Sessualità femminile

1931

1.

Nella fase del normale complesso edipico troviamo che il bambino o la bambina sono legati teneramente al genitore di sesso opposto, mentre il rapporto col genitore dello stesso sesso è dominato dall'ostilità. Non incontriamo nessuna difficoltà a spiegare questa situazione nel caso del maschio. La madre è stata il suo primo oggetto d'amore; lo rimane, e quando le tendenze amorose del bambino si rafforzano e si approfondisce la sua conoscenza della relazione tra padre e madre, il padre diventa il rivale. Per la femmina è diverso. Poiché, anche per lei, il primo oggetto fu la madre, come trova la strada per arrivare al padre? Come, quando e perché si libera dalla madre? Da molto tempo abbiamo compreso che lo sviluppo della sessualità femminile è reso più complicato dalla necessità di rinunciare alla zona genitale originariamente direttiva, la clitoride, per una nuova zona, la vagina. Ora, un secondo mutamento dello stesso tipo (la permuta dell'originario oggetto materno con il padre) ci appare non meno caratteristico e significativo per lo sviluppo della donna. In qual modo queste due necessità siano interconnesse non ci è del tutto chiaro.

Donne con un forte attaccamento al padre sono notoriamente molto frequenti, e non occorre assolutamente che siano nevrotiche. Su di esse ho compiuto le osservazioni che qui riferirò e che mi hanno condotto a una certa concezione della sessualità femminile. Mi hanno soprattutto colpito due fatti. Il primo era questo: dove esisteva un attaccamento al padre particolarmente intenso, là vi era stata, in base ai risultati dell'analisi, una fase precedente di esclusivo attaccamento alla madre, della stessa intensità e passionalità; la seconda fase, se si esclude la permuta dell'oggetto, non aveva aggiunto quasi nulla alla vita amorosa; la relazione primaria con la madre era stata assai ricca e si era sviluppata in varie direzioni. Il secondo fatto dimostrava che si era molto sottovalutata anche la durata nel tempo di questo attaccamento alla madre, il quale si prolungava in parecchi casi fino al quarto anno di età, in un caso fino al quinto, comprendendo dunque la parte di gran lunga più estesa della fioritura piccolo-infantile della vita sessuale. Ma allora si doveva valutare la possibilità che un certo numero di persone di sesso femminile si attenga fermamente al primitivo attaccamento alla madre e non compia mai la necessaria svolta in direzione dell'uomo.

Con ciò la fase preedipica della donna acquista un significato che finora non le avevamo attribuito.

Poiché in tale fase vi è spazio per tutte le fissazioni e rimozioni alle quali siamo soliti ricondurre il sorgere delle nevrosi, pare necessario ritrattare la validità generale della tesi che il complesso edipico sia il nucleo della nevrosi. Tuttavia, chi rilutta di fronte a questa correlazione non è obbligato ad accettarla. Da una parte si può assegnare al complesso edipico un contenuto più ampio e tale da abbracciare tutte le relazioni del bambino con i due genitori, dall'altra si può tener conto delle nuove esperienze sostenendo che la femmina giunge a una normale e positiva impostazione edipica soltanto dopo aver superato un periodo precedente dominato da un complesso negativo. In realtà durante questa fase il padre non è per la bambina molto più che un rivale molesto, per quanto l'ostilità nei suoi confronti non raggiunga mai l'acutezza che si riscontra nei maschi. Comunque, abbiamo rinunciato da tempo ad ogni aspettativa riguardante un perfetto parallelismo tra sviluppo sessuale maschile e femminile.

La cognizione di un'antica epoca preedipica nella femmina ha provocato in noi una sorpresa simile a quella che, in un altro campo, ha suscitato la scoperta della civiltà minoico-micenea precedente alla civiltà greca.

Tutto, nell'ambito di questo primo attaccamento alla madre, mi sembrò difficilissimo da afferrare analiticamente, grigio, remoto, umbratile, arduo da riportare in vita, come se fosse precipitato in una rimozione particolarmente inesorabile. Ma forse questa impressione mi derivava dal fatto che le donne che avevo in analisi potevano mantener fermo proprio quell'attaccamento al padre2 nel quale si erano rifugiate uscendo dal periodo precedente di cui mi stavo occupando. Pare in verità che le donne analiste, come Jeanne Lampl-de Groot e Helene Deutsch, abbiano avuto modo di accorgersi di queste realtà più facilmente e perspicuamente, perché venne loro in aiuto, nelle persone di cui avevano intrapreso il trattamento, la traslazione su un confacente sostituto della madre. Per parte mia, non sono riuscito a penetrare perfettamente neppure un caso, e mi limiterò perciò a comunicare risultati generalissimi e a dare qualche saggio soltanto delle cognizioni alle quali sono pervenuto. Una di queste consiste nel sospetto che esista una relazione particolarmente intima tra questa fase dell'attaccamento alla madre e l'etiologia dell'isteria, cosa che non desterà meraviglia se si riflette che entrambe, la fase come la nevrosi, appartengono alle specifiche caratteristiche della femminilità, con l'ulteriore sospetto che in questa dipendenza dalla madre si trovi il germe della futura paranoia della donna.( Nel noto caso di gelosia delirante riferito da Ruth Mack Brunswick, Die Analyse eines Eifersuchtswahnes, Int. Z. Psychoanal., vol. 14, 458, 1928, la malattia deriva direttamente dalla fissazione preedipica sulla sorella.) Ha infatti tutta l'aria di essere un germe siffatto la paura, strabiliante ma regolarmente ricorrente, di venir uccisa (divorata?) dalla madre. Viene naturale supporre che questo timore corrisponda a un'ostilità che si sviluppa nella bambina verso la madre a causa delle molteplici restrizioni che questa le impone educandola e curandosi del suo corpo, e che il meccanismo della proiezione venga favorito dall'immaturità dell'organizzazione psichica.

