psicoanalisi ottenuta respingendo il fattore sessuale. Ammetto che fin dall'inizio vidi questo "progresso" come un eccessivo adattamento alle esigenze dell'attualità.

I due movimenti che rifuggivano dalla psicoanalisi, e che ora devo paragonare, si somigliano, tra l'altro, in quanto entrambi si sforzano di accattivarsi il favore del pubblico con idee elevate, quasi sub specie aeternitatis. In Adler questa parte è assegnata alla relatività di ogni conoscenza e al diritto della personalità di conformare la materia dello scibile in modo artistico e individuale; in Jung è confermato il diritto storico-culturale della gioventù a rimuovere i ceppi in cui la vecchiaia tirannica, rinchiusa nelle sue concezioni, vorrebbe metterla. Questi argomenti richiedono necessariamente qualche parola di confutazione.

La relatività della nostra conoscenza è un'obiezione che si può opporre tanto alla psicoanalisi quanto ad ogni altra scienza. Essa discende da ben note tendenze reazionarie contemporanee, avverse alla scienza, e reclama per sé un'apparente superiorità che a noi non spetterebbe. Nessuno è in grado di prevedere quale potrà essere il giudizio definitivo dell'umanità sui nostri tentativi teorici. Abbiamo esempi in cui una posizione negativa mantenuta per tre generazioni è poi stata rettificata e mutata in approvazione dalla successiva generazione. Al singolo non rimane da fare altro che difendere con tutte le sue energie le convinzioni fondate sulla propria esperienza, dopo aver ascoltato attentamente le critiche che egli stesso si muove e, un po' meno, le critiche degli avversari. Ci si contenti di difendere onestamente la propria causa, senza assumersi un compito di giudice riservato ad un lontano futuro. È grave confermare l'arbitrio personale nelle cose della scienza; con ciò evidentemente si intende contestare alla psicoanalisi il valore di scienza, d'altronde già sminuito da queste affermazioni. Chi abbia alta stima del pensiero scientifico ricercherà piuttosto mezzi e metodi che limitino quanto più sia possibile l'elemento personale dove questo abbia una parte ancora eccessiva. D'altra parte ricordiamoci in tempo che ogni veemenza nella difesa è fuori luogo. Questi argomenti non sono seri: Adler li impiega contro l'avversario, però non li applica alle sue teorie. Essi non hanno comunque impedito ai suoi seguaci di osannarlo come il Messia, la cui venuta, preparata da questo o quel predecessore, era attesa dall'umanità. Il Messia non è più di certo qualcosa di relativo.

L'argomento junghiano ad captandam benevolentiam si basa sulla fin troppo ottimistica premessa che il progresso della umanità, della civiltà e della conoscenza si sia svolto secondo una linea continua. Come se non vi fossero mai state fasi di decadenza, reazioni e restaurazioni dopo ogni rivoluzione, generazioni che regredendo hanno rifiutato la conquista della generazione precedente. Le concessioni al punto di vista della massa, la rinuncia ad una modifica sgradevole, inducono subito a dubitare che la rettificazione della psicoanalisi effettuata da Jung possa aspirare ad essere una impresa giovanile liberatrice. Infine, non è l'età di chi agisce a decidere in proposito, ma la natura dell'azione.

Tra i due movimenti qui descritti, senz'altro quello adleriano è il più significativo; profondamente errato, esso tuttavia si caratterizza per rigore e coerenza. L'innovazione junghiana ha invece allentato il legame tra fenomeni e vita pulsionale. D'altra parte, come osservano i suoi critici (Abraham, Ferenczi, Jones), essa è così confusa, oscura e intricata che non è facile prendere posizione. Da qualunque parte la Prendiamo, dobbiamo essere pronti a sentire che l'abbiamo equivocata, ma non si sa in che modo vada intesa. Essa si presenta in maniera singolarmente oscillante, ora come una «differenza assolutamente innocua che non merita il baccano che le si è levato intorno» (Jung), ora come un nuovo annuncio di salvezza che inaugurerebbe non solo una nuova era per la psicoanalisi, ma anche una nuova concezione del mondo intero.