2.

Avendo comunicato due fatti che mi hanno colpito per la loro novità, cioè che la forte dipendenza della femmina dal padre è soltanto il retaggio di un attaccamento alla madre altrettanto forte, e che questa prima fase ha una durata inaspettatamente lunga, riprendo ora il discorso per inserire questi risultati nel quadro che ci è già noto dello sviluppo della sessualità femminile, e nel far questo non potrò evitare di ripetermi. Il paragone continuo con le situazioni maschili tornerà assai utile alla nostra esposizione.

In primo luogo è incontestabile che la bisessualità, di cui abbiamo asserito la presenza nella disposizione di tutti gli esseri umani, si presenta con chiarezza molto maggiore nella donna che non nell'uomo. L'uomo ha un'unica zona sessuale direttiva, un organo sessuale, mentre la donna ne possiede due: la vagina, propriamente femminile, e la clitoride, analoga al membro maschile. Ci riteniamo autorizzati a supporre che la vagina per lunghi anni quasi non esista e presumibilmente procuri per la prima volta delle sensazioni all'epoca della pubertà. Negli ultimi tempi, a dire il vero, è aumentato il numero di coloro i quali sostengono che impulsi vaginali non mancano neppure in questi anni infantili. Per le femmine dunque, nell'infanzia, la genitalità si sviluppa essenzialmente in relazione alla clitoride. La vita sessuale femminile si divide normalmente in due fasi, di cui la prima ha carattere maschile; solo la seconda è quella specificatamente femminile. Nello sviluppo della femmina vi è come un processo di trapasso da una fase all'altra, di cui non vi è nulla di analogo nel maschio. Un'ulteriore complicazione sorge dal fatto che la funzione della "virile" clitoride continua nella successiva vita sessuale femminile in una forma molto mutevole, e certo non ancora compresa in modo soddisfacente. Naturalmente ignoriamo su quali basi biologiche poggino queste particolarità della donna; ancor meno possiamo affermare che ad esse è sottesa un'intenzione teleologica.

Parallelamente a questa prima grande differenza procede l'altra, sul terreno del rinvenimento dell'oggetto. Nel maschio la madre diviene il primo oggetto d'amore in quanto assicura il nutrimento e le cure del corpo, e tale essa rimane finché viene sostituita da un oggetto di natura simile o da lei derivato. Anche per la femmina la madre dev'essere il primo oggetto; le condizioni che sono alla radice della scelta oggettuale sono certamente identiche per tutti i bambini. Ma alla fine dello sviluppo l'uomo-padre deve essere divenuto per la femmina il nuovo oggetto d'amore, vale a dire che alla trasformazione della bimba deve corrispondere un mutamento nel sesso dell'oggetto. Ci attendono qui nuovi compiti di ricerca, si pongono gli interrogativi per quali vie si compia questa trasformazione, se si compia fino in fondo o in modo imperfetto, e quali diverse possibilità si dischiudano in questo sviluppo.

Abbiamo già visto che un'ulteriore differenza tra i sessi si riferisce alla loro posizione nei confronti del complesso edipico. È nostra impressione qui che quanto abbiamo asserito su tale complesso valga a rigor di termini solo per il maschio, e che abbiamo pienamente ragione di respingere il termine "complesso di Elettra" con cui si vuol sottolineare l'analogia nel comportamento dei due sessi. La relazione fatale, di amore per uno dei genitori e, contemporaneamente, di odio per l'altro considerato un rivale, sì pone solo per il maschio. In quest'ultimo, successivamente, la scoperta della possibilità di evirazione, dimostrata dalla vista dei genitali femminili, impone la destrutturazione del complesso edipico, provoca la creazione del Super-io e dà il via in tal modo a tutti i processi che mirano all'inserimento dell'individuo nella comunità civile. Dopo l'interiorizzazione dell'istanza paterna nel Super-io, il maschio deve risolvere il compito ulteriore di staccare il Super-io dalle persone di cui esso in origine è stato il rappresentante psichico. In questo singolare percorso dello sviluppo, proprio l'interesse narcisistico per i genitali — l'interesse per la conservazione del pene — si volge a limitare la sessualità infantile.

Nell'uomo l'influsso del complesso di evirazione lascia anche un certo residuo di disprezzo per la donna, quest'essere evirato. Di qui deriva, nei casi estremi, un'inibizione della scelta oggettuale e, quando vi sia il sostegno di fattori organici, l'omosessualità assoluta.

Del tutto diversi sono gli effetti del complesso di evirazione nella donna: la bambina riconosce come un fatto la propria evirazione e con ciò la superiorità del maschio e la propria inferiorità, ma oppone anche resistenza a questa realtà assai sgradita. Da questo atteggiamento contraddittorio derivano tre direzioni di sviluppo. La prima conduce all'abbandono totale della sessualità: la bimba, sgomentata dal confronto col maschio, non si contenta più della clitoride, rinuncia alla propria attività fallica e in genere alla sessualità, nonché a buona parte della propria mascolinità in altri campi. La seconda direzione si attiene fermamente, lungo una linea di caparbia autoaffermazione, alla mascolinità minacciata; la speranza di riuscire ancora a ottenere un pene rimane desta incredibilmente a lungo, assurge a scopo dell'esistenza, e la fantasia di essere, malgrado tutto, un maschio spesso informa di sé lunghi periodi della vita. Anche questo "complesso di mascolinità"2 della donna può sfociare nella scelta di un oggetto manifestamente omosessuale. Solo un terzo sviluppo, invero assai tortuoso, sbocca nella normale strutturazione finale della femminilità, ove il padre è assunto come oggetto ed è pertanto trovata la forma femminile del complesso edipico. Il complesso edipico è dunque nella femmina il risultato finale di una più lunga evoluzione.

Lungi dal venir distrutto dall'influsso dell'evirazione, ne costituisce al contrario il prodotto, si sottrae alle forti influenze avverse che nel maschio agiscono su questo stesso complesso in modo distruttivo, e addirittura, molto spesso, non viene nella femmina superato affatto. Perciò anche le conseguenze culturali del suo dissolvimento nella femmina sono meno rilevanti e dense di conseguenze che nel maschio. Non credo di sbagliare se affermo che questa differenza nella reciproca relazione tra complesso edipico e complesso di evirazione impronta di sé il carattere della donna come essere sociale. (Si può prevedere che i femministi - tra gli uomini -, ma anche le nostre donne analiste, non saranno d'accordo con quanto ho sopra esposto. Costoro non potranno fare a meno dì obiettare che tali dottrine derivano dal "complesso di mascolinità" dell'uomo e inevitabilmente servono da giustificazione teorica per l'innata inclinazione maschile a disprezzare e reprimere la donna. Tuttavia simile argomentazione psicoanalitica ricorda fin troppo, in questo caso, come accade spessissimo, la celebre "arma a doppio taglio" di Dostoevskij. Gli avversari di questa tesi, a loro volta, troveranno naturale che il gentil sesso non voglia ammettere ciò che pare contraddire l'uguaglianza con l'uomo, appassionatamente desiderata. L'impiego polemico dell'analisi non permette evidentemente di trarre alcuna conclusione.)

La fase dell'attaccamento esclusivo alla madre, fase che può essere chiamata preedipica, assume dunque nella donna importanza di gran lunga maggiore che nell'uomo. Molte manifestazioni della vita sessuale femminile, che prima non risultavano direttamente accessibili alla nostra comprensione, diventano pienamente intelligibili se ci si riporta a questa fase. Per esempio, abbiamo da tempo osservato che molte donne che hanno scelto il loro marito basandosi sul modello paterno, o che lo hanno collocato al posto del padre, ripetono pur-tuttavia nei suoi riguardi, durante il matrimonio, il loro cattivo rapporto con la madre. Egli doveva ereditare la relazione col padre e in realtà eredita quella con la madre. Questo si spiega facilmente come un ovvio caso di regressione. La relazione con la madre era quella originaria, su di essa si basò l'attaccamento al padre, e ora nel matrimonio torna in luce dalla rimozione la forma originaria. In effetti il contenuto principale dell'evoluzione che porta alla femminilità è modellato dal trapasso dei legami affettivi dall'oggetto materno a quello paterno.

Dato che trattando con certe donne si ha l'impressione che passino il periodo della maturità a lottare col marito cosi come trascorsero la giovinezza a lottare con la madre, vien da concludere, alla luce delle considerazioni precedenti, che l'atteggiamento di ostilità verso la madre non è una conseguenza della rivalità del complesso edipico; l'atteggiamento ha invece le sue radici nella fase precedente, e dalla situazione edipica trae soltanto il suo rafforzamento e la sua applicazione. Troviamo conferma di ciò anche in dirette indagini analitiche. Il nostro interesse deve volgersi ai meccanismi che hanno provocato il distacco dall'oggetto materno prima amato in modo cosi intenso ed esclusivo. Siamo ormai preparati a trovare non un singolo fattore, bensì un'intera serie di fattori che operano congiuntamente in vista dello stesso scopo finale.

Tra essi ne spiccano alcuni che sono determinati dalle condizioni della sessualità infantile in genere e che perciò valgono parimenti per la vita amorosa dei maschi. Prima di tutto menzioneremo la gelosia verso altri: fratelli o sorelle, rivali, fra i quali anche il padre. L'amore dell'età infantile è smisurato, pretende l'esclusività, non si accontenta di una rispondenza parziale. Ha però anche un secondo carattere: privo in effetti di meta, è incapace di un completo soddisfacimento e, soprattutto per questo, è condannato a risolversi in disillusione e a dar luogo a un atteggiamento ostile. Nella vita più tarda il mancato appagamento favorirebbe un altro sbocco: è un fattore che potrebbe garantire la continuazione indisturbata dell'investimento libidico, come avviene nelle relazioni amorose inibite nella meta; ma qui, sotto la spinta dei processi evolutivi, succede regolarmente che la libido abbandoni la posizione insoddisfacente per cercarne una nuova.