Sotto l'impressione delle incoerenti dichiarazioni private e pubbliche della corrente junghiana, sarà consentito chiedersi quanto l'intrinseca mancanza di chiarezza e di sincerità vi contribuiscano. Bisogna pur riconoscere che i rappresentanti della nuova teoria si trovano in una situazione difficile. Lottano contro cose da essi stessi in precedenza propugnate, e ciò non sul fondamento di osservazioni che abbiano insegnato loro qualcosa di nuovo, ma attraverso reinterpretazioni, che ora fanno apparire loro le cose in maniera diversa da come le avevano viste prima. Non vogliono perciò fare a meno dei legami con la psicoanalisi, l'essere rappresentanti della quale li aveva resi noti nel mondo, e preferiscono dichiarare che la psicoanalisi si è modificata. Al Congresso di Monaco mi sentii costretto a far luce in questa oscurità, e lo feci dichiarando di non riconoscere come continuazione ed evoluzione legittima della psicoanalisi da me fondata le modifiche degli svizzeri. Critici indipendenti (come Furtmüller) già in precedenza avevano compreso questa situazione e giustamente Abraham dice che Jung sta abbandonando la psicoanalisi su tutto il fronte. Sono ovviamente propenso ad ammettere che ognuno abbia il diritto di pensare e di scrivere quello che vuole, ma non quello di farlo passare per ciò che non è.

Come l'indagine adleriana ha portato qualcosa di nuovo alla psicoanalisi sviluppando la psicologia dell'Io, e voleva farsi compensare di questo regalo all'eccessivo prezzo del rinnegamento di tutte le principali dottrine analitiche, così anche Jung e i suoi seguaci hanno collegato la loro lotta contro la psicoanalisi ad una nuova conquista fatta per essa. Hanno seguito nei dettagli (in questo Pfister li aveva preceduti) il processo per cui il materiale delle rappresentazioni sessuali, nell'ambito del complesso familiare e della scelta d'oggetto incestuosa, viene impiegato per raffigurare i più elevati interessi etici e religiosi degli uomini; essi hanno così messo in luce un importante caso di sublimazione delle forze pulsionali erotiche, e della loro trasformazione in tendenze che non possono più definirsi erotiche. Questo era in perfetto accordo con le aspettative contenute nella psicoanalisi, e si sarebbe eccellentemente armonizzato con la concezione per cui nel sogno come nella nevrosi diviene evidente il dissolversi regressivo sia di questa che delle altre sublimazioni. Il mondo, scandalizzato, avrebbe però esclamato che etica e religione erano state sessualizzate! Non posso ora astenermi dal fare, una volta tanto, il processo alle intenzioni, traendo la conclusione che gli scopritori non se la sentirono di affrontare questa burrasca di indignazione; e forse la bufera cominciò ad agitarsi anche nel loro stesso petto. Il passato teologico di molti svizzeri non è irrilevante per la loro posizione riguardo alla psicoanalisi, come quello socialista di Adler non lo è per lo sviluppo della sua psicologia. Viene in mente la famosa storiella di Mark Twain sui destini del suo orologio e la meraviglia con cui termina: «Ed era solito dire che non era mai riuscito a capire dove andassero a finire i calderai, gli armaioli, i calzolai e i fabbri falliti; ma nessuno aveva mai saputo dirglielo».

Prenderò la strada della similitudine e supporrò che in una società viva un arrivista che si gloria di discendere da una famiglia di antichissima nobiltà, sconosciuta però nel luogo; ora gli viene provato che i suoi genitori vivono da qualche parte nelle vicinanze e sono persone assai modeste; egli non può ormai disporre che di una via d'uscita, e si serve di quella. Non può più rinnegare i genitori, ma afferma che sono essi stessi di nobile stirpe, sebbene decaduti, e procura loro presso un ufficio compiacente un albero genealogico. Penso che gli svizzeri debbano aver agito in modo simile. Se, da un lato, etica e religione non dovevano essere sessualizzate, perché per definizione era-< no qualcosa di "elevato", e dall'altro appariva indiscutibile la derivazione delle loro rappresentazioni dal complesso familiare ed edipico, restava una sola via d'uscita: che sin dall'inizio questi complessi non rappresentassero ciò che sembravano esprimere, ma avessero quel più elevato significato "anagogico" (secondo la denominazione di Silbe-rer) per cui il loro uso penetrava negli astratti corsi di pensiero dell'etica e della mistica religiosa.