Un altro motivo molto più specifico per il distacco dalla madre va ricercato nell'effetto del complesso di evirazione sulla creatura priva di pene. Prima o poi la bambina piccola scopre la propria inferiorità organica, naturalmente prima e più facilmente se ha un fratello 0 è circondata da altri maschi. Abbiamo già appreso che da qui si diramano tre possibili orientamenti: a) alla cessazione di tutta la vita sessuale; b) a un'irriducibile accentuazione della mascolinità; e) a compiere i primi passi sulla via della femminilità. Non è facile fissare precisi limiti temporali e stabilire la maniera tipica in cui si svolgono gli eventi. Già l'epoca in cui viene compiuta la scoperta dell'evirazione varia a seconda delle circostanze, e parecchi altri fattori risultano incostanti e affidati al caso. Entra in giuoco, anche, l'attività fallica della bambina, se essa sia stata scoperta o meno, e, in caso positivo, fino a che punto, poi, la bambina si sia sentita impedita nell'esercitarla.

La bimba scopre la propria attività fallica, la masturbazione alla clitoride, in modo perlopiù spontaneo ed è certo che in un primo momento non vi aggiunge alcuna fantasia. Che le cure igieniche influiscano sul risveglio di questa attività, lo prova la fantasia frequentissima nella quale o la madre, o la balia o la bambinaia si presentano come seduttrici. Resta da appurare se l'onanismo femminile sia più raro e fin dall'inizio meno energico di quello maschile, come non è affatto da escludere. Una vera seduzione è abbastanza frequente, ora da parte di altri bambini, ora di persone addette alle cure infantili che vogliano calmare, addormentare o rendersi indispensabili alla bambina. Dove interviene la seduzione, questa disturba regolarmente il decorso naturale dei processi evolutivi lasciandosi spesso indietro ampie e durature conseguenze.

Il divieto di masturbarsi, come abbiamo visto, è causa di rinuncia alla masturbazione, ma anche motivo di rivolta contro la persona che impone il divieto, e cioè contro la madre o un suo sostituto che comunque, più tardi, si fonde immancabilmente con la madre stessa. L'ostinata insistenza a masturbarsi sembra aprire la strada verso la mascolinità. Anche quando la bimba non è riuscita a reprimere la masturbazione, l'effetto del divieto, solo apparentemente privo di efficacia, si manifesta nei suoi successivi sforzi di rinunciare a costo di qualsiasi sacrificio al soddisfacimento che le è stato guastato. La scelta oggettuale della maturità può essere ancora influenzata dal persistere in questo proposito. Il rancore per essere stata impedita nella libera attività sessuale ha una parte importante nel distacco dalla madre. Il medesimo motivo diventerà nuovamente operante anche dopo la pubertà, allorché la madre riterrà suo dovere salvaguardare la castità della figlia. Non dobbiamo naturalmente dimenticare che la madre contrasta allo stesso modo anche la masturbazione del maschio, creando cosi anche per lui un forte motivo di rivolta.

Quando la bimba, alla vista di un genitale maschile, si accorge del suo difetto, accetta la brutta sorpresa solo dopo lunga esitazione e non senza riluttanza. Abbiamo già visto che l'aspettativa di avere prima o poi un tale genitale permane ostinatamente e che il desiderio sopravvive a lungo, anche dopo che la speranza è morta. In altri casi la bambina considera dapprima l'evirazione come una sventura individuale, solo più tardi la estende ad altre bambine e infine ad alcune donne adulte.,Quando comprende che si tratta di un carattere negativo universale, si produce in lei una grave svalutazione della femminilità e quindi anche della madre.

Nulla di più probabile che il quadro ora delineato di come la bimba reagisce all'impressione dell'evirazione e al divieto dell'onanismo paia al lettore confuso e contraddittorio. Non è tutta colpa dell'autore. In realtà una descrizione universalmente valida è quasi impossibile. In diversi individui si danno le più diverse reazioni, e nel medesimo individuo esistono, l'uno accanto all'altro, atteggiamenti opposti. Non appena interviene il divieto sorge il conflitto, il quale accompagnerà d'ora in poi lo sviluppo della funzione sessuale. Ciò significa anche che la comprensione risulta particolarmente diffìcile, poiché è faticosissimo sceverare i processi mentali di questa prima fase da quelli successivi che li hanno ricoperti e deformati nella memoria. Cosi per esempio, più tardi, il fatto della evirazione è concepito come una punizione per l'attività onanistica, e l'esecuzione del castigo è attribuita al padre, ma nessuna delle due idee ha nulla di originario. Anche il maschio teme sempre di essere evirato dal padre, sebbene anche per lui la minaccia sia giunta perlopiù da parte della madre.

Comunque stiano le cose, alla fine di questa prima fase dell'attaccamento alla madre viene a galla, come principale motivo per distaccarsi da lei, il rimprovero che essa non ha dotato la bambina di un vero genitale, vale a dire l'ha fatta nascere donna. Stupefacente è un altro rimprovero, attinente a un fatto un po' meno remoto: la madre le ha dato troppo poco latte, non l'ha allattata abbastanza a lungo. Nelle condizioni della civiltà odierna ciò può esser vero abbastanza spesso, ma non cosi spesso come le affermazioni fatte in analisi lasciano intendere. Pare piuttosto che questa rimostranza sia un'espressione dell'insoddisfazione generale dei bambini che, in una civiltà monogamica, dopo sei o nove mesi vengono divezzati dal seno materno, mentre la madre primitiva si dedica al suo bambino in modo esclusivo per due o tre anni. I nostri bambini non sarebbero mai riusciti a saziarsi, non avrebbero mai succhiato abbastanza al seno materno. Non sono sicuro, però, che nell'analisi di bambini allattati cosi a lungo come i bambini dei primitivi non ci imbatteremmo nella medesima lagnanza. L'ingordigia della libido infantile non ha limiti!

Percorriamo di nuovo l'intera serie delle motivazioni per il distacco dalla madre poste in luce dall'analisi: la madre ha trascurato di fornire la figlia dell'unico vero genitale, non l'ha allattata abbastanza, l'ha costretta a dividere l'amore materno con altri, non ha mai realizzato tutte le aspettative amorose della figlia, e infine, dapprima ha eccitato la sua attività sessuale e poi l'ha vietata. Questi motivi non bastano però a giustificare l'ostilità finale. Alcuni di essi sono le conseguenze ineluttabili della natura della sessualità infantile, altri sembrano razionalizzazioni accampate più tardi per spiegare l'incomprensibile voltafaccia emotivo. Piuttosto, forse, l'attaccamento alla madre è destinato a scomparire proprio perché è il primo legame e perché è cosi intenso; la stessa cosa si osserva spessissimo nelle nozze delle giovani donne che contraggono un primo matrimonio nel momento del più acceso innamoramento. In entrambi questi casi l'impostazione dell'amore non reggerà alle inevitabili disillusioni e all'accumularsi delle ragioni di aggressività. Le seconde nozze riescono di regola molto meglio.

Non possiamo spingerci fino al punto da sostenere che l'ambivalenza degli investimenti emotivi è una legge psicologica universalmente valida, o che è impossibile in genere provare un grande amore per una persona senza che ad esso si accompagni un odio forse altrettanto grande, e viceversa. Gli individui normali e adulti riescono senza dubbio a tener separati questi due atteggiamenti, a non odiare il loro oggetto amoroso e a non essere costretti ad amare il loro nemico. Ma in ciò è da vedere il risultato di sviluppi posteriori. Nelle prime fasi della vita amorosa la regola è palesemente costituita dall'ambivalenza. In molti individui questo tratto arcaico si conserva per tutta la vita; è caratteristico delle relazioni oggettuali dei nevrotici ossessivi che amore e odio si bilancino a vicenda. Anche nei primitivi possiamo costatare il prevalere dell'ambivalenza. L'intenso attaccamento della bimba alla madre dev'essere dunque fortemente ambivalente e, sia pure con il concorso degli altri fattori, proprio per questa ambivalenza la bambina è destinata a staccarsi dalla madre, conseguenza anche questa, pertanto, di una caratteristica generale della sessualità infantile.

Contro questo tentativo di spiegazione sorge subito un interrogativo: com'è possibile che il maschio mantenga invece indisturbato il proprio attaccamento alla madre, che certamente non è meno intenso? Non meno pronta è la risposta: i maschi riescono a risolvere l'ambivalenza verso la madre in quanto trovano nel padre una collocazione per tutti i loro sentimenti ostili. Ma, anzitutto, prima di dare questa risposta, occorrerebbe aver studiato esaurientemente la fase preedipica maschile; in secondo luogo è probabilmente pili prudente ammettere in generale che non si è ancora ben addentro a questi processi di cui si è da poco venuti a conoscenza.

3.

Un ulteriore interrogativo è il seguente: che cosa pretende la bimba dalla madre? di che tipo sono le sue mete sessuali all'epoca dell'attaccamento esclusivo alla madre? La risposta che si trae dal materiale analitico corrisponde perfettamente alle nostre aspettative. Le sue mete sessuali verso la madre sono di natura sia attiva che passiva, e vengono determinate dalle fasi libidiche che la bambina attraversa. Il rapporto tra attività e passività merita tutta la nostra attenzione. È facile osservare che in ogni campo della vita psichica, non solo nell'ambito della sessualità, un'impressione ricevuta passivamente desta nel bambino (maschio o femmina) la tendenza a una reazione attiva. Il bimbo tenta di fare la stessa cosa che poco prima è stata fatta a lui o con lui. È questa una parte del lavoro di assoggettamento del mondo esterno cui egli è chiamato e che può far si che egli si sforzi di ottenere la ripetizione di impressioni che pure avrebbe motivo di evitare per il loro contenuto penoso. Anche il giuoco infantile è posto al servizio di questo fine, di integrare cioè con un'azione attiva un'esperienza passiva che in questo modo è in un certo senso revocata. Se il dottore ha aperto la bocca al bambino recalcitrante per guardargli la gola, dopo che se ne è andato il bambino giocherà al dottore e ripeterà tale procedimento violento su uno dei fratellini più piccoli, a patto che quello sia cosi indifeso nei suoi confronti come lo era lui nei confronti del dottore. È evidente in ciò una ribellione contro la passività e una preferenza per il ruolo attivo. Non in tutti i bambini si verifica in maniera ugualmente regolare ed energica questo trapasso dalla passività all'attività, anzi in alcuni bambini esso non compare affatto. Da questo comportamento infantile si può trarre qualche conclusione sulla forza relativa della mascolinità e della femminilità di cui i bambini daranno prova nella loro sessualità.