Mi dispongo nuovamente a sentire di avere equivocato contenuto e propositi della teoria neozurighese, ma fin d'ora mi ribello contro il fatto che le obiezioni alla mia concezione dovute alle pubblicazioni di quella scuola vengano poste a carico mio. Non riesco a spiegarmi in nessun altro modo l'insieme delle innovazioni junghiane e a comprenderle nei loro nessi. Tutte le innovazioni di Jung alla psicoanalisi dipendono dal proposito di togliere di mezzo quanto c'è di sgradevole nel complesso familiare per non doverlo ritrovare nella religione e nell'etica. La libido sessuale è stata sostituita da un concetto astratto che possiamo dire misterioso e incomprensibile, allo stesso modo per i saggi come per gli sciocchi. Il complesso edipico fu inteso solo "simbolicamente"; in esso la madre rappresenta l'irraggiungibile cui bisogna rinunciare nell'interesse dell'evoluzione della civiltà; il padre, che nel mito di Edipo viene ucciso, è il "padre interiore" da cui bisogna liberarsi per diventare indipendenti. Altre parti del materiale delle rappresentazioni sessuali saranno certo via via sottoposte a simili reinterpretazioni. Il conflitto tra le tendenze erotiche contrarie all'Io e quelle di autoconservazione dell'Io fu sostituito dal conflitto tra "compito vitale" e "inerzia psichica", il nevrotico senso di colpa corrisponde al biasimo di non eseguire il proprio compito vitale. Fu così eretto un nuovo sistema etico-religioso che, esattamente come quello adleriano, era destinato a reinterpretare, distorcere o distruggere gli effettivi risultati dell'analisi. In realtà, questa gente si è limitata a cogliere alcuni acuti culturali della sinfonia dell'essere, mentre la primordiale e potente melodia delle pulsioni è nuovamente sfuggita all'ascolto.

Mantenere in vita questo sistema significava necessariamente abbandonare completamente la tecnica e l'osservazione della psicoanalisi. Al momento opportuno l'entusiasmo per la sublime causa ha permesso a Jung di disprezzare perfino la logica scientifica, quando ad esempio egli considera il complesso edipico non sufficientemente "specifico" per l'eziologia delle nevrosi, attribuendo questa specificità all'inerzia, quindi alla più diffusa delle qualità dei corpi animati e inanimati ! Noto a questo riguardo che il "complesso edipico" costituisce solo un argomento col quale hanno a che fare le forze psichiche dell'individuo, e che non è esso stesso una forza come l'"inerzia psichica"; dall'indagine del singolo uomo era emerso, e sempre emergerà, che in lui sono vivi i complessi sessuali nel loro senso originario. Perciò è stata rigettata l'indagine relativa al singolo individuo e la si è sostituita con giudizi basati su analogie con la psicologia dei popoli. Era particolarmente facile, nella prima infanzia di ogni uomo, esporsi al rischio di imbattersi nel significato originario ed evidente dei complessi reinterpretati, per cui la terapia ebbe l'ordine di indugiare meno a lungo possibile su questo passato, e di mettere invece l'accento principale sul ritorno del conflitto in atto, caratterizzato essenzialmente però non da elementi accidentali e personali, ma dall'elemento generale che consiste appunto nel non eseguire il compito vitale. Per quanto ne sappiamo, però, il conflitto attuale del nevrotico diviene comprensibile e risolvibile solo quando lo si riferisce alla preistoria del malato, ripercorrendo il cammino compiuto dalla sua libido nel momento in cui si è ammalato.

Sono in grado di esporre, grazie alle informazioni di un paziente che ne ha dovuto fare l'esperienza su di sé, che cosa sotto queste tendenze sia divenuta la terapia dei neozurighesi: «Stavolta neppure un accenno riguardo al passato e al transfert. Dove credevo di cogliere quest'ultimo, esso era fatto passare per semplice simbolo della libido. Gli insegnamenti morali erano molto belli e io vivevo adeguandomi fedelmente ad essi, ma senza progredire di un passo. Questo era per me ancora più sgradevole che per lui, ma cosa potevo fare? Invece della liberazione analitica, ogni seduta comportava nuovi, immensi compiti, dal cui adempimento era fatto dipendere il superamento della nevrosi, ad esempio la concentrazione interiore mediante introversione, l'approfondimento della meditazione religiosa, una nuova vita in comune con mia moglie in amorosa dedizione, ecc. Ero allo stremo delle forze perché si tendeva ad un completo rinnovamento di tutto l'uomo interiore. Abbandonai l'analisi come un povero peccatore con le più intense sensazioni di mortificazione e le migliori intenzioni, ma nello stesso tempo profondamente scoraggiato. Ciò che egli mi raccomandava me lo avrebbe consigliato qualunque pastore, ma donde attingere la forza?». In realtà il paziente disse di avere inteso dire che bisognava iniziare con un'analisi del passato e del transfert. Gli veniva risposto che ne aveva avuta abbastanza. Poiché non gli era valsa a niente, mi sembrò giustificato concludere che il paziente non aveva fatto abbastanza analisi del primo tipo. La parte seguente del trattamento, cui non compete più il nome di psicoanalisi, non fu in nessun modo di maggior aiuto. E strano che fosse necessaria la lunga deviazione per Vienna perché finalmente gli zurighesi arrivassero alla vicina Berna in cui Dubois cura, con molti riguardi, le nevrosi con esortazioni morali33.