Le prime esperienze sessuali e le prime vicende con tonalità sessuale che i bambini, maschi e femmine, vivono con la madre sono naturalmente di natura passiva. Essi vengono da lei allattati, imboccati, puliti, vestiti e istruiti in ogni cosa. Una parte della loro libido rimane legata a questa esperienza e gode dei soddisfacimenti che ad essa sono connessi, un'altra parte tenta di convertirsi in qualcosa di attivo. Prima di tutto l'essere allattati al petto viene sostituito dalla suzione attiva. Nelle altre cose i bambini si contentano o dell'autonomia, cioè di fare essi ciò che prima subivano, o della ripetizione attiva, nel giuoco, delle loro esperienze passive, oppure ancora tramutano la madre nell'oggetto verso il quale essi assumono la parte di soggetti attivi. L'ultima soluzione, che appartiene al campo delle azioni vere e proprie, mi è apparsa per lungo tempo incredibile, finché l'esperienza ha dissipato ogni dubbio in merito.

Si sente dire di rado che una bimba voglia lavare la madre, vestirla o ammonirla a fare i suoi bisogni corporali. È vero che dice di quando in quando: "Adesso giochiamo che io sono la mamma e tu il bambino", ma perlopiù esaudisce questi desideri attivi in modo indiretto giocando con la bambola, ove lei rappresenta la madre e la bambola il bambino. La predilezione per il giuoco con la bambola che le femmine manifestano, al contrario dei maschi, viene in genere interpretato come indizio del primo destarsi della femminilità. Non a torto, solo non si deve trascurare che quello che qui emerge è l'aspetto attivo della femminilità, e che questa predilezione della bambina testimonia probabilmente l'esclusività dell'attaccamento alla madre nella completa incuria per l'oggetto paterno.

L'attività sessuale, cosi stupefacente, delle femmine verso la madre, si esprime, in ordine di tempo, in tendenze orali, in tendenze sadiche e infine persino in tendenze falliche dirette alla madre. È difficile indicare qui i particolari, trattandosi spesso di oscuri moti pulsionali che la bambina non è riuscita ad afferrare psichicamente allorché si sono presentati, che perciò hanno ricevuto un'interpretazione differita affiorando poi nell'analisi in modi espressivi diversi da quelli originari. Talvolta li incontriamo perché si trasferiscono sul successivo oggetto paterno, al quale non appartengono e allora ci disturbano notevolmente la comprensione. I desideri aggressivi orali e sadici si trovano nella forma in cui sono stati per tempo costretti dalla rimozione, cioè come paura di venir uccisa dalla madre, timore che a sua volta giustifica il desiderio di morte nei confronti della madre, ammesso che tale desiderio diventi cosciente. Non è possibile sapere quanto spesso il timore della madre trovi sostegno in un'inconsapevole ostilità di questa, che la bambina indovina. (La paura di venir divorati l'ho riscontrata fino ad ora solo nei maschi; essa è riferita al padre, ed è però verosimilmente il prodotto di una trasformazione dell'aggressività orale diretta verso la madre. Si vuol divorare la madre di cui ci si è nutriti; quanto al padre, manca una ragione plausibile per questo desiderio.)

Le pazienti con un forte attaccamento alla madre nelle quali potei studiare la fase preedipica hanno concordemente riferito che solevano opporre la più grande resistenza ai clisteri e alle lavande intestinali che la madre cercava di fare loro, reagendo con paura e urla di rabbia. Non è escluso che questo sia un comportamento molto frequente o addirittura normale nei bambini e nelle bambine. Un'osservazione di Ruth Mack Brunswick, la quale si occupava contemporaneamente a me dello stesso problema, mi consenti di comprendere per la prima volta ciò che sta alla base di questa straordinaria veemenza; ella paragonò lo scoppio di rabbia per l'enteroclisma all'orgasmo che segue la stimolazione dei genitali. La concomitante angoscia andrebbe intesa come una trasformazione della brama aggressiva che è qui stata stimolata. Penso anch'io che sia cosi e che, nella fase sadico-anale, all'intensa stimolazione passiva della zona intestinale corrisponda un'esplosione della brama aggressiva, che si estrinseca direttamente come rabbia 0, in seguito alla repressione di questa, come angoscia. Tale reazione pare esaurirsi in anni più tardi.

Tra i moti passivi della fase fallica spicca l'accusa regolarmente rivolta dalle bambine alla madre di averle sedotte, in quanto dovettero provare le prime o almeno le più forti sensazioni genitali mentre la madre (0 chi ne faceva le veci) si occupava della pulizia e della cura del loro corpo. La bambina gradisce queste sensazioni e invita la madre a rafforzarle attraverso un ripetuto contatto e sfregamento: cosi mi è stato spesso riferito da madri che avevano osservato questo comportamento nelle loro figliolette di due o tre anni. Il fatto che la madre inizia cosi immancabilmente la bambina alla fase fallica spiega, secondo me, perché nelle fantasie degli anni successivi la parte del seduttore sessuale spetti immancabilmente al padre. Col distacco dalla madre anche il compito di iniziazione alla vita sessuale passa al padre. [È questa la fase conclusiva di una lunga storia. Quando le prime pazienti isteriche analizzate da Freud gli raccontarono di essere state sedotte dal proprio padre, Freud credette a questi racconti e reputò che tali traumi fossero stati all'origine delle loro malattie. Ben presto, però, riconobbe il proprio errore, che ammise in una importante lettera a Wilhelm Fliess del 21 settembre 1897. Aveva compreso — e ne era rimasto sconvolto — che non si trattava di veri ricordi, bensì di fantasie di desiderio; di qui parti la strada che lo condusse alla scoperta del complesso edipico.]

Nella fase fallica si destano infine anche moti attivi di desiderio verso la madre. L'attività sessuale di questo periodo culmina nella masturbazione alla clitoride, durante la quale, verosimilmente, la bambina si immagina la madre; tuttavia dalla mia esperienza non si può ricavare se la bambina riconduca tutto ciò alla rappresentazione di una meta sessuale e quale sia questa meta. Soltanto quando tutti gli interessi della bambina ricevono un nuovo impulso a causa dell'arrivo di un fratellino o di una sorellina tale meta diventa chiaramente individuabile. La bimba vorrebbe aver fatto per la madre questo nuovo bambino, esattamente come il maschio, e anche la sua reazione a questo avvenimento e il suo comportamento verso il neonato sono gli stessi. Tutto ciò suona abbastanza assurdo, ma forse soltanto perché è insolito.

Il distacco dalla madre è un passo importantissimo nello sviluppo della bambina, è più di un semplice cambiamento dell'oggetto. Abbiamo già descritto ciò che lo provoca e tutte le motivazioni che sono state addotte per esso; ora aggiungiamo che a mano a mano che esso procede si può osservare un netto eclissarsi degli impulsi sessuali attivi e un accrescersi di quelli passivi. Certo le aspirazioni attive hanno subito una maggior frustrazione, si sono dimostrate assolutamente irrealizzabili e perciò vengono anche più facilmente abbandonate dalla libido, ma anche dalla parte delle aspirazioni passive le delusioni non sono mancate. Spesso col distacco dalla madre cessa anche la masturbazione clitoridea, e abbastanza sovente, con la rimozione della mascolinità finora posseduta dalla bimba, vengono compromesse durevolmente gran parte delle sue aspirazioni sessuali in generale. Il trapasso all'oggetto paterno si attua con l'aiuto delle tendenze passive, ammesso che esse siano sopravvissute alla catastrofe. La via per lo sviluppo alla femminilità è ora aperta alla fanciulla, purché non venga ridotta a strettoia dai residui dell'attaccamento preedipico alla madre, già superato.

Se ci soffermiamo un attimo a riconsiderare il periodo qui descritto dell'evoluzione sessuale femminile, non possiamo esimerci dal trarre una precisa conclusione sulla femminilità nel suo insieme. Abbiamo visto all'opera le medesime forze libidiche che ritroviamo nel maschio e siamo giunti alla persuasione che per un certo tempo tali forze battano la medesima strada nei due sessi e pervengano ai medesimi risultati.

In un secondo tempo [nella bambina], fattori biologici fanno deviare queste forze dalle loro mete iniziali e dirigono anche le tendenze attive, mascoline sotto ogni profilo, sulle vie della femminilità. Poiché non possiamo prescindere dall'idea che l'eccitamento sessuale risalga all'azione di determinate sostanze chimiche, vien subito da congetturare che la biochimica debba un giorno fornirci una sostanza la cui presenza susciti l'eccitamento sessuale maschile, e un'altra che susciti quello femminile. Ma questa speranza pare non meno ingenua dell'altra, oggi per fortuna superata, di riuscire a distinguere al microscopio i germi dell'isteria, della nevrosi ossessiva, della melanconia eccetera.

Anche nella chimica sessuale le cose devono essere alquanto più complicate.1 Per la psicologia, però, è indifferente se nel corpo vi sia un'unica sostanza eccitante, o ve ne siano due, o un numero imprecisato. La psicoanalisi ci insegna che è sufficiente il concetto di una libido unica, la quale peraltro aspira a mete (vale a dire maniere di soddisfacimento) attive e passive. In questa contrapposizione, soprattutto nell'esistenza di tendenze libidiche con mete passive, è racchiuso il resto del problema.

4.

Se si esamina la letteratura analitica su questo argomento, ci si convince che essa contiene già tutto quello che ho esposto fin qui. Sarebbe stato inutile pubblicare questo lavoro se non fosse che in un campo cosi difficilmente accessibile il resoconto di esperienze e opinioni personali può comunque avere un valore. Mi sembra inoltre di aver colto alcuni aspetti con maggior precisione e di averli isolati con maggior cura. In alcuni dei saggi altrui l'esposizione si fa confusa perché viene trattato contemporaneamente il problema del Super-io e quello del senso di colpa. Io non l'ho fatto e nella descrizione dei vari esiti di questa fase evolutiva ho evitato anche di affrontare le complicazioni che sorgono quando la bambina, delusa dal padre, ritorna all'attaccamento alla madre che prima aveva abbandonato, oppure quando, nel corso della vita, passa ripetutamente da un atteggiamento all'altro. Ma proprio perché il mio lavoro è solo un contributo tra gli altri, mi sia consentito prescindere da un esame approfondito della letteratura; mi limiterò a rilevare significative concordanze con alcuni di questi lavori, nonché importanti divergenze con altri.