La totale frattura di questo nuovo indirizzo con la psicoanalisi avvenne ovviamente anche nel modo di considerare la rimozione, cui negli scritti di Jung quasi non si fa più cenno; negli equivoci sul sogno che, come in Adler, è confuso con i pensieri onirici latenti, rinunciando alla psicologia onirica; nella perdita di una comprensione dell'inconscio: in breve, in tutti i punti in cui io ho potuto individuare l'essenza della psicoanalisi. Quando sentiamo da Jung che il complesso dell'incesto è solo simbolico, che non ha nessuna reale esistenza, che il selvaggio non sente nessun desiderio per la vecchia donnaccia ma preferisce una donna giovane e bella, allora siamo tentati, per risolvere così l'apparente contraddizione, di supporre che "simbolico" e "nessuna reale esistenza" significhino proprio ciò che, con riguardo alle sue manifestazioni ed ai suoi effetti patogeni, viene denominato nella psicoanalisi come "esistente inconsciamente".

Se si tiene conto del fatto che il sogno è anche altro oltre ai pensieri onirici latenti che elabora, non stupirà che i malati sognino quelle cose che si sono messe loro in testa nel corso del trattamento, sia che si tratti del "compito vitale" che dell'"essere sopra" e "sotto". I sogni degli analizzati possono certamente essere manovrati, così come si possono influenzare i sogni con stimoli applicati sperimentalmente. Parte del materiale che interviene nel sogno può essere determinato senza che ciò modifichi la sua essenza e il suo meccanismo. Non credo neanche al fatto che i sogni cosiddetti "biografici" avvengano al di fuori dell'analisi. Analizzando invece sogni accaduti prima del trattamento, o facendo attenzione a ciò che il sognatore aggiunge agli stimoli forniti durante la terapia, o anche evitando di porgli questi problemi, si giunge al convincimento che il sogno è ben lontano dal presentare solo tentativi di soluzione del compito vitale. Infatti il sogno non è che una forma del pensiero; comprendere questa forma è impossibile sulla base del contenuto dei pensieri in questione, si arriva a una comprensione solo considerando il lavoro onirico.

Non è difficile confutare con fatti gli equivoci e le divergenze di Jung dalla psicoanalisi. Ogni analisi effettuata secondo le regole, e soprattutto ogni analisi del bambino, rafforza le convinzioni su cui la teoria della psicoanalisi si basa, e respinge le reinterpretazioni sia del sistema adleriano che di quello junghiano. Nei tempi antecedenti alla sua illuminazione Jung stesso ha effettuato e pubblicato una simile analisi del bambino; rimane da vedere se ne intraprenderà una nuova interpretazione con il soccorso di un'altra "presentazione unilaterale dei fatti" (secondo l'espressione usata in proposito da Adler).

L'idea che la rappresentazione sessuale di pensieri "elevati" nel sogno e nella nevrosi non sia che un mezzo d'espressione arcaico non è ovviamente compatibile col fatto che nella nevrosi questi complessi sessuali si manifestano come portatori di quelle quantità di libido che sono state tolte alla vita reale. Se si trattasse solo di gergo sessuale, ciò non potrebbe minimamente influire sull'economia della libido. Jung stesso, nel suo Saggio di esposizione della teoria psicoanalitica (1913), lo riconosce ancora, e considera compito terapeutico il distacco dell'investimento libidico da questi complessi. Non si arriva a ciò respingendoli o portandoli alla sublimazione, ma solo occupandosene profondamente e rendendoli pienamente coscienti. La prima parte di realtà di cui il malato deve avere considerazione è proprio la sua malattia. Sforzi rivolti a distoglierlo da questo compito denotano l'incapacità del medico di aiutarlo a superare le resistenze o la sua soggezione di fronte ai risultati del proprio lavoro.

Vorrei dire, concludendo, che Jung, con la sua "modificazione" della psicoanalisi, ha dato un esempio del famoso coltello di Lichtenberg. Ha cambiato il manico e vi ha introdotto una nuova lama; essendovi incisa la stessa marca, dovremmo prendere questo oggetto per quello di prima.

Penso invece di aver provato che la nuova teoria che vorrebbe sostituire la psicoanalisi equivale a una rinuncia alla psicoanalisi o a una defezione da essa. Vi sarà forse chi teme che questa defezione, proprio in quanto proviene da persone che hanno avuto parte tanto grande nel movimento e che l'hanno così considerevolmente promosso, possa nuocere più di altre al destino della psicoanalisi. Non condivido questo timore.

Gli uomini sono forti fino a quando difendono un'idea forte; divengono impotenti non appena le si oppongono. La psicoanalisi sopporterà questa perdita e acquisterà nuovi aderenti. Posso solo concludere con l'augurio che il destino regali una comoda ascesa a chiunque trovi spiacevole il soggiorno negli inferi della psicoanalisi. Agli altri sia permesso di portare a termine in pace il loro lavoro nel profondo.

Note

1 Si vedano le mie Sulla psicoanalisi. Cinque conferenze (1910) tenute per il ventesimo anniversario di fondazione della Clark University di Worcester, Massachusetts. Nello stesso periodo, furono pubblicate in inglese nel marzo 1910 sulla rivista americana «Journal of Psychology». Furono inoltre tradotte in olandese, ungherese, polacco, russo, spagnolo e italiano.

2 [Contrattempo].

3 [Provateci, dunque, ve lo assicuro,ci riuscirete].

4 [Ma nei casi di questo genere c'entra sempre il sesso, sempre, sempre].

5 O. Rank, Schopenhauer über den Wahnsinn, in «Zentralblatt für Psychoanalyse», vol.. l, p. 69(1911).

6 K. Abraham, Das erleiden sexueller Traumen als Form der infanliler Sexualbetätigung [Il trauma sessuale come forma di attività sessuale infantile], in «Zbl. Nervenheilk Psychiat.», (n.s.) vol. 18, p. 854 (1907).

7 [Nota aggiunta nel 1924] Attualmente direttore dell'Internationaler Psychoanalytischer Verlag e redattore fin dall'inizio della «Internationale Zeitschrift für Psychoanalyse» e di «Imago».

8 [Nota aggiunta nel 1923] Il futuro fondatore del Policlinico psicoanalitico di Berlino.

9 H. Ellis, The doctrines of the Freud School (1911).

10 G. Greve, Sabre Psicologia y Psicoterapia de ciertos Estados angustiosos, Lecture to Neurological Section of the Int. American Congress of Medicine and Hygiene, Buenos Aires 1910.

11 [Nota aggiunta nel 1923] Vedi J J. Putnam, Addresses on Psycho-Analysis, Internat. Psycho-Analytical Library n. 1,1921. Putnam morì nel 1918.

12 Le pubblicazioni dei due autori sono state raccolte in: A.A. Brill, Psychanalysis: its Theories and Practical Application, 1912. E. Jones, Papers on Psycho-Analysis, 1915. Del primo libro è apparsa una seconda edizione nel 19.14, dell'altro una seconda edizione molto ampliata nel 1918 (nel 1938 è arrivato alla quarta edizione).

13 II primo riconoscimento ufficiale di cui fruirono in Europa l'interpretazione dei sogni e la psicoanalisi fu tributato loro dallo psichiatra Jelgersma, rettore dell'università di Leida, nella sua prolusione del 9 febbraio 1914.