Nella magistrale descrizione, ancora insuperata, fatta da Abraham delle forme in cui si manifesta il complesso femminile di evirazione, si vorrebbe veder inserito il fattore dell'originario ed esclusivo attaccamento alla madre. Non posso fare a meno di dichiararmi d'accordo con i punti essenziali dell'importante lavoro di Jeanne Lampl-de Groot sulla storia evolutiva del complesso edipico della donna. Vi è qui il riconoscimento della piena identità della fase preedipica nei maschi e nelle femmine, e l'affermazione, confortata da numerose osservazioni, dell'attività sessuale (fallica) della bambina rivolta alla madre. Il distacco dalla madre viene ricondotto all'influsso della presa di coscienza dell'evirazione, che costringe la bambina a rinunciare all'oggetto sessuale e con questo spesso anche all'onanismo; viene coniata, per tutto questo processo, la formula per cui la bambina attraverserebbe una fase del complesso edipico "negativo" prima di poter entrare in quello positivo. Trovo inadeguato questo lavoro laddove esso presenta il distacco dalla madre come un mero cambiamento oggettuale, senza aggiungere che esso si svolge sotto i chiari segni dell'ostilità. Questa ostilità è messa in pieno risalto nell'ultimo lavoro di Helene Deutsch sul masochismo femminile e la sua relazione con la frigidità, dove pure viene riconosciuta l'attività fallica della bambina e l'intensità del suo attaccamento alla madre. La Deutsch dichiara anche che la svolta verso il padre avviene sul terreno delle tendenze passive (già destate nel rapporto con la madre). Nel suo libro precedente sulla psicoanalisi delle funzioni sessuali femminili l'autrice non si era ancora liberata dall'impiego dello schema edipico anche per la fase preedipica, e interpretava perciò l'attività fallica della bambina come identificazione con il padre.

Fenichel, nel suo scritto sulla preistoria pregenitale del complesso edipico, pone giustamente l'accento sulla difficoltà di distinguere, nel materiale portato alla superficie mediante l'analisi, che cosa costituisca un contenuto immutato della fase preedipica e che cosa sia deformato per regressione (o in altra maniera). Egli non riconosce l'attività fallica della bambina nel senso attribuitole da Jeanne Lampl-de Groot, e polemizza anche contro 1'"anticipazione" del complesso edipico che Melanie Klein, nel suo articolo sui primi stadi del conflitto edipico, sposta già alle soglie del secondo anno di vita. Questa datazione, che altera necessariamente anche il modo di concepire tutte le altre vicende dello sviluppo, non coincide in effetti con i risultati dell'analisi degli adulti e in particolare non collima con i miei accertamenti sulla lunga durata nella bambina dell'attaccamento preedipico alla madre. Un modo per attenuare questo contrasto ci è offerto dalla riflessione che in questo campo non siamo ancora in grado di distinguere che cosa sia stabilito rigidamente da leggi biologiche e che cosa sia mobile e mutevole, affidato a esperienze accidentali. Ciò che ci è noto da tempo riguardo all'influsso della seduzione, riguarda anche altri fattori — come il momento in cui nasce un fratello o una sorella o viene scoperta la differenza tra i sessi, come l'osservazione diretta del rapporto sessuale o il comportamento incoraggiante o scostante dei genitori eccetera — i quali possono provocare un'accelerazione e maturazione dello sviluppo sessuale infantile.

Presso alcuni autori trapela l'inclinazione a diminuire l'importanza dei primi, massimamente originari moti libidici infantili, a favore dei processi evolutivi posteriori, cosicché a quelli rimarrebbe, al limite, il compito di fornire solo certe direttrici, mentre le intensità [psichiche] che s'incanalano lungo queste vie sarebbero provvedute da successive regressioni e formazioni reattive. È questo, ad esempio, il parere di Karen Horney, la quale, scrivendo sulla fuga dalla femminilità, sostiene che l'invidia primaria del pene è da noi ampiamente sopravvalutata, mentre l'intensità con cui successivamente la bambina aspira alla mascolinità è da ascriversi a una invidia secondaria del pene, che viene impiegata per difendersi dagli impulsi femminili e in specie dall'attaccamento femminile al padre. Questo non corrisponde alle mie impressioni. Per certo che sia il fatto dei successivi rafforzamenti dovuti a regressione o formazione reattiva, e per quanto possa essere difficile procedere a una stima relativa delle componenti libidiche che qui confluiscono, pure io penso che non dobbiamo trascurare l'altro fatto, che quei primi moti libidici possiedono una loro intensità, la quale rimane superiore a tutte quelle che verranno dopo e alla quale propriamente può essere attribuita la qualifica di incommensurabile. È certamente vero che tra l'attaccamento al padre e il complesso di mascolinità esiste un'antitesi: si tratta dell'antitesi generale tra attività e passività, mascolinità e femminilità; tuttavia non abbiamo alcun diritto di supporre che solo l'uno sia primario e l'altro debba la sua forza esclusivamente a una funzione difensiva. E se la difesa contro la femminilità risulta cosi energica, da dove trarrà mai questa forza se non dalla tendenza alla mascolinità che ha trovato la sua prima espressione nell'invidia del pene, meritando perciò di derivare da quella la sua definizione?

Un'analoga obiezione vale per la concezione che Jones ha esposto nel suo scritto sul primo sviluppo della sessualità femminile; a suo avviso lo stadio fallico della bimba dev'essere piuttosto una reazione protettiva secondaria e non un vero e proprio stadio dello sviluppo. Ciò non corrisponde né alle circostanze dinamiche né a quelle cronologiche.