14 [Nota aggiunta nel 1923] Di certo non è mia intenzione rendere up to date questa descrizione tracciata nel 1914. Dovrei solo fare alcune osservazioni che indicheranno come in questo momento, che racchiude la guerra mondiale, il quadro sia mutato. In Germania si va affermando una lenta infiltrazione delle teorie analitiche nella psichiatria clinica, anche se ciò non è sempre ammesso. Le traduzioni francesi dei miei scritti che sono apparse negli ultimi anni hanno risvegliato finalmente anche in Francia un forte interesse per la psicoanalisi, che attualmente è più vivo nei circoli letterari che in quelli scientifici. In Italia Mario Levi Bianchini (Nocera Superiore) ed Edoardo Weiss (Trieste) sono i traduttori e i pionieri della psicoanalisi (vedi la «Biblioteca psicoanalitica italiana»). La vivace partecipazione nei paesi di lingua spagnola (prof. H. Delgado di Lima) è testimoniata dalla pubblicazione dell'edizione integrale delle mie opere (traduzione di Lopez-Ballesteros). Per l'Inghilterra sembra si stia effettivamente verificando ciò che sopra abbiamo predetto; nell'India britannica (Calcutta) si è formato un centro particolare per lo studio dell'analisi. L'approfondimento dell'analisi nell'America del Nord continua a non essere al passo con la sua popolarità. Dopo la rivoluzione in Russia il lavoro analitico è ricominciato in vari centri. Appare adesso in polacco la Polska Bibljoteka Psychoanalityczna. In Ungheria, sotto la direzione di Ferenczi è fiorita una magnifica scuola analitica (vedi il volume in onore del cinquantesimo compleanno di Ferenczi). Al momento i più riluttanti sono ancora i Paesi scandinavi.

15 O. Rank e H. Sachs, Die Bedeutung der Psychoanalysefür die Geisteswissenschaften, Wiesbaden 1913.

16 O. Rank, Der Künstler; analisi di poeti eseguite da Sadger, Reik ed altri; il mio breve scritto Un ricordo di infanzia di Leonardo da Vinci (1910) [in Freud, Opere, cit.]; l'analisi di Segantini eseguita da Abraham.

17 Comportamenti ossessivi e pratiche religiose (1907) [in Freud, Opere, cit.].

18 O. Pfister, Die psychoanalytische Methode (Leipzig-Berlin 1913).

19 Vedi il mio saggio L'interesse per la psicoanalisi ( 1913)

20 E. Bleuler, Die Psychoanalyse Freuds - Verteidigung und krìtische Bemerkungen, in «Jb.psychoan.,psychopath.», voi. 2,623 (1910). 21 E. Bleuler, Affektivitàt, Suggestibilitàt, Paranoia (Haler 1906).

22 E.Bleuler, Kritik der Freudschen Theorie, in «Allg. Z. Psychiat.», voi. 70,665 (1913).

23 E. Bleuler, Die Kritiken der Schizofrenie, in «Z. gis. Neurol. Psychiat.», voi. 22, 19 (1914).

24 JJ. Putnam, On Freud's psycho-analytic Method and its Evolution, in «Boston ined. surg. J.»,25 genn. 1912.

25 [Nota aggiunta nel 1923] Dopo allora sono stati pubblicati ancora lavori di Sadger (nn. 16,18)ediKielholz(n. 17).

26 [Nota aggiunta nel 1923] Lo «Jahrbuch» cessò le pubblicazioni con l'inizio della guerra.

27 [In realtà del terzo volume].

28 [Nota aggiunta nel 1923] Queste due riviste sono state pubblicate a partire dal 1919 dalla Internationaler Psychoanaltischer Verlag [Casa editrice psicoanalitica internazionale] e, attualmente, sono giunte al nono volume. (In realtà la «Internationale Zeitschrift» è al suo undicesimo volume, «Imago» al suo dodicesimo anno di vita; ma, a causa della guerra, il quarto volume della «Zeitschrift» ha compreso più di un anno, dal 1916 al 1918, e il quinto volume di «Imago» ha compreso gli anni 1917-18). Nel titolo «Internationale Zeitschrift ftir Psychoanalyse» è stata tolta sin dall'inizio del sesto volume la denominazione "medica" [ärztliche].

29 [Nota aggiunta nel 1923] Nel 1920 Jones ha fondato 1'«International Journal of Psy-cho-Analysis», destinato al pubblico inglese e americano.

30 A.Adler, in«Zbl.Psychoan.», vol.l, p. 122(1911).

31 [Il carattere dei nevrotici, Newton Compton, Roma 2008].

32 A. Adler, cit., p.371.

33  Conosco gli scrupoli che sono di ostacolo all'uso delle dichiarazioni di un paziente e perciò voglio dichiarare espressamente che il mio informatore è persona altrettanto fidata quanto piena di discernimento. Mi ha informato senza che io ve lo avessi indotto, e mi valgo della sua informazione senza chiedergliene il permesso, dato che non posso ammettere che una tecnica psicoanalitica debba ricorrere alla protezione della discrezione.